LA VITA INTERIORE E LE SUE SORGENTI (14)
Sac. Dott. GIOVANNI BATTISTA CALVI
con prefazione di Mons. Alfredo Cavagna Assistente Ecclesiastico Centr. G. F. di A. C.
Ristampa della 4° edizione, Riveduta.
SOLE CHE ARDE
IL RITORNO ALL’AMORE
NON SIAMO PIÙ SCHIAVI DEL PECCATO.
Spiegando l’Apostolo Paolo ai Romani e il simbolismo del S. Battesimo pel quale l’anima rimane purificata dalle colpe e unita con Gesù, suggerisce loro di non far più morire, per mezzo del peccato, la vita divina che hanno ricevuto, e conclude: Ultra non serviamus peccato, cioè: non siamo più, per nessun motivo, schiavi del peccato. Sarebbe davvero una grave iattura. Riflettiamo un istante. – Il Cristiano nel Battesimo è incorporato a Gesù Cristo, in modo da diventare parte del suo Corpo mistico, un altro Gesù Cristo. Siamo morti al peccato ed apparteniamo interamente a Gesù. « Infatti, dice ottimamente il P. Prat (V, 1, 266), noi siamo uniti a lui (Gesù) e diventiamo suoi membri proprio nel momento in cui egli diventa salvatore. Ora, questo momento coincide per Gesù Cristo con quello della morte, raffigurata ed effettuata misticamente per noi nel Battesimo. D’allora tutto ci è comune con Gesù Cristo; noi siamo crocifissi, sepolti con Lui, risuscitiamo con Lui, noi partecipiamo alla sua morte e alla sua nuova vita, alla sua gloria, al suo regno, alla sua eredità ». Sì. Partecipiamo. Ma, purtroppo, non vi partecipiamo per sempre. Perché? Ecco: il Concilio di Trento dice che « se la nostra riconoscenza verso Dio, che col Battesimo ci ha reso suoi figli, fosse all’altezza di questo dono ineffabile, noi serberemmo intatta ed immacolata la grazia ricevuta in questo primo sacramento » (Sess. XIV, cap. I). Per quanto vi siano, anche, anime privilegiate che sanno conservare questa vita divina ricevuta nel Battesimo, Gesù volle pure provvedere per quelle altre anime che, purtroppo, non sanno conservarla, questa grazia… E provvide realmente, istituendo il santo sacramento della Penitenza, il quale « è un monumento ammirabile della sapienza e della misericordia divina, nel quale Dio ha saputo armonizzare queste due cose: trovare la propria gloria, dandoci il suo perdono » (D. COLUMBA MARMION, Cristo, vita dell’anima. Milano, 1935).
COME DIO MANIFESTA LA SUA POTENZA.
Non co’ tuoni e le folgori, non per mezzo dei terremoti e delle inondazioni, non con la carestia, la peste, la fame, la guerra, ma con la… misericordia. La storia delle relazioni fra Dio e l’uomo è una continua manifestazione della bontà e misericordia di Dio. Sembra, per una parte, che gli uomini abbiano fatto tutti, e sempre, generalmente parlando, quanto potevano per offendere il Signore, e, d’altra parte, sembra che Dio abbia gareggiato, sempre, nel dar loro il suo perdono paterno. Conosciamo tutti la bellissima preghiera che i Sacerdoti leggono nella S. Messa della decima domenica dopo Pentecoste: « Deus qui omnipotentiam tuam parcendo maxime, et miserando manifestas… multiplica super nos misericordiam tuam ». E cioè: « O Dio, che fai soprattutto risplendere la tua potenza perdonandoci e avendo pietà di noi, moltiplica su di noi questa tua misericordia ». Questa meravigliosa rivelazione dataci dalla Chiesa che Dio, perdonandoci e avendo pietà, manifesta soprattutto la sua potenza, è ripetuta in tante altre preghiere. Ne ricorderemo ancora una, perché molto espressiva, ed è un’orazione delle Litanie delle Rogazioni: « Deus, cui proprium est misereri semper et parcere... 0 Dio, Tu che hai la caratteristica di usare sempre misericordia, e perdonare… ». Essere misericordioso, dice S. Tommaso, vuol dire prendere, in certo qual modo, nel proprio cuore la miseria altrui. Questa miseria è costituita dai nostri peccati, dalle nostre offese, dai nostri debiti verso Dio. Poiché Dio è bontà, è amore, davanti alla nostra miseria, la bontà e l’amore di Dio divengono misericordia. Non essendo a noi possibile vivere senza peccato veniale, le nostre miserie aumentano. Per questo: l’abisso delle nostre miserie, delle nostre colpe, dei nostri peccati, chiama l’abisso della misericordia divina.
