DOMENICA VI dopo PENTECOSTE

Introitus

Ps XXVII:8-9 Dóminus fortitudo plebis suæ, et protéctor salutárium Christi sui est: salvum fac pópulum tuum, Dómine, et benedic hereditáti tuæ, et rege eos usque in sæculum. [Il Signore è la forza del suo popolo, e presidio salutare per il suo Unto: salva, o Signore, il tuo popolo, e benedici i tuoi figli, e govérnali fino alla fine dei secoli.] Ps XXVII:1 Ad te, Dómine, clamábo, Deus meus, ne síleas a me: ne quando táceas a me, et assimilábor descendéntibus in lacum. [O Signore, Te invoco, o mio Dio: non startene muto con me, perché col tuo silenzio io non assomigli a coloro che discendono nella tomba.] Dóminus fortitudo plebis suæ, et protéctor salutárium Christi sui est: salvum fac pópulum tuum, Dómine, et benedic hereditáti tuæ, et rege eos usque in sæculum. . [Il Signore è la forza del suo popolo, e presidio salutare per il suo Unto: salva, o Signore, il tuo popolo, e benedici i tuoi figli, e govérnali fino alla fine dei secoli.]

Oratio

Orémus.

Deus virtútum, cujus est totum quod est óptimum: ínsere pectóribus nostris amórem tui nóminis, et præsta in nobis religiónis augméntum; ut, quæ sunt bona, nútrias, ac pietátis stúdio, quæ sunt nutríta, custódias. [O Dio onnipotente, cui appartiene tutto quanto è ottimo: infondi nei nostri cuori l’amore del tuo nome, e accresci in noi la virtú della religione; affinché quanto di buono è in noi Tu lo nutra e, con la pratica della pietà, conservi quanto hai nutrito.]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Romános. Rom VI:3-11

“Fratres: Quicúmque baptizáti sumus in Christo Jesu, in morte ipsíus baptizáti sumus. Consepúlti enim sumus cum illo per baptísmum in mortem: ut, quómodo Christus surréxit a mórtuis per glóriam Patris, ita et nos in novitáte vitæ ambulémus. Si enim complantáti facti sumus similitúdini mortis ejus: simul et resurrectiónis érimus. Hoc sciéntes, quia vetus homo noster simul crucifíxus est: ut destruátur corpus peccáti, et ultra non serviámus peccáto. Qui enim mórtuus est, justificátus est a peccáto. Si autem mórtui sumus cum Christo: crédimus, quia simul étiam vivémus cum Christo: sciéntes, quod Christus resurgens ex mórtuis, jam non móritur, mors illi ultra non dominábitur. Quod enim mórtuus est peccáto, mórtuus est semel: quod autem vivit, vivit Deo. Ita et vos existimáte, vos mórtuos quidem esse peccáto, vivéntes autem Deo, in Christo Jesu, Dómino nostro”.

Omelia I

[Mons. Bonomelli: Omelie, Torino 1899, impr. -Omelia XIII]

“Tutti quanti siamo stati battezzati in Gesù Cristo, siamo stati battezzati nella morte. Noi dunque siamo stati con Lui seppelliti per il battesimo, a morte; affinché, come Cristo è risuscitato dai morti per la gloria del Padre, similmente noi pure camminiamo nella vita nuova: perché se siamo stati innestati con Cristo alla conformità della sua morte, certo lo saremo ancora a quella della sua risurrezione. Sapendo questo, che il nostro vecchio uomo è stato crocifisso con Lui, affinché il corpo del peccato sia annullato, sicché noi non serviamo più al peccato, perché chi è morto è sciolto dal peccato. Ora se noi siamo morti con Cristo, crediamo che vivremo altresì con Lui. Sapendo che Cristo, risuscitato dai morti, non muore più; la morte non ha più signoria sopra di Lui. Perché quanto all’essere morto per il peccato, Egli morì una volta: quanto al vivere, Egli vive a Dio. Così anche voi fate conto di essere bensì morti al peccato, ma di vivere a Dio in Gesù Cristo Signor nostro „ ( Ai Rom. VI, 3-11).

