FATIMA FARO DI VITA

« Fatima non ha ancora detto al

Portogallo e al Mondo tutto il suo

segreto. Ma non sembra eccessivo

affermare, che quelle che ha già rivelato

il Portogallo, è indizio e pegno

di quello che riserba al Mondo ».

Cardinale-Patriarca di Lisbona

Era fresca l’eco dell’ultima apparizione della Vergine a Fatima quando l’insofferenza del giacobinismo ufficiale e ufficioso contro la « nascente superstizione di Fatima » cominciò a sfociare in aperte minacce e rappresaglie. Una notte, alta notte, i pacifici abitanti dei dintorni della « Cova da Iria » si svegliano impauriti alle grida di allarme: Fuoco! fuoco!… La Cova da Iria è in fiamme! Guardando in quella direzione, si vedeva salire al cielo, nitidamente tracciato nelle tenebre, un chiarore rossastro, come di grande incendio. Non v’era dubbio: i settari avevano eseguito le minacce, appiccando il fuoco a quanto nella Cova poteva essere pasto delle fiamme. – Gli uomini di « Moita » balzano in piedi, si armano di randelli e di quanto trovano alla mano, e decisi corrono alla riscossa… Ma nella Cova regnava pace assoluta e silenzio profondo, reso più solenne dai trilli degli usignoli, che sembravano salmeggiare il Mattutino nella placida notte. – Sarebbe dunque quel fuoco una meteora straordinaria, o più semplicemente… una illusione collettiva? Ma ecco che il fenomeno si ripete due, tre volte, a pochi giorni d’intervallo… No! non poteva essere giuoco di fantasie esaltate! Era una realtà, un segno del Cielo, un simbolo prefigurante l’avvenire. Quel « fattore invisibile, che furono le Apparizioni di Nostra Signora di Fatima », doveva manifestarsi luminosamente come un incendio, perché doveva essere Faro immenso per diffondere torrenti di luce e di calore vitale in un mondo, che si dibatteva nelle tenebre, sotto minaccia di morte.

* * *

Questa irruzione vivificatrice di grazia si inaugurò già al tempo delle Apparizioni. Erano mistici effluvi di soprannaturale, che si irradiavano dalla Cova da Iria, illuminando, attirando, conquistando le anime, trasformandosi in un doppio torrente di vita: vita fisica e vita morale. I primi a sentirne l’efficacia furono gli stessi confidenti della Madonna. La grazia operò in essi meraviglie. Menti semplici e cuori innocenti si lasciarono prendere, trasformare, sollevare in alto, sempre più in alto. Francesco e Giacinta furono trovati in breve tempo maturi per il Cielo. Bambini analfabeti, ma Francesco in uno scarso anno e mezzo, Giacinta in due anni e quattro mesi, avevano percorso una lunga via di santità, da toccarne le vette. La loro tomba è ora i n benedizione, mèta di devoti, mentre è già in corso il Processo Canonico per la loro beatificazione. Fatima si gloria di queste due fiaccole di vita, trapiantate nel cielo, valida testimonianza della bontà del suo Messaggio. E Lucia di Gesù… Lasciamo in pace la candida colomba, che, infastidita del mondo, se n’è volata al vertice del Carmelo, per nascondersi nella cavità della roccia, nel Cuore Immacolato di Maria, lontano, tanto più lontano dalla terra, quanto più alle porte del Cielo. Il segreto della sua vita è là ora, nel Monastero di S. Teresa a Coimbra (Portogallo), che ha il privilegio di averla fra le sue mura, sotto il nome di Suor Maria Lucia del Cuore Immacolato. Ha detto tutto quello che doveva dire al mondo, come messaggera di Maria. Può attendere quindi tranquilla alle sue ascensioni interiori, aspettando l’ora della promessa, che la ricongiungerà ai suoi due cari amici d’infanzia. – Il celeste richiamo di Fatima volava intanto per gli spazi; moltiplicando i suoi prodigi. Il suo influsso toccante e trasfigurante operò anzitutto nei paesi vicini, poi nei più lontani. In breve tempo tutto il Portogallo ne fu conquistato. Ed eccovi una immigrazione sui generis di popolo, un continuo accorrere dì moltitudini sempre più numerose verso la montagna santificata dalla presenza di Maria… Una gran parte, forse i più, a piedi scalzi e col Rosario in mano… non pochi con i piedi sanguinanti, dopo un percorso di cento, duecento e perfino quattrocento chilometri! Non ha forse la Madonna raccomandato preghiera e penitenza, quale frutto della propria conversione, e per la salvezza del mondo? E’ una marea montante che sale ogni anno, dai cinque ai dieci mila pellegrini nei mesi invernali, dai 150 ai 200 mila in maggio e ottobre; in occasioni eccezionali si sale ai 300.000 nella Incoronazione della Regina Mundi (13-5-46) e ad una marea di gente incalcolabile nella solenne Chiusura dell’Anno Santo mondiale (13 Ottobre 1951). E per tutti Fatima è Faro di vita, fisica o morale, o fisica e morale insieme. E’ incontestabile che qui si sono realizzati veri portenti, guarigioni complete e rapide, che le forze della natura sono incapaci di realizzare, e che la scienza umana non riesce a spiegare, e la parola miracolo è sulle labbra di tutti: del « popolo non meno che degli uomini di scienza, che più accuratamente hanno esaminato i fatti. Ancora una volta si dimostra che qui c’è il dito di Dio, e la devozione di Fatima è suggellata dal segno inconfondibile del suo potere ». Così l’Episcopato Portoghese in un solenne documento. – Il « suggello di Dio »! suggello che parla non soltanto all’anima, ma ai sensi, e perciò attira e conquista irresistibilmente. Ogni pellegrinaggio porta i suoi malati, dalle più svariate infermità; ed i registri del Santuario presentano una media annuale superiore a 1000; qualche volta di 1.500 o 1.600. Ma quanti non si fanno registrare! E quanti si associano ai pellegrini, in ispirito, dai loro letti di dolore!… tutti colla speranza di recuperare la salute, o almeno trovare sollievo nei loro mali; e se non questo, certamente la rassegnazione cristiana per portare fruttuosamente e santamente la croce! Quante volte il povero infermo, venuto a Fatima anelando disperatamente la salute miracolosa, arrivato qui si sente inondare l’anima da un soave torrente di rassegnazione cristiana, e finisce per domandare la guarigione per un altro malato, che ora gli ispira più compassione che non le proprie sofferenze!… E non sono questi pure miracoli di luce, di vita, di una vita migliore, più alta della salute miracolosa? Le grazie attribuite all’intercessione della Madonna di Fatima qui nel Santuario e fuori sono a migliaia. La sola « Voz da Fatima» ne ha registrate più di mille in venti anni (1922-42). Oggi sarebbe letteralmente impossibile farne una statistica relativamente completa. Ma non importa; perche non è questa la nota caratteristica di Fatima. « Fatima è stata e continua ad essere soprattutto un fuoco potentissimo di vita spirituale… « …Non sono le guarigioni portentose e le grazie temporali di varia specie qui ottenute i grandi miracoli dì Fatima ; questi avvengono nel dominio recondito delle anime, nell’ambito delle coscienze, nel recinto misterioso dove non penetra la sonda dell’osservazione né l’investigazione della scienza. – Chi assiste alle solennità dei grandi giorni di Fatima e vede tutte le classi della società portoghese confuse nelle acclamazioni alla Vergine e nell’adorazione a Gesù Sacramentato, chi ha modo di osservare le folle immense inginocchiate nella polvere e quante volte nel fango, ricevendo in umile atteggiamento il Pane dei forti, chi sorprende i singhiozzi di pentimento e le lacrime negli occhi di tanti che camminavano sperduti pei sentieri del vizio, o militavano ostinatamente nelle schiere dell’incredulità, chi contempla la commozione profonda, che s’impadronisce degli stessi indifferenti, dinanzi alle invocazioni dolenti e ardenti, che sgorgano da migliaia di petti, chi assiste in spirito allo sfilare delle moltitudini che in Portogallo e fuori del Portogallo portano in trionfo la bianca immagine della Vergine di Fatima e piegano le ginocchia con eguale ardore nella strada e nel tempio, e chi paragona tutto questo con la deplorevole decadenza a cui era scesa in Portogallo la vita religiosa,… ha l’impressione di trovarsi dinanzi a un mondo nuovo, e non può non riconoscere che un’onda potente di linfa divina e soprannaturale si è infiltrata nell’anima del popolo portoghese, si sono convertiti molti peccatori, si sono riconciliati con la vita molti che avevano perduto ogni speranza, hanno di nuovo imparata la strada della chiesa molti che l’avevano completamente dimenticata, si aprono alla preghiera umile e fiduciosa labbra che l’indifferenza aveva immobilizzato, benedicono il nome del Signore molti che ieri sacrilegamente lo bestemmiavano. In verità scorre nelle anime un fremito di vita più alta. Non è il caso di indagare il segreto delle anime. Ma la salute recuperata si può leggere nei numeri del termometro. Ed un termometro che indica sicuramente la vita delle anime, è la Mensa Eucaristica. A Fatima in ogni pellegrinaggio le Comunioni si contano a mogli aia: sono 20 o 30 mila, qualche volta 45 e 50 mila; nella chiusura dell’Anno Santo circa 160.000. – La media annuale nel quadriennio 1930-1933 fu di 97.550: nel quadriennio immediato saliva a più di 130.500: negli ultimi anni oscilla intorno alle 250.000. l’Anno Santo fu straordinario con le sue 400.000 Comunioni. E se fosse contare le Comunioni generali che nei giorni di pellegrinaggio nazionale si fanno in tante parrocchie del paese in unione coi pellegrini di Fatima?! Un altro termometro in numeri più piccoli parla ancora più alto; perché indica le forze vive che si vanno creando a Fatima, decise a rivivere esse stesse e a propagare la vita intorno a sé . tale è l’opera dei Ritiri chiusi, inaugurata a Fatima nel 1930 con 200 esercizianti; poco dopo superava i 1000; oggi ne conta 2500 all’anno. Fra essi il ptimo posto è riservato all’Episcopato. Vi convengono poi a turno sacerdoti, Medici, Avvocati, Professori, Studenti universitari, Dirigenti dell’A. C. , Membri di terz’ordini, madri e sorelle di sacerdoti, operai … Anche l’Azione Cattolica si è organizzata sotto la protezione della Madonna di Fatima, non chè le truppe ausiliarie della medesima, i 500.000 crociati di Fatima. – Con tutte queste forze vive, sotto il comando della “Vincitrice di tutte le battaglie di Dio” , come non realizzare miracoli? Ed il grande miracolo si è avverato: il profondo cambiamento avvenuto nel Portogallo, non soltanto politico, ma soprattutto morale e religioso. « Chi avesse chiuso gli occhi trent’anni fa e oggi li riaprisse, non riconoscerebbe più il Portogallo ». – Allora uno dei corifei della rivoluzione del 1910 poteva gloriarsi in piena assemblea della Massoneria, di avere vibrato il colpo di grazia al Cattolicesimo nel Portagallo, con l’iniqua « Legge di Separazione fra la Chiesa e lo Stato ». In due generazioni non ve ne sarebbe rimasto neppure vestigio… In rinforzo poi della satanica bravata vennero lunghi anni di persecuzione, bando agli Ordini religiosi, i Vescovi esiliati dalle loro Sedi o incarcerati, i Sacerdoti perseguitati a segno, i Seminari fatti caserme, proibito il catechismo e l’insegnamento religioso, le chiese — più di 40 nella sola capitale — profanate e bruciate, o convertite ad usi profani; e tutto il resto che narra la storia e quello che essa non ardisce narrare… – Trenta, quaranta anni dopo. E’ in piena attività la seconda generazione. Stracciata l’infame Legge di separazione, il Portogallo stringe con la Santa Sede un Concordato quasi modello e lo Accordo Missionario. Lisbona, la rocca forte del laicismo, riceve trionfalmente i Legati del Papa. Le più alte Autorità della Nazione non temono affermare pubblicamente la loro fede; mentre la vita cattolica va rifiorendo dappertutto in una immensa primavera di bene, che permette concepire le più ridenti speranze. « Il Portogallo ha ritrovato le sue antiche tradizioni di Nazione crociata : fedelmente cattolica e missionaria ». – Un simbolo, segno dei tempi. La Guardia Repubblicana, che una volta perseguitava a colpi di sciabola e arrestava i pellegrini di Fatima, oggi in alta tenuta è passata in rivista dal Vicario di Cristo nella persona dei suoi Legati, e si fa vanto non soltanto di montare la guardia d’onore alla Madonna di Fatima, ma di portarla a spalla attraverso un oceano di popolo plaudente. Simbolo quanto mai significativo della nuova vita che si irradia da FATIMA, faro di vita. Un giorno S. S. PIO XII, salendo in ispirito la montagna di Fatima, vedeva la Cova da Iria trasformata in « sorgente perenne di grazie e di « prodigi fisici, e molto più di miracoli morali che a torrenti di qua si riversano su tutto il Portogallo, e poi irrompendo le frontiere invadono tutta la Chiesa e tutto il mondo » (Radio-messaggio del 13-5-46). Fin dalle apparizioni dell’Angelo, e più da quelle della Madonna, con le allusioni trasparenti all’ateismo militante, al comunismo irruente ed iconoclasta, al materialismo ed all’immoralità dilaganti, e poi alle guerre mondiali, castigo di Dio per tante iniquità, il Cielo faceva vedere chiaramente che, se Fatima sorgeva nel Portogallo, era però destinata al mondo. Infatti appena stabilitone solidamente il culto, con il riconoscimento implicito dell’Autorità ecclesiastica (erezione della basilica, maggio 1928), e più con l’approvazione ufficiale (13 ottobre 1930), la devozione alla Madonna di Fatima irradiò largamente al di là delle frontiere del Portogallo, portando dovunque gli stessi frutti di benedizione. Fu però il giubileo delle Apparizioni, coll’intervento solenne del Vicario di Cristo, e la Consacrazione del mondo all’Immacolato Cuore di Maria (31-10-42), che diedero al Faro di Fatima una potenza illuminatrice e vivificatrice di milioni di chilowatt, registrati nei contatori di Dio. – « Dalle più lontane e recondite plaghe dell’Universo. dall’America, dall’Oceania, dalla Cina. dall’India, finanche dalla Russia martoriata arrivano a Fatima offerte, domande di preghiere, ringraziamenti, in una parola, dimostrazioni di confidenza e d’interesse, omaggi a Nostra Signora di Fatima. E’ incontestabile che Nostra Signora di Fatima ha conquistato il Portogallo e va conquistando il mondo ». Così scrivevano allora i Vescovi. – Oggi, passati dieci anni, chi potrebbe semplicemente elencare le chiese, cappelle, oratori, altari in suo onore eretti e venerati nelle cinque parti del mondo, nonché gli Istituti, Parrocchie, Diocesi, Missioni… a Lei intitolate e poste sotto la sua protezione? Si contino, per esempio, le centinaia di statue portate per essere benedette nel Santuario, e di là partite in tutte le direzioni per tutte le latitudini del globo. O si pensi a quel devoto de la Virgen de Fatima » , che a Madrid si diede a diffonderne la devozione, distribuendo immagini a prezzi minimi e spesso gratis: da quella improvvisata officina sono uscite in pochi anni, fra piccole e grandi, ben 3.000 statue dirette alla Spagna, all’India, all’America… – La devozione alla Madonna di Fatima ha preso la forma di una inondazione, serena ma grandiosa, come la piena del Nilo, che, superati i margini, allaga e feconda fino all’orlo estremo tutta la pianura coltivabile…, qui però la pianura è tutta la Chiesa di Dio! . .. Ma il Cuore Immacolato della Vergine Madre non si contenta di questa inondazione serena, per quanto rapida e progressiva. Appena incoronata REGINA MUNDI, ispira l’idea del Pellegrinaggio Mondiale, in circostanze tanto singolari, che è impossibile non riconoscervi un chiaro segno della volontà divina. Ed il Pellegrinaggio è, Come dire?, un violento nubifragio, che percorre l’orbe, travolgendo e trascinando tutto al suo passaggio. La prima tappa, Lisbona; e Lisbona per quattro giorni e quattro notti è ai piedi della Madonna « nella più stupenda e più impressionante manifestazione di fede di tutta la storia del Portogallo ». Poi percorre le provincie più abbandonate, dove fin dal 1910 tante città non avevano visto né voluto vedere l’ombra di un Sacerdote. Si moltiplicano i prodigi … Ma il grande miracolo è la trasformazione quasi repentina di tante migliaia di quei neo-pagani in cristiani ferventi. La Vergine Pellegrina entra in Ispagna da un arco trionfale in cui si legge il distico: « Spagna ai Tuoi piedi ». E il distico si verifica alla lettera. Piovono grazie e miracoli temporali; diluviano gli spirituali. Madrid in un sol giorno vede ben quindici miracoli! Ma allo stesso tempo, tutte le parrocchie, specialmente le periferiche, dove più abbondano gli elementi comunisti, subiscono una vera rivoluzione spirituale. Non vi è una sola che, alla vista notturna della Madre SS.ma, non conti alla Mensa Eucaristica 20 o 30 mila persone, il quaranta per cento delle quali da dieci e più anni non erano entrati mai in Chiesa. In Belgio: chi direbbe, per esempio, che Charleroi è in pieno pays rouge, vedendo che le chiese non bastano a contenere le moltitudini, e che le piazze si trasformano in chiese ed i banchi degli stabilimenti in balaustrata per la Comunione? Il Lussemburgo, paese di 250.000 anime, per tre giorni è tutta una fiamma di amore alla Vergine di Fatima e a Gesù Sacramentato: 100 mila Comunioni! In Olanda, ultima tappa del viaggio i n Europa, « se il Congresso di Maastricht fu una manifestazione grandiosa, il vero spirito di fede e di pietà glielo diede la Vergine Pellegrina », affermava l’ecc.mo Presidente. In Africa i vecchi Missionari piangono a calde lacrime vedendo la commozione delle anime; il passaggio della celeste Regina « è per loro il più bel giorno della vita »; e poi i catecumeni si moltiplicano, si fondano nuove Missioni. Nella grande India, nel Pakistan la Madonna passa spargendo generosamente favori a cristiani e non cristiani. La commozione delle folle è tale, che i Vescovi meravigliati si domandano se è sogno di leggenda orientale, o realtà vera, lo spettacolo che dappertutto si rinnova sotto i loro occhi… Nel Ceylon per qualche giorno si ha l’impressione che la grande isola sia diventata ad un tratto cristiana. Un Arcivescovo osserva: « Quello che il Figlio non ha fatto durante i secoli, la Madre lo ha fatto in pochi giorni »! Così pure nell’Indocina, in Australia, nelle Isole del Pacifico; così in America, dal Canada e Stati Uniti alla Colombia ed al Cile… Ed ora in Brasile: Fortaleza, Rio, S. Paulo, Nova Friburgo, Belo Horizonte, e cento altre città… ognuna protesta che il trionfo della Vergine Pellegrina è stato, da loro, il più grande, il più sentito, il più stupendo che mai si sia visto in Brasile: manifestazioni gigantesche di fede e pietà, conversioni, tante comunioni, e più che nei Congressi Eucaristici! . .. Il torrente avanzando cresce, trascina, vivifica; luce viva delle menti, vita dei cuori! Ma la grande meraviglia inedita di questo Pellegrinaggio di meraviglie è l’intervento di protestanti, di scismatici, di buddisti, di pagani, di mussulmani, che i n Africa, Asia, America, accorrono, spesso i n numero superiore a quello dei cattolici, e con essi fanno a gara nell’onorare la REGINA MUNDI, che passa sorridente e benedicente. S.S. PIO XII lo sottolineava nel suo augusto Messaggio de1 13 ottobre 1951 « La Regina degli Angeli uscendo… da cotesto Santuario di Fatima, dove il Cielo ci ha concesso di incoronarla REGINA MUNDI, percorre in visita giubilare tutti i suoi domini. E al suo passaggio, in America come in Europa, in Africa ed in India, nell’Indonesia e nell’Australia si moltiplicano le meraviglie della grazia per forma tale, che a stento possiamo credere a quanto pure vedono gli occhi. Non sono a soltanto i figli della Chiesa ubbidienti e buoni che diventano più ferventi, sono i prodighi che vinti dalla nostalgia delle carezze materne, ritornano alla casa del Padre; sono ancora (chi mai potrebbe immaginarlo?) in paesi dove ha appena incominciato a risplendere la luce del Vangelo, tanti avvolti nelle tenebre dell’errore, i quali a gara coi fedeli di Cristo, aspettano la Sua visita, La ricevono ed acclamano con delirio, La venerano, La invocano, ne ottengono grazie segnalate. Sotto lo sguardo materno della celeste Pellegrina… tutti per quache momento si sentono felici di essere fratelli. Spettacolo singolare e singolarmente impressionante, che ci fa concepire le più belle speranze!». – Qui viene spontanea una domanda: la REGINA MUNDI non avrà voluto forse prendere il titolo di FATIMA, per aprire una breccia nella fortezza inaccessibile dell’Islamismo?… Il nome di Fatima è un richiamo per i Musulmani. Esso ricorda un’antica leggenda, il nome di una nobile damigella musulmana del sec. XII, figlia di Vali Alcàcer, fatta prigioniera in uno scontro tra cavalieri portoghesi e musulmani, e richiesta in isposa dal condottiero dei portoghesi, Don Gongalo Hermingues. Fatima, che aveva aderito alla proposta, si fece anche cattolica, ma morì dopo pochi anni, con immenso dolore del suo sposo, che a conforto del suo schianto entrò tra i monaci di S. Bernardo nella Badia di Alcobaga a trenta chilometri da Ourém, nome imposto alla cittadina d’Abdegas, dal nome di Battesimo di Fatima, Oureana. Per interessamento dell’Abate del Monastero le spoglie di Fatima furono trasportate in un paesello, a sei chilometri da Ourém, dove l’Abate aveva fatto costruire in onore della Madonna una chiesa e un piccolo convento. Da quel tempo il paesello fu chiamato Fatima. Mons. Fulton J. Sheen, ricordando questa leggenda, si pone la stessa domanda: «Chissà che la Madonna non abbia voluto forse farsi conoscere col nome di Nostra Signora di Fatima, per offrire un segno di predilezione e di speranza ai Musulmani, e quasi un’assicurazione che essi, per il grande rispetto che hanno verso di Lei, accetteranno un giorno il suo Divin Figlio? » ( La Madonna di Fatima o i Musulmani nel pensiero di S. E. Mons. Fulton J. Sheen, in Selezione Missionaria, 1 (1933) p. 153.) . – Le non poche conversioni in atto dall’Islam al Cattolicesimo, al passaggio della Vergine di Fatima, sono un confortante saggio. Ma conforta ancora il pensiero che tutto il mondo missionario è in prodigioso risveglio. La Vergine di Fatima vuole accelerare i tempi, scendendo Lei stessa in aiuto sensibile dei pionieri dell’espansione evangelica. Il « faro di vita », acceso per il mondo in questa piccola località di Fatima, affretta le vie di Roma.

Can. AMILCAR MARTINS FONTES

Rettore del Santuario di Fatima

J.-J. Gaume: IL VERME RODITORE delle SOCIETA’ MODERNE (11)

CAPITOLO XXIII

INFLUSSO DEL PAGANESIMO CLASSICO SULLA SOCIETÀ

II Cristianesimo è la legge della carità universale. Esso insegna due cose: a rispettare ed a sacrificarsi. Vincitore del mondo e padrone della educazione durante mille anni, il Cristianesimo era penetrato col suo spirito fra le nazioni d’Europa, nutrendo del suo sugo vivificante le giovani generazioni: e, per quanto lo permette la umana debolezza, aveva fatto la società ad immagine sua. Quindi, durante tutto il medio-evo, la quasi assoluta mancanza di guerra generale fra i popoli cristiani; quindi, le guerre intestine più ristrette e men crudeli che non nell’antichità; quindi, un patriottismo cattolico che facendo della religione la patria comune, considerava tutti i cristiani dell’universo come fratelli, per i quali si aveva dell’oro a dare e del sangue a versare, qualunque fosse il clima sotto cui soffrivano; quindi, lo spirito cavalleresco, che poneva a disposizione dell’essere debole la potenza disinteressata del nobile e del forte. Quindi, il sovrano potere, contenuto entro giusti limiti dall’autorità superiore della religione, dando durante questo periodo maggiori esempi di santità sul trono, cioè di abnegazione eroica agli interessi dei popoli, che non se ne videro durante tutte le altre epoche della storia; quindi, libertà comunali e provinciali incomparabilmente maggiori di quanto si era prima conosciuto, di quanto poscia fu visto; quindi, finalmente, la libertà assoluta della Chiesa, madre e guardiana di tutte le altre; della Chiesa, che non era punto considerata come una straniera od una rivale, ma che era amata, rispettata e secondata in ogni modo nella sua azione sociale. Oggi, noi abbiamo l’opposto di questo quadro. – Il segno caratteristico dell’Europa, da tre secoli, è l’odio. « Odio di Dio: si vorrebbe abolire la sua religione non solo, ma persino il suo nome; odio dei sacerdoti, che sono calunniati, ingiuriati, oppressi nell’esercizio delle loro funzioni, e sono già proscritti in speranza da certe persone; odio dei re, dei nobili, delle istituzioni stabilite: odio di ogni autorità; odio delle leggi che conservano la pace reprimendo le passioni; odio dei magistrati che difendono le leggi; odio nello Stato, nella famiglia; odio universale che si palesa colla ribellione, col1’assassinio e con un ardente desiderio di distruzione (Saggio sull’indiff., t. II, pref., p. xix e xx.) ». Nell’ordine puramente politico, ecco le principali manifestazioni di un simile odio, sconosciuto dai secoli di fede:

La guerra esterna ed intestina quasi continua;

Un amore feroce della libertà;

Un patriottismo selvaggio;

Un dispotismo brutale che a volte passa dalle mani della moltitudine in quelle di un solo uomo;

Una servilità abbietta;

Una tendenza decisa al comunismo ed alla rovina.