ISTITUZIONE DEL SACRAMENTO DELLA PENITENZA.
Perduti, per causa del peccato, la grazia e i doni del Battesimo, non vi sarebbe più per noi nessun mezzo di salvezza, se Dio nella sua misericordiosa e previdentissima bontà non avesse pensato e provveduto a noi coll’istituzione del santo sacramento della Confessione. — Dopo il Battesimo, dichiarò il Concilio di Trento (Sess. XVI, cap. 2 e 8), dopo che siamo innestati in Cristo, dopo che «liberati dalla servitù del peccato e del demonio, divenuti i templi dello Spirito Santo, noi ricadiamo volontariamente nel peccato, non possiamo ritrovare la grazia e la vita se non a condizione di far penitenza; così ha stabilito e non senza convenienza, la divina giustizia ». – La penitenza può essere considerata come sacramento e come virtù. Diciamo, ora, soltanto, della penitenza come sacramento. — Sappiamo che Gesù Cristo istituì questo sacramento quando disse agli Apostoli e nella persona di essi, ai loro successori: Ricevete lo Spirito Santo: a chi rimetterete i peccati, saranno rimessi; e saranno ritenuti a chi li riterrete (Giov., XX, 23) E ancora: Tutto quanto voi legherete sulla terra sarà legato anche in cielo; e tutto quanto voi scioglierete sulla terra, sarà sciolto anche in cielo (Matt., XVIII, 18). – Per mezzo della confessione ben fatta rifluisce o aumenta la grazia nella vita dell’anima… e il desiderio dell’unione con Dio rinvigorisce, la pietà rimane alimentata e fortificata.
PER FARE UNA BUONA CONFESSIONE.
Dopa aver pregato, com’è evidentemente necessario, occorre fare un buon esame di coscienza (comandamenti di Dio e della Chiesa; gli obblighi del nostro stato; oppure i doveri nostri verso Dio, il prossimo, noi stessi); avere il dolore (interno, sovrannaturale sommo, universale) dei peccati che si devono confessare, e, col dolore, il proposito fermo, stabile ed efficace di non peccare. Dopo di questo, la confessione o manifestazione delle colpe, o accusa, dev’essere umile, semplice, sincera, integra, prudente, obbediente, frequente, seguita dalla penitenza sacramentale o soddisfazione. L’obbligo della confessione riguarda soltanto le colpe mortali. – Ma ogni anima deve procurare, anzitutto e soprattutto, confessandosi, di avere il dolore o contrizione. Anche se l’accusa fosse resa materialmente impossibile, resta la necessità del dolore. Questo dicesi perfetto quando l’anima si rattrista per aver offeso l’amore, cioè Dio, unico e vero amore, sovrano bene, bontà infinita. L’atto di dolore o di contrizione perfetta, per il suo motivo, cancella il peccato mortale nell’istante stesso nel quale l’anima lo produce. Dicesi, invece, dolore imperfetto (contrizione imperfetta, attrizione) quello che deriva dalla vergogna provata in causa del peccato, per il castigo meritato, come la perdita del Paradiso e la condanna all’inferno, e non ha, di per se stesso, l’effetto di cancellare il peccato mortale, ma è sufficiente con l’assoluzione data dal Sacerdote.