– Delle quattordici lettere di S. Paolo, per sentenza unanime degli interpreti, la più importante e più difficile ad intendersi è quella indirizzata ai Romani, perché in essa il grande Apostolo tratta diffusamente della vocazione alla fede, della grazia divina e della sua gratuità, della rinnovazione che si opera per il santo battesimo, del peccato originale e d’altri punti capitalissimi di dottrina cristiana. Il brano, che vi ho recitato, si legge nel capo sesto di questa epistola ai Romani. Esso riguarda ai doveri, che hanno i battezzati di morire al peccato e di vivere a Cristo, nel che si compendia tutta la sapienza pratica del Vangelo. È un argomento della più alta importanza, ma non facile a spiegarsi, attesa la forma concisa e serrata propria dell’Apostolo. La vostra attenzione renda a me più agevole la chiusa delle sentenze riportate ed a voi più fruttuoso l’apprenderne il senso. “Tutti quanti siamo stati battezzati in Cristo, fummo battezzati nella morte di Lui. „ Punto principalissimo della dottrina di Cristo, svolto in tutte le forme da san Paolo, è questo: noi siamo riconciliati a Dio per la fede in Gesù Cristo, e questo è dono totalmente gratuito, al quale, per nessun titolo avevamo diritto; e la larghezza di questo dono apparisce mirabilmente più grande se consideriamo lo stato di colpa universale, in cui tutti, senza eccezione, Giudei e Gentili ci trovavamo. Ora noi siamo battezzati, che è quanto dire siamo passati dallo stato di morte allo stato di vita, e tutto ciò per Gesù Cristo. Ma che vuol dire questa frase di san Paolo, ” fummo battezzati nella morte di Cristo? „ Noi sappiamo che al tempo degli Apostoli e dopo essi per molti secoli, cioè fino al tempo di S. Tommaso, il battesimo solevasi amministrare quasi sempre per immersione: la persona tutta era immersa nell’acqua, anche il capo: in quest’atto o rito il battezzato rappresentava la morte e la sepoltura di Cristo, come nell’atto e nel rito di uscire dall’acqua rappresentava la sua risurrezione. Cristo, morendo sulla croce, cessò di vivere alla vita di prima, cioè al peccato del quale era schiavo; Cristo, uscendo dal sepolcro, rivive, ma di una vita nuova, immortale; così il battezzato uscendo dall’acqua deve ricominciare una vita nuova, spirituale, santa. Come Cristo lasciò nel sepolcro, a così dire, la vita sua passibile e mortale, così il battezzato lascia nell’acqua del battesimo il peccato e tutte le opere del peccato. – È ciò che S. Paolo più chiaramente sviluppa nel versetto seguente: “Fummo sepolti con Cristo nel battesimo, affinché come Cristo risuscitò dai morti, a gloria del Padre, così noi pure camminassimo in una vita nuova. „ Chi è desso il cristiano? domandava a se stesso Tertulliano, e rispondeva con frase ardita sì, ma vera ed incisiva: Alter Christus. Egli è un altro Cristo, una copia fedele di Cristo in ogni cosa. Tutto ciò che avvenne in Cristo, dice S. Agostino, ragguagliata ogni cosa, deve ripetersi nel suo vero discepolo: Cristo morì in croce alla vita naturale del corpo, e tu devi morire nel battesimo al peccato, alle passioni, ai piaceri illeciti della carne, cioè devi essere a tutte queste cose quello che è un morto, che non se ne cura, non le vede, non le ama. Cristo risuscitò, rifiorente d’una immortale giovinezza: e tu devi uscire dalle acque del battesimo rifatto, nei pensieri, nelle parole, nelle opere uomo nuovo, nuova creatura; e camminare per la via nuova della virtù e della santità. Cristo risuscitò e colla sua risurrezione ci provò la santità della sua dottrina e manifestò la gloria sua e la gloria del Padre, che l’aveva mandato: così tu, rinnovato nel battesimo, colla tua vita, modellata su quella di Cristo, farai in te stesso testimonianza alla santità della dottrina, che professi, e renderai gloria a Dio, giacché gli uomini, come dice altrove Gesù Cristo stesso, vedendo le opere tue buone ed affatto nuove, frutto della tua fede, riconosceranno la grandezza e santità di Colui, del quale sei discepolo, e glorificheranno Dio. In altre parole più brevi e forse più chiare, per il battesimo (l’Apostolo parlava ad adulti) deve cessare in noi il peccato e la vita antica, vita schiava delle passioni, e deve cominciare la grazia e la vita nuova, la vita di Cristo. – Oh piacesse a Dio, che queste maschie verità penetrassero negli animi nostri e informassero la nostra condotta! Persuadiamocene bene, o dilettissimi, che il bisogno è grande in ogni classe di persone: la vera vita cristiana non sta in parole, in proteste, in pratiche esterne, in novene, in tridui, in processioni, in luminarie, in feste, in pellegrinaggi clamorosi, ma nelle opere della vita cristiana, nell’imitazione di Gesù Cristo, l’eterno modello di ogni perfezione. Tutte quelle pratiche esterne sono buone, commendevoli senza dubbio, ma sono mezzi e non fine, e intanto si hanno da fare in quanto ci conducono al fine, cioè alla pratica delle virtù cristiane. Se in noi non appare la vita di Gesù Cristo, cioè se in noi non risplendono le virtù di Gesù Cristo, tutte quelle pratiche religiose non giovano a nulla, sono una contraddizione manifesta e in qualche modo sono la nostra condanna. Ribadisco questa grande verità perché mi sembra che grande ne sia il bisogno. – S. Paolo ribadisce questa verità nel versetto che segue, scrivendo: “Se siamo stati innestati alla conformità della morte di Cristo, lo saremo eziandio a quella della risurrezione. „ Scopo dell’Apostolo è sempre quello di stabilire la unione intima di Cristo e dell’anima per Lui rigenerata e quella identità di vita, che forma la vera nostra grandezza, e che il divino Maestro espresse stupendamente allorché nel discorso dell’ultima Cena disse: Io sono la vite e voi siete i tralci: come il tralcio non può dare frutto alcuno, se non rimane unito alla vite, così voi pure se non rimarrete uniti a me. Osservate, dice S. Paolo, ciò che avviene nell’albero: se sopra quest’albero si inseriscono rami d’altri alberi, questi rami succhiano l’umore dell’albero, su cui sono innestati, di esso vivono e vigoreggiano e formano con l’albero stesso una sola cosa: così deve avvenire anche di noi, rami inseriti nell’albero della vite divina, che è Gesù Cristo. Inseriti in Lui per il santo battesimo, siamo simili in ogni cosa a Lui, viviamo a Lui e con Lui, e produciamo i suoi frutti stessi. Che avverrà? Morti all’albero antico, da cui siamo tagliati, cioè all’uomo vecchio, ad Adamo peccatore per il battesimo e inseriti nell’albero della vita divina che è Cristo, con Cristo vivremo e risorgeremo: Si enim complantati facti sumus dsimilitudini mortis ejus, sìmul et resurrectionìs erimus. Vedi: d’inverno l’albero si spoglia dell’ammanto delle sue frondi, e coll’albero i rami, che sembrano morti: ritorna la bella stagione: l’aria si intepidisce, il sole vibra più ardenti i suoi raggi, l’albero si desta dalla sua morte apparente, rifonde la vita nei rami, che tosto si ricoprono di foglie e di fiori e albero e rami insieme rivivono: così avverrà a noi, o cari, se saremo inseriti nell’albero della vite vera, che è Gesù Cristo; come Egli già risuscitò, noi puro risusciteremo e con Lui vivremo eternamente. Oh la bella e consolante dottrina dell’Apostolo! Inseriti in Cristo, risuscitiamo prima alla vita della grazia e per la grazia abbiamo in noi il germe felice della finale risurrezione anche del corpo: Sìmul et resurrectionis erimus. – Troppo preme all’Apostolo far comprendere ai fedeli di Roma il mistero della morte nostra per il battesimo, e quindi della conseguente nostra risurrezione in Cristo, e perciò vi torna sopra nei versetti seguenti: “Questi ben sapendo, che il nostro vecchio uomo è stato con Lui (Cristo) crocifisso, affinché il corpo del peccato sia annientato. „ Voi, o fedeli, sapendo queste cose, cioè che noi siamo per il battesimo morti al peccato, inseriti Cristo e che dobbiamo vivere una vita nuova, la vita stessa di Cristo, dovete anche sapere che il nostro uomo vecchio è crocifisso con Cristo. E che è questo uomo vecchio, del quale qui ed altrove si parla dall’Apostolo? Lo dissi altra volta, ma non sarà inutile ripeterlo qui. L’uomo vecchio, l’uomo fuor d’uso, l’uomo esterno, espressione che si trova nel solo S. Paolo, è detto per opposizione all’uomo nuovo, ossia rinnovato per Cristo. Il nuovo fu quello, che uscì pel primo dalle mani di Dio, come nuova dicesi quella casa, appena fabbricata dall’architetto: uomo vecchio è quello che vien dopo, che per ragione di tempo o per altre cause è guastato, come dicesi vecchia la casa, che ha bisogno d’essere ristorata. Adamo innocente era l’uomo nuovo: Adamo peccatore è l’uomo vecchio e uomo vecchio è ogni peccatore, che viene da lui con il peccato d’origine e cogli altri peccati a quello aggiunti. Il vecchio uomo pertanto qui importa ogni uomo, guasto dal peccato originale, schiavo delle passioni e delle malvagie abitudini contratte. Or bene, dice san Paolo, sappiatelo bene: quest’uomo corrotto fu confitto alla croce con Cristo, cioè ucciso con Cristo nel battesimo, e lo deve essere giorno per la grazia di Cristo, in quanto ché ogni giorno noi dobbiamo combatterlo, crocifiggendo, e se fosse possibile, uccidendo tutte le sue perverse voglie. Che cosa deve fare ogni giorno il vero discepolo di Gesù Cristo? combattere e soggiogare le proprie passioni: ecco che cosa vuol dire crocifiggere con Cristo l’uomo vecchio; come Cristo confisse il suo corpo alla croce, così noi dobbiamo mettere in croce le nostre passioni : è tutta qui la sapienza di Cristo, l’insegnamento del Vangelo. E se ciò faremo, quale ne sarà la conseguenza? “Il corpo del peccato sarà annientato, „ Ut evacuetur corpus peccati. Questo corpo del peccato, di cui parla S. Paolo, può significare il cumulo dei peccati, onde ciascuno è aggravato, o meglio il corpo stesso in quanto che in esso si annida la concupiscenza, radice di tutti i peccati, e in questo senso è lo strumento ed anche l’incentivo dei peccati stessi. – Forse che s’intende che il corpo debba essere distrutto? No, per fermo, giacché l ‘Apostolo in altro luogo vuole che il corpo serva alla giustizia, a Dio, come prima ha servito all’iniquità: il corpo del peccato si dice dover essere annientato, cioè il corpo, ora strumento di peccato, deve essere sciolto da questo servaggio, diventando strumento della virtù: “Ut evacuetur corpus delinquentiæ per emendationem vitæ, non per interitum substantiæ”, disse sapientemente Tertulliano (De Besurr. Carnis, c. 47, apud A Lapide). Quando avremo crocifisso l’uomo vecchio, e annientato il corpo del peccato, che è la stessa cosa, allora noi non serviremo al peccato: “Et ultra non serviamus peccato”. Il nostro corpo, lo disse il maggiore dei filosofi pagani, è simile ad un destriero: questo ubbidisce a chi lo cavalca, e va dove esso vuole che vada. Se l’anima è rigenerata da Cristo, informata dalla sua grazia, il corpo ubbidisce ad essa e si presta alle opere di vita: se per contrario l ‘anima e in balia delle passioni e serva del peccato, il corpo fa opere di peccato. E qui l’Apostolo in una sentenza piena di energia compendia tutta la dottrina esposta in questi versetti, dicendo: “Chi è morto è sciolto dal peccato. „ Noi, nel battesimo, dando il nostro nome a Cristo e venendo innestati in Lui, non abbiamo più nulla a fare col peccato: in faccia al peccato siamo come i morti rispetto alle cose, che li circondano: per essi sono come se non fossero. E per tenerci all’altra immagine di S. Paolo, noi siamo rami tagliati da un albero per essere innestati nell’albero della vita, che è Gesù Cristo. Questi rami tagliati dall’albero sono morti totalmente all’albero stesso, né più possono produrre frutti innestati in un altro albero possono vivere e fruttificare, ma vivono e fruttificano del nuovo albero. Similmente noi; dopo il battesimo non dobbiamo più vivere di Adamo, cioè dell’uomo peccatore e far le opere sue, ma vivere di Cristo e fare le opere di Cristo. Questa sentenza sì profonda e sì forte dell’Apostolo ci stia fitta nell’animo. – Rigenerati in Cristo, viventi di Lui, non dobbiamo curarci del mondo, né dei suoi piaceri: tra noi e lui non ci debbono essere rapporti: egli è morto a noi e noi a lui. Il ramo che è innestato in un albero e vive di esso ed in esso, cerca e gli forse di separarsi da questo per ritornare ancora all’albero antico, da cui fu reciso? Certamente no, e se lo facesse, per esso varrebbe quanto il disseccare ed il perire. Questa è la dottrina dell’Apostolo ed il succo del Vangelo: noi, che ora apparteniamo a Gesù Cristo per il battesimo, dovremmo essere come morti all’amore sregolato del mondo e delle mondane cose: questo il nostro dovere. È così anche nel fatto? La nostra condotta è conforme alla nostra vocazione? Ohimè! quanto siamo lontani da questo sublime ideale del vero cristiano tratteggiato da S. Paolo. Col pensiero, coll’affetto sempre volti alle cose della terra, queste amiamo, queste cerchiamo, per queste viviamo, in queste collochiamo le nostre gioie, il nostro fine: a Gesù Cristo ed alle cose del cielo, noi, cristiani, raramente pensiamo, se pure qualche volta vi pensiamo. Quasi continuamente intesi ad accarezzare il corpo ed appagarne le voglie malnate, dimentichiamo il dovere che abbiamo di crocifiggerlo, di farlo morire al peccato! Eppure a questo si riduce tutta la vocazione e l’opera del cristiano, e se non lo facciamo, non siamo cristiani che di nome. – “Se dunque siamo morti con Cristo, crediamo, eziandio che vivremo insieme con Cristo. ,, È la conclusione naturale delle cose sopra accennate: se saremo imitatori di Cristo, nel far morire il nostro corpo ai piaceri terreni, avremo comune con Cristo la vita futura. Voi vedete che l’Apostolo con la somma cura, con cui cerca porci sotto gli occhi i sacrifici che dobbiamo fare per la virtù, per l’imitazione di Cristo, ci ricorda anche il premio e la corona riserbata, e come tutto Egli consideri sempre in rapporto a Cristo. – “Sapendo che Cristo, risuscitato dai morti, non muore più; la morte non ha più signoria sopra di Lui .. Quest’altro versetto si lega col primo e vuol dire che vivremo con Cristo. Quanto? Por sempre, perché Cristo è risorto per non ricadere più mai in potere della morte, che ha vinto. E prosegue, svolgendo meglio questo pensiero: Perché quanto all’essere morto per il peccato, Cristo morì una sola volta al peccato, una sola volta per sempre: così noi, morti una volta al peccato; fatta una volta la rinuncia al mondo e alle opere sue, dovremmo essere morti per sempre, e la rinuncia fatta una volta al mondo non dovrebbe più aver bisogno d’essere rinnovata; e come Cristo, risorto una volta, è risorto per sempre e sempre vivrà nella gloria, così noi pure, resuscitati a Dio colla grazia, viventi in Cristo, dovremmo vivere in Lui per sempre e non ricadere più mai in balia della morte, ritornando al peccato. Eccoci all’ultimo versetto della nostra epistola: “Così ancor voi fate conto d’essere morti al peccato, ma di vivere a Dio in Gesù Cristo Signor nostro. „ Dopo avere esposta la dottrina evangelica, sì teorica, come pratica in genere, l’Apostolo si rivolge direttamente e particolarmente ai fedeli, ai quali scrive e dice: “Ora a voi, o carissimi, applicare l’insegnamento, che vi ho dato. Secondo le vostre forze studiatevi d’essere sempre morti al peccato e sempre vivi soltanto a Dio, ad imitazione di Gesù Cristo, o forse meglio, mercé l’aiuto di Gesù Cristo S:gnore nostro. „ – S. Paolo in tutti questi versetti, che abbiamo commentati, con linguaggio poetico ci rappresenta la virtù e il vizio, come due esseri v iventi, che combattono tra loro, e si contendono tra loro la signoria del cuore dell’uomo. Questo sta in mezzo ai due contendenti, libero di darsi all’uno od all’altro; se si getta dal lato del vizio, diventa schiavo delle passioni, che militano nel corpo, vive della vita del corpo e muore per sempre a Dio; se per contrario si mette dalla parte della virtù, della santità, di Cristo, diventa figlio di Dio, muore al mondo e vive per sempre a Cristo. La scelta è inevitabile, e così l’uomo è l’artefice della propria sorte, o eternamente infelice col peccato, o eternamente beata colla virtù in Cristo. O morire a Dio per vivere col peccato; o morire al mondo per vivere con la grazia: non c’è via di mezzo, e tra i due è forza scegliere. A quale dei due, che domandano l’ingresso del nostro cuore, porgeremo noi le chiavi? Al peccato od alla virtù? Al mondo o a Cristo? A chi col piacere presente ci porta la morte eterna, o a chi col dolore passeggero ci offre la vita eterna? Voi non potete stare in forse un solo istante; la vostra scelta è fatta: voi vi schierate sotto la bandiera della virtù, che è la bandiera di Gesù Cristo, perché con Lui solo vi è la vita