Chi mai produsse, chi mai mantiene questo stato anomalo? D’onde provennero queste idee sì contrarie alle idee cristiane? In qual modo hanno esse fatto irruzione nella società? Perché mai, bandite dall’Europa durante mille anni, l’hanno esse invasa da tre secoli in qua? Rimontiamo alla sorgente d’ogni cosa, interroghiamo l’educazione. Essa ci risponderà. « Sono io che formo l’uomo e la società. Da tre secoli io son pagana: invece d’insegnare ad amare, io insegno ad odiare; io ho fatto l’uomo a mia immagine; l’uomo trasmise ciò che egli ha ricevuto, e la società è diventata pagana, e l’odio ha regnato ». – Infatti, la legge d’odio era la legge del mondo pagano, ed i grandi segni che annunciano la sua presenza nella moderna Europa sono letteralmente gli stessi che la palesavano in seno alle società antiche della Grecia e dell’Italia. La guerra esterna ed interna quasi continua: ecco il fondo della storia di tutte le repubbliche classiche. Ora, da tre secoli, quale quadro vien egli presentato ogni giorno, durante sette anni, allo studio ed alla ammirazione della gioventù di Europa? La guerra. Lasciando da parte alcune insignificanti particolarità di costumi e d’organamento interno, che cosa ci s’insegna mai a conoscere su Roma, su Atene, su Sparta, su Tebe, su Cartagine, sul Peloponneso, sulla Macedonia, sulla Persia, sulle Spagne, sulle Gallie e sulla Germania? La guerra. Gli Etrusci, i Volsci, gli Equi, i Veii, i Sanniti ed una folla di altri popoli non sono da noi conosciuti se non per la guerra. Non solo gli uomini, ma gli Dei ben anco ci offrono il medesimo spettacolo. Colle turpitudini degli Immortali che cosa ci dimostra l’Olimpo? La guerra. Espressione viva della legge d’odio che reggeva il mondo pagano, la guerra, la guerra in cielo ed in terra: tale si è l’elemento nel quale noi fummo tirati su. Non v’ha campo di battaglia sul quale noi non siamo stati condotti a passeggiare, da Maratona alla Trebbia, da Arbella a Farsaglia: non v’ha carneficina che non ci sia stata messa sott’occhio; non v’ha saccheggio di città, al quale noi non abbiamo assistito; non v’hanno eserciti nemici, per i quali noi non abbiamo preso parte; non v’ha gran capitano del quale non ci siano state narrate le gesta, di cui non ci siano stati ridetti i discorsi, di cui non ci siano stati spiegati i disegni e gli stratagemmi; in una parola, non v’ha fibra guerriera nel nostro cuore fanciullo, che non sia stata scossa sovente, scossa a lungo, scossa profondamente. – Ora, che cos’erano nelle loro cagioni e nei loro effetti tutte queste guerre, la cui storia imbeve la giovine nostra anima? Non altro erano se non l’odio universale, figliuolo dell’egoismo, appagante se stesso coll’esercizio del diritto brutale del più forte: l’ingiustizia e il brigantaggio. Pure, ci si ispirava passione per tutte quelle opere; noi eravamo tenuti di ammirare coloro che ne furono gli eroi; i nostri libri e i nostri maestri davano loro nome di grandi, d’illustri, d’immortali. Si aveva cura dimostrarceli, al ritorno dalle loro spedizioni, cantati dai poeti, onorati dal senato, dall’areopago e dagli arconti, coperti d’applausi dal popolo, e montati su carri d’oro o d’avorio ascendere al Campidoglio. Quegli uomini e quei falli, che si proponevano alla nostra ammirazione, furono dopo il Rinascimento proposti all’ammirazione non solo dei figliuoli del popolo, ma ben anco dei figliuoli dei nobili e dei re. Chiamato ad educare i successori di San Luigi, Amyot vescovo di Auxerre e traduttore di Plutarco, non conosceva, dopo la Sacra Scrittura di cui solevasi ancora consigliare la lettura, modelli più compiuti, per un principe, dei grandi uomini di Atene, di Sparta e di Roma. – In questi termini egli scrive al suo regale discepolo, nel dedicargli la sua versione: « Avendo io avuto questa bella fortuna d’essere collocato presso di voi sin dalla vostra prima infanzia, allorché non avevate se non quattro anni, per incamminarvi alla conoscenza di Dio e delle lettere, mi posi a pensare quali fra gli antichi scrittori sarebbero più idonei e più acconci al vostro stato, da proporveli a leggere quando voi foste giunto in età da potervi prendere alcun gusto; ed essendomi parso che dopo le Sante Lettere, la più bella, la più degna lettura che si potesse presentare ad un giovane principe, fossero le Vite di Plutarco, mi posi a rivedere quanto ne aveva cominciato a tradurre in nostro idioma per comando del fu gran re Francesco, mio primo benefattore, e terminai l’opera intera. E la versione essendone stata molto bene accolta, anche in diritto, e siccome voi dopo che l’età e l’uso v’ebbero dato attitudine a leggere ed alcun giudizio naturale non volevate leggere in altro libro, ciò mi pose voglia sin d’allora di volgere in nostra lingua le altre sue opere morali e filosofiche (Epistola al Re Cristianissimo Carlo, Nono di Questo nome, ediz. 158:2.) ».Ecco la cosa: la storia di Costantino, di Teodosio, di Carlo Magno, di San Luigi e di tanti altri santi re od imperatori, era meno propria a formare lo spirito e il cuore di un principe cristiano che non le vite di Teseo, di Romolo, di Licurgo, di Solone, di Pericle, di Mario, di Siila, di Cesare, di Trasibulo e di Bruto! Bentosto le Sante Lettere spariscono dall’educazione; esse non hanno più accesso ai collegi; e, cento anni dopo Amyot, Fénélon compone ad uso dell’erede del Regno Cristianissimo un evangelio, di cui Telemaco è il discepolo, Mentore l’interprete, Minerva l’inspiratrice, ed il paganesimo il più puro il fondo e la forma. – Nello stesso intento, invece di scrivere le vite e le massime dei nostri grandi uomini e dei nostri gran santi, per formare lo spirito e il cuore del duca di Borgogna, il venerabile arcivescovo di Cambrai crede dover consacrare il suo genio ed il suo tempo nello analizzare, nel tradurre l’Odissea, nel fare un compendio delle vite dei filosofi antichi colle loro massime: Talete, Solone, Pittaco, Biante, Periandro, Chilone, Cleobulo, Epimenide, Anacarsi, Pittagora, Eraclito, Anassagora;, Democrito, Empedocle, Socrate, Platone, Antistene, Aristippo, Aristotile, Senocrate, Diogene, Crates, Pirone, Jiione, Epicuro e Zenone. Finalmente ai dì nostri, in faccia all’Europa si proclama, che l’antichità è quanto v’ha di più bello al mondo. – In mezzo a questo concerto d’elogi tributati al paganesimo, ai suoi falsi grand’uomini, alle false sue glorie, alle false sue virtù; fra il rumore rimbombante delle sue guerre e delle sue battaglie; fra lo spettacolo continuo delle sue violenze e delle sue ingiustizie, da tre secoli in qua è formata la gioventù di Europa. Ed è ad una tale scuola che si pretende farle attingere i sensi di giustizia, di dolcezza, di modestia, di subordinazione, d’indulgenza, di abnegazione, d’umiltà e di carità che sono lo spirito stesso dall’Evangelio e le condizioni di vita delle società cristiane! Ma che! Se si volessero a disegno formare uomini ingiusti, superbi, orgogliosi, insubordinati, ed all’occasione devastatori di provincie, si potrebbe forse procedere diversamente? Non è forse in tal modo che furono preparati gli eroi famosissimi di quella guerra dei Trent’Anni (1618-1648) che coprì trequarti d’Europa di sangue e di rovine? Guerra pagana, in cui si commisero maggiori orrori e maggiori infamie di quante il mondo ne avesse veduto da dieci secoli; guerra selvaggia, che distrusse più monumenti e capi d’opera d’ogni genere che non ne avessero distrutto le barbare orde. Non è egli dalla medesima scuola che uscirono i capi dei nostri eserciti rivoluzionari, i feroci proconsoli che condussero la devastazione da Parigi a Napoli, da Lisbona a Mosca, ed i quali, come gli eroi dell’antichità, ritornarono recando nei loro carri non solo l’oro e l’argento, ma ben anco le ricchezze artistiche di lutti i popoli vinti? Non è forse la loro condotta quella ch’essi si gloriavano d’imitare, ed i loro nomi quelli che eglino invocavano? Tuttavia la guerra esterna non è se non una parte dello spettacolo offerto alla gioventù dal paganesimo classico; le lotte interne compiono il quadro. Che cosa abbiam noi veduto nella storia interna di Sparta, di Atene, di Roma in specie, che meglio si cerca di farci conoscere? L’antagonismo continuo delle classi inferiori e delle classi superiori della società; l’orrore dei re, designati sotto il nome di tiranni; l’odio inveterato dei plebei contro i patrizi e dei patrizi contro i plebei, le tempeste nel Foro, le ritirate sul Monte Sacro, le leggi agrarie, l’intervento dei tribuni e la popolarità dei cospiratori; dissensioni sempre rinascenti, fazioni sempre pronte a venire alle mani; il sangue dei cittadini inondante le vie e le piazze delle città, e l’ostracismo che esiliava a volte i vincitori della vigilia, vinti del domani. Begli esempi, sublimi precetti, preziosi semi da deporre nell’anima della gioventù! E sotto il nome di Tarquinio noi detestavamo la monarchia; eravamo aizzati a volte a pro del popolo ed a pro dei nobili, a pro dei Gracchi ed a pro di Druso, a pro di Mario ed a pro di Siila, a pro di Pompeo ed a pro di Cesare, e quasi tutti noi tenevamo dal popolo e dai suoi tribuni, e sentivamo nascere in noi l’odio verso il governo e la gelosia verso le superiorità dei nobili o dei ricchi. Aggiungete a ciò un patriottismo selvaggio che non rispetta né il diritto naturale, né il diritto delle genti, né i vincoli i più sacri della natura. Ora è Scevola che si brucia la mano per avere sbagliato nello assassinare Porsenna; ora è Bruto che uccide i suoi figliuoli sospetti di congiurare contro la patria; ora è un secondo Bruto che pugnala Cesare, suo benefattore, ed altri ancora che sono esaltali come i tipi del patriottismo, come gli adoratori sublimi della libertà. « Che è ancora codesto patriottismo, il lato bello del mondo antico? L’odio dello straniero; distruggere ogni civiltà, soffocare ogni progresso, portare dovunque la face accesa e la spada, incatenare donne, fanciulli, vecchi ai carri trionfali, quest’essa era la gloria, quest’essa era la virtù. A tali atrocità il marmo degli scultori ed il canto dei poeti era riservato. Quante volte i nostri giovani cuori non palpitarono essi di ammirazione, pur troppo! e di emulazione a somigliante spettacolo! In tal modo i nostri professori, venerabili sacerdoti, pieni di cuore e di carità, ci preparavano alla vita cristiana! ». E cosiffatti tempi si chiamano i tempi-modelli, i tempi dell’eroismo e della grandezza d’animo; e quell’antichità pagana, in cui simili azioni si facevano, chiamasi « la più bella cosa del mondo, l’asilo calmo, pacifico e sano, destinato a conservare la gioventù fresca e pura ». Quest’esso è l’aere che da tre secoli la gioventù europea respira. Finalmente, l’albero diede i suoi frutti. Si era creduto che si poteva impunemente affidare al paganesimo la nostra educazione, la nostra letteratura, i nostri teatri, come se la logica del tempo non deducesse sempre, con inflessibile rigore, le conseguenze pratiche dalle teorie deposte nel cuore delle generazioni nascenti. Oggi, la benda fatale è caduta: la Rivoluzione francese fu la traduzione sanguinosa delle nostre idee di collegio. Essa si spiega, senza dubbio, con motivi estranei all’insegnamento classico. Ma si può mai dubitare che un tal insegnamento non v’abbia aggiunto una quantità d’idee false, di sensi brutali, d’utopie sovversive, di esperimenti fatali? Si leggano i discorsi pronunciati all’Assemblea Legislativa ed alla Convenzione Nazionale: non sono altro se non prosopopee, invocazioni, apostrofi a Fabrizio, a Catone, ai due Bruti, ai Gracchi, a Catilina. – Si sta per commettere un’atrocità? Per glorificarla si trova sempre l’esempio di un Romano. Ciò che l’educazione pose nello spirito passa nelle azioni. È cosa convenuta che Sparta e Roma siano dei modelli: bisogna dunque imitarle o parodiarle. L’uno vuole instituire i giuochi olimpici, l’altro le leggi agrarie ed un terzo il brodetto nero degli schiavi. « Che voleva Robespierre? Innalzare gli animi all’altezza delle virtù repubblicane dei popoli antichi (3 nevoso, anno III). Che mai voleva Saint-Just? Voleva offrirci la felicità di Sparla e di Atene, e che tutti i cittadini portassero sotto i loro panni il coltello di Bruto (23 nevoso, anno III). Che mai voleva i l sanguinario Carrier? Che tutta la gioventù guardasse in faccia oramai le braci ardenti di Scevola, la morte di Cicerone e la spada di Catone suicida. Che mai voleva Rabaut-Saint Étienne? Che secondo i dettami dei Cretesi e degli Spartani, lo Stato s’impadronisse dell’uomo sin dalla culla ed anche prima del nascere (16 dic. 1792). Che mai voleva la Sezione dei Trecento? Che si consacrasse un tempio alla Libertà, e si facesse erigere un altare sul quale bruciasse un fuoco perpetuo, nutrito da giovani Vestali (19 marzo 1794). Che mai voleva la Convenzione tutta quanta? Che le nostre comuni non contenessero più se non dei Bruti e dei Publicoli (Baccalaureato e socialismo, p. 48 e 58) ». – Non solo il paganesimo appare per intero nei discorsi, nelle massime e negli atti privati; esso passa nelle leggi, nei pubblici costumi e nei nomi. Il diritto del più forte, schifosa legge del mondo antico, diventa l’unica regola dei legislatori. Il sangue innocente tinge in rosso il palco e si mischia a torrenti alle onde dei nostri fiumi; la spogliazione è di moda in tutta quanta la Francia. Nelle pubbliche feste ritorna tutta quanta la mitologia: i Genii, il Tempo, la Vecchiezza, le Stagioni, i carri trascinati dai buoi colle corna dorate; sulle piazze, nelle vie ricompaiono le Baccanti scapigliate. La più infame delle Dee pagane risale sugli altari; essa ha i suoi sacerdoti e i suoi adoratori; il Panteon riceve i cittadini giudicati degni dell’apoteosi. Noi abbiamo la repubblica, il popolo-re, dei licei, degli Atenei, dei Pritanei, dei ginnasti, degli ippodromi, dei circhi olimpici, dei comizi, delle municipalità, dei prefetti, dei consoli, un dittatore, un tribunato, un senato, un imperatore, dei decreti, dei Senatus-consulti; l’aquila guida le nostre legioni alla vittoria; ed affinché nulla manchi a questa atroce e burlesca parodia, ci si costringe a porci in capo il berretto frigio. I costumi diventano feroci, il dar del tu a tutti rientra nella lingua; il giuramento d’odio alla monarchia è rinnovato conforme ai Romani; dovunque, i loro Mani sono invocati; Bruto ha imitatori. – I Francesi del secolo XVIII si gloriano di portare i nomi di Catone, di Scevola, di Manlio, di Anacarsi, di Dracone, di Simonide, di Socrate, di Gracco e di Anassagora. In qual modo simili pazzie, per non dire simili atrocità, poterono commettersi con un sì strano buon esito? Carlo Nodier risponderà. Dopo aver dipinto le scene orribili della Rivoluzione e la bruttura delle Assemblee popolari, soggiunge: « Ciò che v’ha di notevole si è che noi non eravamo affatto preparati ad un tal ordine di cose eccezionali, noi altri scolari, che da un’educazione anomala ed anormale eravamo assiduamente preparati sin dall’ infanzia a tutte queste aberrazioni di una politica senza base. Non v’era gran sforzo a fare per passare dai nostri studi di collegio alle discussioni del foro e alla guerra degli schiavi. La nostra ammirazione era già tutta per le istituzioni di Licurgo e pei tirannicidi delle Panatenèe: non ci si era mai parlato d’altro che di questo. « I più vecchi di noi riferivano che, alla vigilia dei nuovi avvenimenti, il premio della composizione di retorica si era disputato tra due perorazioni, alla guisa di Seneca l’oratore, in favore di Bruto l’antico e di Bruto il giovine. Non so chi l’abbia vinta agli occhi dei giudici; se colui che uccise il proprio padre o se colui che uccise i suoi figliuoli: ma il laureato fu incoraggiato dall’Intendente, accarezzato dal primo Presidente ed incoronato dall’Arcivescovo. All’indomani si seppe d’una rivoluzione e se ne meravigliarono, come se non si avesse dovuto sapere ch’essa si era fatta nell’educazione del popolo. « Se la moda di tali pedantesche suasorie si rinnovasse, e se si trattasse di decidere chi, di Voltaire o di Rousseau, abbia maggiormente contribuito all’annientamento delle nostre vecchie dottrine monarchiche e religiose, confesso che sarei passabilmente imbarazzato nella scelta; ma non dissimulerei che Tito Livio e Tacito vi ebbero una buona parie. Cotale testimonianza, la filosofìa del secolo XVIII non può non renderla ai Gesuiti, alla Sorbonna ed all’Università (Rimembranze, t. I, 88) ».

CAPITOLO XXIV

SEGUITO DEL PRECEDENTE

Abbiamo veduto il paganesimo antico riprodotto, tratto per tratto, nell’Europa moderna dalla guerra esterna ed interna quasi continua, da un amore feroce della libertà, da un patriottismo selvaggio, così bene imitato secondo i Greci e i Romani, che non si sa quale divario trovare tra i novelli e gli antichi Bruti, tra la lingua, i disegni, le azioni, ed i costumi degli uni e degli altri. Rendiamo compiuto questo quadro che non si potrebbe abbastanza studiare. Quale altra lezione il paganesimo classico dà alla gioventù? Ignorando la vera nozione del potere, il paganesimo classico le dimostra il dispotismo come l’unica legge della società; e siffatto dispotismo passando a volte dalle mani della moltitudine in quelle di un solo uomo. Tale si è l’idea colla quale da tre secoli in qua vien resa famigliare la gioventù. Il paganesimo classico mostra alla gioventù i l potere sovrano non già come cosa divina, la cui origine non trovasi sulla terra; non già come un deposito divino il cui depositario deve rendere conto a Dio; non già come un carico che richiede il sacrificio continuo del superiore all’inferiore; ma sì come cosa d’origine umana, come un deposito umano il cui depositario deve conto all’uomo solo; non già come un carico, ma come un benefizio che suona gloria, onori, piaceri a colui che lo possiede. In una parola, il paganesimo classico falsifica affatto la nozione del potere politico, il quale, più non essendo se non un mandato umano od una conquista della forza, finisce sempre col dispotismo di un solo uomo o della moltitudine. – Quindi vediamo in tutte le repubbliche classiche assemblee popolari di continuo rinnovate per trasmettere il potere, per determinarne i limiti, per giudicarne i contabili; vediamo tribuni faziosi per equilibrare la loro autorità, ed un senato geloso per sorvegliarne l’esercizio. Poscia rivalità e gelosie perpetue; poscia cospirazioni per togliere il potere, o congiure per assassinare i tiranni; poscia elogi egualmente assoluti agli assassini ed ai tiranni, a Bruto e a Cesare, a Cicerone ed ai Triumviri; poscia finalmente la repubblica sempre palleggiata, che inevitabilmente finisce con cadere in eccessi di licenza sfrenata, e quindi in un’abbietta servilità. Tale si è il nuovo tratto del quadro col quale, da tre secoli in qua, vien resa famigliare la gioventù, avendosi cura di ripeterle, qui come altrove, l’eterno ritornello che il sig. Thiers ridice ancora ai dì nostri, e che, nell’ora stessa in cui io vergo queste linee, risuona in lutti i collegi d’Europa: L’antichità è quanto vi è di bello al mondo. Ma qui eziandio giudichiamo l’albero dai suoi frutti. Quali sono le risultanze politiche di simile educazione? Da una parte, la totale alterazione della vera nozione del potere; d’altra parte, la glorificazione e la pratica di queste teorie sovversive. Alterazione della vera nozione del potere. I secoli cristiani ripetevano con San Paolo che ogni potere viene da Dio. Ora, dite di presente all’Europa, discepola del paganesimo, che ogni potere deriva da Dio, e dipende da Gesù Cristo, Re dei Re, Signore dei signori; combattete il dogma pagano della sovranità del popolo: e vedrete se v’ha una sola nazione che vi capisca, e vedrete quanti saggi vi risponderanno con non altro che con un sorriso di pietà. Leggete i discorsi solenni, i discorsi in certo modo nazionali, discorsi del trono, discorsi degli oratori parlamentari, e guardate se non vi trovate ad ogni pagina il nome della Nazione, il nome del Popolo, il nome della Patria, invocato in tutta Europa come la ragion suprema del diritto e del dovere. Perché mai la ripetizione così frequente di tal nome, sostituito al nome di Dio, se non perché l’autorità ch’esso esprime è onnipossente, sola possente, sola considerata come la sorgente del potere nel mondo politico d’adesso? Glorificazione e pratica delle teorie sovversive del paganesimo. Leggete i giureconsulti, i legisti, i filosofi della moderna Europa, tutti nutriti della bella antichità pagana; che cosa vi troverete? Essi vi raccontano che « la società è un contratto; che per essere legittimo il Governo, esser deve fondato sul libero consenso dei sudditi, che senza di ciò esso non è se non violenza, usurpazione, assassinio (Rousseau , Emilio, t. IV, p. 349; Enciclop., Autorità politica; Sistema della natura, 1.1, c. 9. e 16.); che ogni potere viene dal popolo; che il popolo si è la sola potenza la quale non abbia d’uopo d’aver ragione per legittimare i suoi atti (Rousseau, ib.); che insegnare che i principi tengono il loro potere da Dio è una massima immaginata dal clero, il quale non pone i re al di sopra del popolo, se non per comandare ai re stessi in nome della Divinità; dunque non è altro che una catena di ferro la quale tiene una intera nazione sotto i piedi di un solo uomo ; che il Magistrato supremo altro non è se non il primo fattorino della nazione (Elvezio, Dell’uomo, t.II nota 5 p.596); che nei secoli di barbarie si poté pascere d’ambigue parole gli spiriti traviati da un’epidemia di fanatismo, e tener saldi con vuoti suoni dei greggi che camminavano solo al suono delle trombe; ma quando uno Stato si è incivilito, forse che allora esso cerca nelle tenebre dell’ignoranza e dell’errore le fondamenta dell’autorità legittima? che il popolo è il solo sovrano; che esso ha il diritto di giudicare i re; che il loro mandato viene dalla sua volontà; .quando essi lo violano, il loro mandato è infranto; che l’insurrezione è il più santo dei doveri (Dichiaraz. e discorsi di tutti gli oratori rivoluzionari del 93 e del 1848 inclusivamente.) ». E il popolo insorse da un capo all’altro d’Europa, e giudicò i tiranni, e si trastulla colle corone come un fanciullo coi balocchi; e noi vedemmo in meno di un mezzo secolo cinquantadue troni andare in frantumi, e le sanguinose loro reliquie trascinate nel fango dei trivii dal popolo-sovrano; e v’ebbero canti di trionfo per gli assassini dei re, come già ve ne furono per Scevola, per Bruto, per Macrone e per Stefano; e la società sempre divisa dall’odio, sempre palleggiata tra le fazioni, passa alternativamente dalla tirannide la più dura alla servilità la più vile; i più fieri Bruti del 93 diventano i più schifosi servitori del soldato fortunato che indorò le cuciture dei loro abiti; oggi pure, malgrado le sue superbe pretese alla libertà ed all’eguaglianza, la società si sottometterà senza fiatare al Tiberio che vorrà porle il piede sul collo. Aspettando di obbedire alla sciabola d’un soldato pretoriano, la società obbedisce alla penna di un commesso, come una macchina alla cieca forza che la fa muovere. Ecco ciò che noi siamo da tre secoli in qua, ed ecco ciò che dobbiamo essere. Ritornato al paganesimo colla sua educazione, il mondo dové a forza rientrare nelle condizioni sociali del paganesimo: rivalità, anarchia, dispotismo, servilità, instabilità, rivoluzioni. Riflettete e conchiudete. Rimane a porre in luce un ultimo frutto dell’albero pagano. – « Il vero progresso, dice l’illustre pubblicista spagnolo Donoso Cortes, consiste nel sottoporre l’elemento umano, che corrompe la libertà, all’elemento divino, che la purifica. La società seguì una via diversa riguardando siccome la morte l’impero della fede; e proclamando l’impero della ragione e della volontà dell’uomo, rese assoluto, universale e necessario il male, che era relativo, eccezionale e contingente. Questo periodo di rapida retrogradazione cominciò in Europa colla restaurazione del paganesimo letterario, che successivamente produsse le restaurazioni del paganesimo filosofico, del paganesimo religioso e del paganesimo politico. Oggi il mondo è alla vigilia dell’ultima di queste restaurazioni, la ristaurazione del paganesimo socialista ( Lettera al signor di Montalembert, 4 giugno 1849.) ». – Ah sì! Il socialismo che ci minaccia è un frutto del paganesimo classico. Esso è insegnato dagli autori dei quali s’insegna alle generazioni d’Europa a considerare le parole come oracoli, e le teorie sociali come quanto v’ha al mondo di più perfetto e di più leggiadro. – Il socialismo intacca nelle sue basi la famiglia e la proprietà e tende a realizzare, coll’annientamento della libertà individuale a profìtto dello Stato, il più vasto, il più vergognoso, il più spaventoso dispotismo che mai abbia pesato sul mondo. Ora, il paganesimo che ci si insegna ad ammirare, insegna e pratica il socialismo nella famiglia. « Legislatori di popoli guerrieri, Licurgo e Platone capiscono che la famiglia può indebolire l’abnegazione militare. Noi stessi lo sentiamo, poiché vietiamo il matrimonio ai nostri soldati. Pure bisogna che la popolazione cresca. Come risolvere il problema? Come fecero Platone in teoria e Licurgo in pratica? Colla promiscuità. Platone e Licurgo, ecco i nomi che ci si avvezza a non pronunziare se non con idolatria (Baccalaureato e Socialismo, p. 14.) ». – Roma stessa, degna discepola della Grecia, consacrò il concubinato e il divorzio (3 V. Storia della famiglia, t. I, c. 9 e 10.). V’ha di più: nell’antica famiglia il socialismo assorbe la libertà della donna e del figliuolo a pro del padre, come lo Stato medesimo assorbe a suo pro la libertà del padre. Infatti, Licurgo stabilisce in principio che il figliuolo appartiene non già a suo padre, ma sì allo Stato, e noi vedemmo con qual barbaro rigore codesta legge socialista si eseguisse. Vedemmo eziandio che tali teorie pagane sulla famiglia e sul figliuolo sono diventate la base delle istituzioni dell’Europa moderna col divorzio, colla coscrizione militare e col monopolio dell’insegnamento. Se esse non sono riprodotte alla lettera, ringraziamone il Cristianesimo, il cui segreto influsso ci vieta d’essere sì cattivi come i nostri princìpi. – In quanto alla proprietà, io sfido a trovarne in tutta quanta l’antichità una definizione passabile (L’antichità era incapace di darne una. Allora l’uomo non essendo seriamente responsabile innanzi a Dio, non poteva essere realmente inviolabile innanzi agli uomini. « Infatti, l’uomo non è inviolabile se non perché egli ha una responsabilità assoluta innanzi a Dio. La proprietà, frutto dell’uomo, non è inviolabile se non della inviolabilità dell’uomo. Dacché egli non è più responsabile innanzi a Dio, perde la sua inviolabilità sulla terra: la sua proprietà non è più inviolabile di quella del lupo. La difenda, se può; ma la proprietà non è più legittima.). – La vera base della proprietà è la volontà del Proprietario universale di ogni cosa: è codesta parola di Dio: Tu non ruberai: non furtum facies. L’antichità o aveva dimenticato o aveva sprezzato questa ed invece di fondare il diritto di possedere sulla autorità di Dio, l’aveva fondato sull’autorità dell’uomo, cioè sull’autorità della legge. Ma se la legge umana crea la proprietà, la legge umana la può distruggere; è questo il principio del socialismo moderno. Quanto alla supremazia assoluta dello Stato e quanto all’assorbimento della libertà individuale nella volontà di un capo: che questo capo si chiami l’areopago, gli arconti, il Senato, Augusto o Tiberio, questo principio fu praticato in tutta quanta l’antichità classica con un rigore che non sarà sorpassato se non dal socialismo che ci si prepara. Il figliuolo vi era schiavo, la donna vi era schiava, i tre quarti del genere umano erano schiavi. Quest’ordine di cose non era se non l’applicazione degli insegnamenti della filosofia. Il suo più celebre rappresentante, Platone, sciogliendo successivamente tutti gli elementi dal multiplo, giunge all’unità assoluta, cima della sua dialettica. Circoscritta nello spazio delle idee astratte, codesta teoria non è più pericolosa di un’altra; ma applicata al governo delle cose umane, contiene il vizio irrimediabile di annichilare l’individuo sacrificandolo tutto quanto al complesso. Platone, sempre coerente a se stesso, e collo sguardo rivolto alla sua unità assoluta, proclamò infatti nella sua repubblica la comunanza dei beni, la comunanza delle donne, la direzione del cittadino per mezzo dello Stato, dalla culla sino alla tomba. Tali sono le istituzioni che ci si insegna ad ammirare. E voi volete che non si trovino uomini disiderosi di diventare tanti Minossi, tanti Licurghi, tanti Soloni, tanti Numa, tanti Platoni, tanti fabbricatori di costituzioni e di repubbliche sullo stampo delle repubbliche greche e romana! – « Voi esagerate, mi si dirà; non è guari possibile che la nostra gioventù studiosa attinga alla bella antichità opinioni e sensi sì deplorabili. E che mai volete ch’essa vi attinga se non quello che vi si trova? Fate uno sforzo di memoria e rammentatevi con quale disposizione d’animo siete entrato nel mondo Per me, quand’io vedo la società presente gettare i giovani, a decine di migliaia, nello stampo dei Bruti e dei Gracchi, per lanciarli poscia, incapaci d’ogni utile lavoro, nella stampa e nella via, mi stupisco che la società resista a tale prova. Poiché l’insegnamento classico non ha solo l’imprudenza di tuffarci nella vita greca-romana; esso vi ci tuffa avvezzandoci ad appassionarci per quella, a considerarla quale il bello ideale dell’umanità, tipo sublime, troppo alto collocato per le anime moderne, ma che noi dobbiamo sforzarci d’imitare senza mai pretendere di raggiungerlo (Baccalaureato e Socialismo, p. 20.). L’insegnamento classico ha ragione: noi non raggiungeremo mai il sistema sociale del paganesimo. O noi cadremo più in basso, o rimarremo molto al di sopra. « La rivoluzione cristiana è un fatto compiuto, del quale si devono subire le conseguenze. Voi fareste rivivere tutti i geni politici, militari, poetici, filosofici, artistici dell’antico mondo, ed essi sarebbero impotenti a ricostruire le società di cui furono la gloria. Uscite un po’ dalla cerchia fanciullesca delle vostre idee di collegio per tener conto delle realtà. Non vedete voi che il banchetto sociale, al quale l’Europa d’altra volta ammetteva appena dieci milioni di padroni, serviti da duecento milioni di schiavi, è molto troppo stretto pei duecento cinquanta milioni di padroni, di cui non un solo non esiterebbe a sfoderare la spada contro chi gli dicesse: sii tu il mio schiavo? – « Che un tale spirito di fratellanza, di eguaglianza e di libertà, il quale agita i popoli cristiani sia cosa lamentevole per gli ammiratori delle società antiche, sta bene; ma pure è un fatto vivo. – « Ora, ecco una delle conseguenze di questo fatto: lo spazio che poteva bastare alla vita di dieci milioni di cittadini formati dai legislatori della Grecia e del Lazio, sarebbe insufficiente ad un numero eguale d’uomini educati dall’Evangelio: come dunque basterebbe a duecento cinquanta milioni di cristiani? « Noi abbiamo popolazioni venti volte più numerose e senza paragone più esaltate nelle loro idee e nelle loro pretese che non le popolazioni libere dell’antichità. Volere che queste masse di giganti si muovano in buon ordine o rimangano immobili nella sala di equitazione in cui presero le loro mosse ed in cui finirono con rimanere soffocati i figliuoli di Cecrope, di Licurgo, di Romolo e di Numa , si è un volere l’impossibile, si è un originare disastri. – « Però, tale fu lo scopo dei nostri moderni sistemi di educazione, se tuttavia è permesso di chiamare sistemi l’impasto sragionato dei più strani elementi (il sig Martinet, Della educazione dell’uomo) ».