COME GESÙ CI RIMETTE I PECCATI…
Da quanto già sappiamo, Gesù ci rimette i peccati per mezzo del Sacerdote al quale ci confessiamo. È appena necessario rilevare che il sacerdote è, per l’anima nostra il medico, l’amico, il padre, l’avvocato è tutto questo, ed è, anche, il giudice. Ma perché? Perché non ci perdona direttamente Gesù stesso? Non è Egli sempre il nostro Dio rimuneratore? Basterebbe ricordare che questo potere fu proprio dato da Gesù ai suoi sacerdoti; tuttavia, aggiungiamo che Dio vuole, nell’economia ordinaria della sua provvidenza, servirsi di cause seconde, guidarci, cioè, per mezzo degli uomini che tengono le veci sue. – Riassumiamo. La confessione, fatta come si deve, libera l’anima dal peccato in forza dell’assoluzione; diminuisce la pena temporale che, dopo l’assoluzione, rimanesse ancora da scontarsi in questo mondo o nel Purgatorio, e la diminuisce per il merito del rossore che proviamo nell’accusarci e per l’umiliazione che abbracciamo volontariamente; ci apre il Paradiso, ci rende più umili e più cauti contro le ricadute; ridona la speranza della vita eterna. Ma v’è di più: mentre non sempre il Signore, negli altri sacramenti, ci fa sentire la soavità delle consolazioni spirituali, nella Confessione dispone sempre che l’anima sia inondata di santa gioia. Perché? Perché la Confessione ci libera dal rimorso della coscienza che ci tormentava di continuo, notte e giorno. Tutto questo è bene sintetizzato da S. Bernardo (Med. 37): “Nella confessione tutto si lava, si monda la coscienza, si mette in fuga il peccato, ritorna la tranquillità, rinverdisce la speranza, l’animo si allieta ». Le parole del confessore: io ti assolvo dai tuoi peccati nel nome del Padre e del Figliuolo e dello Spirito Santo, sono pronunciate in nome di Dio… ed è come se Gesù ripetesse a noi quelle parole dette al paralitico: « Coraggio, o figliuolo, ti sono rimessi i tuoi peccati » (MATT., IX, 2), o come alla Maddalena: « Ti sono perdonati i tuoi peccati…, la tua fede ti ha fatta salva: va in pace » (Luca, VII, 48). Tutto, nel sacramento del ritorno all’amore di Gesù, ci richiama il buon pastore e la pecorella smarrita, il figliuol prodigo che ritorna alla casa paterna e ritrova l’abbraccio dell’amore… Oh! Gioia inconfondibile dell’anima ritornata ai verdi pascoli della speranza, dell’amore e dell’unione col Dio della vita, con Gesù luce, verità e amore perfetto ed eterno!
CONFESSIONI MECCANICHE – IL DIRETTORE SPIRITUALE.
Qualche anima suole lamentarsi dopo la sua confessione, per due motivi. Primo: per l’assoluta mancanza dei divini conforti. Secondo: per la constatazione del mancato progresso nella via dello spirito. Le cause di questi due lamenti possono essere parecchie e diverse. L’esame particolare sul nostro difetto predominante dovrebbe sempre orientarci con precisione…! A parte, però, la mancanza della preghiera, del raccoglimento, dell’adempimento delle condizioni prescritte, molte confessioni diventano meccaniche, perché sono ripetute come i dischi di un grammofono. Per evitare i danni lamentati occorre, anzitutto, la scelta di un padre spirituale, col proposito di seguirlo fedelmente. Può essere direttore spirituale il nostro confessore stesso, e questa è la migliore soluzione. Necessità della direzione spirituale per tutte le anime, ma, vorremmo insistere, specialmente per quelle giovanili su la necessità della direzione spirituale. Come per il corpo è necessaria l’assistenza e la cura del medico, altrettanto è necessaria l’assistenza e la cura del medico spirituale per l’anima. Pieno di luce e opportunissimo a questo fine è il suggerimento dello Spirito Santo: Non operare senza prendere consiglio. Il perché è evidentissimo: nessuno può essere giudice imparziale di sé. Chi è il medico spirituale dal quale prenderemo consiglio? Il miglior consiglio è sempre quello di Dio. Egli, però,ha disposto che le anime fossero santificate, nella via interna, con la sottomissione e l’obbedienza ai confessori e ai direttori spirituali. Esempio tipico è l’ordine dato da Gesù a Saulo convertito da Lui direttamente, ma inviato ad Anania perché gl’insegnasse quello che avrebbe dovuto fare. Come Gesù dispose per Saulo, similmente dispose ed operò la Chiesa. Al direttore spirituale le anime debbono: a) rispetto; b) filiale confidenza; c) docilità umile.