Graduale

Ps LXXXIX:13; LXXXIX:1 Convértere, Dómine, aliquántulum, et deprecáre super servos tuos. V. Dómine, refúgium factus es nobis, a generatióne et progénie. Allelúja, allelúja. [Vòlgiti un po’ a noi, o Signore, e plàcati con i tuoi servi. V. Signore, Tu sei il nostro rifugio, di generazione in generazione. Allelúia, allelúia]

Alleluja

Ps XXX:2-3 In te, Dómine, sperávi, non confúndar in ætérnum: in justítia tua líbera me et éripe me: inclína ad me aurem tuam, accélera, ut erípias me. Allelúja. [Te, o Signore, ho sperato, ch’io non sia confuso in eterno: nella tua giustizia líberami e allontanami dal male: porgi a me il tuo orecchio, affrettati a liberarmi Allelúia.]

Evangelium

Sequéntia sancti Evangélii secúndum Marcum. R. Gloria tibi, Domine! Marc VIII:1-9 In illo témpore: Cum turba multa esset cum Jesu, nec haberent, quod manducárent, convocatis discípulis, ait illis: Miséreor super turbam: quia ecce jam tríduo sústinent me, nec habent quod mandúcent: et si dimísero eos jejúnos in domum suam, defícient in via: quidam enim ex eis de longe venérunt. Et respondérunt ei discípuli sui: Unde illos quis póterit hic saturáre pánibus in solitúdine? Et interrogávit eos: Quot panes habétis? Qui dixérunt: Septem. Et præcépit turbæ discúmbere super terram. Et accípiens septem panes, grátias agens fregit, et dabat discípulis suis, ut appónerent, et apposuérunt turbæ. Et habébant piscículos paucos: et ipsos benedíxit, et jussit appóni. Et manducavérunt, et saturáti sunt, et sustulérunt quod superáverat de fragméntis, septem sportas. Erant autem qui manducáverant, quasi quatuor mília: et dimísit eos. [In quel tempo: Radunatasi molta folla attorno a Gesú, e non avendo da mangiare, egli, chiamati i discepoli, disse loro: Ho compassione di costoro, perché già da tre giorni sono con me e non hanno da mangiare; e se li rimanderò alle loro case digiuni, cadranno lungo la via, perché alcuni di essi sono venuti da lontano. E gli risposero i suoi discepoli: Come potremo saziarli di pane in questo deserto? E chiese loro: Quanti pani avete? E risposero: Sette. E comandò alla folla di sedersi a terra. E presi i sette pani, rese grazie e li spezzò e li diede ai suoi discepoli per distribuirli, ed essi li distribuirono alla folla. Ed avevano alcuni pesciolini, e benedisse anche quelli e comandò di distribuirli. E mangiarono, e si saziarono, e con i resti riempirono sette ceste. Ora, quelli che avevano mangiato erano circa quattro mila: e li congedò.]

Omelia II

[Del canonico G. B. Musso – Seconda edizione napoletana, Vol. II -1851-]

– Soccorso ai Poveri.-

Questa turba famelica (così Gesù Cristo ai suoi discepoli, come narra S. Marco nell’odierno Vangelo) desta nel mio cuore sensi di commiserazione e di pietà: “Misereor super turbam”. Sono ormai tre giorni che mi va seguitando in queste diverse solitudini, e non ha con che sfamarsi, ed Io rimando costoro così digiuni alle loro case, verranno meno nel cammino per alcuni disastroso, per altri lontano. Quanti pani avete con voi? Sette, risposero, ed Egli benedicendoli insieme a pochi pesciolini, ordinò che si distribuissero, e rese con quelli ristorata e sazia una moltitudine di quasi quattromila persone e degli avanzi ne furono pieni sette capaci canestri. Anche noi siamo circondati tutto dì da una turba di affamati, di pezzenti, di bisognosi. Oh se nel nostro cuore si svegliasse una commiserazione simile a quella del pietoso nostro Redentore! La nostra mano allora dispenserebbe ad essi il necessario ristoro, e quella povera turba resterebbe provveduta, ristorata, contenta. A destare in voi, uditori umanissimi, questa pietà, ad ottenere quest’intento io venni quassù, e per riuscirvi risponderò alle scuse di quei restii, che d’ogni pretesto si prevalgono per esimersi dal soccorrere i poveri, e farò vedere le ricompense promesse ai limosinieri. Sciolte così le scuse, e proposte le ricompense, spero si muoverà il vostro cuore, si apriranno le vostre mani a soccorso degl’indigenti vostri fratelli. Diamo principio.

