VITA E VIRTÙ CRISTIANE (Olier) 5

VITA E VIRTÙ CRISTIANE (5)

GIOVANNI G. OLIER

Mediolani 27-11 – 1935, Nihil obstat quominus imprimetur. Can. F. LONGONI

IMPRIMATUR . In Curia Arch.Mediolani die 27 – II – 1935 F. MOZZANICA V. G.

CAPITOLO V.

L’umiltà

II.

Motivi dell’umiltà.

-1. La nostra qualità di creature, di peccatori, di Cristiani, di figliuoli, di Sacerdoti. – 2. Tutte le virtù richiedono umiltà.

Il primo motivo deriva dalle nostre qualità e dai titoli che portiamo, qualità e titoli che ci impongono di annientarci in una vera umiltà. Come creature, siamo in obbligo di essere contenti del nostro nulla.  Come peccatori, siamo in obbligo di vederci sotto i piedi dei demoni; di essere respinti da ogni creatura, avendone abusato per il peccato; le creature, infatti, si infiammano giustamente di zelo a favore di Dio contro di noi: il peccato merita bene un tal trattamento. –  Come Cristiani, siamo in obbligo di amare la piccolezza, la viltà e l’abiezione, perché questo amore è una delle inclinazioni di Gesù Cristo Nostro Signore, di cui abbiamo ricevuto lo Spirito nel santo Battesimo. Questo sacramento imprime in noi, se vi corrispondiamo, le inclinazioni e tutti ì sentimenti di Gesù Cristo, particolarmente l’amore che Egli ebbe per l’annientamento. Abbiate in voi – dice S. Paolo – gli stessi sentimenti che (furono) in Gesù Cristo, il quale annientò se stesso (Philipp. II 4,7). Come figliuoli di Dio, siamo in obbligo di essere umili e di rifuggire da ogni lode, onde lasciare ogni onore a Dio nostro Padre: « Soli Deo honor et gloria —- A Dio solo onore e gloria » (I. Tim. I, 17). – Siamo Sacerdoti? dobbiamo distruggere, sacrificare, annientare in tutti, ma soprattutto in noi medesimi, la superbia e tutti gli istinti della superbia. Come vittime per i peccati del mondo dobbiamo essere animati da un profondo sentimento di grande confusione, sentendoci coperti dei delitti di tutto il mondo, in unione con Gesù Cristo, con cui non siamo che una sola vittima. Come Servi della Chiesa, dobbiamo stare ai piedi di ogni fedele, considerandoli tutti come nostri padroni; quindi dedicarci affettuosamente agli uffici più bassi giudicandoli come ancora superiori al nostro merito e stimandoci onorati di esservi impiegati, mentre siamo indegni di una grazia così pregiata. « Superiores sibi iuricem arbitrantes (Phil. II, 3). Nos servos vestros per Jesum (II Cor. IV, 5).