CAPITOLO XXV

SEGUITO DEL PRECEDENTE

Continuiamo a spiegare il fatto particolare che in questo momento ci occupa, il fatto che sulla soglia dell’avvenire si erge come un gigante innanzi al mondo atterrito: il comunismo ed il socialismo. Come volete voi che la gioventù studiosa, non ne attinga i principi nella nostra educazione pagana, giacché vi si trova tutto quanto, e mentre gli uomini i più segnalati non seppero schermirsene? Lo dico a malincuore e scusandone le intenzioni: « La lunga frequentazione degli antichi non fece forse un comunista di Fénélon, di questo uomo che l’Europa moderna considera a ragione quale il più bel tipo della perfezione morale? Leggete il suo Telemaco, questo libro che si ha fretta di porre in mano alla gioventù; voi vi vedrete Fénélon toglier a prestito i lineamenti della Sapienza medesima per istruire i legislatori. E su qual disegno organizza egli la sua società-modello? Da un lato, il legislatore pensa, inventa, opera; dall’altro, la società, impassibile, inerte, lascia fare. – Il motore morale, il principio d’azione è in tale guisa strappato a tutti gli uomini per essere l’attributo di un solo. Precursore dei nostri moderni più ardili organizzatori sociali, Fénélon decide del cibo, della dimora, tutti i Salentini. Egli dice ciò che loro sarà permesso di bere e di mangiare, su qual disegno le loro case dovranno essere fabbricate, quante camere conterranno, e come saranno addobbate. « Mentore, egli dice, stabilì magistrati ai quali i mercanti rendevano conto delle sostanze loro, dei loro lucri, delle loro spese e delle loro imprese… D’altra parte la libertà del commercio era intera… Mentore regolò gli abiti, il cibo, le suppellettili, la grandezza e l’addobbo delle case per tutte le varie condizioni.«Regolate le condizioni della nascita, diceva al re …. Le persone del primo grado, dopo voi, saran vestite di bianco…. quelle del secondo grado, d’azzurro,… le terze, di verde…. le quarte, d’un giallo roseo…. le quinte, d’un rosso pallido o roseo…. le seste, d’un grigio di lino …. e le settime, che saranno le ultime del popolo, d’un colore misto di giallo e di bianco. – Ecco gli abiti di queste varie condizioni per gli uomini liberi. Tutti gli schiavi saranno vestiti di grigiobruno; non si permetterà mai alcun cambiamento, né per la sorta delle stoffe, né per la forma degli abiti. Egli regola parimenti il cibo dei cittadini e degli schiavi; dà modelli di un’architettura semplice e graziosa. – Volle che ogni casa, alquanto considerevole, avesse una sala ed un portico, con camerette per tutte le persone libere ». Non si ravvisa qui forse una fantasia riscaldata dalla lettura di Platone e dall’esempio di Licurgo, divertendosi a fare esperimenti su vili uomini come su vile materia? Dove si troverà descritta in termini più seducenti l’onnipotenza dello Stato, il suo diritto di sistemazione universale, la sua personalità unica, sognata dagli attuali nostri socialisti? Non vi è forse ragione di chiedere a se stessi se ciò che si è letto è una pagina di Telemaco od un capitolo dell’Icaria del signor Cabet? « Vi è un altro uomo, quasi simile a Fénélon per il sapere e per il cuore, il quale s’occupò di educazione più che non Fénélon: egli è Rollin. Ebbene! A qual grado mai d’infermità intellettuale e morale la lunga frequentazione dell’antichità non aveva ridotto il buon Rollin Non si possono leggere i suoi libri senza sentirsi presi da tristezza e da pietà. Non si sa s’egli sia cristiano o pagano, tanto si mostra imparziale tra Dio e gli dei. I miracoli della Bibbia e le leggende dei tempi eroici trovano in lui la medesima credulità. Sul suo placido volto vedesi sempre errare l’ombra delle passioni guerriere; egli non parla che di giavellotti, di spade e di catapulte; per lui è uno dei problemi sociali i più importanti il sapere se la falange macedone valesse meglio che non la legione romana. Egli esalta i Romani, perché non si applicarono se non alle scienze che hanno per oggetto la dominazione, l’eloquenza, la politica, la guerra. Tutto il suo incenso è per Marte e per Bellona: a gran pena ne brucia alcun granello al Cristo…. L’intervento del legislatore in tutto sembra a Rollin così indispensabile, ch’egli si allegra coi Greci che un uomo per nome Pelasgo sia venuto ad insegnar loro a mangiare ghiande. Prima di Pelasgo, dice, i Greci si pascevano d’erba come i bruti (Baccalaur. e Social., p. 28.) ». Dopo qualche riserva per le leggi di Licurgo, Rollin ammette senza difficoltà il principio comunista di questo legislatore, cioè: che la legge crea la proprietà. « Il ladrocinio, dice, era permesso in Isparta, ed era con severità punito fra gli Sciti. Il motivo di simigliante differenza è sensibile; si è che la legge, la quale sola decide della proprietà e dell’uso dei beni, nulla fra gli Sciti, aveva concesso ad un particolare sulla possessione di un altro, e che la legge, fra gli Spartani, aveva fatto tutto l’opposto ». Se la legge è la ragione d’essere della proprietà, perché mai, domanda Proudhon, non sarebbe essa pure la ragione d’essere del furto? Che rispondere a siffatta domanda? – Dopo Rollin viene Montesquieu, ogni frase del quale ebbe per tanto tempo il privilegio di fare autorità, ed i cui scritti esercitarono sullo spirito della società un decisivo influsso. Ora Montesquieu, degno discepolo del paganesimo, non cessa d’ammirare e di proporre all’ammirazione dei suoi lettori le istituzioni dell’antichità le più comuniste e le più barbare. « Gli antichi Greci, dice, penetrati della necessità che i popoli viventi sotto un governo popolare fossero educati alla virtù, fecero, per ispirarla,istituzioni singolari…. Le leggi di Creta erano l’originale di quelle di Sparta, e quelle di Platone ne erano la correzione. Prego che si ponga un po’ di attenzione all’estensione di genio che era d’uopo a quei legislatori per vedere che, urlando lutti gli usi ricevuti, confondendo tutte le virtù, mostrerebbero all’universo la loro saggezza. Licurgo, mescolando il furto collo spirito di giustizia, la schiavitù la più dura colla libertà estrema, i sensi i più atroci colla più grande moderazione, diede stabilità alla città sua. Ei parve toglierle tutte le fortune, le arti, il commercio, il danaro, le mura: vi si ha dell’ambizione senza speranza di stare meglio; vi si hanno i sensi naturali, e e non vi si è né figliuolo, né marito, né padre. Per queste strade Sparta è condotta alla grandezza ed alla gloria; ma con tanta infallibilità nelle sue istituzioni, che nulla si otteneva contro essa guadagnando battaglie, se non si giungeva a toglierle la sua polizia (Spirito dello Leggi, lib. i v , e. 8. ) ». Più lungi, esaltando lo spirito d’ambizione che, ad esempio dei Greci e dei Romani, spinge oggi la gioventù d’Europa intera al dispregio delle professioni umili, ma utili, e produce la sclassificazione universale, così si esprime: « Bisogna riporsi in capo che nelle città greche, in quelle specialmente che avevano per principale oggetto la guerra, tutti i lavori e tutte le professioni che potevano condurre a guadagnar denaro erano considerale come indegne d’uomo libero. « La maggior parte delle arti, dice Senofonte, corrompono i l corpo di coloro che le esercitano; esse obbligano a sedersi all’ombra o presso al fuoco: non si ha tempo né pei proprii amici, né per la repubblica ». Non fu se non nella corruzione di alcune democrazie che gli artigiani giunsero ad essere cittadini. Aristotele ce lo narra, e sostiene che una buona repubblica non darà mai ad essi il diritto di città. Stupitevi se oggi tutti vogliono essere cittadini, se i libri dei filosofi ed i discorsi dei rivoluzionari sono pieni di declamazioni contro le arti, e se il popolo-re ne infranse sì stupidamente i capi d’opera! – « L’agricoltura, prosiegue Montesquieu, era eziandio una professione servile, ed ordinariamente era esercitata da qualche piopolo vinto: dagli Iloti fra i Lacedemoni, dai Perièci fra i Cretesi, dai Ponesti fra i Tessali, e da altri popoli schiavi in altre repubbliche. Finalmente tutto il commercio era infame fra i Greci. Avrebbe bisognato che un cittadino avesse reso servizi ad uno schiavo, ad un locatario, ad uno straniero: questo pensiero era avverso allo spirito della libertà greca. Perciò Platone vuole, nelle sue leggi, che si punisca un cittadino che commerci. Si era adunque molto imbarazzati nelle repubbliche greche: non si voleva che i cittadini lavorassero nel commercio, nell’agricoltura, né nelle arti; nemmeno si voleva che fossero oziosi. Essi rinvenivano una occupazione negli esercizi che dipendono dalla ginnastica ed in quelli che avevano relazione colla guerra: l’istituzione non ne dava altre ad essi (Spirito delle Leggi, lib, v.) ». Ma ecco cosa più direttamente comunista: « Non basta, soggiunge il degno rampollo della bella antichità pagana, che in una buona democrazia le parti di terreno siano eguali; bisogna che siano piccole, come fra i Romani…. Come l’eguaglianza delle fortune mantiene la frugalità, così la frugalità mantiene l’eguaglianza delle fortune. Queste cose, sebbene diverse, sono tali che non possono stare l’una senza dell’altra ». – Più lungi, egli trova meravigliosa un’istituzione che farà sorridere i signori Cabet e Consideraut. « I Sanniti, dice, avevano un’usanza la quale, in una repubblichetta, ed in ispecie nella condizione in cui versava la loro, produr doveva ammirabili effetti. Si che chi era dichiarato il migliore di tutti prendeva per moglie la fanciulla che egli voleva; quegli che dopo lui otteneva i suffragi sceglieva eziandio, e così di seguito…. Sarebbe malagevole immaginare una ricompensa più nobile, più grande, meno a carico di un piccolo Stato, più capace di operare su ambo i sessi. I Sanniti discendevano dagli Spartani, e Platone, le cui istituzioni non sono se non il perfezionamento delle leggi di Licurgo, promulgò a un dipresso una simile legge (Spirito delle Leggi, lib. VIII, c. 16.) ». Montesquieu avrebbe dovuto dirci quali erano gli effetti meravigliosi di tali sponsali, imposti dalla legge. Quanto io ne so (e questo non è per nulla meraviglioso) si è che la libertà di una delle parti non era menomamente contata. Quando dunque gli apostoli della libertà saranno essi d’accordo con loro medesimi? – A misura che il tempo procede, i frutti dell’albero pagano giungono alla loro maturità. Dopo Montesquieu viene Rousseau. Più d’ogni altro, il suo spirito ispirò la Rivoluzione francese. « Le sue opere, dice Luigi Blanc, erano sul tavolo del Comitato di Salute Pubblica. I suoi paradossi, che il suo secolo prese per audacie letterarie, dovevano bentosto risuonare nelle assemblee della nazione sotto la forma di verità dogmatiche e taglienti siccome fa spada. Il suo stile ricordava il linguaggio veemente e patetico di un figliuolo di Cornelia. Pagano pel linguaggio, Rousseau lo era anche per i pensieri; egli stesso dice che la lettura di Plutarco lo fece quale egli è. Poi, rendendo omaggio a Sparta, sua madre nutrice, grida: « Dimenticherò io che fu in seno alla Grecia che si vide innalzare quella città così celebre per la sua fortunata ignoranza, come per la sapienza delle sue leggi? quella repubblica di semidei, anziché d’uomini, talmente le loro virtù parevano superiori alla umanità? O Sparta! eterno obbrobrio di una vana dottrina! Mentre ì vizi, guidati dalle belle arti, si introducevano in Atene; mentre un tiranno vi adunava con tanta cura le opere del principe dei poeti, tu cacciavi dalle tue mura le arti e gli artisti, le scienze e i dotti (Discorso sulla ineguaglianza delle condizioni.)! »Dopo d’avere, con tali declamazioni, empiuto d’idee spartane lo spirito pubblico e preparato l’atroce vandalismo della Rivoluzione francese, egli prosegue ad inspirare se stesso alla bella antichità per scalzare le basi tutte della società: « Io mi fingerò, dice, nel liceo d’Atene, ripetendo le lezioni dei miei maestri, avendo per giudici i Platoni ed i Senocrati, e l’uman genere per uditore. Sinché gli uomini stettero paghi alle loro rustiche capanne, sinché stettero paghi a cucire le loro vesti di pelli con ariste, ad abbigliarsi di penne e di conchiglie, a dipingersi il corpo di vari colori ;…. sinché non si occuparono se non delle opere che un solo poteva fare, essi vissero liberi, sani e felici. Dal punto che un uomo ebbe d’uopo dell’aiuto di un altro uomo; dal punto che fu visto esser vantaggioso ad un solo l’avere provvisioni per due, l’eguaglianza disparve, la proprietà s’introdusse, il lavoro diventò necessario. La metallurgia e l’agricoltura furono le due arti, la cui scoperta produsse questo grande rivolgimento. Pel poeta, si è l’oro e l’argento; pel filosofo, si è il ferro e il grano che incivilirono gli uomini e perdettero il genere umano (Discorso sulla ineguaglianza delle condizioni) ». Uscire dallo stato sociale per rientrare al più presto nello stato di natura; sconoscere tutte le relazioni di superiorità, di rispetto, d’affetto, di proprietà, che il patto sociale, prodotto della corruzione, stabilì fra gli uomini; proclamare il diritto inalienabile ed illimitato d’ogni individuo a quanto lo tenta ed a quanto egli può raggiungere; tali sono, secondo Rousseau, i doveri naturali dell’uomo. Sei fosse morto alcuni anni più tardi, avrebbe visto con i suoi occhi questi doveri letteralmente adempiti dai suoi discepoli; e Licurgo, Platone e Senocrate, suoi degni maestri, commuoversi d’aver trovato un interprete sì fedelmente ascoltato.Infatti, Rousseau aveva detto : « La proprietà è di convenzione e d’instituzione umana, mentre la libertà è un dono della natura ». E Mirabeau prosiegue: « La proprietà è una creazione sociale. Le leggi non proteggono, non mantengono, solamente la proprietà, ma la fanno nascere ». Nel suo famoso discorso sulla soppressione delle decime, nel quale il sig. Thiers, il difensore della proprietà, trova tratti decisivi di ragione e d’ironia, il focoso oratore così si esprime: « La decima è il sussidio col quale la nazione salaria gli ufficiali di morale e d’insegnamento ». La sconvenienza di queste espressioni fece nascere mormorii alla destra dell’Assemblea, ed allora l’eloquente marchese esclamò: « Tempo sarebbe che si abiurassero i pregiudizii d’ignoranza orgogliosa che fan disprezzare le parole salario e salariati. Io non conosco se non tre modi di esistere nella società: bisogna esservi mendicante, ladro o salariato. Il proprietario non è egli stesso se non il primo dei salariati. Ciò che noi chiamiamo volgarmente la proprietà non è altro se non il prezzo che gli paga la società per le distribuzioni ch’egli è incaricato di fare agli altri individui colle sue spese: i proprietarii sono gli agenti, gli economi del corpo sociale ». – Robespierre soggiunge : « Definendo la libertà, questo primo bisogno dell’uomo, il più sacro dei diritti che egli ha dalla natura, noi abbiamo detto a ragione ch’essa ha per limite il diritto altrui. Perché non avete voi applicato questo principio alla proprietà, che è un’istituzione sociale, come se le leggi di natura fossero meno inviolabili delle convenzioni degli uomini?… La proprietà è il diritto che ciascun cittadino ha di godere e di disporre dei beni che a lui sono garantiti dalla legge ». Da questo segue che il legislatore può mettere all’esercizio del diritto di proprietà, poiché egli lo crea, le condizioni che a lui piacciono. Così Robespierre si affretta a dedurre dalla sua definizione il diritto al lavoro, il diritto all’assistenza, l’imposta progressiva. – « La società, ei dice, è obbligata a provvedere alla sussistenza di lutti i suoi membri, sia procurando ad essi lavoro, sia assicurando mezzi di esistenza a coloro, che sono fuori stato di lavorare. I soccorsi necessari all’indigenza sono un debito del ricco verso il povero. Appartiene alla legge il determinare il modo in cui questo debito debba essere soddisfatto. I cittadini, il cui reddito non eccede quanto è necessario alla loro sussistenza, sono dispensati dal contribuire alle pubbliche spese. Gli altri le devono sopportare progressivamente, secondo l’estensione della loro fortuna». Ancor più esplicito, Bruto Saint-Just proclama il lavoro una infamia, ed il comunismo l’unico mezzo di dare dei costumi ai Francesi: « Un telaio, egli dice con Licurgo, sta male al vero cittadino. La mano dell’uomo non è fatta se non per la terra e per le armi. Il giorno in cui io mi fossi convinto ch’è impossibile dare ai Francesi costumi dolci, sensitivi ed inesorabili verso la tirannia e l’ingiustizia, io mi pugnalerei. Sevi fossero costumi, tutto andrebbe bene; sono necessarie delle istituzioni per purgarli. Per riformare i costumi, bisogna cominciare dall’appagare il bisogno e l’interesse. Bisogna dare qualche terreno a tutti. 1 fanciulli siano vestiti di tela in ogni stagione. Dormano essi su pagliericci e dormano otto ore. Siano nutriti in comune e non vivano se non di radici, di frutta, di legumi, di pane e d’acqua: non possano mangiar carne se non dopo i sedici anni. Gli uomini di venticinque anni saranno tenuti di dichiarare ogni anno nel tempio i nomi dei loro amici. Colui che abbandona il suo amico senza sufficiente motivo sarà esiliato ». – Terminiamo queste citazioni che sarebbe agevole il moltiplicare. Mi si permetta soltanto di coronarle coll’aneddoto seguente. Allorché si trattò di dare alla Francia la costituzione dell’anno III, uno dei membri della Commissione incaricata di preparare il lavoro, Hérault de Séchelles, non trovò cosa migliore quanto il prendere a modello le leggi di Minosse. In conseguenza s’affrettò a scrivere ad uno dei suoi amici (Barthélemy), l’autore di Anacarsi, conservatore della Biblioteca Nazionale, pregandolo di mandargli senza indugio il codice del legislatore cretese! Provatevi adesso di negare la potenza delle rimembranze di collegio e l’influsso sociale della bella antichità! A bella posta io mi sono a lungo fermato sulla filiazione del socialismo. Da una parte, esso costituisce il più formidabile nemico della presente Europa; dall’altra, assalendo addirittura l’interesse materiale, esso é tale da far capire meglio di ogni altra considerazione il pericolo del paganesimo classico, di cui è l’irrecusabile progenitura. « Tale è dunque, in due parole, il cammino impresso alla Rivoluzione dal convenzionalismo greco-latino. Platone segnò l’ideale. – Sacerdoti e laici, nei secoli 16°, 17° e 18° si pongono a celebrare questa maraviglia: l’ora dell’operare giunge: Mirabeau discende il primo gradino, Robespierre il secondo, Saint-Just il terzo, Antonelle il quarto, e Babeuf, più logico di tutti i suoi predecessori, s’innalza da ultimo al comunismo assoluto, al platonicisino puro. Dovrei qui citare i suoi scritti; mi limiterò a dire, poiché questa è cosa caratteristica, ch’egli li firmava Caio Gracco ». Per attenuare l’influenza del paganesimo classico, si dice: « Le classi inferiori non conoscono nè Licurgo, nè Platone, e tuttavia esse sono oggidì socialiste ». Lascerò al nostro grande ammiratore dei pagani il sig. Thiers, l’onore di rispondere: « L’insegnamento secondario, egli dice, insegna ai giovanetti delle classi colte le lingue antiche… Né sono già soltanto parole che si insegnano ai giovani, insegnando loro il greco e il latino, ma sì nobili e sublimi cose (La spogliazione, la guerra, la schiavitù, il divorzio, il materialismo e il comunismo.), la storia dell’umanità sotto immagini semplici, grandi, incancellabili… L’istruzione secondaria forma ciò che si dice le classi colte di una nazione. Ora, se le classi colte non sono la nazione tutta quanta, esse la caratterizzano. I loro vizi, le loro qualità, le loro inclinazioni buone e cattive sono in breve quelle di tutta la nazione, e formano il popolo stesso col contagio delle loro idee e del loro sentire (Benissimo). L’antichità, osiamo dirlo ad un secolo orgoglioso di sé, l’antichità è ciò che v’ha di più leggiadro al mondo. Lasciamo, o signori, lasciamo i giovinetti nell’antichità come in un asilo calmo, pacifico e sano, destinato a conservarli freschi e puri ». – Si, o signori, continuate a mandare i giovinetti nella leggiadra antichità, in cui la schiavitù è la base del sistema sociale; in cui l’odio reciproco delle classi sociali è il senso universale; in cui il divorzio è consacrato dalla legge; in cui il socialismo è insegnato dalla filosofia, vantato dall’eloquenza, cantato dalla poesia: continuate a dar loro per modello la calma dell’antica Roma, la pace dell’antica Roma, la santità dell’antica Roma, e fate conto che ritornino a voi freschi e puri.

NOACHISMO: il vero obiettivo del modernismo infernale del “novus ordo”

Dall’angolo del falso concilio o conciliabolo, così detto Vaticano II, e grazie al concorso dei dirigenti franco-massoni che hanno dato e danno tuttora continuità al conciliabolo summenzionato, il giudaismo internazionale si è dunque sforzato di attaccare il Cattolicesimo Romano dal suo interno. Deviare la dottrina, significava snaturarla, distruggerla, annientarla. I fatti sono irrefutabili, la cronologia degli avvenimenti succedutisi dal “concilio” in poi, da svariati anni, approva in pieno questa tesi, oramai sotto gli occhi di tutti coloro che tengono gli occhi aperti! – L’avvento di uno pseudo-papa al servizio della causa mondialista è in fase di avanzata attuazione, iniziatasi visibilmente fin dal 26 ottobre del 1958. L’interreligiosità è ormai ben impiantata a Roma, caduta nella totale apostasia, a tal punto che l’ecumenismo [di stampo massonico] è paragonabile quasi ad un dogma di fede per i “dirigenti” post-conciliari. Questo corrisponde in ogni caso ad una volontà di ecumenismo religioso che la sinarchia mondialista ha da tempo perseguito. All’uscita della seconda guerra mondiale, il franco-massone Julian Huxley profetizzò l’evoluzione del Vaticano in questi termini: « la Chiesa cattolica dovrà essere poco a poco purgata dalle sue dottrine intransigenti e particolari, e non conserverà che le espressioni basilari della religione che possono essere condivise da una vasta fraternità religiosa e culturale che dovrà includere tutti i culti e tutte le civilizzazioni. » [discorso del 20/11/ 1946 in una riunione dell’UNESCO a Parigi]. Attualmente non resta che da completare questo “minestrone” ecumenico mescolando in un blasfemo “pentolone” tutte le confessioni [i cui déi sono demoni, come già recitava il salmista profetando nel salmo XCV], ed imponendo una falsa religione ai goïm [i non giudei e i non falsi giudei-kazari]. « La costituzione di una religione universale è lo scopo finale del Giudaismo, » ha scritto il rabbino Elia Benamozegh [in “Israele e l’umanità”, 1961]. Questa religione porta un nome: si tratta del NOACHISMO. – L’idea noachide per i non-giudei fu concepita dal Giudaismo. Essa proviene direttamente dal Talmud. Questa falsa religione deve sostituirsi al Cristianesimo senza necessariamente che se ne ripudi il nome. È una sorta di Cristianesimo nuovo – che non è necessariamente uno – che la sinagoga kabalista vuole si applichi ai gentili, questi non-Giudei, i disprezzati dal “popolo eletto” [da se stesso!]. – Il rabbino Elia Benamozegh conferma la natura propria del noachismo, questa (falsa) religione universale misconosciuta dal grande pubblico. Secondo il rabbino livornese, « il noachismo è la vera, l’unica, l’eterna religione dei gentili. » si tratta di un movimento religioso che « farà fare al Cristianesimo la sua ultima evoluzione […] mediante questa attitudine, che prendereste, potreste essere molto più utili al Giudaismo che se entraste nel suo seno, si, molto più utili dall’esterno che non dall’interno. Ma quando dico dall’esterno, è un modo di dire; in realtà il laico, il noachita, non è fuori dalla Chiesa, egli è nella Chiesa e costituisce egli stesso la vera Chiesa » [L’Église èclipsée, 1997]. Benamozegh precisa questa nozione importante: « non si tratta di cancellare il Cattolicesimo dalla superficie della terra, ma di operare una metamorfosi secondo i criteri della legge noachita ». [op. citata] è dunque ad una trasformazione della Religione Cattolica che il rabbino si richiama. Elia Benamozegh non è il solo ad approvare il naochismo per i goïm. In effetti già le “costituzioni di Anderson”, datate 1738 si pronunziano per una religione universale in cui ognuno dovrà seguire i sette principi di Noè. Citato da Aimé Pallière nel “Santuario sconosciuto”, Elia Benamozegh prosegue: « la religione dell’umanità non è altra cosa che il naochismo (…). Ecco la religione conservata da Israele per essere trasmessa ai gentili (…). Il noachide si ritrova nell’ambito della sola chiesa veramente universale, fedele di questa religione, come il giudeo ne è il sacerdote incaricato, non si dimentichi, di insegnare all’umanità la religione di questi laici, così come egli è tenuto, in quel che personalmente lo concerne, a praticare quella dei suoi sacerdoti. » – Questo neo-Cristianesimo deviato e mistificato, comporta le sette leggi di Noè, i sette comandamenti ai quali i goïm devono obbedienza. La proibizione dell’idolatria e della blasfemia, sono i primi due comandamenti. Essi cono centrati su Dio. Si distingue in seguito la proibizione dei rapporti carnali illeciti – l’adulterio e l’incesto in particolare che sprofondano nella dissolutezza. “Non uccidere” e “non rubare” sono altre due leggi noachite. Bisogna infine aggiungere l’istituzione dei tribunali. Questa ultima legge serve a copertura delle altre sei [e a farle rispettare]. Con il noachismo il Cristiano deve rinunciare ai suoi dogmi principali come la Santissima Trinità e la Divinità di Gesù-Cristo. Adottando questa nuova religione, egli deve perciò cessare di essere Cattolico! – Il noachismo è la realizzazione della formattazione talmudica per i goïm. In tal modo il popolo giudaico diventerebbe il popolo sacerdotale rispetto ai noachidi, di cui esso controllerebbe la falsa religione. Infatti, come lo ha sottinteso Benamozegh, il noachismo è al servizio del messianesimo giudaico talmudico, lasciando il sedicente fedele goïm all’interno della Chiesa. I giudei realizzerebbero così « questa bella teoria della kabbala che fa dell’unione e della concordia degli spiriti qua in basso, il mezzo per realizzare la discesa e lo stabilirsi della divinità sulla terra » [op. cit.], diceva Benamozegh. Prima di arrivare a questo stadio, il lavoro di demolizione deve essere compiuto dalla Chiesa del Vaticano II. Così è successo che i diversi “capi” usurpanti, specie i marrani Montini (c.d. Paolo VI], Woitiła [il teosofo comunista sedicente Giovanni Paolo II], e Ratzinger [l’emerito … Benedetto XVI], hanno fatto tanto per mascherare il satanismo giudaico e prepararne il trionfo finale, attraverso il Vaticano II. Questa evoluzione voluta dal giudaismo internazionale si inscrive nella continuità del conciliabolo rivoluzionario, [basta osservare anche le ultime “mosse” del marrano-laico Bergoglio, mai prete e mai vescovo, né tantomeno “papa” di cui rappresenta una tragica parodia.] Questa evoluzione raggiunge le aspirazioni del “nuovo (dis)ordine mondiale” sul piano religioso. La questione è ora vedere se essa si compierà pienamente, quali resistenze vi si opporranno, e se la prova sarà trasformata in una realizzazione. Questo attacco estremo può essere considerato come l’esito finale di questa cospirazione incessante contro la Chiesa di Cristo. Quando si amplia la prospettiva, una cosa appare oramai certa dalla storia bimillenaria: iniziando dalla Crocifissione di Cristo e perdurando nel corso dei secoli una feroce persecuzione, questo incessante attacco contro la Chiesa si iscrive in un immenso complotto contro Dio. Un complotto di vizi, in cui la giudeo-massoneria è al presente lo strumento di satana, nella sua eterna cospirazione contro l’ordine divino naturale. Ma il salmista aggiunge: “Dominus autem irridebit eum, quoniam prospicit quod veniet dies ejus” [Ps. XXXVI] … [ed essi dovrebbero ben conoscere lo scritto di Davide, quindi si aspettino le conseguenze!]

– Per comprendere i dettagli di un quadro già abbastanza chiaro, lasciamo la parola ad un rabbino dei nostri giorni che si esprime così in un incontro ebrei-cristiani (rav. Di Segni in: Shalom, mensile ebraico di informazione, n. 2/2002, p. 1).: « La Bibbia ci presenta due personaggi, Noè ed Abramo. Da Noè discende l’intera umanità “per questo tutte le genti vengono chiamate, nel linguaggio rabbinico, Noachidi, figli di Noè”. “Nella famiglia umana esiste però un gruppo particolare, quello dei figli d’Israele, anch’essi originariamente noachidi, ma che in virtù della discendenza di Giacobbe Israele, nipote e prosecutore di Abramo, si distinguono (…). È una condizione che potremmo chiamare, definire sacerdotale e di servizio: ‘un regno di sacerdoti e un popolo distinto’”. Abramo è nettamente superiore a Noè: “Ci sono persone normali e ci sono persone speciali. Abramo è il prototipo delle persone speciali. Noè di quelle oneste ma comuni e senza slanci”. Ai due gruppi, come si vede, si appartiene per nascita: per “salvarsi” “è sufficiente che ognuno segua la strada in cui si trova al momento della sua nascita. [La religione del rabbino sembra confondersi con una appartenenza, diciamo così, etnica, e sembra postulare anche la superiorità di una etnia sull’altra, secondo il “credo” talmudico]. – Un Noachide può salvarsi? [La dottrina della doppia legge e della doppia salvezza]. – Sì, per il giudaismo rabbinico un Noachide può salvarsi [bontà loro!], anche se non dobbiamo credere che “salvarsi” significhi necessariamente ciò che significa per noi Cristiani (ovvero la visione beatifica di Dio nella vita eterna. Per il rabbinismo salvarsi significa “aver parte” in qualche modo “al mondo futuro”, il mondo messianico). – “È noto – dice il rabbino – che la dottrina religiosa ebraica costruisce intorno al nome di Noè e dei suoi discendenti una dottrina di doppia legge e doppia salvezza”. Mentre gli Ebrei hanno ricevuto la Legge mosaica, i Noachidi sono tenuti anch’essi ad una legge, la legge Noachide, che non si trova nella Bibbia, ma nei testi rabbinici [ovviamente, non lo avremmo mai immaginato! -ndr.-]: “questi principi si trovano espressi in tradizioni orali rabbiniche che si basano, con maggiore o minore evidenza, su riferimenti scritturali. (…) Universalismo ebraico significa due strade parallele verso la salvezza; è sufficiente che ognuno segua la strada in cui si trova al momento della nascita e ne rispetti le relative norme. Il Noachide, che segue le sue sette regole e ne riconosce l’origine divina, viene definito ‘il fervente delle nazioni del mondo’ e ha parte nel mondo futuro”.              