 I.- A chi ha poco buona volontà non mancano scuse. Io, dice taluno, mangio il pane del mio sudore, e vivo a stento; e che volete ch’io dispensi ai poveri? Vi compatisco; sentite però quel che al suo figliuolo diceva il buon Tobia: “figlio, fa’ di buon animo limosina ai poveri; se avrai molte sostanze, molto ancora darai con generosità ed abbondanza, se poche, di quel poco non tralasciare di darne un altro poco a chi ha più bisogno di te”: “Sì multum tibi fuerit abundanter tribue, si exiguum ... etiam exiguum libenter impertiri stude” (cap. IV, 2). Altrettanto io dico a voi: la provvidenza dispone che poco sia il vostro avere, ma si danno tanti casi, nei quali con un tozzo di pane, con poche frutta, con pochi erbaggi, potete levare la fame a un miserabile. Fatelo per pietà, e sarà più a Dio gradito quel piccolo atto di carità, che le larghe limosine dei più facoltosi. Quella povera donna, che pose nel Gazofilacio del tempio due quattrini, fu da Gesù Cristo più encomiata, che quei facoltosi che diedero argento ed oro. – Un’altra scusa si ascolta più di frequente in bocca di molti. Non vedete, dicono essi, come le annate corrono sterili, il commercio è languido, la famiglia è numerosa, le spese son molte, i guadagni son pochi? Non si può, per conseguenza dividere quel che c’è necessario. – Prima di rispondere datemi licenza di entrare in questo momento nelle vostre case. In alcune vedo e sento augelletti da canto, ed altri riservati per l’uccellagione; in altre osservo cagnolini da vezzo, o cani da caccia. Il Signor benedice i vostr’innocenti piaceri; ma in grazia per l’annuo mantenimento di questi animali non vi à difficoltà né di campagne sterili, né di scarsi guadagni; questi motivi però solo si fan valere per non sborsare un danaruzzo, per non dare un tozzo di pane, una veste rimessa, uno straccio a sovvenimento dell’altrui miseria? Udite: si narra nel libro primo dei Re come ai tempi d’Elia, in quella straordinaria siccità, che durò più di tre anni, Acabbo re d’Israele in vista della estrema calamità e universale desolazione, chiama Abdia suo economo, e che facciam noi? gli dice. Non vedi tu i nostri cavalli e i nostri muli, che per mancanza di pascolo non si reggono più in piedi? Corriamo dunque su per le valli, se tu andrai a destra, io andrò a sinistra, se per avventura ci riuscisse trovar fieno o erba qualunque, perché non periscano questi nostri giumenti: “Si forte possumus invenire herbam, et salvare equos et mulos” (V, 5) . Come, o re malvagio, tante famiglie, tante vedove, tanti orfani, tutti in fine i tuoi sudditi ridotti all’estremo per la fame non ti commuovono? Solo la tua sollecitudine è ristretta ai cavalli e ai muli? Io non vorrei che lo scritturale confronto facesse arrossire alcun di noi; ma non è egli vero che per animali di puro sollazzo e per cento altri minuti piaceri tutta si ha la premura, e per i poveri tutta la dimenticanza? Più e ancor di peggio: per l’osteria, pel giuoco, per quell’amicizia ci vuol danaro, e si trova; per il teatro, pel ballo, per la moda, per il lusso, per i vizi in fine e per il peccato tutto si trova, e per un poverello non si trova nel cuore di taluno una stilla dì pietà, che lo muova a dargli un soccorso. “Heu grandis crudelitas!” direbbe qui S. Agostino. – Ma la limosina, direte voi, per tanti e tanti è un fomento di poltroneria: sono di buona età, son robusti, e perché non si danno al travaglio? Il sovvenirli è un confermarli nella vita oziosa col pregiudizio di altri poveri, vecchi, infermi, impotenti. – Ottima è la vostra riflessione. Il re Salmista chiama beato colui che sa discernere tra povero e povero. “Beatus vir, qui intelllgit super egenum et pauperem” (Ps. XL, 1). Certamente che i ciechi, gli storpi, i vecchi, gl’infermi, incapaci a guadagnarsi il pane, devono preferirsi, ma si danno certi tempi, nei quali o per pioggia, o per neve, o per altro accidente non si trova travaglio; e perciò in questi casi non ha più luogo il vostro riflesso; e la limosina sarà sempre un atto meritorio, quand’anche venisse data a chi attualmente non ne abbisogna. – La limosina, dicono altri men colti, è un atto di supererogazione, che si può omettere e supplire con tante altre opere buone. – Errore, miei cari. La limosina a’ poveri non è atto di supererogazione, è un atto di rigorosa giustizia. Avrete più volte sentito da persone poco istruite e poco cristiane: “Dio non ha fatto le cose giuste: a chi tanto, a chi nulla, tanti ricchi fino al sommo, e tanti poveri fino all’estremo”. Ohimè! Questo parlare racchiude un’eresia, ed una bestemmia. Iddio “bene omnia fecit”, Iddio è giusto, ed è un tratto della sua sapienza, che nell’umana società vi siano e poveri e facoltosi, perché i poveri han bisogno de’ ricchi, ed a vicenda i ricchi han bisogno dei poveri. Ma se fosse vero, che non vi fosse una stretta obbligazione di soccorrere i nostri bisognosi fratelli, quella proposizione ereticale sarebbe vera. Ma no; che Dio, Padre universale di tutti, ha fatto, e fa espresso comandamento ai benestanti, di far parte delle loro sostanze ai bisognosi, i quali hanno un positivo diritto alle comuni facoltà: comando, che ha i suoi gradi di obbligazione minore o maggiore a misura de’ gradi dell’altrui miseria; così che se i poveri si trovano in una necessità comune ed ordinaria, come sono i pezzenti, che van mendicando, siamo obbligati a sovvenirli de’ nostri beni superflui: se sono in grave necessità siamo tenuti a soccorrerli con qualche parte del necessario al nostro stato: se finalmente la loro necessità è estrema, dobbiamo aiutarli con quel che avanza alla necessità di nostra sussistenza. Come dunque si può asserire senza errore e senza empietà, che la limosina è un’opera non comandata e di mera elezione? Se fosse tale, come potrebbe Cristo giudice dire ai reprobi nel giorno estremo: andate maledetti al fuoco eterno, Io nella persona de’ poveri aveva fame e non mi avete pasciuto, pativa sete e non mi avete ristorato, ero ignudo e non mi avete coperto.

II.- Sciolte le scuse, vediamo le ricompense. Son queste d’ogni genere, temporali, spirituali ed eterne. Temporali primamente. Bisogna restar persuasi che ciò che si dà a’ poverelli non è perduto, ma è messo a traffico e a certo guadagno. L’arte più facile e più sicura per moltiplicare i propri averi è la limosina. “Ars quæstosissima” la chiamano i santi Padri. Voi, diceva un sant’uomo, date un pezzo di pane dalla porta e Iddio ve lo restituisce dalle finestre. Le case per ordinario hanno una porta sola, le finestre sogliono essere più numerose. Oltre a ciò Dio ve lo manda dalle finestre, cioè per vie straordinarie, per vie da voi mai pensate: vi libera a cagion d’esempio da una lite che sarebbe la vostra rovina, salva dal naufragio le vostre merci, dal gelo i vostri aranci, dalla grandine le vostre vigne, dai ladri le vostre sostanze, dalle malattie i vostri corpi, da mille altri infortuni la vostra famiglia. Date, dice S. Pier Crisologo, date al povero, perché date a voi stessi, “da pauperi, ut des tibi” (Serm. 8, de ieiun. et eleemos.). Se mai per le limosine agli indigenti aveste timore d’impoverire, vi assicura lo Spirito Santo, che questo non avverrà giammai : “Qui dat pauperi, non indigebit” (Prov. XXIII, 27). – La limosina nelle divine Scritture si chiama semente. Quando seminate il frumento e lo seppellite sotterra, lo gettaste forse a perdere? Non già, voi sapete che a suo tempo lo vedrete spuntare in erba, poscia biondeggiare in spiga, per mieterlo in fine moltiplicato in manipoli. Dice altrettanto l’Apostolo: limosinieri, Iddio moltiplicherà la vostra buona semente e accrescerà come biade feconde l’opere della vostra pietà, che insieme sono opere di grazia. “Multiplicabit semen vestrum, et augebit incrementa frugum iustitiæ vestræ” (I Cor. IX, 12). Ecco fra tante altre le temporali ricompense promesse ai benefattori dei poveri.- I beni spirituali poi prodotti dalla carità versi i bisognosi sono senza numero. La limosina, dice lo Spirito Santo nel libro di Tobia, libera dalla morte : “Eleemosyna . . . a morte liberat” (IV, 11), non dalla morte corporale, ma dalla morte dell’anima e dalla morte eterna. Ecco come: voi siete in grazia di Dio? Fate limosina, e questa vi libererà dal cadere in peccato mortale, ch’è la morte dell’anima. Siete per vostra sventura in peccato mortale? Fate limosina e questa muoverà il cuore di Dio a darvi le grazie necessarie per uscire da questo stato di morte, e liberarvi dal pericolo di eterna morte. “Eleemosyna ab omni peccato, et a morte liberat, et non patietur anìmam ire in tenebras”. – Nascono talora in un cuore cristiano temente Iddio taluni dubbi e contristanti incertezze: che sarà di me in punto di morte? Farò io la preziosa morte de’ giusti, o la pessima dei peccatori? Che sarà dell’anima mia al divin tribunale? Avrò sentenza di morte o consolazione di vita? Che parte mi toccherà nella gran valle, la destra o la sinistra? A queste funeste apprensioni, ecco il rimedio, la limosina, la carità ai poverelli: osserviamolo nelle divine Scritture. – Per il punto di morte, dice il re Profeta: “Beato chi sa intendere che gran tesoro è il dar soccorso al povero, all’indigente, nell’ultimo de’ giorni suoi, nelle sue agonie avrà Iddio, Iddio stesso assistente, che lo libererà dalle angosce della morte, dalle angustie della coscienza, dalle tentazioni dell’infernale nemico”: “Beatus qui ìntelligit super egenum et pauperem, in die mala liberabit eum Dominus (Ps. XL, 1). Anzi come un’affettuosissima madre, ch’è tutta in movimento per porgere aiuto all’infermo moribondo figliuolo, così si adoprerà Iddio pietoso l’agonizzante limosiniere. “Dominus opem ferat illi super lectum doloris eius, universum stratum eìus versasti in infìrmìtate eius” ( Ps. XL, 3). – Al divin tribunale poi, oh con qual fiducia potrà presentarsi un amico de’poveri: “Dispersit, dice il Salmista , dedit pauperibus” (Ps. CXI, 9), ha egli distribuite le sue sostanze a favor dei miserabili, potrà dunque andar preparando le sue ragioni a produrre in quel giudizio: “Disponet sermones suos in iudicio” (Ps. CXI, 5). E quali? Signore usate verso di me quella misericordia, che ho usato verso de’ vostri poveri, misuratemi colla vostra misura che ho adoperata verso de’ meschini miei fratelli: “Dicturus causam, conchiude il Crisologo, in judicio Dei, patronam libi misericordiam. Per quam liberari possis, assume” (Ser. ut sup.). – Nella gran valle in fine non avrà a temere l’amico de’ poveri. Chi sarà alla sinistra co’ reprobi? I duri di cuore, i capretti che non hanno pensato che a pascere se stessi. Chi sarà cogli eletti alla destra? L’ anime caritatevoli, che somiglianti a docili pecorelle han dato volentieri la lana a sovvenimento de’ bisognosi. A queste rivolto Gesù Cristo, “venite, dirà, benedette dal Padre mio, venite a ricevere la ricompensa del bene che fatto mi avete. Io nella persona de’ poverelli pativa fame, e voi mi avete pasciuto; soffriva nudità e mi avete coperto”: “esurivi, et dedisti mihi manducare, nudus eram, et operuisti me” (Matth. XXIII, 33-36 ), venite a possedere l’a voi preparato eterno regno, “possidete paratum vobis regnum”, che Iddio ci conceda.