DUE PENSIERI DI S. GIOVANNI BOSCO.
Il primo riguarda la convenienza e l’utilità d’avere un confessore stabile. Nella Vita del giovinetto Besucco Francesco così si è espresso il Santo: « Raccomando coi più vivi affetti del cuore a tutti, ma in special modo alla gioventù di voler fare per tempo la scelta d’un confessore stabile, né mai cangiarlo senza necessità ». Il secondo è un suggerimento proprio paterno… T’rovandosi un giorno attorniato da un gruppo di giovinetti, il Santo de’ giovani, così loro disse con paterna bontà: « Volete farvi santi? Ecco! La confessione è la serratura; la chiave è la confidenza nel confessore. Questo è il mezzo per entrare per le porte del Paradiso ». – La confessione è, davvero, e le parole del santo don Bosco lo confermano, una fonte inesauribile di santità: ci ridona la grazia e l’amore di Gesù; fa vivere noi in Lui e Lui in noi!
LA VIA DEL RITORNO ALL’AMORE
LE RADICI DEL PECCATO.
Abbiamo già detto che la penitenza può essere considerata come sacramento e come virtù. L’una e l’altra sono vivide, fresche e copiose sorgenti di vita interiore. Ora diremo della ricca fontana di acqua limpida e saliente ch’è la virtù della penitenza. – Nonostante il frutto salutare ed efficacissimo del santo Battesimo; nonostante il perdono reale e completo de’ peccati nel sacramento della penitenza, rimangono sempre in noi le radici amare della colpa, pronte a rinverdire e a rigermogliare; durano sempre in noi certe conseguenze del peccato tenute sotto la cenere, come le assopite, e non mai atrofizzate, ramificazioni della concupiscenza, delle perverse inclinazioni de’ sensi. Se, in queste condizioni noi vogliamo assolutamente raggiungere il possesso della vita interiore e un grado elevato di unione con Dio in modo che la vita divina si sviluppi nelle nostre anime fortemente e, perciò, efficacemente, dobbiamo lavorare continuamente per neutralizzare e distruggere coteste rimanenze e tracce di peccato, dobbiamo essere sempre impegnati per impedire che queste amare radici possano rinverdire, rigermogliare, fortificarsi e dare frutti avvelenati.
LA VIRTÙ DELLA PENITENZA.
Oltre e all’infuori del sacramento della penitenza, il mezzo più efficace per cancellare le cicatrici e le conseguenze del peccato, per soffocare i nuovi germogli, è la pratica della virtù della penitenza. Questa È un’abitudine che quando «è ben radicata e vivace ci spinge continuamente all’espiazione del peccato e alla distruzione dei suoi residui». Meglio ancora: la penitenza è quella virtù «per la quale noi con tutto l’animo ci convertiamo a Dio, detestiamo e odiamo tutti i peccati commessi, e insieme proponiamo e deliberiamo d’emendare al tutto la nostra mala vita e correggere i nostri cattivi costumi, con la speranza di conseguire il perdono dalla divina misericordia » (Catech. Trid.). Giova all’anima ricordare altre precisazioni. Ecco: « … penitenza è piangere i peccati commessi e non commettere più peccati da piangere » (S. GREGORIO, hom. 34 in Ev.). — « Penitenza è contrizione nel cuore, confessione sulle labbra, umiltà nelle opere » (S. Giov. CRIS., Serm. de poen., 1). « Penitenza è una specie di vendetta compiuta da chi si duole, castigando in se stesso ciò che gli duole d’aver commesso » (Sant’Agostino, De vera et falsa poenit., 8). Se l’anima riesce ad avere queste buone disposizioni, allora vede il peccato attraverso alla fede, per mezzo degli occhi di Dio. « Se ho peccato, dirà, ho commesso un atto di cui non posso misurare la malizia, ma che è terribile, che viola talmente i diritti di Dio, della sua giustizia, della sua santità, del suo amore, che soltanto la morte di un Uomo-Dio ha potuto espiarlo.». – Pensandovi sopra, l’anima commossa così rivolgerà a Dio la sua supplica: « O mio Dio, io detesto il mio peccato, voglio vendicare i vostri diritti per mezzo della penitenza, preferirei morire piuttosto che offendervi ancora ». Questo è il solo spirito di penitenza che spinge l’anima a compiere atti di espiazione che debbono dare la morte al peccato, a quello che, nella nostra natura, è sorgente di disordini e di peccati: gl’istinti sregolati dei sensi, le scorribande dell’immaginazione, le inclinazioni corrotte, e, per conseguenza, tenere desta, rendere vigorosa e florida la vita dell’anima!