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Il secondo motivo è che tutte le virtù richiedono l’umiltà. La Fede, ci obbliga ad essere umili; perché dobbiamo vivere secondo i suoi insegnamenti. Orbene, la fede ci insegna che da noi non siamo che niente e peccato; dobbiamo dunque considerare noi stessi come niente e peccato, e compiacerci che tutti ci stimino e ci trattino come tali. La fede ci svela chi siamo noi e chi è Dio. Dio vale tutto e noi niente. A Dio ogni onore ed ogni gloria, a noi confusione e disprezzo. In tal modo, la fede ci porta all’umiltà ed esige che siamo umili se non vogliamo rinnegare le sue massime, ma inoltre ci vuole grande umiltà per aver la fede. per assoggettare il nostro spirito alle verità ch’essa ci propone, e così annientare la nostra ragione col sottometterla a credere ciò che essa non vede (II Cor. X, 5). Perciò i filosofi e gli eretici, essendo pieni di superbia, hanno posto tanti ostacoli alla fede. L’umile, al contrario, è deferente al giudizio altrui, si sottomette alla verità, né mai si ostina nel proprio sentimento; in una parola l’umile è disposto a credere tutto. La speranza ci porta all’umiltà. Il Cristiano animato dalla vera speranza non si appoggia sopra se stesso, né confida nelle proprie forze, ma unicamente in Dio, e nei meriti del nostro Salvatore. La carità demanda umiltà perché l’anima che ama Dio vuole che a Lui sia diretto ogni onore, mentre dimentica e annienta se stessa. L’amore del prossimo esige umiltà, perché respinge ogni asprezza ed ogni irritazione anche di fronte alla calunnia. Animata dalla carità cristiana, l’anima deve sopportare la debolezza del suo fratello, persino la superbia e l’arroganza altrui che è la molestia la più insopportabile per chi non è veramente umile. Due anime orgogliose che vogliono innalzarsi l’una al di sopra dell’altra, non conserveranno giammai quella virtù che S. Paolo raccomandava con tanta forza con queste parole: « Supportantes invicem in charitare. – Sopportatevi gli uni e gli altri nella carità » (Ephes. IV, 2)… La compassione verso il prossimo esige umiltà, perché ci porta a prendere sopra di noi la riparazione per la superbia degli uomini; dobbiamo quindi abbracciare l’umiltà, perché essi si sono esaltati, e così con le nostre umiliazioni offrire a Dio una soddisfazione per il loro orgoglio e la loro ingiusta e disordinata arroganza. La religione impone l’umiltà, perché essa vuole che tutto si annienti e si sacrifichi per la gloria di Dio, al quale tributa ogni lode e riferisce ogni onore. La prudenza cristiana ci porta all’umiltà, poiché vuole che non abbiamo pretese, se non per quelle cose che possiamo avere o conservare senza contese. La giustizia, esige che si dia a ciascuno ciò che gli spetta, quindi, al nulla l’oblio, al peccato il disprezzo, la stima invece e la gloria al Tutto e alla Santità (Tibi, Domine, justitia, nobis autem confusio faciei – Dan. VII). La fortezza del Cristiano ha per sostegno l’umiltà, perché, conoscendo il proprio nulla e la propria incapacità, egli si rifugia in Dio, affinché la virtù di Gesù Cristo che è la forza dei deboli, venga ad abitare in Lui (II. Cor., XX, 9). – La temperanza trova valido aiuto nell’umiltà, poiché l’umile si astiene dalle cose mondane e sensibili, nella persuasione di esserne indegno. La penitenza esige l’umiltà, perché richiede che il superbo sia umiliato e che la confusione cada sopra colui che ha voluto rubare a Dio l’onore e la gloria. La dolcezza desidera l’umiltà, perché l’anima non sia turbata per nessuna umiliazione che possa incontrare. La pazienza vuole l’umiltà, perché l’anima non perda mai la pace per nessuna contrarietà. – In conclusione, l’umiltà è il condimento di ogni virtù, la virtù fondamentale che deve essere presupposta ad ogni esercizio di cristiana pietà.

III.

Fondamenti dell’umiltà.

1. La verità: nullità della creatura, grandezza di Dio. — 2. La giustizia: a Dio solo è dovuta ogni gloria. – Umiltà nella Madonna; — in Gesù Cristo. – il nulla in qualsiasi creatura, — anche nella persona del Confessore.