Credo …

Offertorium Orémus Ps XVI:5; XVI:6-7 Pérfice gressus meos in sémitis tuis, ut non moveántur vestígia mea: inclína aurem tuam, et exáudi verba mea: mirífica misericórdias tuas, qui salvos facis sperántes in te, Dómine. [Rendi fermi i miei passi sui tuoi sentieri, affinché i miei piedi non vacillino: porgi l’orecchio ed esaudisci la mia preghiera: fa risplendere le tue misericordie, o Signore, Tu che salvi quelli che sperano in Te.]

Secreta Propitiáre, Dómine, supplicatiónibus nostris, et has pópuli tui oblatiónes benígnus assúme: et, ut nullíus sit írritum votum, nullíus vácua postulátio, præsta; ut, quod fidéliter pétimus, efficáciter consequámur. [Propitiáre, Dómine, supplicatiónibus nostris, et has pópuli tui oblatiónes benígnus assúme: et, ut nullíus sit írritum votum, nullíus vácua postulátio, præsta; ut, quod fidéliter pétimus, efficáciter consequámur.]

Communio

Ps XXVI:6 Circuíbo et immolábo in tabernáculo ejus hóstiam jubilatiónis: cantábo et psalmum dicam Dómino. [Circonderò, e immolerò sul suo tabernacolo un sacrificio di giubilo: canterò e inneggerò al Signore.]

Postcommunio

Orémus. Repléti sumus, Dómine, munéribus tuis: tríbue, quæsumus; ut eórum et mundémur efféctu et muniámur auxílio. [Colmàti, o Signore, dei tuoi doni, concédici, Te ne preghiamo, che siamo mondati per opera loro e siamo difesi per il loro aiuto.]

 

 

IL VERME RODITORE delle SOCIETA’ MODERNE (9)

CAPITOLO XIX

INFLUSSO DEL PAGANESIMO CLASSICO SULLA RELIGIONE

Allorquando il nemico vuol impadronirsi d’una fortezza, ei comincia dal prendere una posizione favorevole e dal distruggere le opere avanzate che proteggono il cuore della fortezza. Tale è la tattica seguita dal paganesimo, bramoso di pigliare la sua rivincita sul Cristianesimo. Stabilito sul terreno il più favorevole, l’educazione, noi lo vedemmo battere in breccia la letteratura, le arti, la filosofia, le scienze; poscia, sotto colore di rigenerazione, animarle del suo spirito, arruolarle sotto le sue bandiere, e con loro procedere contro il Cristianesimo stesso, il quale è il cuore della piazza ed il vero punto di mira di tutti i suoi attacchi. Dimostrare a questo riguardo i progressi del nemico e provare ai più ciechi che il paganesimo classico tende all’intera rovina del Cristianesimo, tale è il grave argomento che ci occuperà. Ora il paganesimo classico rovina il Cristianesimo perché lo condanna all’oblio, al disprezzo, all’alterazione.