NECESSITÀ DELLA PENITENZA.
Due sono le vie che conducono al premio: la via dell’innocenza e la via della penitenza. Nessuno di noi può dirsi innocente, perché anche un solo peccato veniale basta per farci peccatori, e obbligarci alla penitenza. La prima necessità della penitenza ci è data dall’obbligo che abbiamo di ristabilire in noi l’ordine, di rendere alla ragione, sottomessa al Signore, l’impero sulle potenze inferiori, per concedere alla volontà di darsi interamente a Dio. Quando l’anima adempie questo obbligo, sente rifluire in sé la grazia, e, con essa sente potentemente e vivamente il desiderio di imitare Gesù, di avvicinarsi di più a Lui, di vivere unita con Lui. – Un’altra necessità della penitenza è, a noi presentata dalla lotta, che tutti dobbiamo sostenere, contro i difetti speciali predominanti che raffreddano e indeboliscono la vita divina in noi. La terza necessità ci è data dalle rinunce che Gesù richiede per tutto il tempo della nostra vita, come le sofferenze morali, le malattie, la scomparsa di esseri che ci sono cari, i rovesci, le avversità, le contrarietà e le contraddizioni che inceppano il raggiungimento dei nostri progetti, l’insuccesso delle nostre imprese, le nostre disillusioni, i momenti di fastidio, le ore di tristezza, il «peso del giorno» che accasciava già così gravemente S. Paolo (Rom., IX, 2) al punto che la vita — dice egli stesso — gli era di peso: Ut etiam tæderet vivere (II Cor., I, 8). Sono tutte miserie, che ci distaccano da noi stessi e dalle creature, soltanto mortificando la nostra natura e «facendoci morire » a poco a poco: Quotidie morior (I Cor., XV, ZI).
È UN COMANDO DEL SIGNORE.
La prima predicazione di Gesù fu la seguente, sulla penitenza: Fate penitenza, perché il regno dei Cieli è vicino (MATT.; IV, 17). In seguito insistette più energicamente: Se non farete frutti di penitenza, perirete tutti allo stesso modo (Luca, XIII, 3). Gesù, però, non volle accontentarsi di predicare. Infatti, tutta la vita di Gesù fu croce e martirio; tutta la sua passione dolorosa sofferta per la nostra redenzione ci mostra in modo mirabile com’Egli abbia unito la predicazione alla pratica. Gesù, però, non avrebbe dovuto soffrire. Soffrì tanto, indicibilmente, solo pei nostri peccati. Possiamo noi, forse, rimanere indifferenti di fronte alla dolorosa passione di Gesù? Noi che portiamo una polveriera nel nostro corpo sempre pronta a scoppiare; come ben disse B. Eymard, noi dobbiamo fare nostro, ripetere e praticare il proposito di San Paolo: Castigo il mio corpo e lo riduco in servitù (I Cor., IX, 27). Questa penitenza ch’è fonte di purificazione e, perciò, di elevazione, dobbiamo volerla ed abbracciarla in unione con la volontà di Gesù per mezzo della fede. Tale unione diventerà una fonte di sollievo, poiché Gesù, avendo sofferto e meritato per noi, si piegherà verso di noi, mosso da misericordia (Luca, XIII, 13) e ci conforterà. Allora, e giustamente, come Apostolo San Paolo, potremo dire, in mezzo alle tribolazioni: sovrabbondo di gioia in ogni mia tribolazione (II Cor., VII, 4).
[Le incertezze, le angosce, i disgusti, sono rimedi molto amari, ma necessari alla salute dell’anima… Non c’è che una strada che meni a Gesù, quella del Calvario; e l’anima che non vuol seguire Gesù su quella via deve rinunziare alla divina unione.]
C. MARMION.
LA VITA INTERIORE (15)