Le sette regole che ogni Noachide deve rispettare

     “Queste regole sono: il divieto di ogni culto estraneo a quello monoteistico, il divieto della bestemmia, l’obbligo di costituire tribunali, il divieto dell’omicidio, del furto, dell’adulterio e dell’incesto, il divieto di mangiare parti strappate ad animali in vita”. Secondo il rabbino, cinque di questi sette precetti sono patrimonio comune dell’umanità e non pongono particolari problemi. “La norma di rispetto degli animali – aggiunge – è raramente trasgredita” (in realtà, solo i musulmani e i Testimoni di Geova seguono la macellazione rituale ebraica che esclude la liceità di mangiare del “sangue”, e che viene presentata come “norma di rispetto degli animali”, (ripresa dai vegani! -ndr.-). L’attenzione del rabbino è poi tutta concentrata sul primo precetto, quello del monoteismo. “Quanto al culto monoteistico, apparentemente, non ci sono dubbi per le grandi religioni”. Ebraismo, Cristianesimo e Islamismo non sono forse definite, nel linguaggio post-conciliare divenuto oggi corrente, “le tre grandi religioni monoteistiche”? Il rabbino difatti non scorge difficoltà alcuna nei musulmani, monosteisti rigorosi e persino circoncisi. Ma ha qualche dubbio a proposito dei Cristiani

  I Cristiani: monoteisti o idolatri?

“È necessario a questo punto un chiarimento sulla teologia ebraica, che sul tema del monoteismo e di come sia vissuto dal Cristianesimo si dibatte in un dilemma essenziale. Si discute se la divinità di Gesù possa essere compatibile per un non ebreo (perché per l’ebreo non lo è assolutamente) con l’idea monoteistica”. In altri termini: l’ebreo che diventasse Cristiano, credendo alla divinità di Gesù, cesserebbe di essere monoteista, per diventare “idolatra”. Si deve dire la stessa cosa del non ebreo? Credere nella divinità di Gesù è un peccato di idolatria, una violazione del primo precetto della legge noachide? – “La risposta a questa domanda nella teologia ebraica, come c’era da aspettarselo, non è univoca: c’è chi la nega fermamente, c’è chi l’ammette a certe condizioni. La conseguenza è che secondo l’opinione rigorosa il Cristiano potrebbe non essere nella strada per la salvezza” essendo colpevole di idolatria.

– Per maggiore “illuminazione”, si può leggere in un libro ebraico (Alan Unterman, Dizionario di usi e leggende ebraiche, Laterza, 1994) quanto segue: “se i gentili trasgrediscono queste leggi [noachidi] potrebbero in teoria essere puniti con la pena di morte” (p. 211). Ora, la prima di queste leggi, lo abbiamo visto, è contro l’idolatria, e “la deificazione di Gesù viene considerata dagli ebrei come idolatria” (p. 120); “Maimonide affermava esplicitamente che la divinizzazione di Gesù era idolatra (…) Anche quei rabbini che non consideravano proibito ai gentili il culto combinato (shituf) di Gesù e di Dio Padre, non avevano dubbi nel ritenere che per gli ebrei la conversione al Cristianesimo significasse sottostare all’idolatria” (p. 140). Come il lettore può constatare, Unterman presenta la stessa dottrina del rabbino precedente, con la sola differenza che specifica molto meglio quanto prudentemente da questi si era omesso, ovverosia che “in teoria” “potrebbero essere puniti con la pena di morte” tutti gli ebrei convertiti al Cristianesimo e, secondo la principale autorità ebraica, Maimonide, con la maggioranza dei dottori, anche i Cristiani non ebrei.- Secondo la dottrina di Maimonide quindi, almeno in teoria, tutti i Cristiani, assieme ai politeisti di ogni genere, dovrebbero essere messi a morte. Capiamo come lo sterminio di qualche miliardo di persone sollevi problemi pratici talmente grandi da rendere il precetto rabbinico – almeno nella sua integrità – puramente teorico … ma una guerra tra Cristiani, magari con atomiche ed una “spolverata” di fosforo o di sarin, potrebbe servire allo scopo. – Ecco quanto i nostri “intonacati” falsi chierici noachiti capitanati dai “clowns” sepolcri imbiancati, ci stanno preparando nell’ombra sinistra e sulfurea con i “fratelli” di loggia con i quali, insieme, giocondi ed inebriati, si brinda: “nokem Adonai!”. Solo l’intercessione della Santa Vergine potrà liberarci!

.. et IPSA conteret CAPUT TUUM

ABITUDINE DEL PECCATO

 

[E. Barbier: I Tesori di Cornelio Alapide, vol I, terza ed. SEI Torino 1930]

1. Come si cada nell’abitudine del peccato. — 2. Conseguenze funeste dell’abitudine cattiva. — 3. Quanto sia difficile lasciare l’abitudine del peccato. — 4. Come si conosce se il peccato sia d’abitudine. — 5. Come si lascia l’abitudine.

Come si cada nell’abitudine del peccato. — Gesù, andato alla casa di Marta e di Maria, trovò che Lazzaro, loro fratello, giaceva da quattro giorni nel sepolcro. (Ioann. XI, 17). Per cinque gradi Lazzaro scende nella tomba a putrefarsi: 1° per la languidezza: Erat languens…; 2° per la malattia: Infirmabatur…; 3° per il sonno: Dormit…; 4° per la morte: Mortuus est….; 5° per la dissoluzione nello stato di cadavere: Iam fœtet…; e così ancora per questi gradi si rovina nell’abitudine del peccato. Lazzaro che giace da quattro giorni nella tomba offre l’immagine del peccatore che è nell’abitudine di peccare mortalmente. Il primo giorno è per lui, quando cade pel consenso della sua volontà… Il secondo, quando consuma col fatto il peccato… Il terzo, quando ricade e contrae la consuetudine di ricadere… Il quarto, quando s’indurisce e si forma del suo peccato e delle sue ricadute una seconda natura, secondo quelle parole di S. Agostino: «La passione ha origine dalla volontà perversa; il servire alla passione diventa abitudine; non resistere all’abitudine trae alla necessità ». Il medesimo santo Dottore dice ancora: A quel modo che per tre gradi, cioè la suggestione, la dilettazione ed il consenso, si giunge al peccato, così tre differenti stadii si trovano nel peccato: esso è nel cuore, nell’azione e nell’abitudine. Queste sono tre morti: la prima occorre, diremo così, nel recinto della, casa, ed è quando s’apre il varco nel cuore alla passione. La seconda avviene come fuori di casa, ed è quando si consente all’azione. La terza ha luogo quando, per la forza delle abitudini cattive che schiacciano a mo’ di macigno, l’anima, vien quasi gettata e chiusa in un sepolcro. Gesù Cristo ha risuscitato queste tre specie di morti; ma osservate la diversità di modi che, secondo la sua. stessa, parola, egli adopera, per richiamarli a vita. Al primo morto e’ dice: « Lèvati su, fanciulla»  (Marc. V, 41). Al secondo aggiunge: «Lèvati, chè io te lo intimo» (Luc. VII, 14). Per risuscitare il terzo si turbò, pianse, fremette due volte interiormente, si portò al sepolcro, e qui ad alfa voce gridò: « Lazzaro, vieni fuori » (Ioann. XI, 43). Così nel lib. I, De Serm. Domini in Monte al c. XXIII : e poi di nuovo nel Tratt. XLIV su S. Giovanni: « V’ha primieramente il solletico della dilettazione nel cuore…, poi il consenso…, quindi l’azione…, finalmente la consuetudine » — Est 1° titillatio delectationis in corde; 2° consensus; 3° factum; 4° consuetudo. « Essi erano lutti legati con una medesima catena di tenebre » dice la Sapienza (XVII, 17) — Una enim catena tenebrarum omnes erant colligati. — Or la, catena dei delitti si va formando con l’abitudine; perché la suggestione del Demonio genera il diletto nel pensiero; il diletto provoca il consenso; il consenso porta al fatto; un fatto spinge ad un altro, ed ecco costituirsi la consuetudine. Questa trae la volontà a compiacervisi, e di qui poi l’abbandono di Dio, l’induramento e la riprovazione. Gli atti abituali sono anelli che s’intrecciano gli uni agli altri; come dice benissimo la Glossa su quelle parole di Giobbe: «Io ho stabilito un patto, con i miei occhi» (XXXI, I), il pensiero tien dietro allo sguardo; la dilettazione sorge dal pensiero; il consenso nasce dalla dilettazione; l’azione segue il consenso; l’abitudine viene dall’azione; la necessità s’ingenera dall’abitudine; la disperazione è frutto della necessità; la. dannazione, della disperazione. « La passione, scrive S. Gregorio ne’ Morali, s’accende come fuoco, e chi tarda a spegnerlo, si vede ben tosto andare come stoppa in fiamme ». L’imprudenza e la follia degl’insensati consiste nel non comprendere, nel non vedere la necessità di ben regolarsi; traviano dal retto sentiero, si smarriscono tra viottoli oscuri e tortuosi e gli errori delle seducenti passioni, a cui sono spinti dai sensi degradati e dalla concupiscenza, li trascinano da questa in quella, finché procedendo sempre peggio d’errore in errore si chiudono finalmente in un labirinto di consuetudini, e da questo precipitano all’Inferno, supremo ed irreparabile errore… Badate a voi! grida Bossuet (Vol. II, Profession religieuse), che l’uomo vecchio il quale è in noi e contro cui dobbiamo lottare tutta la vita, non dà tregua e continuamente lavora a soppiantare l’uomo nuovo: il suo appetito indocile e impaziente, per quanto frenato dalla disciplina, solletica, corre e si precipita, qual prigioniero smaniante di libertà, verso ogni uscita; tenta per tutti i sensi di avventarsi su gli oggetti che gli piacciono. Modesto da principio, finge d’appagarsi di poco, non è che un desiderio imperfetto, una curiosità, un nonnulla; ma provatevi a soddisfar quel primo desiderio, e voi lo vedrete ben tosto attirarne parecchi altri, sino a tanto che l’anima tutta ne resta conquisa. Come un sasso gettato in uno stagno non tocca che in un punto le acque, eppure una volta ricevuto il moto questo si comunica dalle più vicine alle più lontane, cosicché in pochi istanti tutta la massa è commossa, così le passioni dell’anima nostra si svegliano a poco a poco le une le altre per via d’un movimento che si concatena…

Conseguenze funeste dell’abitudine cattiva. — Se non si resiste alla consuetudine, questa diventa necessità, ha detto S. Agostino ed a proposito di Lazzaro che giaceva nel sepolcro chiuso da un macigno (Ioann. XI, 38), osserva che quell’enorme pietra figura la forza d’una perversa e dura abitudine, la quale schiaccia l’anima e non le permette nè di risorgere, nè di respirare. Se si rimane in quest’abitudine, si accumulano colpe su colpe e si finisce coll’essere esclusi per sempre dalla clemenza di Dio (Psalm. LXVIII, 28). Il nome di costoro è scancellato dal libro dei viventi, ed essi non sono nel numero dei giusti (Psalm. LXVIII, 29). Chi si trova, in questa lagrimevole condizione, non si stanca nella sua iniquità, dice l’Ecclesiastico, e non sarà sazio finché non abbia dimagrita e consunta l’anima sua (Eccli., XIV, 9). Cadere nel peccato è fragilità umana, scrive S. Bernardo, perseverarvi è malizia diabolica: e Seneca diceva: « La prima e più grave pena per i peccatori sta nell’aver peccato; né v’ha delitto che resti impunito, perché è già castigo il cadere di colpa in colpa ». È proprio del peccato, come nota Bossuet (Vol. I, Péché d’habitude), imprimere nell’anima una macchia la quale va sfigurando in lei ogni bellezza, e ne scancella i tratti dell’immagine del Creatore ch’egli stesso v’impresse. Ma un peccato ripetuto, oltre questa macchia, produce ancora nell’anima una tendenza, una forte inclinazione al male, perché insinuandosi in fondo all’anima, ne inceppa tutte le buone inclinazioni, e col proprio peso la trascina agli oggetti terreni. A dinotare la disgrazia del peccatore abituato, la Scrittura si serve di tre efficaci paragoni: «Egli ha vestito la maledizione come un abito; ed essa, s’è infiltrata come acqua nelle sue viscere, e come olio ha penetrato le sue midolle» (Psalm. CVIII, 17). Sì, la maledizione copre come una veste il peccatore consuetudinario, perché l’avviluppa tutt’intorno, ne signoreggia le parole e le azioni tutte: entra come l’acqua nel suo interiore e vi corrompe i pensieri; penetra qual olio nelle sue ossa che sono il cuore, l’anima, lo spirito. La veste simboleggia la tirannia dell’abito; l’acqua l’impetuosità; l’olio una macchia che si spande dappertutto e difficilissimamente si toglie. Terribile malattia è questa dunque dell’abitudine di peccare! Dio non abbandona mai nessuno, se non è abbandonato nel primo, dice S. Agostino (In Psalm. VII). Ora i peccatori, e principalmente gli abituati, continua il medesimo Dottore, lasciano per i primi Iddio e poi Egli lascia loro: Adamo fu giudicato con questa norma: egli abbandonò, poi fu abbandonato e così avviene degli altri peccatori. In poche parole S. Agostino spiega come i peccati siano giusta punizione gli uni degli altri, ed in qual baratro si precipiti col ripetersi delle colpe abituali: «Il peccatore abbandonato da Dio cede e consente ai desideri perversi: e allora egli è vinto, preso, legato, e tenuto schiavo ». L’uomo s’abbandona all’abito di peccare, Dio ve lo lascia: due disgrazie spaventose!

Quanto sta difficile lasciare l’abitudine del peccato. – Affinché il peccatore abituato esca dal suo stato, bisogna che Dio lo svegli con voce grande e potente, come fu quella con cui Gesù Cristo chiamò Lazzaro dal sepolcro (Ioann. XI. 43). perché i consuetudinari sono sordi spiritualmente. Ma Iddio non è punto tenuto a tale miracolo: l’abitudine poi oppone un ostacolo al miracolo della risurrezione spirituale. Di Lazzaro sta scritto che aveva mani e piedi legati e la faccia avviluppata in un sudario (Ioann. XI, 44) : e quest’è la lagrimevole condizione del peccatore abituato… or, come uscire da questa tomba?… Udite Seneca che discorrendo della concupiscenza, la quale trascina all’abitudine del male chi l’asseconda, dice: «Voi non giungerete mai a ottenere che s’acqueti, se le darete libertà d’incominciare; torna assai più facile tenerla affatto lontana, che scacciarla quando sia entrata ». « Uccidi il nemico mentre è debole », grida S. Girolamo: e non trascurare le piccole cose, soggiunge S. Gregorio, perché, insensibilmente sedotto, commetterai le più gravi. Allora poi si pecca senza rimorso, e, giunti a questo punto di perversità, non v’ha più rimedio. Tale è l’orribile stato del consuetudinario… Chi aggiunge colpa a colpa ha il cuore traviato, dice Dio pel Salmista, egli non conosce le mie vie, ed ho perciò giurato nel mio sdegno, che non entrerà nei luogo del mio riposo (Psalm. XCIV, 10-11). Ah! « i perversi ben difficilmente s’emendano, esclama l’Ecclesiaste, e stragrande è la turba degli insensati » (Eccl. I, 15). « Non da ferro nemico, ma dalla mia ferrea volontà io ero legato, confessa S. Agostino; la mia volontà stava in balìa del mio nemico, il quale si era fatto di essa una catena con cui mi teneva stretto ». « E con tante catene il peccatore avvinghia se stesso, soggiunge S. Gregorio, quante volte ricade nella colpa ». Per enormi e orrendi che siano i peccati, scrive S. Agostino {Enchirid. c. LXXX), se avviene che diventino abito, sono considerati come leggeri, ed anche non più tenuti in conto di veri peccati; a tal punto che non solo non si tengono celati, ma si ostentano. I consuetudinari non si correggono, dice la Scrittura, perché son pazzi. E come no? mentre in 1° luogo il peccato è il sommo della pazzia, perché scombuia la ragione e soffoca il desiderio della virtù. Il peccatore antepone la creatura al Creatore, che è a dire un centesimo a tesori immensi, un granellino di frumento ad una ricchissima messe, il fango all’oro, una stilla d’acqua al mare, un mortifero veleno alla grazia ed alla vita eterna. Oh Dio, che insensatezza! 2° Ripetendo i peccati si contrae l’abitudine, questa mena alla necessità. Conoscete voi follia più funesta?… Si perfidia ostinatamente, si fa pompa del male… 3° Si ricusa ogni emendazione, si spregiano gli avvertimenti e le persone che per impulso di carità riprendono. Si friggono i rimedi, si vuol rimanere nella malattia. Ah qui, più che sragionevolezza, più che stupidità, bisogna dire che vi è il colmo della pazzia… La Scrittura dà a questa follia morale il nome di carestia del cuore,  e chiama i peccatori abituati uomini senza cuore  cioè privi dell’uso della volontà (Prov. XI, 12). « Giunto l’empio in fondo all’abisso del male, tutto disprezza », dicono i Proverbi (Prov. XVIII, 3). A ragione pertanto scriveva il poeta: Arresta la passione in sul nascere, chè troppo tardi giungerà il rimedio, se lasci che il male abbia tempo a far progressi; e l’anima, dice S. Giovanni Crisostomo, corrotta che sia, degradata per l’abito del peccato, languisce d’incurabile malattia, né più si rimette in forze per quanti rimedi le offra Dio. Non è così facile svestir gli abiti viziosi, come il vestirli. La volontà, la quale può a suo talento schivare od abbracciare il male, s’avviluppa di per se stessa, come il baco da seta, nell’opera sua; e se i lacci dentro cui s’è arretita figurano seta perché aggradevole sono però ferro per la loro durezza. No, essa non è in grado di distruggere a sua posta la prigione che ella medesima si è fabbricata, né spezzare i fili di cui s’è cinta. E non mi state a dire, soggiunge Bossuet (Vol. I, Circoncis.), che essendo i vostri impegni affatto volontari voi possiate, con la medesima volontà che li ha contratti, quandochessia disdirli, perché anzi qui sta appunto il nodo, che quella medesima volontà, la quale si è impegnata, sia obbligata a disimpegnarsi; che essa, la quale forma o vuol formare i legami, s’impegni poi a scioglierli; che debba ella medesima sostener ad un tempo l’urto e dar l’assalto. Or chi è dunque sì cieco che apertamente non veda come invano essa combatterà e si stancherà in inutili sforzi, se non viene a sostenerla una forza o un soccorso dal di fuori? Poiché non si resiste da forti e robusti per lungo tempo, scrive S. Ambrogio, quando è d’uopo vincere se medesimo. Troppo faticosa ed angosciante è la lotta che l’uomo deve sostenere contro se stesso e le sue passioni perché possa vincere da solo. So bene che altri accusa il Demonio delle malvagie abitudini in cui vive, ma badate, grida S. Agostino , che il Diavolo tripudia quand’è accusato, e niente meglio desidera se non che voi gettiate su di lui i vostri torti, affinché perdiate così il frutto d’un umile confessione. L’uomo deve superare due ostacoli, l’inclinazione e l’abitudine; quella rende il vizio amabile, questa lo fa necessario; e non è in nostro potere, osserva S. Agostino, né il principio dell’inclinazione, né la fine dell’abitudine; l’inclinazione c’incatena e ci precipita nel carcere, l’abitudine vi ci lega e chiude sopra di noi la porta per toglierci ogni uscita. Il peccato passato in abitudine diventa quasi identificato coll’uomo: il peccatore abituato è divenuto peccato; e da ciò proviene la difficoltà immensa di vincere le cattive consuetudini.

Come si conosce se il peccato sia d’abitudine. — Grave malattia è l’abitudine di peccare, e chi desidera vedere se egli ne sia infetto deve osservare: 1° S’egli commette il male con piacere; perché ogni piacere è conforme a qualche natura: ora egli è certo che il peccato non ha di per se stesso questa consonanza colla nostra natura, bisogna perciò che la ripetizione del peccato abbia formato in noi un’altra natura, e questa seconda natura è l’abitudine… 2° Se pecca senza resistere, perché allora la forza dell’anima è svigorita ed abbattuta…

Come si lascia l’abitudine. — i mezzi con cui lasciare e vincere le malvagie abitudini per quanto radicate, sono i seguenti : 1° il timor di Dio; 2° la resistenza…; 3° la preghiera…; 4° il rincrescimento ed il dolore di trovarsi in così infelice stato…; 5° la fuga delle occasioni prossime del peccato d’abitudine…; 6° un vivo orrore del peccato…; 7° frequente ed umile confessione. « Siete voi combattuti dell’abitudine del peccato? grida S. Agostino, respingetelo da valorosi; non saziatelo ritirandovi, ma sforzatevi d’abbatterlo resistendo ». Finalmente, una sincera e viva devozione alla Vergine ci fa uscire da qualunque abitudine cattiva.

 

J.J. Gaume: IL VERME RODITORE delle SOCIETA’ MODERNE (10)

CAPITOLO XXI

INFLUSSO DEL PAGANESIMO CLASSICO SULLA FAMIGLIA

Il rispetto all’autorità paterna, l’indissolubilità del matrimonio, il diritto del padre sui suoi figliuoli, tali sono le basi della famiglia cristiana. Ora, come la società politica, la società domestica vive pel rispetto alle leggi che la costituiscono. Quindi, durante quindici secoli, la venerazione profonda dei popoli cristiani per gli insegnamenti dei loro padri, pei loro costumi e pei loro usi; quindi, la religiosa cura di trasmettere ai figliuoli, come la parte la più preziosa di loro eredità, il sacro culto degli avi. Così fecero tutte le famiglie storiche; così fecero tutti i grandi popoli che brillano negli annali del mondo. – Questa legge di conservazione è talmente naturale, e, se oso dirlo, talmente elementare, che le nazioni pagane la conobbero a meraviglia, e la adempierono con fedeltà ammirabile. Roma, la quale tanto si ama di menzionare, se ne appellava sempre agli usi e costumi primitivi. Le massime dei suoi padri formavano altrettante massime sacre, e la venerazione con cui si proseguivano i nomi dei suoi fondatori andò sino all’apoteosi. In questo rispetto profondo ed universale il vincolo di famiglia trovò la sua conservazione. Alla sua volta il vincolo di famiglia, mantenendo sempre Roma simile a se stessa, diventò il principio di sua forza, il segreto della sua durata e la base della sua sovrana potenza. Che cosa è ora il paganesimo classico? È la più grande scuola di disprezzo per l’autorità paterna che abbia mai esistito. Esponendo il modo con cui il paganesimo è applicato all’ anima dei giovinetti, usai a bella posta una grande riserbatezza. Per non essere tacciato di esagerazione, ho amato meglio rimanere lungi dal vero, che non dimostrarlo tutto quanto: il momento è giunto di parlare senza reticenza. Gli elogi dati al paganesimo sono la faccia della medaglia: le ingiurie, le calunnie, le derisioni prodigate ai nostri avi ne formano il rovescio. Ecco realmente come vanno le cose. – Dopo aver portato sino alle stelle gli uomini, le istituzioni, le società pagane, si dà addosso ai nostri poveri avi, ai loro usi, alle loro istituzioni, a tutto ciò che essi dissero, a tutto ciò ch’ei fecero, a segno di far arrossire i loro figliuoli d’una simile discendenza. Nulla è risparmiato: i primi cristiani sono fanatici e idioti; i secoli che essi prepararono sono secoli di barbarie; il medio-evo è l’età di ferro del genere umano, l’epoca d’una letargia universale. La fede dei nostri antenati si chiama abbrutimento; le loro pratiche religiose, superstizione; le loro virtù, fanatismo; i loro Papi, ambiziosi; i loro re, tiranni; i loro principi, ladri; i loro signori, banditi; le loro leggi, il codice della crudeltà e della pazzia; la loro storia, leggenda; il loro insegnamento, puerilità; la loro letteratura, barbarie; la loro scienza, ignoranza; la loro arte, goticismo; il loro stato sociale, schiavitù e miseria. In una parola, da più di tre secoli ci sono rappresentati i nostri antenati come assassini, viventi di rapina e dati a tutti i vizi; come selvaggi che appena appena sapevano camminare coi piedi; come cretini, la cui fede semplice ed ingenua era capace di ammettere che gli asini volavano come le rondini. – Poi, ripigliando la tromba epica, si cantano i benefizi del Rinascimento; si invitano le giovani generazioni a benedire il Cielo d’averle fatte nascere in seno ai lumi ed alla libertà. Dopo del che vengono rituffate felici e riconoscenti in quell’antichità pagana che è, dice anche di presente il sig. Thiers, ciò che v’ha di più bello al mondo; in quell’asilo calmo, pacifico e sano, destinato a conservarle fresche e pure (1(1) Relazione sullo legge d’insegnamento secondario, 1844.); in quel mondo meraviglioso, al quale il mondo moderno va debitore d’essersi risvegliato. In mezzo a queste diatribe d’ogni genere, rinnovate ad ogni pie sospinto, se talvolta la forza della verità strappa una parola di lode a pro di un uomo o di una cosa del medio-evo, l’elogio stesso diventa una nuova contumelia per il modo con cui è concesso. Fra mille, non citerò se non un esempio. « Fu fatta, scrive D’Arnaud, una molto strana osservazione: ed è che dal seno delle tenebre sorsero quei grandi spettacoli degni di attirare a sé la curiosità e la riflessione. I tempi i più sprofondati nell’ignoranza e nella barbarie produssero, se si può dirlo, getti di luce che non rifurono guari presentati da quei secoli celebrati, posti innanzi ai nostri occhi come tante epoche brillanti dei felici rivolgimenti dello spirito umano Quali esempi sublimi di valore, di generosità, di grandezza d’animo, di sacrifici i più sovrannaturali non ci offrono le varie età cavalleresche! » – Per tema che non si capisca il senso del suo pensiero, e che lo strale non giunga al suo indirizzo, l’autore ha cura di spiegarsi dicendo in una annotazione. « Dal seno delle tenebre, ecc. Certo, i secoli XI, XII, XIII e XIV si possono chiamare la feccia dei secoli; e si fu in quei giorni della barbarie la più grossolana che avvennero tante belle azioni che formano tuttora la gloria della nazione francese ». – Così si forma l’educazione della gioventù. E voi, o padri di famiglia, incoraggiate simile sistema, e voi applaudite ai maestri che ogni giorno, durante sette anni, ingiuriano la vostra autorità in quella dei vostri antenati; e voi li pagate acciò insegnino ai figliuoli vostri ciò che venne insegnato a voi pure: il disprezzo di quanto essi debbono rispettar maggiormente! Ma quand’anche tutto ciò che l’insegnamento classico narra degli avi nostri fosse vero, è egli da figliuoli bennati lo svelare l’ignominia dei padri loro? Dove avete voi veduto che il peccato di Cham rechi fortuna? Ma che dire, che pensare se le accuse rivolte contro i nostri antenati sono per la maggior parte calunnie odiose o rimproveri che noi meritiamo al par di quelli, senza contare i rimproveri ben altrimenti gravi che noi meritiamo e che quelli non meritarono mai? Non voglio imprendere qui l’apologia del medioevo. Ma quando io lo scorgo abbandonato tuttodì ad ogni genere di dispregio; quando la prima lezione data alla gioventù d’Europa tutta si è di insegnarle ad arrossire dei suoi avi, per esaltare con un bugiardo confronto ed i secoli pagani ed i secoli moderni, alteri figliuoli dei secoli pagani, la verità non può rimanere prigioniera. I nostri padri valevano meglio di noi, e quanto ci rimane di buono, è opera loro. Uomini al par di noi, ebbero difetti; ne siamo noi senza? Noi accusiamo la loro credulità: il pirronismo, l’ateismo che ci divora, è desso una virtù? Noi avviliamo la rozzezza dei loro costumi, la crudeltà delle loro leggi; le scelleratezze, le empietà, gli orrori che macchiano la storia moderna, sono forse degne dei popoli civili, o non piuttosto degli antropofagi? – Noi chiamiamo fanatismo, esagerazione le loro virtù cavalleresche, i loro tratti sublimi di abnegazione: ma qual nome si merita il nostro egoismo? Essi fabbricavano chiese e conventi; noi fabbrichiamo teatri e prigioni. Commettevano quelli un delitto? Ne chiedevano in pubblico perdono a Dio ed agli uomini; noi ce ne gloriamo. Minacciati o colpiti dai flagelli del cielo, quelli si umiliavano; noi bestemmiamo. Al tempo loro, quando si soffriva qualche grande afflizione, si pregava: oggi l’uomo è suicida. Noi parliamo della loro ignoranza: dove sono i nostri lumi? Forse in quei secoli di tenebre o nei nostri secoli illuminati si trovano le nozioni le più giuste del diritto, dell’autorità, della proprietà, del bene e del male? Noi vantiamo la bellezza delle nostre lingue moderne; quelli le hanno create. Noi abbiamo scoperto il vapore e l’elettricità: quelli scoprirono la bussola, la stampa ed inventarono la polvere. Noi abbiamo prodotto monti di libri; essi produssero L’Imitazione di Cristo. Noi cantiamo le nostre glorie nella guerra, nelle scienze e nelle arti: ma erano dessi così barbari, come godiamo di dirlo, i secoli che produssero nella guerra Carlo Magno, Dugueselin, Goffredo di Buglione; nelle scienze politiche, Alcuino, San Gregorio VII, San Luigi e Sugero: nella teologia San Bonaventura e San Tommaso; nell’eloquenza, San Bernardo, Sant’Antonio da Padova, San Vincenzo Ferreri; nella filosofìa, Sant’Anselmo; nella poesia e nella letteratura, Dante e Petrarca; nelle scienze fisiche, Gerberto e Ruggiero Bacone? Erano forse selvaggi, figliuoli e fratelli di selvaggi coloro che slanciarono nelle nubi le guglie delle nostre cattedrali, che ne tagliarono con tanta delicatezza tutte le parti, che ne popolarono i campanili e le gallerie d’un popolo di statue, che scrissero la storia del tempo e della eternità in caratteri d’oro, di porpora e d’azzurro sulle muraglie e sulle vetrate dei loro superbi edifizi? – Ma, si dice, essi non godevano la libertà del pensiero. Ciò ch’io so, si è che noi ne possediamo le brutture. Essi viveano nell’oppressione; noi siamo ingovernabili. – Essi vestivano saio; noi portiamo indosso percala. Essi si cibavano di pane nero; noi mangiamo pomi di terra. Essi vivevano nelle loro famiglie come volpi nelle loro tane; noi viviamo negli opificii, palazzi, e non abbiamo più famiglia. Facile sarebbe il prolungare questo paragone; quanto precede basta, mi sembra, per renderci un poco più modesti, e per dimostrarci l’ingiustizia del dispregio superbo, di cui ci si insegna a coprire e le persone e le opere dei nostri avi. Del resto, non bisogna ingannarsi: un tal dispregio, somiglianti ingiurie, sono rivolte contro autorità più alta. Nemico-nato del Cristianesimo, il paganesimo classico non si dimostra cotanto altero e cotanto manchevole al medio-evo, se non perché il medio-evo si fu l’età della fede. Esso fu l’opera della Chiesa, il cui spirito penetrò profondamente nelle istituzioni, nei costumi, negli usi, nelle scienze, nelle arti, nel linguaggio di quell’epoca. Ora, screditandola, si pretende screditare la Chiesa, accusandola di superstizione, di ignoranza e di barbarie; si fan ricadere sulla Chiesa tutte queste accuse. Tale è l’ultima parola della guerra stupida ed accanita che i tre ultimi secoli fanno al medio-evo. Ecco quello che avrebbero dovuto capire tanti uomini, ben intenzionati d’altra parte, i quali furono gli ammiratori fanatici del paganesimo letterario e i dispregiatori appassionati della nostra grande epoca di fede. – I novatori del secolo XVI non si ingannarono punto. Nessuno più di loro ripeté più sovente e più forte, che i secoli in cui la Chiesa cattolica aveva esercitato sull’Europa una potenza sovrana, erano i secoli dell’ ignoranza la più grossolana, della superstizione la più vergognosa, della degradazione la più profonda: la conseguenza era agevole ad esser tratta. Di qui non v’era che un sol passo al dire che se la notte aveva regnato sul mondo, si è che il sole aveva subito un eclissi; che la Chiesa aveva perduto una parte della verità primitiva; che bisognava nettare la sua dottrina dalla lega impura che vi s’era mescolata; che era d’uopo rigettare tutte le tradizioni e ritornare alla pura parola di Dio: un tal passo fu fatto. Dietro gli apostoli del paganesimo classico si vedono giungere Lutero, Calvino, Teodoro di Beza; dopo gli eretici ed i novatori vengono Bayle, D’Argens, Bolingbroke, Diderot, Rousseau, Voltaire con tutto l’esercito dei filosofi. Tutti attingono le loro armi contro la religione allo stesso arsenale al quale gli eretici del secolo XVI avevano attinto le loro, non più per intaccare alcune verità soltanto, ma per battere in breccia l’intero edificio del Cristianesimo. Dogmi, misteri, precetti, autorità, pratiche, sono proclamati con voce unanime come il prodotto dell’ignoranza e della stupidezza dei secoli barbari. Quindi nella loro ammirazione, non che in quella dei loro discepoli, una cosa sola rimaneva in piedi, il paganesimo. Infatti, noi vedremo ben presto gli uomini del 93 intraprendere di rigenerare il mondo colle idee di Sparta, di Atene e di Roma.