All’oblio. Pigliamo le cose quali esse sono. Uscito da una famiglia in cui, generalmente parlando, non riceve oggidì che un’istruzione cristiana molto superficiale, il fanciullo giunge in uno stabilimento di pubblica istruzione: quivi rimane sette od otto anni. Se non il primo, almeno il secondo libro latino o greco che gli si pone in mano, è un libro pagano; il terzo è un libro pagano; il quarto è un libro pagano; sempre libri pagani, sino alla fine dei suoi studi. La sua occupazione d’ogni giorno, d’ogni ora è di leggerli, di tradurli, d’impararli a memoria, e d’imparare in egual tempo tutti i fatti del paganesimo, dalle azioni degli Dei sino a quelle dei guerrieri, degli oratori, e dei filosofi di Roma e di Atene. – Nelle scuole non sente risuonare che i nomi dei Romani e dei Cartaginesi. Per identificarlo meglio coi suoi modelli, si divide la scuola in due campi, ed egli è Romano o Cartaginese, Scipione od Annibale. Le spiegazioni del professore non gli somministrano mai o quasi mai nozioni cristiane. Egli vive frammezzo al paganesimo, il suo orizzonte non si estende, se non per circostanza, al di là dei limiti della Grecia e dell’Italia. Il Monte Sacro, il Palatino, Sparta, Tebe, Maratona, le Termopili, la tribuna delle arringhe, il Campidoglio, l’Aeropago, il Foro, sono i soli luoghi abitati dal suo pensiero, dalla sua immaginazione, dalla sua memoria. Ma nei collegi, come nei piccoli seminari, nelle case tenute dai secolari, come nelle case tenute dai religiosi e dagli ecclesiastici, non vi sono cappellani e maestri che insegnino la religione? Lo so, la religione figura come ogni altra scienza nei programmi di studio. So che ogni collegio ha un cappellano incaricato di dire la Messa e di fare il catechismo; so che questo cappellano dice Messa due volte per settimana, e che altrettante volte, forse più spesso, fa un catechismo più o meno ragionato, più o men filosofico. Con questo corredo di cui si mena gran vanto, la religione è essa insegnata? È essa salvata dalla indifferenza e dalla dimenticanza? Niente affatto. Prima di dirne il motivo, mi affretto di dire che gli uomini non ne hanno colpa, ma bensì il sistema. Saturato di deismo, per nulla dire di più, l’attuale sistema d’insegnamento non ravvisa nella religione che una scienza a parte, circoscritta in una sfera determinata, e non già, come dovrebbe essere, e come non sarà mai con classici pagani, una scienza universale, la scienza delle scienze che, trovandosi ogni giorno, ogni ora in tutti i libri che il fanciullo studia, ne deve uscire naturalmente, come l’aroma si esala dal fiore. Infatti, non è solo da un libro, ma da tutti i libri, non è solo dalla bocca d’un maestro, ma da tutti i maestri che la religione deve uscire, ora per raccontare uno dei fatti della sua storia, una virtù dei suoi grandi uomini, una massima dell’Evangelio; ora per formare il cuore del fanciullo, correggere un errore della sua giovine intelligenza, sviluppare il germe nascente di una nobile disposizione; ora per rivelargli il motivo nascosto d’una rivoluzione o d’un avvenimento importante; e sempre per mostrargli ch’essa è la sorgente unica del bello, del bene, del vero, l’anima, l’occhio, la regola, il profumo di tutte le scienze ch’essa vivifica, che essa nobilita, ch’essa coordina, ch’essa spiega e guida allo scopo finale d’ogni cosa: la gloria di Dio e la salute dell’uomo. – Ecco ciò che deve essere, ed ecco ciò che non è. Si può egli allora sconoscere il vizio radicale che condanna, e che condannerà sempre la religione alla dimenticanza nel nostro sistema pagano di educazione? II catechismo del cappellano non vi cangerà nulla. Le sue istruzioni saranno lezioni che si ascolteranno come altre lezioni, forse con un po’ meno di attenzione e con un poco più di ripugnanza. Agli occhi del fanciullo la religione continuerà ad essere una scienza astratta, isolata dagli altri suoi studi, e che si è liberi d’imparare o di dimenticare, senz’altra conseguenza che il merito d’esser più istrutto, o il demerito di esserlo meno. Ciò vuol dire che ei conoscerà la religione quasi come l’inglese od il tedesco, di cui ogni settimana gli si danno una o due lezioni, senza essere, dopo cinque anni di studio, nel caso di leggere un libro, ed ancor meno di sostenere una conversazione in inglese od in tedesco. La prova palpabile di quanto asserisco si è che le generazioni universitarie e le classi della società ch’esse alimentano, conoscono molto meno la religione, e ne ragionano molto peggio delle donne e delle classi popolari. In ogni caso, l’insegnamento religioso di alcune ore per settimana, in concorrenza con un insegnamento pagano di ogni giorno e d’ogni ora del giorno, non sarà mai capace di formare generazioni solidamente religiose. Che sono mai alcune gocce di vino puro, grida il padre Possevino, per addolcire una botte di aceto? (Quanto vi pare che quadri che in una botte sincera s’infonda un bicchier di vino dolce, puro, defecato, cioè un poco di catechismo la settimana, e ad un tempo vi si versino dentro i barili interi d’aceto, di liquore, di muffa ed ogni altra sorte di vino putrido? Cioè ogni giorno i Terenzi e l’altre empietà! Tale è oggi il costume del mondo. Ragion., p. 2 ]. Oltre l’esperienza dell’Europa da tre secoli, me ne appello, sul valore di un tale insegnamento, al giudizio di un uomo, la cui opinione non è sospetta. « Non dobbiamo ingannarci, dice il signor Kératry; non è certo la presenza nelle scuole, a giorno fisso, di un ecclesiastico, per quanto rispettabile sia supposto, quella che inculcherà ai giovinetti uno spirito religioso di qualche durata. Questo non si acquista se non colla continuità di un insegnamento, in cui la legge divina si trovi come infusa. Gli studi, fossero anche meramente letterari, se ne devono risentire. Che cosa sarebbe se il dogma diventasse mai un oggetto di dubbio? Bisognano alla gioventù verità non contestate in fatto di religione; per essa ogni fede posta in controversia è ben tosto una fede morta ». – Queste osservazioni sull’insegnamento della religione negli stabilimenti secolari si applicano, lo dico con dispiacere, con alcune restrizioni tuttavia, alle case tenute da religiosi o da ecclesiastici, e nelle quali il paganesimo classico regna. Qui ancora la religione non esce naturalmente, direttamente, come il profumo dal fiore, né dai libri, né dai doveri, né dagli studi ordinari del giovinetto, né dalle spiegazioni del professore. Farla talvolta scaturire da ciò indirettamente, penosamente, e per così dire pervia di contrasto e di antitesi, ecco quanto può fare un maestro pio ed abile. Quindi ne viene questo fatale rovescio, che il paganesimo compone il festino di cui il Cristianesimo non è se non il dessert. Quindi ne viene ancora una conoscenza più o meno avanzata del paganesimo, ed un’ignoranza molto più grande che non si crede, del Cristianesimo. – Rendendo piena giustizia allo zelo ed alla virtù dei nostri maestri, noi non possiamo qui trattenerci dal protestare con energia contro il sistema d’insegnamento pagano che formò la nostra infanzia, e dal deplorare l’ignoranza in tatto di religione, che ne fu conseguenza obbligata. Uscendo di collegio noi sapevamo sulle dita i nomi, la storia, gli attributi, le avventure degli dei e delle Dee della favola; noi conoscevamo le Danaidi e le Parche, Isione e la sua ruota, Tantalo ed il suo supplizio, le oche del Campidoglio e le galline di Claudio. Senza il più piccolo sbaglio noi avremmo potuto fare la biografia di Minosse, di Baco e di Radamanto, di Codro e di Tarquinio, d’Epaminonda, di Scipione e di Annibale, di Cicerone e di Demostene, senza contare quella d’Alessandro, di Cesare, di Ovidio, di Sallustio, di Virgilio e di Omero. Noi conoscevamo Licurgo, Socrate, Platone, i Flamini, i Giuochi del Circo e dell’Anfiteatro, i sacrifici, le feste, i comizii del popolo-re. In una parola, noi possedevamo tutto il sapere desiderevole in onesti giovani di Roma e di Atene, rampolli dei Bruti o dei Gracchi, candidati delle glorie del Foro, adoratori o sacerdoti futuri di Giove e di Saturno. Ma se per disgrazia fossimo stati trasportati sul terreno del Cristianesimo, e se fossimo stati pregati di dire il nome dei dodici Apostoli, il numero delle loro Epistole; se fossimo stati interrogati sui nostri Santi e sui nostri Martiri, sui nostri eroi e sulle nostre glorie, sui Crisostomi, sugli Agostini, sugli Atanasi, sugli Ambrogi, sui re dell’eloquenza e della filosofia cristiana; sui Padri del mondo moderno, sui nostri maestri nella scienza della vita; se a noi, loro figliuoli, figliuoli della Chiesa e dei Martiri, fosse stato chiesto quale fu il tempo di loro nascita, quali combattimenti essi ebbero a sostenere, quali opere composero, quali azioni meritarono loro l’ammirazione dei secoli ed il culto dell’ universo, ci si sarebbe parlato un linguaggio sconosciuto. Il rossore della nostra fronte e l’umiliante immobilità delle nostre labbra, eccitando la pietà dell’uomo sensato, avrebbero posto a nudo il controsenso mostruoso dei classici nostri studi. Tale si è la nostra storia e quella forse di molti altri. – Si dirà forse che questa ignoranza deplorabile in fatto di religione sarà dissipata più tardi? Davvero! Quanti giovani, quanti uomini di matura età, nelle differenti cognizioni della vita, conoscete voi, i quali dopo la loro uscita di collegio abbiano seriamente consacrato ventiquattr’ore allo studio della religione? Quanti, all’ opposto, non se ne potrebbero citare, i quali, lungi dallo sviluppare le religiose loro cognizioni, perdettero (e da gran tempo) le più elementari nozioni del catechismo! Il paganesimo classico condanna dunque fatalmente l’immensa maggioranza delle persone istruite ad una eterna ignoranza in fatto di religione.