L’umiltà poggia sopra due fondamenti: il primo è la verità, il secondo, la giustizia; verità e giustizia, due attributi divini, sui quali deve regolarsi la nostra vita. La verità ci dà la conoscenza di noi medesimi, che è il grande e solido fondamento dell’umiltà; perché qualsiasi sentimento di umiltà che non abbia per fondamento una seria convinzione di ciò che siamo, non è che apparenza ed illusione; e chi credesse di acquistare l’umiltà senza una tale conoscenza, si ingannerebbe e non riuscirebbe a nulla. La ragione sta in questo, che tutto quanto vediamo in noi e tutto quanto facciamo, tutto ci serve di motivo e d’occasione per la propria stima, principalmente quando si tratta di qualche bene, se prima non abbiamo bene stabilito qual è il principio del bene come del male che vediamo in noi. Non già, come abbiamo detto sopra, che questa conoscenza sia l’umiltà; molti, infatti, per quanto siano presuntuosi, sono pure costretti a confessare che non sono nulla e non valgono nulla. I demoni sono costretti ad una tale confessione, ma non hanno neppure un principio di santa umiltà. La conoscenza di se stesso deve solamente venire presupposta come un principio, dal quale si traggono poi le conseguenze onde comportarsi secondo lo spirito dell’umiltà. Orbene, la verità insegna all’uomo a conoscere ciò che è in se stesso, e ad aver di sé la stima che si merita e non di più: così pure la giustizia esige che tratti sé medesimo per quello che è, e non sopporti altro trattamento differente di quello che si merita. – La verità insegna all’uomo che esso non è altro che niente; che da sé non è oggi dappiù da quello che fosse cento anni fa, e che sarebbe ancora se Dio ritirasse da lui quell’essere che ne circonda il nulla, Questo essere è una partecipazione dell’essere medesimo di Dio, è l’essere di Dio reso sensibile in qualche modo nell’uomo. Tutte le creature, infatti, non sono altro, per così dire, che Dio medesimo reso visibile; sono come sacramenti o come visibili involucri dell’essere invisibile di Dio, il quale è nascosto sotto di essi; sono segni di Dio che esprimono in modo svariato ciò che Egli è in se stesso. In una parola, tutto quanto vi è al mondo è come una dilatazione e una espressione di Dio fuori di Lui medesimo, come un effluvio di Dio, il quale esprime esternamente ciò che Dio è in sé medesimo. – Ma d’altra parte la creatura considerata in se stessa e nel suo fondo, fuori dello stato di Dio di cui essa è partecipe, rimane un semplice niente che implica la privazione di ogni essere, come Dio contiene il possesso di tutto l’essere: Dio è un abisso di perfezione, il nulla invece un abisso d’imperfezioni. Quando pure vi si starebbe occupati sino alla fine dei secoli, non si saprebbe esporre in particolare le privazioni e i difetti che si contengono nel niente, né  i disprezzi che gli sono dovuti; parimenti quando pure sino al dì del giudizio vi si impiegassero le creature tutte, non riuscirebbero a numerare tutte le grandezze e le perfezioni di Dio. Il niente merita oblio, disprezzo e noncuranza, come Dio merita ogni ammirazione, ogni adorazione, ogni lode da parte di tutto il mondo (-G. Olier si compiace di porre nel dogma della creazione il fondamento delle virtù: dobbiamo essere umili perché siamo creature, così anche pazienti (pag. 201) ed ubbidienti (pag. 267). Dal fatto della nostra creazione da Dio, risultano due grandi verità che facilmente dimentichiamo e che devono essere il nostro pane quotidiano nella vita spirituale: il nostro nulla e la suprema padronanza di Dio).