CAPITOLO XXII

SEGUITO DEL PRECEDENTE

Esaltare i pagani e dispregiare i padri nostri nella fede, tale si è da tre secoli il fondo obbligato della pubblica educazione in Europa. Non è ella questa, di grazia, la violazione la più sacrilega che mai si sia veduta della legge conservatrice della famiglia: Padre e madre tu onorerai, affinché tu viva lungamente? Ma non è tutto. Il Cristianesimo aveva dato per base alla famiglia l’unità e l’indissolubilità del legame coniugale, nonché i diritti sacri del padre sul suo figliuolo. Durante quindici secoli, l’Europa era vissuta con questo sacro principio, al quale le nazioni cristiane debbono la loro moralità e la loro forza. Nulla fu mai più lungi dal loro spirito quanto il pensiero del divorzio e della poligamia; nulla è più raro quanto il trovarne esempi nella storia; nulla è maledetto con maggiore indignazione; nulla ispira un orrore più generale e più profondo. D’altra parte, nulla è più fedelmente rispettato dei diritti dell’autorità paterna. Ora, come va che, sin dal cominciare del XVI secolo, la poligamia ed il divorzio ricompaiono auto rizzati dai capi della Riforma? Come va che hanno avuto sino ai dì nostri un seguito non interrotto di apologisti, fra i letterati dei tre ultimi secoli, in Alemagna, in Inghilterra ed in Francia? Come va che dopo alcune proteste, il divorzio è oggi passato allo stato di legge in metà dell’Europa? Come va che i diritti del padre sul suo figliuolo sono oggi sconosciuti e calpestati sotto i piedi? Dove mai le società moderne attinsero idee così estranee a tutte quante le idee cristiane? Come spiegare la facilità deplorabile colla quale queste idee passarono nelle leggi e nei pubblici costumi? Mio Dio! Questo triste mistero si spiega di per sé. Proponendo all’ammirazione delle generazioni nascenti il paganesimo antico, si familiarizzò l’Europa colle idee e colle istituzioni dei suoi modelli e dei suoi maestri. Ora, tutti i maestri e tutti i modelli della gioventù, quelli che si amò meglio raccomandarle quali i filosofi i più divini, quali i legislatori i più saggi, sono i campioni e gli istitutori della poligamia e del divorzio: essi li giustificano con buone ragioni, i poeti ne cantano i benefici, e le passioni applaudono. Il legislatore della repubblica di Sparta, di cui ci si fece ammirare l’austera virtù, Licurgo, rende il matrimonio obbligatorio per tutti, obbliga lo sposo a rapire colei ch’egli vuole sposare, e, per una conseguenza del suo principio supremo che la famiglia non è stabilita se non per dare cittadini robusti allo Stato, autorizza la promiscuità. [Vita di Licurgo, traduz. d’Amyot, p, 31.]. Sempre conseguente a se stesso, Licurgo infligge pene severe ai celibatari, e colpisce con un pubblico disonore la più santa cosa del mondo, la verginità. « Una nota d’infamia era stabilita contro coloro che non si volevano ammogliare. Loro non era permesso di trovarsi nei luoghi dei pubblici passatempi. Ma ciò che più è, gli ufficiali della città li costringevano a far nudi il giro, nel cuore dell’inverno, della pubblica piazza, e, camminando, dovevano cantare una canzone fatta contro di loro; finalmente, quando diventavano vecchi, loro non si portava rispetto di sorta, loro non si rendevano gli onori riserbati agli altri vecchi ((Id., ib., p, 30.) ». Ma ecco un’altra cosa. Stabilendo come principio il comunismo il più assoluto, Licurgo dichiara che i figliuoli appartengono allo Stato prima di appartenere ai loro genitori. I matrimoni non hanno più luogo per la famiglia, ma per lo Stato: e la potestà paterna, colpita in ciò che v’ha di più sacro, è confiscata a vantaggio dello Stato. Per conseguente, il figliuolo, questa possessione sacra della famiglia, è senza pietà rapito agli abbracciamenti materni dal proprietario della famiglia, cioè dallo Stato, è istruito nelle scuole dello Stato, è educato secondo i capricci dello Stato, o condannato a perire se sin dal suo affacciarsi alla vita non presenta nella sua complessione i pegni di vantaggio fisico dei quali lo Stato si dimostra esclusivamente geloso. « Del rimanente, prosegue Plutarco, dacché il bambino era nato, il padre non ne era più padrone per poterlo far mantenere a suo libito, ma lo portava ei medesimo in certo luogo a ciò destinato, che si chiamava Leschè. Ivi i più vecchi del suo stipite stando seduti, visitavano il bimbo. Se lo trovavano bello, ben complesso di tutte le membra e robusto, ordinavano venisse mantenuto; ma se loro sembrava brutto, contraffatto, malaticcio, lo mandavano a gettare in una cavità che volgarmente si chiamava gli Apotèti. Ai sette anni, i fanciulli che non erano venuti meno alla prova della legge erano tolti definitivamente alla loro famiglia: lo Stato medesimo si incaricava di allevarli ». – « Ora, soggiunge Plutarco, l’oracolo aveva dichiarato Licurgo il benamato dagli Dei, e piuttosto un Dio che un uomo. Egli fece vedere che un uomo perfetto non è punto un essere immaginario, come alcuni hanno creduto, poiché mostrò al mondo una nazione di filosofi. Le leggi di Licurgo sono acconcissime a formare gli uomini alla pratica della virtù ed a mantenere un vicendevole affetto tra i cittadini ». Il grave storico le preferisce a quelle di tutti gli altri Stati della Grecia, ed ha cura di raccontarci che coloro i quali scrissero con qualche successo sulle leggi e sulla politica, come Platone, Diogene, Zenone ed altri, presero per modello Licurgo, al quale Aristotele impartisce magnifiche lodi, proclamandolo degno dei sacrifici che gli Spartani gli offrivano come a un Dio. Infatti, i principi di Licurgo formano, tranne qualche modificazione, la costituzione della famiglia pagana fra i Greci e fra i Romani. Così, in Licurgo, che parla intorno alla famiglia, noi ascoltiamo tutto quanto il paganesimo classico. Ora, da tre secoli, la gioventù d’Europa trascorre sette anni alla sua scuola, in ammirazione per gli oracoli del maestro. Che ne è derivato? Due cose inevitabili: la prima si è che i filosofi, i legislatori ed i letterati moderni, fedeli alle loro impressioni di collegio, vantarono a gara nei loro scritti i principi costitutivi della famiglia Spartana; la seconda si è che nulla fu tralasciato per applicare alla famiglia cristiana i principi della famiglia pagana. – Ammiratore appassionato di Licurgo, che egli non teme nemmeno di approvare in un punto dell’immoralità la più rivoltante, Montesquieu lo loda con una sola parola, dicendo che quell’uomo immortale seppe far praticare la virtù con mezzi che a lui sembravano contrarii (Spirito delle leggi, 1.1, lib. iv, c. 6.). Bolingbroke, Potter, Elvezio, Collins, Tindal, Rousseau, tutti gli enciclopedisti parlano come l’oracolo della legislazione, tutti preconizzano gli uni dopo gli altri le idee di Licurgo e ne chiedono l’applicazione per la felicità del genere umano. – Nulla è più istruttivo quanto il sentirli parlare. – Licurgo non riconosce il carattere religioso del matrimonio, e quelli negano il Sacramento che lo nobilita santificandolo. – Licurgo non ammette l’indissolubilità del vincolo coniugale, e quelli esaltarono i benefizi del divorzio e lo introdussero nella legislazione. – Licurgo autorizza il concubinato, e quelli sostennero che in ciò nulla v’ha di riprovevole, purché sia durevole. – Licurgo giustifica la promiscuità, e quelli asseriscono che la poligamia non è se non un affare di calcolo. – Licurgo copre d’ignominia il celibato e la verginità, e quelli li screditano e li volgono in derisione. – Licurgo nega la potestà paterna, e quelli la negano più compiutamente, se è possibile. « Verun uomo, dicono, ricevé da natura il diritto di imperare agli altri. Se natura stabilì qualche autorità, si è certo la potestà paterna; ma la potestà paterna ha i suoi limiti, e nello stato di natura essa finirebbe, appena i figliuoli fossero in grado di guidarsi di per sé. I diritti dell’uomo sul suo simile non possono essere fondati se non sulla felicità ch’egli procura a quello, o che gli dà luogo di sperare; senza ciò, il potere ch’egli esercita su di lui sarebbe una violenza, un’usurpazione, una tirannia manifesta. Ogni autorità legittima è fondata sulla facoltà di renderci felici. Nessun mortale riceve da natura il diritto di comandare ad un altro; ma noi lo concediamo volontariamente a colui dal quale speriamo il ben essere … – L’autorità esercitata da un padre sulla sua famiglia non posa se non sui vantaggi di’ egli è creduto procurarle (ENCICLOP. Autorità politica; EMILIO, t. IV; Sistema della natura, t.1, p. 340, ecc. ecc.) ». – Non basta. Mentre i filosofi ed i legisti, discepoli del paganesimo, s’affaticavano a ricondurlo nella famiglia, i poeti ed i romanzieri, formali alla medesima scuola, cantavano su tutti i tuoni ed in tutte le lingue i benefizi di questa nuova legislazione. Più intelligibile, più gradevole e perciò più pericolosa di quella dei metafisici, la loro voce non cessò di risuonare. Che mai sono, di grazia, quanto ai fondo, gli innumerevoli componimenti teatrali o tradotti dai pagani, od animati dal loro spirito, da cui l’Europa è inondata dopo il preteso Rinascimento: commedie, tragedie, drammi, melodrammi, vaudevilles, poesie leggiere/canzoni da mensa, e che so io, se non forse una incessante predicazione del sensualismo, del divorzio e dell’adulterio, del dispregio del matrimonio e dell’autorità paterna; un attacco aperto smascherato contro il pudore, contro la continenza, contro la verginità stessa e la pietà filiale; la glorificazione e l’eccitazione perpetua della passione la più focosa e la più distruttrice della domestica società? Ad un tale spettacolo, affatto sconosciuto ai secoli di fede, ogni uomo capace di unire l’effetto alla cagione dirà: « L’insegnamento pagano impiantò l’albero del sensualismo pagano nel cuore delle giovani generazioni; le giovani generazioni trasmisero quanto naturali dell’albero sì bene coltivato: ma esse non ne sono che i fiori. Eccone qui i frutti; essi formano la seconda conseguenza inevitabile dell’educazione moderna. Discepoli dei filosofi e dei legisti pagani, ammiratori degli scrittori sensualisti, i rigeneratori d’Europa sul finire dello scorso secolo considerano quale un dovere di coscienza e di logica l’applicare alla famiglia le idee pagane. Giunti al potere, si pongono all’opera; tolgono al matrimonio ogni carattere religioso, decretano il divorzio, conferiscono pubblici premi alle fanciulle-madri, aboliscono tutti i voti, scacciano dai loro conventi tutti i religiosi e tutte le religiose, indeboliscono per quanto possono nel loro Codice l’autorità paterna; e, coll’organo di Rabaut-Saint-Etienne, rinnovano parola per parola il principio di Licurgo, che il bimbo appartiene allo Stato prima d’appartenere alla sua famiglia. In conseguenza, come il legislatore di Sparta faceva esaminare il novello nato, che non veniva giudicato degno della vita naturale se non nel caso che offrisse guarentigie sufficienti agli esaminatori dello Stato, i moderni Licurghi stabilirono che il fanciullo non sarebbe degno della vita pubblica se non nel caso che portasse l’impronta dello Stato. Tale si è l’invasione del paganesimo nei nostri costumi, che questa selvaggia ingiunzione non incontrò se non un’impotente opposizione; sopravvisse a tutti i rivolgimenti, conta eziandio numerosi ammiratori, e, finalmente, s’insinuò senza ferita e senza avaria nella nuova legge sull’insegnamento. Non è cosa inutile il dimostrarlo. Lascio parlare un uomo che adempì benissimo questo assunto: « Il signor Thiers, egli dice, il sig. Barthélemy Saint-Hilaire ed altri partigiani della legge pensano che l’atmosfera romana sia eccellente per formare cuore ed animo alla gioventù: sia pure. Vi tuffino i loro figliuoli; per me, li lascio liberi di farlo; ma mi lascino libero pure di allontanarne i miei, come da un aere pestilenziale. Signori autori del regolamento, ciò che a voi parve sublime, a me pare odioso; ciò che soddisfa la vostra coscienza spaventa la mia. Voi siete molto convinti che sotto il punto di veduta sociale e morale il bello ideale si trovi nel tempo passato. « Osiamo dirlo a un secolo orgoglioso di se stesso, diceva il signor Thiers, l’antichità è ciò che v’ha di più bello al mondo ». Per me, ho la fortuna di non partecipare a sì desolante opinione. Voi credete che le nostre idee, i nostri costumi debbano, per quanto è possibile, essere gettati nello stampo antico: io ho un bello studiare 1’ordine sociale di Sparta e di Roma, non vi vedo se non violenze, ingiustizie, imposture, guerre perpetue, schiavitù’, turpitudine, falsa politica, falsa morale, falsa religione. Ciò che voi ammirate, ed io 1’aborro; ma insomma, tenetevi per voi il vostro giudizio e lasciate a me il mio. « In virtù della vostra legge, tre fonti d’insegnamento stanno per aprirsi quello dello Stato, quello del clero, e quello degli istituti pretesi liberi. Ciò che io chiedo si è che questi siano infatti liberi di tentare nella carriera vie nuove e feconde. Insegni 1’università quanto essa predilige, il greco ed il latino. Formino ambedue dei platonici e dei tribuni; ma non tolgano a noi di formare, con altri mezzi, uomini per il nostro paese e per il nostro secolo. Giacché, se codesta libertà ci è interdetta, quale amara derisione non sarà mai il venirci dire ad ogni momento: voi siete liberi! – « Nella seduta del 23 febbraio, il signor Thiers venne a dirci per la quarta volta: — Io ripeterò eternamente quel che ho detto: la libertà che è data dalla legge che noi scrivemmo, è la libertà secondo la Costituzione. Io vi sfido di provar altro. Provatemi che quella non è la libertà; per me, sostengo che non ve n’ha altra possibile. Altre volte non si poteva insegnare senza il beneplacito del governo. Noi abbiamo soppresso l’autorizzazione preventiva: tutti potranno insegnare. Altre volte si diceva: insegnate la tal cosa; non insegnate le tali altre. Oggi noi diciamo: insegnate tutto quello che vorrete insegnare. — Vediamo a che si riduce questa libertà che voi dite essere sì intera. – « In virtù della vostra legge, io fondo un collegio… Come padre, io pago l’educazione dei miei figliuoli, senzaché nessuno mi aiuti. Come contribuente, io pago per 1’educazione dei figliuoli altrui; poiché non posso rifiutare l’imposta che assolda i licei. Sono io libero? No, no; dite che voi praticate la solidarietà nel senso socialista, ma non abbiate la pretensione di dire che praticate la libertà. « E questo non è se non il minimo dei lati della questione: ecco ciò che è più grave. Io do la preferenza all’insegnamento libero, perché il vostro insegnamento ufficiale, al quale voi mi forzate di concorrere senza profittarne, mi sembra comunista e pagano; la mia coscienza ripugna a che i miei figliuoli s’imbevano delle idee spartane e romane che, ai miei occhi almeno, non sono altro che la violenza e 1’assassinio glorificati. In conseguenza, mi sottopongo a pagare la pensione per i miei figliuoli e l’imposta per i figliuoli altrui. Ma che trovo io mai? Io trovo che il vostro insegnamento mitologico e guerriero fu indirettamente imposto al mio collegio libero, dall’ingegnoso meccanismo dei vostri gradi, e che debbo curvare la mia coscienza alle vostre mire sotto pena di fare dei miei figliuoli tanti paria nella società. Voi m’ avete detto quattro volte che io era libero; voi me lo direste cento volte, e cento volte io vi risponderei: « io non sono libero. » Ecco a che ne siamo! E questo dopo trent’ anni di sforzi inauditi per rompere il dispotismo Spartano dello Stato; e questo sotto l’impero d’una legge salutata come una legge di libertà. Riunite quest’ultimo tratto a tutti quelli che abbiamo indicati in questo capitolo, e, se potete, negate l’influenza attuale e profonda del paganesimo classico sulla famiglia.

 

 

IL MESSAGGIO DI FATIMA ALLA LUCE DELLA TEOLOGIA

[da: Attualità di Fatima; Città della Pieve, 1953, impr.]

Un profondo pensatore spagnolo, alludendo all’alto e ricco contenuto teologico del grande Messaggio di Fatima, argutamente scriveva : « La Vergine conosce molto bene la teologia del suo Rosario e del suo Cuore » (Llamera M., O. P., Fatima, Il Rosario e il Cuore di Maria, trad. dallo spagnolo del P. A. Andaloro, O. P., Catania 1949, p. 9) . M a è sommamente opportuno, per non dire necessario, che una tale teologia venga conosciuta anche dai figli di questa Madre celeste, poiché è soltanto alla luce della Teologia che si può scorgere, in tutta la sua ricchezza, il grandioso messaggio di Fatima, e, in modo tutto particolare, quella che si potrebbe chiamare l’anima di un tale messaggio: il suo preciso scopo e i mezzi per ottenerlo.

I – SCOPO DEL MESSAGGIO DI FATIMA

Il Messaggio di Fatima — come si rileva dalla storia delle apparizioni — è la più stupenda rivelazione del Cuore Immacolato di Maria, un Cuore tutto avvolto dalle fiamme d’amore della sua duplice maternità: naturale, verso Dio, spirituale, verso gli uomini. Abbiamo qui la Madonna nell’esercizio — reso visibile, direi quasi, palpabile — della sua Maternità universale, quella Maternità cioè che abbraccia tutti, Creatore e creature, e che costituisce il primo, il supremo principio di tutta la scienza Mariana, la ragione stessa di essere di così eccelsa creatura. Ha insistito infatti la Vergine, in tutte e sei le apparizioni, sopra un fatto dolorosissimo che interessa sia Dio, Figlio suo naturale, sia gli uomini, figli suoi spirituali: « le povere anime peccatrici ». La vita della grazia, questo ineffabile dono della munificenza divina, che unisce, nel modo più ineffabile, Dio agli uomini e gli uomini a Dio, tramite Maria Mediatrice di grazia, viene inesorabilmente soppressa dal peccato. Teologicamente considerato, il peccato è il più grande fra i mali, anzi, l’unico vero male, sorgente di tutti gli altri mali. Il peccato, infatti, mentre oltraggia Dio, di cui si trasgredisce la legge, danneggia indicibilmente l’uomo, poiché provoca la inesorabile giustizia divina con castighi sia temporali (la guerra) sia eterni (l’inferno). Per questo la Madonna di Fatima, dalla prima apparizione fino all’ultima, giustamente preoccupata sia dello oltraggio arrecato dal peccato al Figlio suo naturale — Dio —, e sia dei castighi che ne derivano ai figli suoi spirituali — agli uomini —, chiede, con materna insistenza, riparazione, ossia, « sacrifici » « in riparazione di tanti peccati », specie per i peccati impuri e per le offese arrecate all’Eucarestia e all’Immacolato suo Cuore. Di qui l’accorato grido del suo Cuore materno: « Non offendano più il Signore, che è già troppo offeso! ». L’intima essenza teologica del Messaggio di Fatima è perciò manifesta: la salvezza dell’umanità, compromessa seriamente dal peccato, sommo male sia di Dio, sia dell’uomo, entrambi figli suoi, e perciò entrambi sommamente cari al suo Cuore Immacolato. Per questo la Vergine SS.ma ha voluto rivelare, in modo così meraviglioso, il suo Cuore. – Ma il Cuore materno della Vergine non si è limitato, in questo messaggio di salvezza, a rivelarne lo scopo: si è anche degnato di indicare agli uomini, con sollecitudine squisitamente materna, i mezzi più efficaci per raggiungere la salvezza, ossia, per evitare i castighi sia temporali (la guerra con tutte le sue orribili conseguenze) sia, specialmente, eterni (l’inferno, che Ella si degnò mostrare ai tre fanciulli terrorizzati, onde eccitarli alla « riparazione ») . Questi mezzi si riducono a due: la preghiera ( specie il Rosario) unita al sacrificio, e la Devozione al Cuore Immacolato di Maria nella sua triplice forma: vene razione, riparazione e consacrazione. Considerati attentamente questi due mezzi alla luce della Teologia Cattolica, ci appariscono di una efficacia singolarissima, oggi specialmente, per la salvezza dell’umanità tribolata, e per allontanare da essa i castighi sia del tempo che dell’eternità. La Vergine non poteva scegliere mezzi più efficaci.

II – MEZZI PER L’ATTUAZIONE DEL MESSAGGIO

Preghiere e sacrifici

Nella quarta apparizione, la Vergine SS. Di Fatima, col volto velato da profonda mestizia, esortò vivamente i piccoli veggenti alla pratica della preghiera e del sacrificio, e concluse: « Pregate, pregate molto e fate sacrifici per i peccatori » . Ed aggiunse: « Badate, che molte, molte anime vanno all’inferno, perché non vi è chi sacrifichi e preghi per loro ». I tre pastorelli diedero subito ascolto, in modo esemplare, eroico, a questo invito della Vergine, abbandonandosi ad una vita tutta intessuta di preghiere e di sacrifici. Quante anime saranno debitrici dell’eterna salvezza alle loro preghiere ed ai loro sacrifici! E’ indispensabile, per evitare la suprema iattura a tanti nostri fratelli, che i cristiani votati alla preghiera e ai sacrifici diventino legione. Per comprendere la salutare efficacia della preghiera e dei sacrifici fatti per gli altri, è necessario tener presente la dottrina teologica del mistico Corpo di Cristo, esposta con tanta chiarezza dall’Apostolo Paolo e dalla recente Enciclica « Mystici corporis Christi » del S. P. Pio XII (Cfr. Acta Ap. Sedes 35, 1943, p. 247 ss.). Esiste un’evidente analogia tra il corpo fisico e il corpo morale, ossia, la società, sia di ordine naturale (la società civile), sia di ordine soprannaturale (la società religiosa, ossia, la Chiesa). Come il corpo fisico ha vari membri, con vari uffici, dimodo che pur essendo molti, formiamo un sol corpo in Cristo, ed ognuno è membro dell’altro » (Rom. XII, 4-5). V’è perciò una vera, soprannaturale solidarietà fra i vari membri del mistico corpo di Cristo, ossia, fra i battezzati, di modo che tutti son tenuti ad amarsi e ad aiutarsi scambievolmente, come le membra di uno stesso corpo fisico: « Se un membro soffre — osserva S. Paolo — tutte le membra soffrono con lui; e se un membro è glorificato, tutte le membra godono con lui » (1 Cor. XII, 26). Questa è la ragione per cui tutti i cristiani sono veri fratelli, poiché sono uno solo in Cristo, membri tutti dello stesso mistico corpo di Cristo, figli tutti della stessa madre spirituale, Maria SS. Nessuno perciò può rimanere indifferente, inerte, dinanzi alla eterna dannazione di tanti fratelli. Ciò spiega come la Vergine SS., spinta dalla sua sollecitudine materna, si sia rivolta con tanta insistenza ai piccoli veggenti di Fatima, e per mezzo di loro, a tutti i suoi figli, chiedendo « preghiere e sacrifici per i peccatori », onde impedire che tanti precipitino nell’Inferno. « Preghiera » innanzitutto. « L’inferno! l’inferno!… — esclamava Giacinta — Che pena mi fanno le anime che vanno all’inferno! … E tremando si inginocchiava con le mani giunte e pregava: « — O Gesù mio, perdonate le nostre colpe, preservateci dal fuoco dell’inferno, portate tutte le anime in cielo, specialmente le più bisognose della vostra misericordia —- Rimaneva così a lungo ripetendo la medesima preghiera. Tratto, tratto, come svegliandosi, chiamava gli altri: -— Lucia, Francesco, voi non pregate con me? … Bisogna pregare per liberare le anime dall’inferno. Ve ne cadono tante! … » (Cfr. L. G. da Fonseca, Le meraviglie di Fatima. Roma 1950, p. 125 s.) . L’accorato appello di Giacinta va raccolto da tutti i cristiani. Occorre pregare, pregare molto per la salvezza dei nostri fratelli. Tutti sanno quanto sia efficace questo « gran mezzo » di salvezza — come lo chiama S. Alfonso M. de’ Liguori — per ottenere, non solo per noi, ma anche per gli altri, le grazie necessarie per allontanarci dalla via del male, per perseverare nella via del bene e giungere così alla meta della eterna felicità: « Chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, picchiate e vi sarà aperto! » (Matth. VIII, 7). La preghiera — è stato detto arditamente — è la forza dell’uomo e la debolezza di Dio: Dio, Padre amoroso, non sa resistere all’umile supplica dei suoi figli pellegrini in questa valle di lacrime. Fra tutte le preghiere, poi, un vero, innegabile primato spetta al Rosario. Per questo la Madonna di Fatima lo preferì a tutte le altre preghiere, raccomandandone la recita quotidiana in ciascuna delle sei apparizioni. Ma della singolare eccellenza di questa forma di preghiera, vera « arma dei cristiani », scriverà un’altra penna, molto più autorizzata della mia. – Alla « preghiera, la Madonna di Fatima esorta di unire « i sacrifici » . Fin dalla prima apparizione, esortò i veggenti ad « offrire sacrifici per la salvezza dei peccatori » . La Vergine SS. spese tutta la sua vita per l’eterna salvezza dei suoi figli. Dietro l’esempio della Madre, anche i fratelli dovranno sentire l’urgenza del sacrificio per l’eterna salvezza dei loro fratelli. La vista dell’inferno, nel quale vanno a cadere tanti, perché non v’è nessuno che si sacrifichi per loro, aveva talmente terrorizzato i tre piccoli veggenti di Fatima, che tutte le penitenze, tutte le mortificazioni, tutti i sacrifici sembravano loro un bel nulla, pur di preservare con essi una sola anima da quella spaventosa prigione. Alludendo a questi sacrifici, Lucia osservava: « Se volessi raccontarli tutti, non finirei mai » . Giunse a tal punto questa sete di sacrifici per un sì nobile scopo, che la Vergine stessa dovette maternamente intervenire per moderarli. Trovata infatti per la strada, subito dopo la quarta apparizione, una corda ruvida e grossa, la divisero in tre parti, se ne cinsero strettamente i fianchi e la portarono, con indicibile strazio, sia di giorno che di notte, fino a lacrimare per il continuo, insopportabile tormento. Ma nella quinta apparizione, l a Vergine SS. moderò il loro ardore dicendo: « Nostro Signore è molto contento dei vostri sacrifici, ma non vuole che dormiate con la corda. Portatela soltanto durante il giorno » (Da Fonseca, o. c., p. 127.). Mirabile esempio che dovrebbe trascinare innumerevoli altri sulla medesima via! – Il campo per cogliere questi profumati fiori del sacrificio da offrirsi al Signore per la salvezza degli altri è vastissimo: si estende infatti a tutto l’uomo, ai suoi sensi sia interni che esterni, alle sue facoltà sia intellettive che volitive. Nessun palmo di questo vasto terreno è incapace di offrire abbondanti fiori di sacrificio. Basta la buona volontà e la profonda convinzione del dovere, che tutti abbiamo di impedire che un nostro fratello, un membro dello stesso mistico corpo di Cristo, al quale tutti appartengono, sia vittima dell’eterna maledizione. – Preghiera e sacrifici! All’uscio di ogni anima cristiana bussa il lamento di Fatima: « Molte, molte anime vanno all’inferno, perché non vi è chi si sacrifichi e preghi per loro » . Sarà l’amore mariano, sostanziato di preghiera e sacrifici, che arresterà la corsa dei figli di perdizione.