CAPITOLO XX

SEGUITO DEL PRECEDENTE

Al disprezzo! Condannare la religione alla dimenticanza, lasciandola ignorare alla gioventù, tale si è il primo effetto del paganesimo nell’educazione. Esso ne produce un altro molto più grave: abbandona la religione al disprezzo. Non ci dimentichiamo di quanto abbiamo detto, che la religione è la scienza universale, l’alfa e l’omega d’ogni cosa. Ad essa si applicano letteralmente le parole di san Tommaso parlando della teologia. « La scienza della religione, egli dice, comanda a tutte le altre scienze, perché essa è la più alta di tutte: essa le fa tutte lavorare sotto i suoi ordini, le tiene tutte al suo servizio, perché è incaricata di adoprarle; talché il fine, lo scopo, 1’oggetto di ogni scienza, essendo contenuti nel fine della religione e coordinati per relazione a questo fine, la scienza della religione dee dominare tutte le altre scienze e mettere in opera tutti i loro insegnamenti. Ne segue che la religione non può avere nel pensiero, nello studio, nella stima, nell’ammirazione d’alcun uomo né un superiore, né un rivale; che le sue ispirazioni, i suoi insegnamenti, i suoi fatti, i suoi combattimenti, i suoi trionfi, i suoi uomini, le sue glorie, i suoi capi d’opera sono al disopra d’ogni paragone. Solo una parte sovrana a lei si confà: qualunque altra parte la degrada. Essa è regina o è nulla : aut nihil, aut Cæsar. Ora, porre il paganesimo ed il Cristianesimo letterario, artistico, storico, scientifico e filosofico sulla stessa linea, egli è un dividere fra loro il regno delle idee e collocarli nello stesso grado nell’estimazione della gioventù. Porre il paganesimo letterario, artistico, storico, scientifico, filosofico al disopra del Cristianesimo, si è un dargli lo scettro delle idee e collocarlo nel posto d’onore, nella estimazione della gioventù: si è un degradare il Cristianesimo, si è un annientarlo, per quanto si può, per le generazioni nascenti, le cui prime impressioni costituiscono 1’essere morale sino alla morte. Posti tali principi, entrate con me in qualsiasi scuola di qualsiasi collegio d’Europa, dal secolo XVI sino a questo giorno. Qualunque sia la sua veste, il professore, dall’alto della sua cattedra, così parla ai suoi giovani uditori: « Miei amici, vi furono nell’antichità due contrade privilegiate, nelle quali il genio dell’ eloquenza, della poesia, della storia, della filosofia, dell’ architettura, della scultura, di tutte le arti e di tutte le scienze pose lungo tempo ed esclusivamente il suo soggiorno. In quei paesi nacquero i più grandi uomini che il mondo abbia mai conosciuto. Roma ed Atene furono la patria degli eroi i più celebri; la Grecia e l’Italia furono il doppio teatro dei fatti i più memorabili e i più degni del vostro studio: qui, uomini e cose, tutto è meraviglia. « Per citarvi solo alcuni nomi: Omero, Sofocle, Pindaro, Senofonte, Tucidide, Esopo, Demostene, Socrate, Platone, Aristotele, Epaminonda, Alessandro, Virgilio, Orazio, Tito Livio, Ovidio, Svetonio, Sallustio, Cicerone, Seneca, Plinio, Scipione, Fabio, Mario, Cesare, Pompeo, Augusto e una folla di altri sono i re del genio, della scienza, del valore e della gloria. Al loro confronto impallidiscono tutti gli altri uomini che li precedettero o che li seguirono. Ecco qui le loro opere e le loro azioni: voi avrete la fortuna di studiare le une; voi vi farete un dovere d’imitare le altre. Imparate a pensare, a sentire, a parlar come quelli, se volete pensar bene, sentir bene e parlar bene. Debbo solo avvisarvi che quei grandi uomini non erano cristiani: ma ciò nulla toglie ai loro capi d’ opera, né alle loro leggiadre azioni ». – Ed i giovinetti sbalorditi credono alla parola del maestro, ammirano perché 1’ha detto il maestro, e, sempre stando alla parola del maestro, cominciano tosto a sdegnare quanto nella letteratura, nella poesia, nella filosofia, nella storia, nelle scienze e nelle arti non ha il conio pagano. Tale è, meno un gran numero di lodi iperboliche, il modo con cui il paganesimo nella educazione viene applicato alla mente del fanciullo, cotanto impressionabile. E siffatta applicazione entusiasta si ripete ciascun giorno, per sette anni! E questi sette anni sono quelli in cui si forma l’uomo per la vita! Quale può mai essere, rispetto alla religione, i l risultato di un simile sistema? Sentiamo la risposta di un dotto vescovo: « Noi non giudichiamo e soprattutto noi non condanniamo alcuno; noi gemiamo sui traviamenti dell’umano spirito, e facilmente crediamo che se fossimo vissuti un secolo prima, avremmo sgraziatamente partecipato per sempre noi pure ai traviamenti che ora deploriamo. Ma noi vogliamo, o signori, farvi notare quanto avvenne allora, pur troppo! E quanto avviene ancora quasi dappertutto. « Durante quasi trecento anni fu detto a tutta la gioventù studiosa, cioè a quella che governare doveva la società: « Formate il vostro gusto collo studio dei buoni modelli; ora, i buoni modelli greci e latini sono esclusivamente gli autori pagani di Roma e d’Atene. Quanto ai Padri, ai Dottori ed a tutti gli scrittori della Chiesa, il loro stile è difettoso ed il loro gusto è alterato: uopo è dunque guardarsi ben bene dal formarsi alla loro scuola ». Ecco ciò che fu detto e specialmente ciò che si fece praticare a tutti gli studiosi in quella età, in cui è rigorosamente vero che le abitudini diventano una seconda natura. « Quindi, o signori, che ne avvenne? Quello che di necessità doveva avvenire: dapprima tutta quella gioventù si appassionò per lo studio delle produzioni del paganesimo, e dall’ammirazione delle parole giunse a quella dei pensieri e delle azioni. « Infatti, non fu forse allora che si cominciò ad inchinarsi innanzi ai sette saggi della Grecia, quasi altrettanto quanto innanzi ai quattro Evangelisti? Ad andare in estasi pei pensieri di un Marco Aurelio e per gli scritti filosofici di un Seneca, in modo da lasciar credere che nulla vi fosse di più profondo nei libri sacri? finalmente a vantare le virtù di Sparta e di Roma a segno da far quasi impallidire le virtù cristiane? – « Credete voi, o signori, che somiglianti insegnamenti, diventati unanimi e continui, non dovessero alla fin fine indebolire il sentimento della fede e far crescere fuori modo l’orgoglio dell’umana ragione? E sarebbe forse una temerità il dire che facendo così spiccare da per tutto le opere dell’uomo a gran detrimento della rivelazione, che è l’opera di Dio per eccellenza, si preparavano le vie al regno di questo razionalismo sfrontato che giunse pubblicamente a non adorar che se stesso (Lettera di monsignor vescovo di Langres al superiore ed ai direttori del suo piccolo seminario.)? » – Se tale risposta vi pare insufficiente, me ne appello a voi stessi. Io suppongo che nei giorni della Chiesa primitiva, i pagani, non ascoltando se non un preteso zelo per la letteratura, per la scienza e per le arti, avessero preso i nostri libri cristiani per base dell’istruzione dei loro figliuoli; che avessero pagato migliaia d’abili maestri per eccitare ogni giorno durante sette anni il loro entusiasmo pei nostri apostoli, pei nostri martiri, pei nostri oratori, pei nostri storici, pei nostri artisti, pei nostri filosofi, dicendo loro su tutti i tuoni ch’essi sono i re dell’eloquenza e del genio; che nulla fra i pagani può esser loro paragonato; che le nostre istituzioni e le nostre leggi sono il capo d’opera della sapienza e dell’equità. L’uomo fornito del più volgare buonsenso non avrebbe forse detto, e con ragione, che i pagani avevano perduto il cervello? Che essi distruggevano con le proprie loro mani i loro templi ed i loro altari? che lo spirito cristiano penetrerebbe di necessità nella letteratura, nella filosofia, nelle scienze, nelle arti, nei costumi, nelle credenze, nella società tutta quanta? che, ammiratori esclusivi degli uomini e delle cose del Cristianesimo, i loro figliuoli disprezzerebbero senza fallo gli uomini e le cose pagane? che abbraccerebbero tosto o tardi la religione del genio, e volgerebbero per sempre le spalle a quella che non aveva prodotto se non mediocri uomini e mediocri cose? Se più tardi i pagani avessero gemuto; se meravigliati si fossero del dispregio dei loro figliuoli pel culto paterno e della loro propensione al Cristianesimo, quale nome avreste voi dato ai loro lagni ed al loro stupore? Ebbene, questa è la nostra storia. Da tre secoli il paganesimo è nell’educazione, e voi vi meravigliate che si trovi nelle idee e nei costumi! Voi gemete oggidì più amaramente che mai nel veder la religione abbandonata, spregiata, e nel vedere con essa sparire l’ultimo argine opposto al torrente che minaccia di lutto trascinar via, l’ultima colonna della libertà umana, l’ultimo limite dei vostri campi, l’ultimo chiavistello dei vostri cofani. – Se i vostri lamenti sono sinceri, aiutateci a mutare sistema: chi respinge l’effetto deve far sparire la cagione. Il disprezzo della religione, conseguenza inevitabile del paganesimo classico, non aspetta gli anni della età matura per prodursi. Lo si scorge manifestarsi nel collegio stesso colla totale mancanza di pietà, colla profonda nausea per i dov’eri del Cristianesimo e della istruzione religiosa, colla incredulità e colla corruzione: doppia lebbra che divora insino alle midolle le generazioni imbevute del latte pagano. Si manifesta specialmente nelle disposizioni dei maestri e dei discepoli verso l’uomo, nel quale la religione si personifica. Ai loro occhi il cappellano, quali si siano le sue virtù ed il suo ingegno, non è più l’uomo necessario, l’uomo le cui lezioni devono eccitare il massimo ardore, la cui parola deve ottenere il massimo rispetto ed il massimo amore. Egli è un non so che, senza nome nel linguaggio dell’ammirazione, ancor meno nel linguaggio del cuore, poiché l’idea stessa, della quale è il rappresentante, non tiene se non un posto assai secondario nella stima e nessun posto nell’affetto di coloro che lo circondano. Per gli uni il cappellano è un mercenario che istruisce a tanto per giorno; per gli altri, è un professore di religione, ufficiale di morale che ne dà lezioni ad ore fisse, e che si prova di generare negli animi, non già la fede delle verità sante, ma non so quale convinzione secca e sterile, quasi come quella che genera un professore di algebra dimostrando problemi.

All’alterazione. Il paganesimo classico non solo ha per effetto di condannare la religione all’oblio ed al dispregio; ma il suo influsso è più fatale ancora, giacché l’altera profondamente. Che cosa è il Cristianesimo? È la religione dello spirito, la religione della eternità. Timore, disprezzo, distacco dalle ricchezze, dagli onori, dai piaceri della terra; abnegazione di se stesso, mortificazione della carne, con lo scopo di rendere all’anima il legittimo suo dominio: ecco ciò che il Cristianesimo predica dalla culla sino al Calvario, dalle fasce sino alla tomba, dalla prima pagina all’ultima dell’Evangelio. Beati gli umili, beati i poveri, beati quelli che soffrono; guai ai ricchi, guai ai potenti, guai ai felici di questo mondo! Tali sono le sue massime. Di nuovo, che cos’è il Cristianesimo? È una religione sovrannaturale che rigetta come insufficienti tutte le ragioni umane, tutte le intenzioni puramente naturali, e per conseguente tutte le virtù che non sono inspirate da vedute attinte all’ordine della grazia. « Non fate le vostre buone opere, le vostre belle azioni innanzi agli uomini per essere notato da loro; altrimenti voi non riceverete alcuna ricompensa dal vostro Padre che è nel Cielo. Rimanete congiunti con la carità al divin vostro Mediatore, come il tralcio della vite è congiunto col ceppo che la nutrisce e la sostiene; altrimenti i vostri meriti saranno nulli; voi sarete alberi sterili, servi inutili che sarete gettati con i piedi e con le mani legate nelle tenebre esteriori. » La purezza d’intenzione e la grazia santificante, ecco pel Cristianesimo le due condizioni indispensabili delle vere virtù: senza di esse, il Cristianesimo non ne conosce, non ne remunera alcuno. – Che cos’è finalmente il Cristianesimo? La religione della carità; per conseguenza è la religione della libertà e della vera eguaglianza fra tutti gli uomini; è la religione della abnegazione affettuosa del ricco al povero e del povero al ricco; è il rispetto religioso dell’uomo per l’uomo, e specialmente per l’essere debole, per il fanciullo, per la donna, per il povero, per l’infermo, per il prigioniero, per il servo. «Voi amerete il vostro prossimo come voi stesso. Si riconoscerà che voi siete miei discepoli se vi amate gli uni gli altri, non solo di bocca ed a parole,”ma in verità e con opere reali. » Tale è lo spirito del Cristianesimo.