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La giustizia adunque, poiché vuole che si dia a ciascuno ciò che gli appartiene, insegna alla creatura a tributare a se stessa ciò che si merita nel suo fondo e a subire quel trattamento che è dovuto a così grande viltà, come pure a rendere a Dio ciò che gli è dovuto, ossia ogni onore e ogni lode. Se guardo me stesso, nel mio fondo, ossia nel mio nulla, veggo che non merito che confusione e disprezzo; se invece contemplo Dio, sia in sé medesimo come fuori di sé, nella sua essenza come nella sua diffusione nei suoi effetti, in me come fuori di me; trovo che Egli merita ogni lode e ogni onore. A Dio, dice S. Paolo, siano rese benedizioni, lodi, onori e azioni di grazie da ogni creatura, (I Timot ., I, 12; Apoc., VII, 12) per quello che Egli è in sé, e per tutto ciò che Egli ha operato fuori di sé medesimo. Vedo adunque e riconosco che a Dio deve essere reso ogni onore come all’Autore e possessore di ogni perfezione, e al contrario il niente, che in se stesso è privo di tutto, deve essere disprezzato abbandonato, trascurato e dimenticato. – Il niente è così miserabile che non si saprebbe neppure pensare a lui, e se ne diciamo qualche cosa o ne abbiamo qualche idea, è sotto qualche forma presa a prestito e che non gli conviene, tanto è incapace di produrre qualche stima di sé. Se si pensa a lui, non sarà che per deplorare il suo stato, per riconoscere ciò che gli manca e ciò che non ha. Nulla può essere vile e abbietto come il niente, né si saprebbe esprimere tutta la sua abbiezione. E questa è la condizione vera della creatura nella sua sostanza, in ciò che era da sé medesima prima che Dio la rivestisse di se stesso; né cessa di essere tale anche dopo la comunicazione che Dio le fa del suo essere. – Dio merita ogni onore per la sua perfezione, il niente non merita che disprezzo per la sua imperfezione. Benché nascosto sotto l’essere più perfetto, il niente non lascia mai di meritare per se stesso tale trattamento; all’operaio bisogna lasciare l’onore dell’opera sua, come al pittore la gloria del suo quadro. Al pittore è dovuto l’onore e non alla tela che porta il suo dipinto; la tela non merita che disprezzo; se potesse parlare e fosse sensibile al sentimento della giustizia, essa direbbe: « Onorate colui che mi ha scelta per farne il soggetto dell’opera sua, onorate colui che merita di essere onorato, che mi ha tratta dallo stato in cui mi trovavo, per fare su di me tali meraviglie. Guardate il rovescio del quadro e vedrete che non sono adatta che a fare un cencio qualunque; non ero buona a nulla, ora invece sono posta sugli altari e si adora ciò che porto e rappresento; ma questo non è mio, né vi ho parte alcuna; non dimentico la mia primiera condizione, so bene qual sia il mio fondo e non l’ho ancor perduto di vista. Più, l’amore che nutro per il mio padrone e per l’operaio che mi ha scelta ad onta della mia viltà perché fossi l’oggetto della sua opera ed ha operato in me una sì grande meraviglia, mi obbliga ad onorarlo ed a procurargli la gloria che egli si merita e ad avvertire tutti coloro che vedendomi, nella loro illusione si attaccano a me, di rivolgere i loro occhi e i loro omaggi a colui che ha compito quest’opera preziosa ».