III – LA DEVOZIONE AL CUORE IMMACOLATO DI MARIA

Oltre al Rosario, la Madonna di Fatima ha indicato, come mezzo di salvezza, la devozione al suo Cuore Immacolato. In ciascuna delle tre prime apparizioni, la Madonna del Rosario ha parlato ai piccoli veggenti del Suo Cuore Immacolato. Nella seconda disse a Lucia che Ella sarebbe dovuta rimanere ancora sulla terra — a differenza di Giacinta e Francesco, che sarebbero andati presto in cielo — perché Gesù, per salvare i poveri peccatori, intendeva servirsi di lei: « Egli vuole stabilire nel mondo la devozione al m i o Cuore Immacolato ». La Madonna di Fatima, inoltre, ha rivelato i tre atti fondamentali e, direi quasi, connaturali della devozione al suo Cuore Immacolato: la venerazione, l a riparazione e la Consacrazione, tre atti praticati poi in modo esemplare, eroico, dai tre piccoli veggenti di Fatima. – Consideriamo separatamente, alla luce della Teologia, questi tre atti fondamentali del culto al Cuore Immacolato di Maria.

1) La venerazione al Cuore Immacolato di Maria

La venerazione, primo ed essenziale atto di qualsiasi culto, è anche il primo ed essenziale atto del culto o devozione al Cuore Immacolato di Maria. La legittimità teologica di una tale venerazione appare evidente dalla considerazione sia dell’oggetto che della ragione fondamentale di un simile culto.Oggetto mediato del culto al Cuore Immacolato di Maria è, evidentemente, la persona stessa di Maria SS., alla quale il Cuore appartiene. Come allorché si bacia, per esempio, la mano un sacerdote, si compie, evidentemente, un atto di venerazione verso la persona di Lui, così allorché si venera il Cuore Immacolato di Maria, si compie un atto di venerazione verso sua persona. — Oggetto invece immediato di tale venerazione è il Cuore stesso fisico di Maria in quanto simbolo del Cuore simbolico o metaforico, ossia, dell’amore. Ciò risulta dalle rivelazioni e dagli scritti di S. Margherita Maria Alacoque, dai primi scrittori e postulatori di tale culto liturgico ( i PP. Croiset e Gallifet), nonché dai d ocumenti autentici dottrinali e liturgi quali la Messa e l’Ufficio (Cfr. Pujolras E., C.M.F. Cultus Purissimi Cordis B. M. Virginis, ed. Ancora, Milano 1942.) . Il fondamento biblico di tale venerazione possiamo riscontrarlo nel Vangelo, ossia, nelle due aperte allusioni « al Cuore » di Maria SS. (Luc. II, 18, 51.) e nelle sette parole pronunziate dalla Vergine, parole che ci rivelano, in modo meraviglioso, il suo Cuore (Cfr. Peinador M., O.M.F., El Corazon de Maria en los Evangelios, in «Estudios Marianos », 4 (1945) p. 11.58.). La ragione stessa, del resto, ci dimostra la ragionevolezza del culto tributato al Cuore Immacolato di Maria SS., a preferenza di altre parti del suo Corpo verginale, santissimo. Il Cuore, infatti, a differenza di qualsiasi altra parte del corpo, rivendica una particolare eccellenza per il fatto che costituisce il centro di tutta la vita affettiva, per cui il cuore è comunemente ritenuto come il simbolo naturale dell’amore, che è come centro motore della vita fisico-psichica. Ciò posto, l’amore, simboleggiato dal cuore, non solo è il primo e principale fra tutti gli affetti, ma anche il principio e la radice dei medesimi e insieme di tutte le azioni (S. Th. I . H , q. 28, a. 6.). L’amore, perciò riassume tutta la vita psicologica e morale dell’individuo. Che se poi, oltreché sotto l’aspetto naturale, ci spingiamo a considerare l’amore anche sotto l’aspetto soprannaturale, esso, oltreché di tutta la vita naturale, appare anche il centro e la sintesi di tutta la vita soprannaturale, esso oltreché di tutta la vita naturale, appare anche il centro e la sintesi di tutta la vita soprannaturale, secondo quella scultorea espressione dell’Angelico: « La carità è la vita dell’anima, come l’anima è la vita del corpo » ( S. Th., t. II, q. 23, a. 2, ad 2.). Il Cuore della Vergine quindi è la vera sorgente di tutta la sua vita e il compendio dei suoi misteri, fra i quali primeggiano q quelli espressi nel S. Rosario. Di qui la singolare e — direi — trascendente eccellenza di una tale devozione, comprovata anche dai mirabili effetti che essa produce nelle anime che la praticano, primo fra tutti quello di rendere il nostro cuore sempre più conforme a quello di Maria, e perciò anche a quello di Cristo, cuore del cuore di Maria. Il Cuore di Maria è come il luogo di convegno, il punto di incontro di Dio con l’uomo, del cuore di Cristo col cuore di tutti i cristiani, il mezzo più efficace per far palpitare tutti i cuori all’unisono. Non esagerava davvero P. Llamera quando scriveva che « l’oggetto formale principale della devozione al Cuore di Maria (l’amore simboleggiato dal Cuore) è ragione dell’oggetto di tutte le devozioni, che onorano l’eccellenza della perfezione o santità di Maria nelle sue diverse manifestazioni, dato che l’eccellenza del suo amore è causa e ragione della eccellenza della sua vita. In tal senso la devozione al Cuore di Maria è per se stessa la più eccellente, tutte le devozioni, in quanto venerano le virtù e i privilegi della Vergine, sono subordinate ad essa come a causa formale e come a fine » (O. c., p. 98.). Questa singolare eccellenza ci dice eloquentemente perché la Madonna di Fatima abbia voluto che la devozione al suo Cuore Immacolato fosse maggiormente statuita e propagata nel mondo d’oggi, così assetato d’amore, così tormentato dalla tempesta dell’odio.

2) La riparazione al Cuore Immacolato di Maria

Spontanea esigenza dell’amore e sua necessaria scaturigine è la riparazione per le offese arrecate al cuore della persona amata. Logicamente perciò la Madonna di Fatima, oltre a stabilire la devozione al suo Cuore Immacolato, della quale è frutto nativo l’amore, ha chiesto con insistenza la riparazione per gli oltraggi arrecati all’Immacolato suo Cuore. Per questo presentò in visione il suo Cuore Immacolato, circondato da una corona di spine che lo pungevano da ogni parte (Già precedentemente, ad un’altra anima privilegiata, Berta Petit, Terziaria Francescana (+ 1943), fu affidata in visione privata la missione di diffondere la consacrazione del mondo al Cuore Addolorato e Immacolato di Maria. Nella comunicazione celeste dell’8 sett. 1911 Gesù le disse : « Il cuore di mia Madre ha diritto al titolo di Addolorato e io lo voglio anteposto a quello di Immacolato, perché il primo se lo ha acquistato essa stessa ». Delicatezza filiale di Gesù per la Sua e nostra Mamma! Benedetto XV fece menzione del Cuore Addolorato e Immacolato di Maria in una lettera inviata al Cardinale Vannutelli, i l 31 maggio 1914. Il 28 Settembre 1915 lo stesso Sommo Pontefice indulgenziava la seguente giaculatoria: « O Cuore Addolorato e Immacolato di Maria, pregate per noi che ricorriamo a Voi ». – Eminenti diffusori del Culto al Cuore Addolorato e Immacolato di Maria sono stati i Cardinali Bourne, Mercier, Granito Di Belmonte. Il Card. Griffin, successore di Bourne nell’Archidiocesi di Westminster, ha annesso la indulgenza di 300 gg. o. v. alla sopraddetta giaculatoria – 21.VI-1947). Fin dalla prima apparizione, la « bella Signora » chiese sacrifici e penitenze « in riparazione delle bestemmie e di tutte le offese arrecate al Cuore Immacolato di Maria ». Anche nella terza apparizione la Vergine SS. esortò i piccoli veggenti a sacrificarsi « in riparazione delle ingiurie commesse contro il Cuore Immacolato di Maria»; e incominciò a parlare della « Comunione riparatrice nei primi sabati del mese ». Il 10 luglio 1925. la Vergine SS., insieme a Gesù Bambino, apparve a Lucia e, integrando ciò a cui aveva di già accennato nella terza apparizione, mostrava il suo Cuore avvolto dalle spine, e Gesù, additandolo, esortava la veggente « ad aver compassione di quel Cuore continuamente martoriato dall’umana ingratitudine, senza che vi sia chi lo consoli con atti di riparazione ». E la Vergine soggiunse: « Guarda, figlia mia, il mio Cuore circondato dalle spine con cui gli uomini ingrati ad ogni momento 1° trafiggono con le loro bestemmie ed ingratitudini. Tu almeno cerca di consolarmi, e da parte mia annuncia che io prometto di assistere, nell’ora della morte, con le grazie necessarie alla salvezza delle loro anime, tutti quelli che nel primo sabato di cinque mesi consecutivi si confesseranno, riceveranno la Santa Comunione, diranno una corona del Rosario e mi faranno compagnia durante quindici minuti, meditando i misteri del Rosario, col fine di offrirmi riparazione ». – La riparazione al Cuore Immacolato di Maria è del tutto analoga alla riparazione al S. Cuore di Gesù. Ne segue dunque che, sia L’una che l’altra, ha analoghi fondamenti teologici. Ha lumeggiato egregiamente i fondamenti teologici generali della riparazione il S. P. Pio X I nella Enciclica « Miserentissimus Redemptor » del 9 Maggio 1928. Dopo aver rilevato come la « riparazione » o « espiazione » è l’ovvia conseguenza dell’amore che si porta alla persona amata, allorché si vede oltraggiata, asserisce che « al debito particolarmente della riparazione», oltreché dall’amore, « siamo stretti da un più potente motivo di giustizia e di amore: di giustizia, per espiare l’offesa recata a Dio con le nostre colpe e ristabilire con la penitenza l’ordine violato; di amore, per patire insieme con Cristo paziente e saturato di obbrobri, e recargli, secondo la nostra pochezza, qualche conforto. » – Giustizia ed amore: ecco i due titoli generici della riparazione al Cuore Immacolato di Maria. Ho detto: titoli generici, poiché non mancano titoli specifici che reclamano, in particolare, una adeguata riparazione alle offese che pungono di continuo, come spine, il Cuore Immacolato di Maria. Questi titoli di riparazione sono tanti quanti sono quelli della sua grandezza e della sua gloria, ed i nostri doveri di figli, di sudditi, di beneficati. La nostra qualità di figli affettuosi ci vieta di rimanere indifferenti dinanzi agli oltraggi, dei quali è continuamente il bersaglio una Madre sì dolce; la nostra qualità di sudditi fedeli ci spinge a risarcire le offese rivolte ad una così amabile Regina; la nostra qualità di beneficati verso Colei che, quale Corredentrice del genere umano, ha cooperato col Redentore all’acquisto di tutte le grazie, e coopera di continuo alla distribuzione delle medesime, non può non stimolarci a risarcire tanti affronti ricevuti da tanti, in compenso di innumerevoli benefizi. Che se si riflette, inoltre, alla singolare, impareggiabile grandezza della persona offesa, — l’Augusta Madre di Dio — e alla sua esimia santità, sia negativa (la perfetta immunità da qualsiasi macchia di colpa sia originale che attuale), sia positiva (la pienezza di grazia e di tutte le virtù), è impossibile non sentire, in tutto il suo vigore, l’impellente invito della Madonna di Fatima al dovere della riparazione mariana.

3) La consacrazione al Cuore Immacolato di Maria. Il terzo, supremo atto della devozione al Cuore Immacolato di Maria, conseguenza anche esso dell’amore, è la consacrazione al medesimo Cuore. « Verrò a chiedere — così disse la Madonna di Fatima nella sua terza apparizione — la consacrazione del mondo al mio Cuore Immacolato », particolarmente della Russia. Il 31 Ottobre 1942, e poi, solennemente, nella Basilica Vaticana, l’8 Dicembre dello stesso anno, il S. P. Pio XII, nella pienezza del suo potere, consacrava la Chiesa e tutto il mondo al Cuore Immacolato di Maria. Recentissimamente poi, con la lettera Apostolica « Anno vergente Sacro » del 7 luglio 1952, consacrava in modo particolare i popoli della Russia allo stesso Cuore Immacolato. [In realtà la Consacrazione della Russia al Cuore Immacolato di Maria, così come richiesto dalla Vergine a Fatima, cioè con la formulazione esatta e precisa, venne fatta da S. S. Gregorio XVIII, successore, canonicamente eletto, di Gregorio XVII G. Siri, il 13 maggio del 1991, come primo atto ufficiale del suo Pontificato “il esilio” – ndr.- ]. Il Vicario di Cristo — com’è noto — non regola mai la sua attività di Pastore supremo della Chiesa in base a rivelazioni particolari, ma è mosso sempre da soli motivi teologici, senza escludere con ciò che la prima idea o l’ultima spinta a compiere un atto, teologicamente giustificabile e praticamente opportuno, possa essere anche qualche rivelazione di carattere puramente privato, sufficientemente accertata. Questo, precisamente, ci sembra il caso del grandioso gesto della Consacrazione, sia del mondo, in genere, sia della Russia, in particolare, al Cuore Immacolato di Maria SS. Ho detto: gesto grandioso. Io stesso, infatti, durante un’indimenticabile udienza privata concessami qualche giorno dopo, mi permisi di dire all’Augusto Pontefice, che con tale sublime gesto Egli aveva raggiunto il vertice del culto mariano. La giustificazione teologica di questa mia modesta valutazione del grandioso gesto, compiuto dal S. P. Pio XII, va ricercata nella natura stessa della Consacrazione e nelle sue basi dogmatiche. Proietta molta luce su questo fondamentale argomento l’Enciclica « Annum sacrum » (De hominìbus Sacratìssimo Cordi Jecu devovendis.), di Leone XIII (25 Maggio 1899), e l a già citata Encìclica « Miserentissimus Redemptor », di Pio XI (8 Maggio 1927), in quella parte che riguarda la Consacrazione al Cuore Sacratissimo di Gesù, alla quale è perfettamente analoga la consacrazione al Cuore Immacolato di Maria. Con la « Consacrazione » — rileva Pio XI — offriamo al Cuore di Gesù noi e tutte le cose nostre, riconoscendo le ricevute dalla eterna carità di Dio » . Questa dedizione totale (di noi e di tutte le cose nostre in forza della quale diventiamo « sacri a Dio » ) è anche perenne, a causa appunto di quella nota di stabilità che — come rileva lo stesso Pontefice — è propria, secondo lo Angelico (S. Th., t. II q. 81, a. 8. c.) della « Consacrazione » . Ha riunito felicemente questo duplice concetto proprio della « consacrazione » a Maria SS. (quello cioè di una dedizione totale e perenne) il S. P. Pio XII nel suo discorso ad un gruppo di partecipanti francesi al « Grand Retour » (23 Novembre 1946): « la Consacrazione è un dono intero di sé, per tutta l’eternità; è un dono non di pura forma o di puro sentimento, ma effettivo, compiuto nell’intensità della vita cristiana e mariana ». La Consacrazione, in breve, non è un chiedere, ma un dare; non è solo un dare in custodia, ma è un dare in proprietà; non è un dare in proprietà per qualche tempo, ma per sempre. Il fondamento dogmatico perciò della Consacrazione a Maria è — evidentemente — il dominio o regalità che Ella, insieme con Cristo, ha sopra di noi, dominio o regalità che noi, con l’atto di Consacrazione, liberamente riconosciamo. E’ quanto espone Leone XIII nell’Enciclica « Annum Sacrum ». Dopo aver rilevato « come tutto il genere umano è sotto il potere di Cristo », espone come per tre titoli (naturale, acquisito e di libera elezione) convenga a Cristo il dominio, ossia, la regalità universale. Cristo, infatti, « essendo Figlio del Re di tutti, è erede di tutto il suo potere (diritto naturale); avendo « dato se stesso per la redenzione di tutti », tutti « sono diventati il suo popolo d’acquisto » (diritto acquisito). Non basta: « Benignamente Cristo lascia che a questo duplice titolo ( naturale ed acquisito) di podestà e di regalità si aggiunga liberamente, da parte nostra, il titolo di una consacrazione volontaria » (« Imperator Christus non iure tantum nativo, quippe qui Dei Unigenitus, sed etiam quæsito… Ad istud potestatis dominationisque suæ fundamentum duplex, benigne ipse sinit ut accedat a nobis, si libet, devotio voluntaria ».). – Quello che ci ha insegnato Leone XIII, intorno al fondamento dogmatico della Consacrazione al Cuore Sacratissimo di Gesù, va ripetuto analogamente, del1a Consacrazione al Cuore Immacolato di Maria. Se Cristo, infatti, è nostro Re, Maria SS. è nostra Regina. Se triplice è il titolo di Cristo alla Regalità, ossia, al dominio sopra di noi, e perciò al nostro pieno assoggettamento a Lui, triplice ancora è il titolo di Maria SS. alla Regalità e al nostro assoggettamento a Lei mediante la « Consacrazione », ossia: per diritto naturale (quale Madre del Re dei Re), per diritto di conquista (quale Corredentrice, ossia, quale cooperatrice, con Cristo, al nostro riscatto dalla schiavitù del demonio), e per libera nostra elezione, permettendoci anche Lei — come Cristo suo Figlio —, di offrire noi stessi al suo Cuore, come se appartenessimo a noi, umilmente supplicandola a volersi compiacere di ricevere da noi ciò che già (per un duplice titolo) le appartiene. Non occorre spendere molte parole per rilevare la singolare eccellenza della Consacrazione al Cuore Immacolato di Maria. Leone XIII, nell’Enciclica « Annum Sacrum », parlando della Consacrazione al Cuore Sacratissimo di Gesù, non esita a qualificarla come « il più ampio e il più grande atto di ossequio e il coronamento e il perfezionamento di tutti gli onori soliti a tributarsi al Sacratissimo Cuore » (« Amplissimum… maximumque obsequii testimonium », « honorem omnium, quodquot Sacratissimo Cordi haberi consueverunt, velut absolutio perfectioque ».) . Anche il S. P. Pio XI asserisce che « fra tutte le pratiche riguardanti il culto del Sacratissimo Cuore, primeggia… la Consacrazione ». Altrettanto, parallelamente, si può e si deve dire della Consacrazione al Cuore Immacolato di Maria. E’ il più alto, il più ampio attestato di ossequio, poiché è la dedizione totale e perenne di noi stessi alla Vergine, fatta in uno slancio di amore. Con la Consacrazione alla Vergine, sintesi e coronamento di tutte le devozioni mariane, il culto mariano raggiunge il suo vertice. Effettivamente non si può andare più in là nell’onorare Maria. Con essa, debitamente compiuta e intensamente vissuta, è suonata sul mondo l’ora di Maria, ora di salvezza e di pace, preannunziata dal Messaggio di Fatima.

P. Gabriele M. Roschini, O. S. M.

UN’ENCICLICA al giorno toglie il MODERNISTA-APOSTATA di torno: “Magnæ Dei Matris”.

“Magnæ Dei Matris” è una delle numerose lettere encicliche che il Santo Padre leone XIII ha dedicato alla SS. Vergine ed al culto mariano sottolineando l’importanza imprescindibile, per la vita di un “vero” Cattolico, del Santo Rosario, quello autentico del Salterio mariano, dei 15 Misteri voluti dalla Vergine e richiesti a S. Domenico. È una enciclica alla quale noi Cattolici Romani “una cum” Gregorio, siamo particolarmente affezionati, sia per i contenuti di tenera devozione alla Madre nostra e del Cristo Gesù, sia perché Papa Pecci ricorda, verso la fine, il motto del nostro amato SS. Gregorio XVII, il “Papa in rosso”, impedito, umiliato ed esiliato, vissuto nel Getsemani per 31 anni, di felicissima memoria, il versetto del Salmo CXIII. “Non nobis, Domine, Non nobis, sed Nomini tuo da gloriam”. Gustiamoci queste delizie mariane e mettiamo in pratica, non solo per il mese di ottobre, ma sempre, le esortazione di S. S. Leone XIII.

Leone XIII

” Magnæ Dei Matris”

Lettera Enciclica

“Il Rosario Mariano”