Ed ora, che cos’è il paganesimo? È l’antipode del Cristianesimo, è la religione dei sensi, la religione del tempo, è l’adorazione della materia, l’amore delle ricchezze, 1’amore degli onori, l’amore dei piaceri. Beati i ricchi, beati i potenti, beati coloro che nuotano in seno ai godimenti: ecco ciò che il paganesimo canta, ciò ch’egli ama, ciò ch’ei preconizza coll’esempio dei suoi uomini e dei suoi dei, con lla voce dei suoi storici, dei suoi poeti, dei suoi oratori, dei suoi artisti, di tutti coloro che sono dati per modelli ai nostri figliuoli. Di nuovo, che cos’è i l paganesimo? È il naturalismo in fatto di virtù. Virtù ispirate da viste umane, dal desiderio di farsi una rinomanza, dall’umore, dal carattere, dal temperamento; virtù senza la grazia santificante che sola può renderle vantaggiose al fine eterno dell’uomo; virtù di mostra, delle quali si ha poi cura d’indennizzarsi segretamente. Quindi ne vengono storici, oratori, moralisti, i Sallusti, i Senechi, i Ciceroni, che parlano eloquentemente della temperanza, che declamano contro l’ambizione e contro l’immoralità, ed i quali nel segreto di loro particolare condotta non rifiniscono dall’oltraggiare il pudore, la temperanza e tutte quante le virtù. Che cos’è finalmente il paganesimo? È la religione dell’odio universale, la religione della schiavitù e del profondo disprezzo per l’umanità: disprezzo dell’uomo per l’uomo e soprattutto per l’essere debole, ch’essa calpesta sotto i piedi, o di cui fa lo strumento dei più brutali godimenti; pel fanciullo, ch’essa lascia uccidere, vendere, esporre; per la donna, di cui consacra la vergognosa schiavitù; pel povero, ch’essa perseguita col suo disprezzo e che chiama un animale immondo; per l’ammalalo, ch’essa abbandona sul suo letto di dolore alle cure immaginarie di Esculapio; per il prigioniero, che scanna; per lo schiavo, di cui fa minor conto che non del cane che trastulla il suo padrone o della bestia da soma che trasporta i suoi pesi. Ecco il paganesimo nelle sue massime, nel suo spirito, nei suoi atti. In due parole, il Cristianesimo è la glorificazione dello spirito; il paganesimo è la glorificazione della carne; spiritualismo da un lato, sensualismo dall’altro: ecco il fondo opposto delle due religioni. Ora, egli è il paganesimo che educa i nostri figliuoli. – Il suo insegnamento è altrettanto più efficace in quanto parla su tutti i tuoni, riveste tutte le forme, s’insinua di per sé; poiché esala per natura, come il profumo dal fiore, da ogni libro, da ogni pagina, da ogni frase; che il giovinetto è obbligato ad ammirare, a leggere, a studiare, a capire, a tradurre, ad imparare sulle dita, in una parola, a mutare in sua propria sostanza, e questo in ogni dì ed in ogni ora del giorno, durante sette anni! Sotto somigliante influsso, che mai può diventare lo spirito cristiano? Pur troppo! esso si altera, s’indebolisce, si estingue. L’ordine soprannaturale dispare, il naturalismo solo rimane. L’uomo diventa quale l’educazione lo forma; diventa carne, diventa pagano. Osservale piuttosto: non è egli vero che il sensualismo e l’egoismo straripano sull’Europa? Non è egli vero ch’essi penetrano più o meno in tutte le anime, in tutte le arti, in tutte le scienze, in tutte le vite, da quella che comincia a quella che termina? Ascoltiamo un uomo che non sarà punto sospetto. « La è una ingrata cosa l’educazione della gioventù borghese. Terreno logoro, arido, sterile, in cui più non germoglia altra cosa, tranne i consigli dell’interesse. Io li conosco questi figliuoli della borghesia; la giovinezza è sul loro viso, ma non nel loro cuore. Speculano ancor collegiali. Quello che cercano meno è il bello e il vero; poco sensibili ci sono alle attrattive delle amene lettere ed alla luce delle scienze. La loro ambizione prossima si concentra tutta nell’ottenere un grado universitario, che aprirà loro ciò che si suole chiamare una carriera; la loro ambizione la più lontana non giunge al di là d’uno studio di notaio o di procuratore, d’un diploma d’avvocato o di medico, d’una spallina o d’un abito gallonato; e sotto queste forme diverse ciò che tutti scorgono e bramano, si è il ben essere materiale, sì è una buona mensa, begli abiti, buon letto ed il rimanente in proporzione. La loro virtù dominante è la virtù dei vecchi, la prudenza. La gloria è per essi un vano fumo, cui gli sciocchi soltanto vanno dietro; il merito è un lusso che non vale gli sforzi che costa; ben minchione chi gli sacrificasse un piacere. – « Si occupano eglino, a caso, delle cose politiche? Sono conservatori sotto la monarchia e reazionari sotto la repubblica. Appartengono al gran partito dell’ordine; stimano che la religione sia necessaria per il popolo, sebbene non credano già più a nulla; difendono la famiglia in generale, salvo poi ad affliggere la loro colla loro pigrizia, ed a minarla più tardi con le loro prodigalità; difendono anche e soprattutto amano la proprietà, ma senza il lavoro. Vi sono delle eccezioni, lo so; esse d’ordinario non fanno nascere altro che il riso. Nella più alta scuola dell’Università, alla scuola Normale, l’insegnamento della filosofia era, ora sono quindici anni, l’oggetto di tutte le ambizioni; spregiato adesso, vien reclutato difficilmente e male. E d’onde questo? Altre volte simile insegnamento era scelto come altrettanto sicuro e più lucroso di un altro; eccolo pericoloso e perseguitato; se ne allontanano. Ah! miei giovani amici, è appunto per ciò che dovrebbe avere le vostre preferenze (Il signor Jacques, professore di filosofia in Parigi) ». – Questo dipinto colpisce per la sua rassomiglianza. Uscite di collegio, entrate nella società. Dove troverete voi oggi lo spirito cristiano di sacrificio e di abnegazione? Dov’è mai il disprezzo solenne e solido delle ricchezze, degli onori e dei piaceri? In qual tempo mai le tre grandi concupiscenze regnarono esse più dispoticamente, più universalmente sul mondo? Forse che l’oro non è il dio di questo secolo? Forse che il piacere non è l’unico paradiso che si ambisce? Forse che il dogma pagano della felicità sulla terra, della felicità mediante la ricchezza, non diventò la base delle selvagge teorie che di presente acquistano un sì formidabile favore? Che dirò di più? Il mondo attuale non è forse pieno d’oratori, di scrittori, d’uomini di tutte le classi letterate, i quali, ad esempio dei loro modelli classici, parlano eloquentemente della virtù, alla quale la loro sporca condotta fa testimonianza che punto non credono? Finalmente, per ultimo tratto di rassomiglianza, non giungiamo forse a vedere una società tutta quanta educarsi a noi d’intorno, e proclamare come facevano i pagani, che basta essere onest’uomo, e che si può essere virtuosi senza il Cristianesimo? Cercate ora da quale epoca cominciò in Europa quest’abbassamento spaventoso dello spirito cristiano? Ricordatevi che tutto deriva dall’educazione; e, ne sono persuaso, voi indicherete ad occhi chiusi l’epoca del Rinascimento del paganesimo classico. Né si dica, per attenuare la potenza accusatrice di questo fatto, che i classici pagani furono corretti e purgati; non si dica nemmeno, per negare la riforma che noi chiediamo, che si potrà correggerli ancora e purgarli con cifra più grande: vane pretese! Le correzioni, le espurgazioni, le soppressioni tolsero e toglieranno al più le immoralità grossolane, gli errori palpabili; ma non muteranno per nulla lo spirito pagano, che respira necessariamente, inevitabilmente nelle opere pagane. Ecco però dov’è il pericolo. – Ecco quello che i Padri della Chiesa e tutto quanto il medio-evo avevano benissimo capito. Quando i Gerolami, gli Agostini, i Gregorii proscrivevano con tanta energia il paganesimo classico; quando ne indicavano con tanta eloquenza l’immenso pericolo, credete voi sul serio ch’eglino fossero ispirati dalla tema di vedere il mondo cristiano ritornare al culto di Giove, di Venere o di Mercurio? No, gli Dei dell’Olimpo erano caduti dai loro altari per non più riascendervi. Il paganesimo nella sua forma materiale era morto, ben morto; ma esso viveva nel suo spirito, e questo spirito si conservava nei libri pagani; e questi libri pagani, messi in mano ai giovinetti, sono onnipotenti per infonderlo nel cuore delle generazioni cristiane, e per mezzo di esse nella società. Ivi era il pericolo, ivi è ancora, ivi sarà sempre. Vi si faccia bene attenzione; verrà un istante, se forse non è già venuto, in cui sarà impossibile lo scongiurarlo. « Dalla questione del Paganesimo o del Cristianesimo nell’ educazione dipende la salvezza del mondo ». Ecco quello che proclamava in faccia all’Europa uno dei veggenti del secolo XVI. Ora fa quindici anni, un uomo dei più notevoli per l’altezza del suo sapere e per la sicurezza del suo colpo d’occhio, ci scriveva: « Ancora trent’anni di paganesimo nella educazione, ed è finita per la religione in Europa ».