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Così la Madonna, sempre convinta del suo nulla, sempre convinta della sua bassezza, esclamava ad alta voce: « Fecit mihi magna qui potens est. Colui che è potenteha fatto in me grandi cose ». Egli ha sceltoquesta povera sua serva, ha scelto la miapovertà e la mia viltà per imprimervi l’operadel suo amore, della sua sapienza edella sua onnipotenza. Ha compiuto in meil suo capolavoro e la sua meraviglia; hafatto in me il suo ritratto col rendere sensibileil suo Verbo. Ha scelto questo poveropiccolo niente, per imprimere sopra diesso i più perfetti e più splendidi lineamenti della sua grandezza e della sua maestà. Lui medesimo in me fa rendere a sé medesimo, onori ch’io non merito e non mi appartengono. State bene attenti a rendere a Dio la sua gloria e in me adorate la sua opera e le sue meraviglie ».Per questo motivo la santa Chiesa, tanto per la propria edificazione come per quella di tutti i fedeli che ricevono grazie da Dio, si prende cura di far cantare ad alta voce e anche in piedi per obbligarci ad un’attenzione particolare, il bel cantico del Magnificat: così vuole insegnarci ad onorare il Signore come la Madonna lo esaltava in sé stessa e in tutte le opere Di Dio, perché tutto quanto è fuori di Dio, viene da Dio; tutto è derivazione (Al termine emanazione, che suona male per le nostre orecchie moderne, abbiamo sostituito derivazione. Tutte queste espressioni del Servo di Dio, evidentemente, vanno intese nel senso che l’essere naturale delle creature non è che una partecipazione virtuale ed analoga dell’essere di Dio.), effusione e come dilatazione di Dio, il quale diffonde il suo essere in modo visibile sopra la creatura. È questo lo Spirito che copriva le acque, (Gen. I, 2) il mantello che copre ed avvolge il niente; il niente rimane sempre spregevolissimo in se stesso, il mantello che lo copre, merita solo di essere onorato, Dio adunque sia glorificato e il niente sia dimenticato e disprezzato! – Quel sentimento di umiltà che risplendeva così santamente nella Vergine Santissima, per il quale essa voleva che non si facesse nessuna attenzione alla sua persona per quante grazie vi si scorgessero, ma si guardasse unicamente a Dio che ne era l’Autore, era molto più perfetto ancora in Nostro Signore, perché Egli era pieno di verità, plenum veritatis (Joan. I, 14), e voleva adempiere ogni giustizia (Matt. III, 15). Questo sentimento lo portava a correggere colui che lo aveva chiamato buono (Luc. XVIII, 9); Egli, come uomo, rifiutava questo titolo perché, in quanto era uomo, non gli apparteneva. Come uomo, infatti, anche Gesù Cristo era una creatura, e quindi in tale qualità, era niente; ciò che vi era in Gesù, tutto gli veniva da Dio, fonte universale di ogni bene, che l’aveva tratto dal nulla e gli aveva comunicato i suoi tesori. Ma solo ciò che è, merita il titolo di buono; orbene. Dio solo è; tutto il resto non è niente all’infuori di ciò che esso da Dio ha ricevuto: perciò Nostro Signore, come uomo, vedendosi indegno di questo titolo di buono, non poteva sopportare che venisse attribuito ad altri che a Dio. –  Ecco la fonte dell’umiltà nel Figlio di Dio: ecco perché Egli era umile e più umile di tutti eli uomini assieme. Perché meglio di tutti gli uomini, con vivissima luce, conosceva il niente della creatura, Gesù incomparabilmente più di tutti stava dimesso, umiliato e abbassato ai propri occhi e davanti alla maestà del Padre suo di cui tanto perfettamente conosceva la grandezza. Egli vedeva chiaramente che, in quanto creatura, al pari degli altri uomini, da sé medesimo non era niente, e che il Padre suo l’aveva tratto dal nulla onde renderlo depositario di tutti i suoi beni. Per questo, Egli stava continuamente annientato davanti a Lui, nel riconoscimento del proprio nulla, sempre pieno di stupore per tanti favori e di gratitudine per tanti benefizi. Egli stava senza posa inabissato in una lode altissima e in un amore ardentissimo verso Colui che l’aveva tanto amato da tutta l’eternità, preparandogli doni così grandi, senza neppur possibilità di nessun merito da parte sua. – La riconoscenza per una tale bontà lo portò a mettere nelle mani degli uomini il sacrificio dell’azione di grazie, l’adorabile sacrificio dell’altare. Nel medesimo sentimento di gratitudine, Egli scelse pure una Chiesa numerosa, perché con le lodi ed i sacrifizi Egli potesse in essa offrire al Padre suo degni ringraziamenti per il beneficio inconcepibile di averlo tratto dal nulla onde elevarlo alla dignità della filiazione divina. Così faceva Gesù Cristo per un sentimento di verità e di giustizia. Nella verità riconosceva ciò che era Egli stesso come uomo, cioè un niente, e ciò che era suo Padre, cioè tutto l’Essere; nel sentimento della giustizia, profondamente si annientava davanti alla santa Maestà del Padre, e si effondeva in amore e adorazione, in lodi e azioni di grazie.