8 settembre 1892

“Tutte le volte che ci è data l’occasione di accrescere nel popolo Cristiano il culto e l’amore verso la gloriosa Madre di Dio, la Nostra gioia e la Nostra soddisfazione sono al colmo. E ciò perché non solo la cosa è di per sé stessa importantissima e feconda di buoni frutti, ma si armonizza anche nel modo migliore con i sentimenti più intimi del Nostro cuore. Succhiata, in verità, col latte materno, la Nostra pietà verso Maria è poi sempre venuta crescendo e rassodandosi in Noi, con il passare degli anni. E ciò perché la Nostra intelligenza sempre più chiaramente comprendeva quanto fosse degna di amore e di lode colei che Dio stesso amò per il primo ,e con tale affetto da innalzarla al disopra di tutte le creature, arricchirla dei più magnifici doni, e sceglierla, infine, per sua Madre. D’altra parte, le numerose e fulgide prove della sua bontà e benevolenza verso di Noi – prove che Noi non possiamo ricordare senza la più profonda gratitudine e senza versare lacrime di commozione – aumentarono sempre più in Noi questa pietà e più ardentemente la infiammarono. Poiché, in mezzo alle molte, svariate e terribili vicissitudini, che abbiamo attraversato, abbiamo fatto sempre ricorso a Lei e a Lei abbiamo sempre rivolto il Nostro sguardo, E dopo aver deposte nel suo seno tutte le Nostre speranze e i Nostri timori, le gioie e le tristezze, fu Nostra costante premura di supplicarla, perché volesse, in ogni occasione, assisterci come una madre tenerissima, e ottenerci, in cambio, il singolare favore di poterle testimoniare il Nostro affetto devoto e filiale. – Quando poi, per misterioso disegno di Dio, fummo chiamati alla Cattedra di San Pietro, a rappresentare nella Chiesa la stessa persona di Gesù Cristo, atterriti per il peso enorme di quest’ufficio, e non facendo alcun affidamento sulle Nostre proprie forze, con affetto ancor più intenso sollecitammo la divina assistenza, mediante la materna protezione della Vergine. E il Nostro cuore esulta nel proclamare che, nel corso di tutta la Nostra vita, ma specialmente nell’esercizio del Nostro Supremo Apostolato, la Nostra speranza non mancò mai di essere coronata o dal desiderato successo o, almeno, da un dolce conforto, Dopo tale esperienza, la Nostra speranza si leva ora più fiduciosa, mentre chiediamo, col suo favore e per la sua intercessione, grazie ancor più copiose e più importanti, per la salvezza del gregge cristiano e per la maggior gloria della Chiesa. – È dunque giusto e opportuno, venerabili fratelli, che Noi rivolgiamo a tutti i Nostri figli parole di incitamento – alle quali voi aggiungerete la vostra esortazione – affinché essi vogliano celebrare il prossimo mese di ottobre, sacro all’augusta Signora e Regina “del rosario”, con raddoppiato fervore, pari alle aumentate necessità dei tempi. – È ormai a tutti notissimo con quanti e quali mezzi di corruzione la malizia del mondo iniquamente si sforzi di indebolire e di estirpare interamente dai cuori la fede cristiana e l’osservanza della divina legge, che alimenta questa fede e la fa fruttificare. E già dappertutto il campo del Signore, come sconvolto da un terribile contagio, quasi inselvatichisce, per l’ignoranza della religione, per l’errore e per i vizi, E ciò che è ancor più doloroso, è che coloro che ne avrebbero il potere, anzi ne avrebbero il sacro dovere, lungi dal porre un freno o dall’infliggere giuste pene a una perversità così arrogante e colpevole, sembra invece, molto spesso, che a tale audacia diano incentivo, o per la loro inerzia, o col loro appoggio. Ben a ragione perciò ci si deve rattristare che a pubbliche scuole sia stata deliberatamente data una tale organizzazione che consente che il nome di Dio vi sia taciuto o vi sia oltraggiato; ci si deve rattristare della licenza, ognor più sfacciata, di stampare o di predicare ogni sorta di oltraggi contro Cristo Dio e la chiesa. Né è meno deplorevole quel conseguente languore e intiepidimento della pratica cristiana, che, se non è un’aperta apostasia dalla fede, è certo prossima a divenirlo; perché la pratica della vita non è ormai più aderente alla fede. Chi consideri questo pervertimento e questa rovina degli interessi più vitali, certo non si meraviglierà, se da per tutto le nazioni vanno gemendo sotto il peso dei divini castighi, e sono costernate dal timore di calamità ancora più gravi. – Orbene, per placare l’offesa maestà di Dio e per procurare a coloro che tanto soffrono il necessario rimedio, non vi è certamente mezzo migliore della preghiera devota e perseverante, purché congiunta con lo spirito e la pratica della vita cristiana. Per raggiungere poi insieme questi due scopi, Noi riteniamo che il mezzo più indicato sia il “Rosario Mariano”. – La sua potentissima efficacia è stata sperimentata ed esaltata fino dalla sua ben nota origine; come insigni documenti attestano, e Noi stessi abbiamo, più di una volta, ricordato. Allorché la setta degli Albigesi – in apparenza paladina dell’integrità della fede e dei costumi, ma in realtà sua perturbatrice e pessima corrompitrice – era per molti popoli causa di grande rovina, la chiesa combatté contro di essa e contro le sue infami fazioni, non con milizie o con armi, ma principalmente con la forza del santo rosario, che il patriarca s. Domenico propagò, per ispirazione della stessa Madre di Dio. Così, gloriosamente vittoriosa di tutti gli ostacoli, la chiesa, sia in quella come in altre simili tempeste, provvide sempre con splendido successo alla salute dei suoi figli. Perciò, nella presente situazione, che Noi deploriamo come luttuosa per la religione e pericolosissima per la società, è necessario che tutti insieme – con pietà uguale a quella degli antenati – preghiamo e scongiuriamo la gran Madre di Dio, perché, secondo i comuni voti, possiamo rallegrarci di aver sperimentato un’eguale efficacia del suo rosario. – E veramente quando ricorriamo a Maria, noi ricorriamo alla Madre della misericordia; la quale è cosi ben disposta verso di noi, che in qualsiasi nostra necessità, soprattutto in quelle spirituali, ella subito, spontaneamente, senza neppure essere invocata, viene in nostro soccorso, e ci fa parte di quel tesoro di grazia, di cui fin dal principio ricevette da Dio la pienezza, perché potesse divenire sua degna Madre, È questa sovrabbondanza di grazia – il più eminente degli altri suoi innumerevoli privilegi – che eleva la Vergine molto al di sopra di tutti di uomini e di tutti gli angeli, e ravvicina, più di ogni altra creatura, a Cristo; “È cosa grande in qualunque santo il possedere tanta grazia che basti alla salvezza di molti; ma se ne avesse tanta da bastare alla salute di tutti gli uomini del mondo, questo sarebbe il massimo; e ciò si verifica in Cristo e nella beata Vergine”. È dunque difficile dire quanto torni gradito a Maria il nostro ossequio, quando noi la salutiamo con la lode dell’Angelo, e ripetiamo poi lo stesso elogio, quasi formandone una devota corona, Perché ogni volta noi quasi ridestiamo in lei il ricordo della sua sublime dignità e della redenzione del genere umano, da Dio iniziata per suo mezzo: per conseguenza noi le ricordiamo pure quel divino e indissolubile vincolo, con cui ella è unita alle gioie e ai dolori, alle umiliazioni e ai trionfi di Cristo, nel guidare e nell’assistere gli uomini verso la salvezza eterna. Gesù Cristo volle, nella sua bontà, assomigliarsi a noi e dirsi e mostrarsi figlio dell’uomo, e perciò nostro fratello, affinché più luminosa ci apparisse la sua misericordia verso di noi: “Egli dovette in tutto essere fatto simile ai suoi fratelli, per diventare misericordioso” (Eb II,17). Così Maria. per il fatto che fu scelta quale Madre di Gesù, nostro Signore – che è insieme nostro fratello – ebbe, fra tutte le madri, la singolare missione di manifestare e di spargere sopra noi la sua misericordia. Inoltre, come siamo debitori a Cristo di averci resi in certo modo partecipi del suo proprio diritto di chiamare e di avere Dio per padre, così gli siamo ugualmente debitori di averci amorevolmente resi partecipi del suo diritto di chiamare e di avere Maria per Madre, E poiché, per natura, nome di madre è fra tutti il più dolce, e nel nome di madre è posto il termine di confronto di ogni amore tenero e sollecito, tutte le anime pie sentono – sebbene la loro lingua non riesca ad esprimerlo – che un’immensa fiamma di amore condiscendente e operoso divampa in Maria, che, non per natura, ma per volere di Cristo, ci è Madre, Ella perciò vede e penetra, molto meglio di ogni altra madre, tutte le nostre cose: le necessità della nostra vita; i pericoli pubblici e privati, che ci minacciano; le difficoltà e i mali, nei quali ci dibattiamo; e soprattutto l’aspra, lotta, che dobbiamo sostenere per la salute dell’anima, contro nemici violentissimi. E in queste, come in tutte le altre angustie della vita, più di ogni altro può e desidera portare ai suoi carissimi figli, consolazioni, forza, aiuto di ogni genere. Ricorriamo quindi fiduciosi e insistenti a Maria, Supplichiamola per quei vincoli materni con cui è sì strettamente congiunta a Gesù e a noi. E invochiamo con la massima devozione il potente suo aiuto, servendoci di quella formula di preghiera, che ella stessa ci ha indicato e che le è tanto gradita. Allora potremo a ragione riposarci con cuore tranquillo e lieto sotto la protezione della più tenera fra le madri. – Oltre al pregio, che il rosario trae dalla natura stessa della preghiera, esso contiene una maniera facile per far penetrare e inculcare negli animi i dogmi principali della fede cristiana; il che costituisce certamente un altro insigne titolo di raccomandazione. – Infatti è soprattutto per la fede che l’uomo direttamente e sicuramente s’avvicina a Dio e impara ad adorare, con la mente e col cuore, l’immensa maestà di quest’unico Dio, la sua autorità sopra ogni cosa, la sua somma potenza, la sua sapienza, e la sua provvidenza: “poiché, chi si accosta a Dio, deve credere che egli esiste, e che egli è rimuneratore di quelli che lo cercano” (Eb XI,6), Ma poiché l’eterno Figlio di Dio assunse la natura umana, visse in mezzo a noi, e continua ad esserci via, verità e vita, è perciò necessario che la nostra fede abbracci anche i profondi misteri dell’augusta Trinità delle divine persone e del Figlio unigenito del Padre, fatto uomo: “E la vita eterna è questa, che conoscano te, solo vero Dio, e colui che hai mandato, Gesù Cristo” (Gv 1 XVII,3). In verità Dio ci ha dato un beneficio inestimabile, quando ci ha donato questa santa fede; perché, per suo mezzo, non solo ci innalziamo al di sopra di tutte le cose umane, fino a divenire quasi contemplatori e partecipi della natura divina, ma acquistiamo altresì un titolo di un merito immenso alle eterne ricompense. Così che si alimenta e si rinsalda in noi la speranza che potremo un giorno contemplare Iddio, non già attraverso le pallide immagini delle cose create, ma nel suo pieno splendore, e potremo in eterno godere di lui, nostro sommo bene. Ma il cristiano è talmente preso dalle diverse preoccupazioni della vita, e così facilmente inclinato alle vanità di questo mondo che, senza un frequente e salutare richiamo, dimenticherà a poco a poco le cose più importanti e più necessarie, e così la sua fede si illanguidirà e perfino si estinguerà. Per preservare i suoi figli da questo troppo grave pericolo dell’ignoranza, la Chiesa non trascura nessuno dei mezzi, che la sua vigilanza e la sua sollecitudine le suggeriscono; e il Rosario in onore di Maria non è certo l’ultimo che essa adopera per sostenere la fede. Esso, infatti, con la sua meravigliosa ed efficace preghiera, ordinatamente ripetuta, ci porta al ricordo e alla contemplazione dei principali misteri della nostra religione; di quelli, in primo luogo, per cui “il Verbo si è fatto carne”, e Maria, Vergine intatta e Madre, gli prestò con santa gioia i suoi materni uffici. Vengono poi le amarezze, i tormenti, la morte di Cristo, prezzo della salvezza del genere umano. Infine sono i suoi misteri gloriosi: il trionfo sulla morte, l’ascensione in Cielo, la discesa dello Spirito Santo, lo splendore raggiante di Maria, assunta al cielo, e, da ultimo, con la gloria della Madre e del Figlio, la gloria eterna di tutti i santi. – E’ questa ordinata successione di ineffabili misteri, nel rosario, è spesso e insistentemente richiamata alla memoria del fedeli, e quasi spiegata davanti ai loro occhi; in modo che coloro che recitano bene il rosario, ne hanno l’anima inondata di una dolcezza sempre nuova, e provano la medesima impressione ed emozione che proverebbero se sentissero la voce stessa della loro dolcissima Madre, nell’atto di spiegare loro questi misteri e d’impartire loro salutari esortazioni. – Non potrà quindi sembrare eccessiva la Nostra affermazione, se diciamo che la fede non deve affatto temere i pericoli dell’ignoranza e dei nefasti errori in quei luoghi, in quelle famiglie e presso quei popoli, dove si mantiene nel primitivo onore la pratica del Rosario. – Ma c’è un’altra utilità, non meno importante, che la Chiesa attende dal rosario per i suoi figli: quella, cioè, di impegnarli a conformare la loro vita e i loro costumi alle norme e ai precetti della santa fede. È nota a tutti la divina affermazione che “la fede senza le opere è inefficace” (Gc II, 20); perché la fede trae vita dalla carità, e la carità si manifesta in una fioritura di azioni sante. Il cristiano, perciò, non trarrà certo alcun profitto dalla sua fede per l’acquisto dell’eternità, se a questa sua fede non avrà ispirato la sua condotta. “Che giova, fratelli miei, se uno dice di aver fede, ma non ha le opere? Potrà forse salvarlo la fede?” (Gc II,14), Anzi, questi cristiani saranno da Cristo Giudice ben più aspramente rimproverati che non quei miseri che non conoscono né la fede né la morale cristiana; perché questi ultimi non credono in un modo e vivono in un altro, come quelli a torto fanno, ma, essendo privi della luce dell’evangelo, hanno una certa attenuante, o certo la loro colpa è meno grave. – Ora la contemplazione dei misteri, proposti nel Rosario, giova a far sbocciare dalla nostra fede abbondante e lieta messe di frutti, perché Stimola meravigliosamente l’anima a propositi di virtù. Orbene, quale sublime e splendido esempio ci offre, sotto tutti i rapporti, l’opera di salvezza compiuta da nostro Signore Gesù Cristo! Il grande, onnipotente Iddio, spinto da un eccesso di amore verso di noi, si abbassa sino alla condizione del più misero uomo: si trattiene con noi come uno di noi; conversa fraternamente, ammaestra gli individui e le folle in ogni ordine di giustizia; Maestro eminente per la sua parola, Dio per la sua autorità. Si mostra prodigo di benefici verso tutti, guarisce coloro che soffrono di malattie corporali, e con paterna misericordia porta sollievo alle malattie più gravi dell’anima; in modo particolare Egli si rivolge a coloro che sono abbattuti dal dolore, o sono oppressi dal peso delle loro inquietudini, e li invita; “Venite a me, voi tutti che siete affaticati e oppressi, e io vi consolerò” (Mt XI,28). Quando poi riposiamo nelle sue braccia, egli ci ispira qualcosa di quel mistico fuoco che ha portato agli uomini, ci infonde amorevolmente qualche cosa della mansuetudine e dell’umiltà del suo animo e desidera che, per la pratica di queste virtù, noi diventiamo partecipi della vera e stabile pace, di cui egli è l’autore. “Imparate da me, che sono mansueto e umile di cuore; e voi troverete riposo alle anime vostre” (Mt XI,29). Tuttavia in compenso di tanta luce di sapienza celeste e dell’abbondanza di così eccezionali benefici, che avrebbero dovuto guadagnargli la riconoscenza degli uomini, egli subì l’odio e gli insulti più atroci; eppure quando confitto in croce, versa tutto il suo sangue, non ha desiderio più ardente di questo: per mezzo della sua morte, rigenerare gli uomini alla vita. – Non è assolutamente possibile che uno consideri e contempli attentamente queste bellissime testimonianze di amore del nostro Redentore, senza ardere di viva riconoscenza per lui. Anzi la fede, se sarà fede autentica, avrà allora tale potere che, illuminando la mente dell’uomo, e commovendo il suo cuore, quasi lo trascinerà a seguire le orme di Cristo, attraverso tutti gli ostacoli; fino a farlo prorompere in quella protesta degna di Paolo; “Chi ci separerà dall’amore di Cristo? la tribolazione, o l’angoscia, o la fame, o la nudità, o il pericolo, o la persecuzione, o la spada?” (Rm 8,35) “…Non vivo più io; ma vive in me Cristo” (Gal II,20), – Ma perché noi, atterriti dalla consapevolezza della nostra naturale fragilità, non veniamo meno di fronte agli esempi veramente sublimi di Cristo, Dio e Uomo, insieme coi suoi misteri si offrono alla nostra contemplazione i misteri della sua Madre santissima. Ella discende, è vero, dalla stirpe regale di Davide; ma della ricchezza e dello splendore dei suoi antenati non le resta più nulla; trascorre una vita oscura, in un’umile città, e in una casa ancor più umile; tanto più contenta della sua solitudine e della sua povertà, in quanto può con cuore più libero elevarsi a Dio, e unirsi totalmente al suo sommo e desideratissimo bene. Ma il Signore è con Lei, e la ricolma e la fa beata della sua grazia. Ed è proprio lei che il celeste messaggero designa come la Donna, da cui, per virtù dello Spirito Santo, dovrà venire fra noi uomini l’atteso Salvatore delle genti, Quanto più Ella ammira la sublime altezza della sua dignità, e ne rende grazie all’onnipotente e misericordiosa bontà di Dio, tanto più si umilia e si reputa spoglia di ogni virtù. E mentre ne diviene la Madre, senza esitazione si proclama e si protesta sua ancella. E come ha santamente promesso, santamente e prontamente stabilisce fin da allora una perpetua comunanza di vita, col suo Figlio Gesù, sia nella gioia come nel pianto. Così ella raggiungerà tale altezza di gloria, quale nessun uomo ne Angelo potrà mai raggiungere, perché nessuno potrà esserle mai paragonato per virtù e per meriti, Così a lei spetterà la corona del cielo e della terra, perché diventerà l’invitta Regina dei martiri. Così nella celeste città di Dio, ella sederà in eterno coronata, presso il suo Figlio, perché costantemente durante tutta la sua vita, ma in modo particolare sul Calvario, berrà con lui il calice traboccante di amarezza. – Ecco dunque che la bontà e la Provvidenza divina ci ha dato in Maria un modello di ogni virtù, tutto fatto per noi, perché, considerandola e contemplandola, le nostre anime non restano già abbagliate dai fulgori della Divinità, ma, attratte dai vincoli intimi di una comune natura, con maggior fiducia si sforzeranno di imitarla. Se sorretti dal suo valido aiuto, noi ci applicheremo con tutte le nostre forze a questa opera, riusciremo certamente a riprodurre in noi almeno qualche tratto di così grande virtù e santità; e, dopo aver imitato la sua ammirabile conformità ai divini voleri, potremo raggiungerla in cielo. – Sebbene il nostro terrestre pellegrinaggio sia aspro e irto di difficoltà, camminiamo intrepidi e coraggiosi verso la meta. E nelle nostre pene, nelle nostre fatiche, non cessiamo di stendere a Maria le nostre mani supplichevoli, dicendo con la Chiesa: “A te sospiriamo gementi e piangenti in questa valle di lacrime… Deh! volgi a noi quei tuoi occhi misericordiosi. Dacci una vita pura, preparaci una via sicura, perché possiamo godere in eterno della vita di Gesù“. Ed essa che, pur senza averla mai sperimentata, conosce la debolezza e la corruzione della nostra natura, Ella che è la migliore e la più sollecita di tutte le madri, oh come verrà propizia e premurosa in nostro aiuto! E con quale tenerezza ci consolerà! Con quale forza ci sosterrà! Percorrendo la via, consacrata dal sangue di Cristo e dalle lacrime di Maria, arriveremo anche noi, sicuramente e facilmente, alla partecipazione della loro gloria beata. – Poiché dunque nel Rosario di Maria vergine sono così bene così bene utilmente riuniti un’eccellente formula di preghiera, un mezzo efficace per conservare la fede e un ideale insigne di virtù perfetta, è ben giusto che i veri cristiani lo abbiano spesso fra le loro mani, lo recitino e lo meditino piamente. – In modo particolare Noi rivolgiamo questa esortazione alla “Confraternita della Sacra Famiglia”, che di recente abbiamo raccomandato e approvato, Se infatti il fondamento di questa confraternita è il mistero del lungo periodo di vita silenziosa e nascosta di Cristo Signore, fra le mura della casa di Nazareth, perché le famiglie cristiane si sforzino costantemente di modellarsi sull’esempio della santa Famiglia, divinamente costituita, appare subito evidente la sua connessione particolare col rosario: specialmente coi misteri gaudiosi, che si chiudono appunto quando Gesù, dopo aver mostrato la sua sapienza nel tempio, “venne”, con Maria e Giuseppe “a Nazaret ed era ad essi sottomesso“; quasi preparando così gli altri misteri, coi quali avrebbe più da vicino compiuta l’opera di ammaestramento e di redenzione degli uomini, Da ciò tutti gli associati comprendano quale diligenza debbano dimostrare nel coltivare e propagare la devozione del Rosario. – Per parte Nostra, convalidiamo e confermiamo i favori delle sacre indulgenze concesse negli anni precedenti, a coloro che, a norma delle prescrizioni stabilite, compiranno bene la pia pratica del mese d’ottobre, Contiamo poi molto, venerabili fratelli, sulla vostra autorità e sul vostro zelo, affinché, anche quest’anno, sia ardente fra il popolo cattolico il fervore e la santa emulazione nell’onorare col rosario la Vergine, Aiuto dei cristiani. – Ed ora ci piace concludere la Nostra esortazione, tornando al motivo iniziale. Vogliamo, cioè, di nuovo e più chiaramente attestare la Nostra riconoscenza per i benefici ricevuti dalla Vergine santissima e la Nostra gioia e speranza in Lei. E poi al popolo cristiano, devotamente prostrato davanti agli altari di Maria, Noi chiediamo di pregare per la Chiesa, agitata da così avverse e tempestose vicende, e di pregare nello stesso tempo anche per Noi, che in età così avanzata, stanchi dalle fatiche, alle prese con le più gravi difficoltà, e privi di ogni umano soccorso, della Chiesa stessa reggiamo il timone. Sì, la Nostra speranza in Maria, Madre potente e tenerissima, si fa in Noi ogni giorno più sicura e più consolatrice, E mentre Noi ascriviamo alla sua intercessione tutti i numerosi e segnalati benefici che Dio ci ha concessi, con particolare riconoscenza le ascriviamo quello di poter, fra non molto, raggiungere il cinquantesimo anniversario della Nostra ordinazione episcopale, È davvero un grande beneficio, a ben considerarlo, un così lungo periodo di ministero pastorale; ma lo è soprattutto quello che abbiamo potuto dedicare, in mezzo a preoccupazioni quotidiane, a guidare tutto il gregge cristiano. Durante questo tempo, nella Nostra vita, come in quella di tutti gli uomini, come pure nei misteri di Cristo e della sua Madre, non sono mancati né motivi di gioia, né – più spesso – gravi motivi di dolore, né, qualche volta, motivi di lieto compiacimento, in Cristo. Cose tutte che Noi, con spirito di umiltà davanti a Dio e con gratitudine, ci siamo adoperati di volgere al bene e all’onore della Chiesa. Ed ora, poiché il resto della vita non sarà diverso, se nuove gioie risplenderanno, se nuovi dolori sopravverranno, se qualche raggio di gloria brillerà, Noi persevereremo nelle stesse intenzioni e negli stessi sentimenti. E null’altro invocando da Dio, se non la gloria celeste, ripeteremo con gioia le parole di David: “Sia benedetto il nome del Signore; “non a noi, Signore, non a noi, ma al tuo nome dà gloria” (Sal CXII,2; CXIII). Dai Nostri figli poi, così devoti e così affezionati, piuttosto che felicitazioni e lodi, Noi ardentemente aspettiamo che innalzino a Dio vivissimi ringraziamenti, preghiere e voti. Saremo lietissimi, se ci otterranno che quel tanto di vita e di forze che ci resta, quel che abbiamo di autorità e di prestigio, lo possiamo spendere unicamente per il bene della chiesa; e prima di tutto a ricondurle in seno e riconciliarle i nemici e i traviati, che la Nostra voce da tanto tempo invita. Che tutti i Nostri dilettissimi figli dalla Nostra prossima letizia giubilare, se a Dio piacerà donarcela, possano raccogliere abbondanti frutti di giustizia, di pace, di prosperità, di santità, di ogni bene. È ciò che con paterno amore sollecitiamo da Dio, mentre ricordiamo loro questi suoi ammonimenti; “Ascoltatemi … e germogliate come rosa piantata in riva alle acque. Come incenso mandate profumo soave. Fate fiori come il giglio, e spandete odore e ricopritevi di amene fronde. E cantate un cantico di lode, e benedite il Signore per tutte le opere sue. Date gloria al suo nome, e lodatelo col suono delle vostre labbra e coi canti delle labbra e con le cetre… Con tutto il cuore e la voce inneggiate e benedite il nome del Signore” (Eccli XXXIX,17-20,41). – Se queste esortazioni e questi voti incontreranno lo scherno degli uomini perversi, che “bestemmiano tutto ciò che ignorano”, Dio perdoni benignamente questi infelici, Da parte Nostra, lo preghiamo, per l’intercessione della Regina del santissimo Rosario, a voler favorire esortazioni e voti con la sua grazia. Voi poi, venerabili fratelli, in auspicio di tale grazia e come pegno della Nostra benevolenza, ricevete intanto l’apostolica benedizione, che con vivo affetto nel Signore impartiamo a ciascuno di voi, al vostro clero e al vostro popolo.

Roma, presso S. Pietro, 8 settembre 1892, anno XV del Nostro pontificato.

 

DOMENICA VI dopo PENTECOSTE

Introitus

Ps XXVII:8-9 Dóminus fortitudo plebis suæ, et protéctor salutárium Christi sui est: salvum fac pópulum tuum, Dómine, et benedic hereditáti tuæ, et rege eos usque in sæculum. [Il Signore è la forza del suo popolo, e presidio salutare per il suo Unto: salva, o Signore, il tuo popolo, e benedici i tuoi figli, e govérnali fino alla fine dei secoli.] Ps XXVII:1 Ad te, Dómine, clamábo, Deus meus, ne síleas a me: ne quando táceas a me, et assimilábor descendéntibus in lacum. [O Signore, Te invoco, o mio Dio: non startene muto con me, perché col tuo silenzio io non assomigli a coloro che discendono nella tomba.] Dóminus fortitudo plebis suæ, et protéctor salutárium Christi sui est: salvum fac pópulum tuum, Dómine, et benedic hereditáti tuæ, et rege eos usque in sæculum. . [Il Signore è la forza del suo popolo, e presidio salutare per il suo Unto: salva, o Signore, il tuo popolo, e benedici i tuoi figli, e govérnali fino alla fine dei secoli.]

Oratio

Orémus.

Deus virtútum, cujus est totum quod est óptimum: ínsere pectóribus nostris amórem tui nóminis, et præsta in nobis religiónis augméntum; ut, quæ sunt bona, nútrias, ac pietátis stúdio, quæ sunt nutríta, custódias. [O Dio onnipotente, cui appartiene tutto quanto è ottimo: infondi nei nostri cuori l’amore del tuo nome, e accresci in noi la virtú della religione; affinché quanto di buono è in noi Tu lo nutra e, con la pratica della pietà, conservi quanto hai nutrito.]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Romános. Rom VI:3-11

“Fratres: Quicúmque baptizáti sumus in Christo Jesu, in morte ipsíus baptizáti sumus. Consepúlti enim sumus cum illo per baptísmum in mortem: ut, quómodo Christus surréxit a mórtuis per glóriam Patris, ita et nos in novitáte vitæ ambulémus. Si enim complantáti facti sumus similitúdini mortis ejus: simul et resurrectiónis érimus. Hoc sciéntes, quia vetus homo noster simul crucifíxus est: ut destruátur corpus peccáti, et ultra non serviámus peccáto. Qui enim mórtuus est, justificátus est a peccáto. Si autem mórtui sumus cum Christo: crédimus, quia simul étiam vivémus cum Christo: sciéntes, quod Christus resurgens ex mórtuis, jam non móritur, mors illi ultra non dominábitur. Quod enim mórtuus est peccáto, mórtuus est semel: quod autem vivit, vivit Deo. Ita et vos existimáte, vos mórtuos quidem esse peccáto, vivéntes autem Deo, in Christo Jesu, Dómino nostro”.

Omelia I

[Mons. Bonomelli: Omelie, Torino 1899, impr. -Omelia XIII]

“Tutti quanti siamo stati battezzati in Gesù Cristo, siamo stati battezzati nella morte. Noi dunque siamo stati con Lui seppelliti per il battesimo, a morte; affinché, come Cristo è risuscitato dai morti per la gloria del Padre, similmente noi pure camminiamo nella vita nuova: perché se siamo stati innestati con Cristo alla conformità della sua morte, certo lo saremo ancora a quella della sua risurrezione. Sapendo questo, che il nostro vecchio uomo è stato crocifisso con Lui, affinché il corpo del peccato sia annullato, sicché noi non serviamo più al peccato, perché chi è morto è sciolto dal peccato. Ora se noi siamo morti con Cristo, crediamo che vivremo altresì con Lui. Sapendo che Cristo, risuscitato dai morti, non muore più; la morte non ha più signoria sopra di Lui. Perché quanto all’essere morto per il peccato, Egli morì una volta: quanto al vivere, Egli vive a Dio. Così anche voi fate conto di essere bensì morti al peccato, ma di vivere a Dio in Gesù Cristo Signor nostro „ ( Ai Rom. VI, 3-11).

– Delle quattordici lettere di S. Paolo, per sentenza unanime degli interpreti, la più importante e più difficile ad intendersi è quella indirizzata ai Romani, perché in essa il grande Apostolo tratta diffusamente della vocazione alla fede, della grazia divina e della sua gratuità, della rinnovazione che si opera per il santo battesimo, del peccato originale e d’altri punti capitalissimi di dottrina cristiana. Il brano, che vi ho recitato, si legge nel capo sesto di questa epistola ai Romani. Esso riguarda ai doveri, che hanno i battezzati di morire al peccato e di vivere a Cristo, nel che si compendia tutta la sapienza pratica del Vangelo. È un argomento della più alta importanza, ma non facile a spiegarsi, attesa la forma concisa e serrata propria dell’Apostolo. La vostra attenzione renda a me più agevole la chiusa delle sentenze riportate ed a voi più fruttuoso l’apprenderne il senso. “Tutti quanti siamo stati battezzati in Cristo, fummo battezzati nella morte di Lui. „ Punto principalissimo della dottrina di Cristo, svolto in tutte le forme da san Paolo, è questo: noi siamo riconciliati a Dio per la fede in Gesù Cristo, e questo è dono totalmente gratuito, al quale, per nessun titolo avevamo diritto; e la larghezza di questo dono apparisce mirabilmente più grande se consideriamo lo stato di colpa universale, in cui tutti, senza eccezione, Giudei e Gentili ci trovavamo. Ora noi siamo battezzati, che è quanto dire siamo passati dallo stato di morte allo stato di vita, e tutto ciò per Gesù Cristo. Ma che vuol dire questa frase di san Paolo, ” fummo battezzati nella morte di Cristo? „ Noi sappiamo che al tempo degli Apostoli e dopo essi per molti secoli, cioè fino al tempo di S. Tommaso, il battesimo solevasi amministrare quasi sempre per immersione: la persona tutta era immersa nell’acqua, anche il capo: in quest’atto o rito il battezzato rappresentava la morte e la sepoltura di Cristo, come nell’atto e nel rito di uscire dall’acqua rappresentava la sua risurrezione. Cristo, morendo sulla croce, cessò di vivere alla vita di prima, cioè al peccato del quale era schiavo; Cristo, uscendo dal sepolcro, rivive, ma di una vita nuova, immortale; così il battezzato uscendo dall’acqua deve ricominciare una vita nuova, spirituale, santa. Come Cristo lasciò nel sepolcro, a così dire, la vita sua passibile e mortale, così il battezzato lascia nell’acqua del battesimo il peccato e tutte le opere del peccato. – È ciò che S. Paolo più chiaramente sviluppa nel versetto seguente: “Fummo sepolti con Cristo nel battesimo, affinché come Cristo risuscitò dai morti, a gloria del Padre, così noi pure camminassimo in una vita nuova. „ Chi è desso il cristiano? domandava a se stesso Tertulliano, e rispondeva con frase ardita sì, ma vera ed incisiva: Alter Christus. Egli è un altro Cristo, una copia fedele di Cristo in ogni cosa. Tutto ciò che avvenne in Cristo, dice S. Agostino, ragguagliata ogni cosa, deve ripetersi nel suo vero discepolo: Cristo morì in croce alla vita naturale del corpo, e tu devi morire nel battesimo al peccato, alle passioni, ai piaceri illeciti della carne, cioè devi essere a tutte queste cose quello che è un morto, che non se ne cura, non le vede, non le ama. Cristo risuscitò, rifiorente d’una immortale giovinezza: e tu devi uscire dalle acque del battesimo rifatto, nei pensieri, nelle parole, nelle opere uomo nuovo, nuova creatura; e camminare per la via nuova della virtù e della santità. Cristo risuscitò e colla sua risurrezione ci provò la santità della sua dottrina e manifestò la gloria sua e la gloria del Padre, che l’aveva mandato: così tu, rinnovato nel battesimo, colla tua vita, modellata su quella di Cristo, farai in te stesso testimonianza alla santità della dottrina, che professi, e renderai gloria a Dio, giacché gli uomini, come dice altrove Gesù Cristo stesso, vedendo le opere tue buone ed affatto nuove, frutto della tua fede, riconosceranno la grandezza e santità di Colui, del quale sei discepolo, e glorificheranno Dio. In altre parole più brevi e forse più chiare, per il battesimo (l’Apostolo parlava ad adulti) deve cessare in noi il peccato e la vita antica, vita schiava delle passioni, e deve cominciare la grazia e la vita nuova, la vita di Cristo. – Oh piacesse a Dio, che queste maschie verità penetrassero negli animi nostri e informassero la nostra condotta! Persuadiamocene bene, o dilettissimi, che il bisogno è grande in ogni classe di persone: la vera vita cristiana non sta in parole, in proteste, in pratiche esterne, in novene, in tridui, in processioni, in luminarie, in feste, in pellegrinaggi clamorosi, ma nelle opere della vita cristiana, nell’imitazione di Gesù Cristo, l’eterno modello di ogni perfezione. Tutte quelle pratiche esterne sono buone, commendevoli senza dubbio, ma sono mezzi e non fine, e intanto si hanno da fare in quanto ci conducono al fine, cioè alla pratica delle virtù cristiane. Se in noi non appare la vita di Gesù Cristo, cioè se in noi non risplendono le virtù di Gesù Cristo, tutte quelle pratiche religiose non giovano a nulla, sono una contraddizione manifesta e in qualche modo sono la nostra condanna. Ribadisco questa grande verità perché mi sembra che grande ne sia il bisogno. – S. Paolo ribadisce questa verità nel versetto che segue, scrivendo: “Se siamo stati innestati alla conformità della morte di Cristo, lo saremo eziandio a quella della risurrezione. „ Scopo dell’Apostolo è sempre quello di stabilire la unione intima di Cristo e dell’anima per Lui rigenerata e quella identità di vita, che forma la vera nostra grandezza, e che il divino Maestro espresse stupendamente allorché nel discorso dell’ultima Cena disse: Io sono la vite e voi siete i tralci: come il tralcio non può dare frutto alcuno, se non rimane unito alla vite, così voi pure se non rimarrete uniti a me. Osservate, dice S. Paolo, ciò che avviene nell’albero: se sopra quest’albero si inseriscono rami d’altri alberi, questi rami succhiano l’umore dell’albero, su cui sono innestati, di esso vivono e vigoreggiano e formano con l’albero stesso una sola cosa: così deve avvenire anche di noi, rami inseriti nell’albero della vite divina, che è Gesù Cristo. Inseriti in Lui per il santo battesimo, siamo simili in ogni cosa a Lui, viviamo a Lui e con Lui, e produciamo i suoi frutti stessi. Che avverrà? Morti all’albero antico, da cui siamo tagliati, cioè all’uomo vecchio, ad Adamo peccatore per il battesimo e inseriti nell’albero della vita divina che è Cristo, con Cristo vivremo e risorgeremo: Si enim complantati facti sumus dsimilitudini mortis ejus, sìmul et resurrectionìs erimus. Vedi: d’inverno l’albero si spoglia dell’ammanto delle sue frondi, e coll’albero i rami, che sembrano morti: ritorna la bella stagione: l’aria si intepidisce, il sole vibra più ardenti i suoi raggi, l’albero si desta dalla sua morte apparente, rifonde la vita nei rami, che tosto si ricoprono di foglie e di fiori e albero e rami insieme rivivono: così avverrà a noi, o cari, se saremo inseriti nell’albero della vite vera, che è Gesù Cristo; come Egli già risuscitò, noi puro risusciteremo e con Lui vivremo eternamente. Oh la bella e consolante dottrina dell’Apostolo! Inseriti in Cristo, risuscitiamo prima alla vita della grazia e per la grazia abbiamo in noi il germe felice della finale risurrezione anche del corpo: Sìmul et resurrectionis erimus. – Troppo preme all’Apostolo far comprendere ai fedeli di Roma il mistero della morte nostra per il battesimo, e quindi della conseguente nostra risurrezione in Cristo, e perciò vi torna sopra nei versetti seguenti: “Questi ben sapendo, che il nostro vecchio uomo è stato con Lui (Cristo) crocifisso, affinché il corpo del peccato sia annientato. „ Voi, o fedeli, sapendo queste cose, cioè che noi siamo per il battesimo morti al peccato, inseriti Cristo e che dobbiamo vivere una vita nuova, la vita stessa di Cristo, dovete anche sapere che il nostro uomo vecchio è crocifisso con Cristo. E che è questo uomo vecchio, del quale qui ed altrove si parla dall’Apostolo? Lo dissi altra volta, ma non sarà inutile ripeterlo qui. L’uomo vecchio, l’uomo fuor d’uso, l’uomo esterno, espressione che si trova nel solo S. Paolo, è detto per opposizione all’uomo nuovo, ossia rinnovato per Cristo. Il nuovo fu quello, che uscì pel primo dalle mani di Dio, come nuova dicesi quella casa, appena fabbricata dall’architetto: uomo vecchio è quello che vien dopo, che per ragione di tempo o per altre cause è guastato, come dicesi vecchia la casa, che ha bisogno d’essere ristorata. Adamo innocente era l’uomo nuovo: Adamo peccatore è l’uomo vecchio e uomo vecchio è ogni peccatore, che viene da lui con il peccato d’origine e cogli altri peccati a quello aggiunti. Il vecchio uomo pertanto qui importa ogni uomo, guasto dal peccato originale, schiavo delle passioni e delle malvagie abitudini contratte. Or bene, dice san Paolo, sappiatelo bene: quest’uomo corrotto fu confitto alla croce con Cristo, cioè ucciso con Cristo nel battesimo, e lo deve essere giorno per la grazia di Cristo, in quanto ché ogni giorno noi dobbiamo combatterlo, crocifiggendo, e se fosse possibile, uccidendo tutte le sue perverse voglie. Che cosa deve fare ogni giorno il vero discepolo di Gesù Cristo? combattere e soggiogare le proprie passioni: ecco che cosa vuol dire crocifiggere con Cristo l’uomo vecchio; come Cristo confisse il suo corpo alla croce, così noi dobbiamo mettere in croce le nostre passioni : è tutta qui la sapienza di Cristo, l’insegnamento del Vangelo. E se ciò faremo, quale ne sarà la conseguenza? “Il corpo del peccato sarà annientato, „ Ut evacuetur corpus peccati. Questo corpo del peccato, di cui parla S. Paolo, può significare il cumulo dei peccati, onde ciascuno è aggravato, o meglio il corpo stesso in quanto che in esso si annida la concupiscenza, radice di tutti i peccati, e in questo senso è lo strumento ed anche l’incentivo dei peccati stessi. – Forse che s’intende che il corpo debba essere distrutto? No, per fermo, giacché l ‘Apostolo in altro luogo vuole che il corpo serva alla giustizia, a Dio, come prima ha servito all’iniquità: il corpo del peccato si dice dover essere annientato, cioè il corpo, ora strumento di peccato, deve essere sciolto da questo servaggio, diventando strumento della virtù: “Ut evacuetur corpus delinquentiæ per emendationem vitæ, non per interitum substantiæ”, disse sapientemente Tertulliano (De Besurr. Carnis, c. 47, apud A Lapide). Quando avremo crocifisso l’uomo vecchio, e annientato il corpo del peccato, che è la stessa cosa, allora noi non serviremo al peccato: “Et ultra non serviamus peccato”. Il nostro corpo, lo disse il maggiore dei filosofi pagani, è simile ad un destriero: questo ubbidisce a chi lo cavalca, e va dove esso vuole che vada. Se l’anima è rigenerata da Cristo, informata dalla sua grazia, il corpo ubbidisce ad essa e si presta alle opere di vita: se per contrario l ‘anima e in balia delle passioni e serva del peccato, il corpo fa opere di peccato. E qui l’Apostolo in una sentenza piena di energia compendia tutta la dottrina esposta in questi versetti, dicendo: “Chi è morto è sciolto dal peccato. „ Noi, nel battesimo, dando il nostro nome a Cristo e venendo innestati in Lui, non abbiamo più nulla a fare col peccato: in faccia al peccato siamo come i morti rispetto alle cose, che li circondano: per essi sono come se non fossero. E per tenerci all’altra immagine di S. Paolo, noi siamo rami tagliati da un albero per essere innestati nell’albero della vita, che è Gesù Cristo. Questi rami tagliati dall’albero sono morti totalmente all’albero stesso, né più possono produrre frutti innestati in un altro albero possono vivere e fruttificare, ma vivono e fruttificano del nuovo albero. Similmente noi; dopo il battesimo non dobbiamo più vivere di Adamo, cioè dell’uomo peccatore e far le opere sue, ma vivere di Cristo e fare le opere di Cristo. Questa sentenza sì profonda e sì forte dell’Apostolo ci stia fitta nell’animo. – Rigenerati in Cristo, viventi di Lui, non dobbiamo curarci del mondo, né dei suoi piaceri: tra noi e lui non ci debbono essere rapporti: egli è morto a noi e noi a lui. Il ramo che è innestato in un albero e vive di esso ed in esso, cerca e gli forse di separarsi da questo per ritornare ancora all’albero antico, da cui fu reciso? Certamente no, e se lo facesse, per esso varrebbe quanto il disseccare ed il perire. Questa è la dottrina dell’Apostolo ed il succo del Vangelo: noi, che ora apparteniamo a Gesù Cristo per il battesimo, dovremmo essere come morti all’amore sregolato del mondo e delle mondane cose: questo il nostro dovere. È così anche nel fatto? La nostra condotta è conforme alla nostra vocazione? Ohimè! quanto siamo lontani da questo sublime ideale del vero cristiano tratteggiato da S. Paolo. Col pensiero, coll’affetto sempre volti alle cose della terra, queste amiamo, queste cerchiamo, per queste viviamo, in queste collochiamo le nostre gioie, il nostro fine: a Gesù Cristo ed alle cose del cielo, noi, cristiani, raramente pensiamo, se pure qualche volta vi pensiamo. Quasi continuamente intesi ad accarezzare il corpo ed appagarne le voglie malnate, dimentichiamo il dovere che abbiamo di crocifiggerlo, di farlo morire al peccato! Eppure a questo si riduce tutta la vocazione e l’opera del cristiano, e se non lo facciamo, non siamo cristiani che di nome. – “Se dunque siamo morti con Cristo, crediamo, eziandio che vivremo insieme con Cristo. ,, È la conclusione naturale delle cose sopra accennate: se saremo imitatori di Cristo, nel far morire il nostro corpo ai piaceri terreni, avremo comune con Cristo la vita futura. Voi vedete che l’Apostolo con la somma cura, con cui cerca porci sotto gli occhi i sacrifici che dobbiamo fare per la virtù, per l’imitazione di Cristo, ci ricorda anche il premio e la corona riserbata, e come tutto Egli consideri sempre in rapporto a Cristo. – “Sapendo che Cristo, risuscitato dai morti, non muore più; la morte non ha più signoria sopra di Lui .. Quest’altro versetto si lega col primo e vuol dire che vivremo con Cristo. Quanto? Por sempre, perché Cristo è risorto per non ricadere più mai in potere della morte, che ha vinto. E prosegue, svolgendo meglio questo pensiero: Perché quanto all’essere morto per il peccato, Cristo morì una sola volta al peccato, una sola volta per sempre: così noi, morti una volta al peccato; fatta una volta la rinuncia al mondo e alle opere sue, dovremmo essere morti per sempre, e la rinuncia fatta una volta al mondo non dovrebbe più aver bisogno d’essere rinnovata; e come Cristo, risorto una volta, è risorto per sempre e sempre vivrà nella gloria, così noi pure, resuscitati a Dio colla grazia, viventi in Cristo, dovremmo vivere in Lui per sempre e non ricadere più mai in balia della morte, ritornando al peccato. Eccoci all’ultimo versetto della nostra epistola: “Così ancor voi fate conto d’essere morti al peccato, ma di vivere a Dio in Gesù Cristo Signor nostro. „ Dopo avere esposta la dottrina evangelica, sì teorica, come pratica in genere, l’Apostolo si rivolge direttamente e particolarmente ai fedeli, ai quali scrive e dice: “Ora a voi, o carissimi, applicare l’insegnamento, che vi ho dato. Secondo le vostre forze studiatevi d’essere sempre morti al peccato e sempre vivi soltanto a Dio, ad imitazione di Gesù Cristo, o forse meglio, mercé l’aiuto di Gesù Cristo S:gnore nostro. „ – S. Paolo in tutti questi versetti, che abbiamo commentati, con linguaggio poetico ci rappresenta la virtù e il vizio, come due esseri v iventi, che combattono tra loro, e si contendono tra loro la signoria del cuore dell’uomo. Questo sta in mezzo ai due contendenti, libero di darsi all’uno od all’altro; se si getta dal lato del vizio, diventa schiavo delle passioni, che militano nel corpo, vive della vita del corpo e muore per sempre a Dio; se per contrario si mette dalla parte della virtù, della santità, di Cristo, diventa figlio di Dio, muore al mondo e vive per sempre a Cristo. La scelta è inevitabile, e così l’uomo è l’artefice della propria sorte, o eternamente infelice col peccato, o eternamente beata colla virtù in Cristo. O morire a Dio per vivere col peccato; o morire al mondo per vivere con la grazia: non c’è via di mezzo, e tra i due è forza scegliere. A quale dei due, che domandano l’ingresso del nostro cuore, porgeremo noi le chiavi? Al peccato od alla virtù? Al mondo o a Cristo? A chi col piacere presente ci porta la morte eterna, o a chi col dolore passeggero ci offre la vita eterna? Voi non potete stare in forse un solo istante; la vostra scelta è fatta: voi vi schierate sotto la bandiera della virtù, che è la bandiera di Gesù Cristo, perché con Lui solo vi è la vita