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Tali sono i veri fondamenti dell’umiltà, che sono oltremodo stabili e fermi quando Nostro Signore si compiaccia di stabilirli solidamente in un’anima. Ma è da sapersi che per operare secondo tutta l’estensione della luce divina che ci discopre il nostro pulla, è necessario ancora di vedere il nulla in tutte le creature. Noi dobbiamo essere ben convinti che all’infuori di Dio, tutto non è che niente, vanità, ombra, figura, e come un involucro e un sacramento sotto il quale, come abbiamo detto sopra, Dio si nasconde per rendersi sensibile a noi. – Questa proposizione, che all’infuori di Dio tutto è niente, deve essere così universale che nulla ne venga eccettuato, né i più gran Santi, né la Vergine Santissima, e neppure l’adorabilissima Umanità di Gesù Cristo Nostro Signore. Ogni cosa, eccettuato ciò che di Dio vi è in essa, è niente e null’altro: è questa la condizione essenziale ed indispensabile di qualsiasi creatura. In ogni creatura adunque, non bisogna mai considerare che Dio, puramente e semplicemente Dio solo. Come è santo questo modo di operare! Come ci allontana da mille illusioni, nelle quali i più spirituali si lasciano prendere ed impacciare, quando non vi siano ben fissati! Inoltre, come ci porta a Dio e ci riempie li Lui! Se saremo sempre animati da questo sentimento, dappertutto noi troveremo e vedremo Dio; ed è questo uno dei mezzi più semplici e più utili per tenerci sempre alla sua divina presenza. Diversamente, si ha la mente tutta occupata delle creature; e le cose esterne che non dovevano servire che a portar Dio nel nostro cuore, diventano esse stesse il Dio del nostro cuore, l’idolo infame che così viene onorato nel Tempio di Dio.

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È un difetto questo che s’incontra ordinariamente nella direzione delle anime, quando il confessore, o perché non conosce questo pericolo, o perché non si prende cura di aprire gli cechi a quelle anime che il Signore gli ha affidate perché le conduca a Lui. Così egli lascia che si fermino alla sua persona per il lustro delle apparenze che notano in lui, invece di far loro considerare che per quanti doni possa avere in sé medesimo egli non è niente, e quindi non merita nessun onore perché a Dio solo appartiene ogni gloria. Si deve aver gran cura di fare intendere bene alle anime, che il direttore o confessore in se stesso è un niente, e che lo debbono considerare come un puro niente che, come tale, deve essere dimenticato: ma pure, perché Dio si nasconde in lui per manifestare i suoi ordini e le sue volontà sante, bisogna portargli un gran rispetto, come a chi rappresenta Dio e ne tiene il posto. Dal confessore bisogna andare con purezza d’intenzione e non cercar che Dio in lui, senza pensare alla scorza e al velo con cui Dio si copre. Bisogna, con la fede, andar oltre ciò che attira, ferma e illude i nostri sensi, trascurando e disprezzando ciò che appare agli occhi della carne, e tutto quanto agli occhi ingannati del mondo è grande e degno di considerazione.

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Siamo dunque fedeli, come Dio lo vuole, a mantenerci nella verità, e guardiamoci dal cadere nel peccato del demonio, il quale, secondo la parola di S. Giovanni: In veritate non stetit. Non è rimasto nella verità (Giov. VIII, 44). Riconosciuta così la verità e, per la luce della fede essendocene ben convinti, osserviamo la giustizia; quindi rendiamo a noi e ad ogni creatura ciò che è dovuto alla creatura; a Dio che è tutto, tributiamo la riverenza, la religione, l’amore e le lodi che le sue grandezze si meritano. Ecco i due fondamenti dell’umiltà in ogni creatura: verità e giustizia; ma queste, in noi, si applicano a molti altri soggetti di umiliazione, perché, come abbiamo visto, siamo in noi medesimi ogni miseria, ogni corruzione, ogni peccato. Ma perché la verità e la giustizia richiedono che, nella nostra qualità di peccatori, non solamente trattiamo noi stessi con disprezzo, ma ancora ci dedichiamo alla penitenza, alla mortificazione e all’odio di noi medesimi, di questi punti parleremo più a lungo quando tratteremo di queste virtù.

Autore: Associazione Cristo-Re Rex regum

Siamo un'Associazione culturale in difesa della "vera" Chiesa Cattolica.