Graduale

Ps LXXXIX:13; LXXXIX:1 Convértere, Dómine, aliquántulum, et deprecáre super servos tuos. V. Dómine, refúgium factus es nobis, a generatióne et progénie. Allelúja, allelúja. [Vòlgiti un po’ a noi, o Signore, e plàcati con i tuoi servi. V. Signore, Tu sei il nostro rifugio, di generazione in generazione. Allelúia, allelúia]

Alleluja

Ps XXX:2-3 In te, Dómine, sperávi, non confúndar in ætérnum: in justítia tua líbera me et éripe me: inclína ad me aurem tuam, accélera, ut erípias me. Allelúja. [Te, o Signore, ho sperato, ch’io non sia confuso in eterno: nella tua giustizia líberami e allontanami dal male: porgi a me il tuo orecchio, affrettati a liberarmi Allelúia.]

Evangelium

Sequéntia sancti Evangélii secúndum Marcum. R. Gloria tibi, Domine! Marc VIII:1-9 In illo témpore: Cum turba multa esset cum Jesu, nec haberent, quod manducárent, convocatis discípulis, ait illis: Miséreor super turbam: quia ecce jam tríduo sústinent me, nec habent quod mandúcent: et si dimísero eos jejúnos in domum suam, defícient in via: quidam enim ex eis de longe venérunt. Et respondérunt ei discípuli sui: Unde illos quis póterit hic saturáre pánibus in solitúdine? Et interrogávit eos: Quot panes habétis? Qui dixérunt: Septem. Et præcépit turbæ discúmbere super terram. Et accípiens septem panes, grátias agens fregit, et dabat discípulis suis, ut appónerent, et apposuérunt turbæ. Et habébant piscículos paucos: et ipsos benedíxit, et jussit appóni. Et manducavérunt, et saturáti sunt, et sustulérunt quod superáverat de fragméntis, septem sportas. Erant autem qui manducáverant, quasi quatuor mília: et dimísit eos. [In quel tempo: Radunatasi molta folla attorno a Gesú, e non avendo da mangiare, egli, chiamati i discepoli, disse loro: Ho compassione di costoro, perché già da tre giorni sono con me e non hanno da mangiare; e se li rimanderò alle loro case digiuni, cadranno lungo la via, perché alcuni di essi sono venuti da lontano. E gli risposero i suoi discepoli: Come potremo saziarli di pane in questo deserto? E chiese loro: Quanti pani avete? E risposero: Sette. E comandò alla folla di sedersi a terra. E presi i sette pani, rese grazie e li spezzò e li diede ai suoi discepoli per distribuirli, ed essi li distribuirono alla folla. Ed avevano alcuni pesciolini, e benedisse anche quelli e comandò di distribuirli. E mangiarono, e si saziarono, e con i resti riempirono sette ceste. Ora, quelli che avevano mangiato erano circa quattro mila: e li congedò.]

Omelia II

[Del canonico G. B. Musso – Seconda edizione napoletana, Vol. II -1851-]

– Soccorso ai Poveri.-

Questa turba famelica (così Gesù Cristo ai suoi discepoli, come narra S. Marco nell’odierno Vangelo) desta nel mio cuore sensi di commiserazione e di pietà: “Misereor super turbam”. Sono ormai tre giorni che mi va seguitando in queste diverse solitudini, e non ha con che sfamarsi, ed Io rimando costoro così digiuni alle loro case, verranno meno nel cammino per alcuni disastroso, per altri lontano. Quanti pani avete con voi? Sette, risposero, ed Egli benedicendoli insieme a pochi pesciolini, ordinò che si distribuissero, e rese con quelli ristorata e sazia una moltitudine di quasi quattromila persone e degli avanzi ne furono pieni sette capaci canestri. Anche noi siamo circondati tutto dì da una turba di affamati, di pezzenti, di bisognosi. Oh se nel nostro cuore si svegliasse una commiserazione simile a quella del pietoso nostro Redentore! La nostra mano allora dispenserebbe ad essi il necessario ristoro, e quella povera turba resterebbe provveduta, ristorata, contenta. A destare in voi, uditori umanissimi, questa pietà, ad ottenere quest’intento io venni quassù, e per riuscirvi risponderò alle scuse di quei restii, che d’ogni pretesto si prevalgono per esimersi dal soccorrere i poveri, e farò vedere le ricompense promesse ai limosinieri. Sciolte così le scuse, e proposte le ricompense, spero si muoverà il vostro cuore, si apriranno le vostre mani a soccorso degl’indigenti vostri fratelli. Diamo principio.

 I.- A chi ha poco buona volontà non mancano scuse. Io, dice taluno, mangio il pane del mio sudore, e vivo a stento; e che volete ch’io dispensi ai poveri? Vi compatisco; sentite però quel che al suo figliuolo diceva il buon Tobia: “figlio, fa’ di buon animo limosina ai poveri; se avrai molte sostanze, molto ancora darai con generosità ed abbondanza, se poche, di quel poco non tralasciare di darne un altro poco a chi ha più bisogno di te”: “Sì multum tibi fuerit abundanter tribue, si exiguum ... etiam exiguum libenter impertiri stude” (cap. IV, 2). Altrettanto io dico a voi: la provvidenza dispone che poco sia il vostro avere, ma si danno tanti casi, nei quali con un tozzo di pane, con poche frutta, con pochi erbaggi, potete levare la fame a un miserabile. Fatelo per pietà, e sarà più a Dio gradito quel piccolo atto di carità, che le larghe limosine dei più facoltosi. Quella povera donna, che pose nel Gazofilacio del tempio due quattrini, fu da Gesù Cristo più encomiata, che quei facoltosi che diedero argento ed oro. – Un’altra scusa si ascolta più di frequente in bocca di molti. Non vedete, dicono essi, come le annate corrono sterili, il commercio è languido, la famiglia è numerosa, le spese son molte, i guadagni son pochi? Non si può, per conseguenza dividere quel che c’è necessario. – Prima di rispondere datemi licenza di entrare in questo momento nelle vostre case. In alcune vedo e sento augelletti da canto, ed altri riservati per l’uccellagione; in altre osservo cagnolini da vezzo, o cani da caccia. Il Signor benedice i vostr’innocenti piaceri; ma in grazia per l’annuo mantenimento di questi animali non vi à difficoltà né di campagne sterili, né di scarsi guadagni; questi motivi però solo si fan valere per non sborsare un danaruzzo, per non dare un tozzo di pane, una veste rimessa, uno straccio a sovvenimento dell’altrui miseria? Udite: si narra nel libro primo dei Re come ai tempi d’Elia, in quella straordinaria siccità, che durò più di tre anni, Acabbo re d’Israele in vista della estrema calamità e universale desolazione, chiama Abdia suo economo, e che facciam noi? gli dice. Non vedi tu i nostri cavalli e i nostri muli, che per mancanza di pascolo non si reggono più in piedi? Corriamo dunque su per le valli, se tu andrai a destra, io andrò a sinistra, se per avventura ci riuscisse trovar fieno o erba qualunque, perché non periscano questi nostri giumenti: “Si forte possumus invenire herbam, et salvare equos et mulos” (V, 5) . Come, o re malvagio, tante famiglie, tante vedove, tanti orfani, tutti in fine i tuoi sudditi ridotti all’estremo per la fame non ti commuovono? Solo la tua sollecitudine è ristretta ai cavalli e ai muli? Io non vorrei che lo scritturale confronto facesse arrossire alcun di noi; ma non è egli vero che per animali di puro sollazzo e per cento altri minuti piaceri tutta si ha la premura, e per i poveri tutta la dimenticanza? Più e ancor di peggio: per l’osteria, pel giuoco, per quell’amicizia ci vuol danaro, e si trova; per il teatro, pel ballo, per la moda, per il lusso, per i vizi in fine e per il peccato tutto si trova, e per un poverello non si trova nel cuore di taluno una stilla dì pietà, che lo muova a dargli un soccorso. “Heu grandis crudelitas!” direbbe qui S. Agostino. – Ma la limosina, direte voi, per tanti e tanti è un fomento di poltroneria: sono di buona età, son robusti, e perché non si danno al travaglio? Il sovvenirli è un confermarli nella vita oziosa col pregiudizio di altri poveri, vecchi, infermi, impotenti. – Ottima è la vostra riflessione. Il re Salmista chiama beato colui che sa discernere tra povero e povero. “Beatus vir, qui intelllgit super egenum et pauperem” (Ps. XL, 1). Certamente che i ciechi, gli storpi, i vecchi, gl’infermi, incapaci a guadagnarsi il pane, devono preferirsi, ma si danno certi tempi, nei quali o per pioggia, o per neve, o per altro accidente non si trova travaglio; e perciò in questi casi non ha più luogo il vostro riflesso; e la limosina sarà sempre un atto meritorio, quand’anche venisse data a chi attualmente non ne abbisogna. – La limosina, dicono altri men colti, è un atto di supererogazione, che si può omettere e supplire con tante altre opere buone. – Errore, miei cari. La limosina a’ poveri non è atto di supererogazione, è un atto di rigorosa giustizia. Avrete più volte sentito da persone poco istruite e poco cristiane: “Dio non ha fatto le cose giuste: a chi tanto, a chi nulla, tanti ricchi fino al sommo, e tanti poveri fino all’estremo”. Ohimè! Questo parlare racchiude un’eresia, ed una bestemmia. Iddio “bene omnia fecit”, Iddio è giusto, ed è un tratto della sua sapienza, che nell’umana società vi siano e poveri e facoltosi, perché i poveri han bisogno de’ ricchi, ed a vicenda i ricchi han bisogno dei poveri. Ma se fosse vero, che non vi fosse una stretta obbligazione di soccorrere i nostri bisognosi fratelli, quella proposizione ereticale sarebbe vera. Ma no; che Dio, Padre universale di tutti, ha fatto, e fa espresso comandamento ai benestanti, di far parte delle loro sostanze ai bisognosi, i quali hanno un positivo diritto alle comuni facoltà: comando, che ha i suoi gradi di obbligazione minore o maggiore a misura de’ gradi dell’altrui miseria; così che se i poveri si trovano in una necessità comune ed ordinaria, come sono i pezzenti, che van mendicando, siamo obbligati a sovvenirli de’ nostri beni superflui: se sono in grave necessità siamo tenuti a soccorrerli con qualche parte del necessario al nostro stato: se finalmente la loro necessità è estrema, dobbiamo aiutarli con quel che avanza alla necessità di nostra sussistenza. Come dunque si può asserire senza errore e senza empietà, che la limosina è un’opera non comandata e di mera elezione? Se fosse tale, come potrebbe Cristo giudice dire ai reprobi nel giorno estremo: andate maledetti al fuoco eterno, Io nella persona de’ poveri aveva fame e non mi avete pasciuto, pativa sete e non mi avete ristorato, ero ignudo e non mi avete coperto.

II.- Sciolte le scuse, vediamo le ricompense. Son queste d’ogni genere, temporali, spirituali ed eterne. Temporali primamente. Bisogna restar persuasi che ciò che si dà a’ poverelli non è perduto, ma è messo a traffico e a certo guadagno. L’arte più facile e più sicura per moltiplicare i propri averi è la limosina. “Ars quæstosissima” la chiamano i santi Padri. Voi, diceva un sant’uomo, date un pezzo di pane dalla porta e Iddio ve lo restituisce dalle finestre. Le case per ordinario hanno una porta sola, le finestre sogliono essere più numerose. Oltre a ciò Dio ve lo manda dalle finestre, cioè per vie straordinarie, per vie da voi mai pensate: vi libera a cagion d’esempio da una lite che sarebbe la vostra rovina, salva dal naufragio le vostre merci, dal gelo i vostri aranci, dalla grandine le vostre vigne, dai ladri le vostre sostanze, dalle malattie i vostri corpi, da mille altri infortuni la vostra famiglia. Date, dice S. Pier Crisologo, date al povero, perché date a voi stessi, “da pauperi, ut des tibi” (Serm. 8, de ieiun. et eleemos.). Se mai per le limosine agli indigenti aveste timore d’impoverire, vi assicura lo Spirito Santo, che questo non avverrà giammai : “Qui dat pauperi, non indigebit” (Prov. XXIII, 27). – La limosina nelle divine Scritture si chiama semente. Quando seminate il frumento e lo seppellite sotterra, lo gettaste forse a perdere? Non già, voi sapete che a suo tempo lo vedrete spuntare in erba, poscia biondeggiare in spiga, per mieterlo in fine moltiplicato in manipoli. Dice altrettanto l’Apostolo: limosinieri, Iddio moltiplicherà la vostra buona semente e accrescerà come biade feconde l’opere della vostra pietà, che insieme sono opere di grazia. “Multiplicabit semen vestrum, et augebit incrementa frugum iustitiæ vestræ” (I Cor. IX, 12). Ecco fra tante altre le temporali ricompense promesse ai benefattori dei poveri.- I beni spirituali poi prodotti dalla carità versi i bisognosi sono senza numero. La limosina, dice lo Spirito Santo nel libro di Tobia, libera dalla morte : “Eleemosyna . . . a morte liberat” (IV, 11), non dalla morte corporale, ma dalla morte dell’anima e dalla morte eterna. Ecco come: voi siete in grazia di Dio? Fate limosina, e questa vi libererà dal cadere in peccato mortale, ch’è la morte dell’anima. Siete per vostra sventura in peccato mortale? Fate limosina e questa muoverà il cuore di Dio a darvi le grazie necessarie per uscire da questo stato di morte, e liberarvi dal pericolo di eterna morte. “Eleemosyna ab omni peccato, et a morte liberat, et non patietur anìmam ire in tenebras”. – Nascono talora in un cuore cristiano temente Iddio taluni dubbi e contristanti incertezze: che sarà di me in punto di morte? Farò io la preziosa morte de’ giusti, o la pessima dei peccatori? Che sarà dell’anima mia al divin tribunale? Avrò sentenza di morte o consolazione di vita? Che parte mi toccherà nella gran valle, la destra o la sinistra? A queste funeste apprensioni, ecco il rimedio, la limosina, la carità ai poverelli: osserviamolo nelle divine Scritture. – Per il punto di morte, dice il re Profeta: “Beato chi sa intendere che gran tesoro è il dar soccorso al povero, all’indigente, nell’ultimo de’ giorni suoi, nelle sue agonie avrà Iddio, Iddio stesso assistente, che lo libererà dalle angosce della morte, dalle angustie della coscienza, dalle tentazioni dell’infernale nemico”: “Beatus qui ìntelligit super egenum et pauperem, in die mala liberabit eum Dominus (Ps. XL, 1). Anzi come un’affettuosissima madre, ch’è tutta in movimento per porgere aiuto all’infermo moribondo figliuolo, così si adoprerà Iddio pietoso l’agonizzante limosiniere. “Dominus opem ferat illi super lectum doloris eius, universum stratum eìus versasti in infìrmìtate eius” ( Ps. XL, 3). – Al divin tribunale poi, oh con qual fiducia potrà presentarsi un amico de’poveri: “Dispersit, dice il Salmista , dedit pauperibus” (Ps. CXI, 9), ha egli distribuite le sue sostanze a favor dei miserabili, potrà dunque andar preparando le sue ragioni a produrre in quel giudizio: “Disponet sermones suos in iudicio” (Ps. CXI, 5). E quali? Signore usate verso di me quella misericordia, che ho usato verso de’ vostri poveri, misuratemi colla vostra misura che ho adoperata verso de’ meschini miei fratelli: “Dicturus causam, conchiude il Crisologo, in judicio Dei, patronam libi misericordiam. Per quam liberari possis, assume” (Ser. ut sup.). – Nella gran valle in fine non avrà a temere l’amico de’ poveri. Chi sarà alla sinistra co’ reprobi? I duri di cuore, i capretti che non hanno pensato che a pascere se stessi. Chi sarà cogli eletti alla destra? L’ anime caritatevoli, che somiglianti a docili pecorelle han dato volentieri la lana a sovvenimento de’ bisognosi. A queste rivolto Gesù Cristo, “venite, dirà, benedette dal Padre mio, venite a ricevere la ricompensa del bene che fatto mi avete. Io nella persona de’ poverelli pativa fame, e voi mi avete pasciuto; soffriva nudità e mi avete coperto”: “esurivi, et dedisti mihi manducare, nudus eram, et operuisti me” (Matth. XXIII, 33-36 ), venite a possedere l’a voi preparato eterno regno, “possidete paratum vobis regnum”, che Iddio ci conceda.

Credo …

Offertorium Orémus Ps XVI:5; XVI:6-7 Pérfice gressus meos in sémitis tuis, ut non moveántur vestígia mea: inclína aurem tuam, et exáudi verba mea: mirífica misericórdias tuas, qui salvos facis sperántes in te, Dómine. [Rendi fermi i miei passi sui tuoi sentieri, affinché i miei piedi non vacillino: porgi l’orecchio ed esaudisci la mia preghiera: fa risplendere le tue misericordie, o Signore, Tu che salvi quelli che sperano in Te.]

Secreta Propitiáre, Dómine, supplicatiónibus nostris, et has pópuli tui oblatiónes benígnus assúme: et, ut nullíus sit írritum votum, nullíus vácua postulátio, præsta; ut, quod fidéliter pétimus, efficáciter consequámur. [Propitiáre, Dómine, supplicatiónibus nostris, et has pópuli tui oblatiónes benígnus assúme: et, ut nullíus sit írritum votum, nullíus vácua postulátio, præsta; ut, quod fidéliter pétimus, efficáciter consequámur.]

Communio

Ps XXVI:6 Circuíbo et immolábo in tabernáculo ejus hóstiam jubilatiónis: cantábo et psalmum dicam Dómino. [Circonderò, e immolerò sul suo tabernacolo un sacrificio di giubilo: canterò e inneggerò al Signore.]

Postcommunio

Orémus. Repléti sumus, Dómine, munéribus tuis: tríbue, quæsumus; ut eórum et mundémur efféctu et muniámur auxílio. [Colmàti, o Signore, dei tuoi doni, concédici, Te ne preghiamo, che siamo mondati per opera loro e siamo difesi per il loro aiuto.]

 

 

IL VERME RODITORE delle SOCIETA’ MODERNE (9)

CAPITOLO XIX

INFLUSSO DEL PAGANESIMO CLASSICO SULLA RELIGIONE

Allorquando il nemico vuol impadronirsi d’una fortezza, ei comincia dal prendere una posizione favorevole e dal distruggere le opere avanzate che proteggono il cuore della fortezza. Tale è la tattica seguita dal paganesimo, bramoso di pigliare la sua rivincita sul Cristianesimo. Stabilito sul terreno il più favorevole, l’educazione, noi lo vedemmo battere in breccia la letteratura, le arti, la filosofia, le scienze; poscia, sotto colore di rigenerazione, animarle del suo spirito, arruolarle sotto le sue bandiere, e con loro procedere contro il Cristianesimo stesso, il quale è il cuore della piazza ed il vero punto di mira di tutti i suoi attacchi. Dimostrare a questo riguardo i progressi del nemico e provare ai più ciechi che il paganesimo classico tende all’intera rovina del Cristianesimo, tale è il grave argomento che ci occuperà. Ora il paganesimo classico rovina il Cristianesimo perché lo condanna all’oblio, al disprezzo, all’alterazione.

All’oblio. Pigliamo le cose quali esse sono. Uscito da una famiglia in cui, generalmente parlando, non riceve oggidì che un’istruzione cristiana molto superficiale, il fanciullo giunge in uno stabilimento di pubblica istruzione: quivi rimane sette od otto anni. Se non il primo, almeno il secondo libro latino o greco che gli si pone in mano, è un libro pagano; il terzo è un libro pagano; il quarto è un libro pagano; sempre libri pagani, sino alla fine dei suoi studi. La sua occupazione d’ogni giorno, d’ogni ora è di leggerli, di tradurli, d’impararli a memoria, e d’imparare in egual tempo tutti i fatti del paganesimo, dalle azioni degli Dei sino a quelle dei guerrieri, degli oratori, e dei filosofi di Roma e di Atene. – Nelle scuole non sente risuonare che i nomi dei Romani e dei Cartaginesi. Per identificarlo meglio coi suoi modelli, si divide la scuola in due campi, ed egli è Romano o Cartaginese, Scipione od Annibale. Le spiegazioni del professore non gli somministrano mai o quasi mai nozioni cristiane. Egli vive frammezzo al paganesimo, il suo orizzonte non si estende, se non per circostanza, al di là dei limiti della Grecia e dell’Italia. Il Monte Sacro, il Palatino, Sparta, Tebe, Maratona, le Termopili, la tribuna delle arringhe, il Campidoglio, l’Aeropago, il Foro, sono i soli luoghi abitati dal suo pensiero, dalla sua immaginazione, dalla sua memoria. Ma nei collegi, come nei piccoli seminari, nelle case tenute dai secolari, come nelle case tenute dai religiosi e dagli ecclesiastici, non vi sono cappellani e maestri che insegnino la religione? Lo so, la religione figura come ogni altra scienza nei programmi di studio. So che ogni collegio ha un cappellano incaricato di dire la Messa e di fare il catechismo; so che questo cappellano dice Messa due volte per settimana, e che altrettante volte, forse più spesso, fa un catechismo più o meno ragionato, più o men filosofico. Con questo corredo di cui si mena gran vanto, la religione è essa insegnata? È essa salvata dalla indifferenza e dalla dimenticanza? Niente affatto. Prima di dirne il motivo, mi affretto di dire che gli uomini non ne hanno colpa, ma bensì il sistema. Saturato di deismo, per nulla dire di più, l’attuale sistema d’insegnamento non ravvisa nella religione che una scienza a parte, circoscritta in una sfera determinata, e non già, come dovrebbe essere, e come non sarà mai con classici pagani, una scienza universale, la scienza delle scienze che, trovandosi ogni giorno, ogni ora in tutti i libri che il fanciullo studia, ne deve uscire naturalmente, come l’aroma si esala dal fiore. Infatti, non è solo da un libro, ma da tutti i libri, non è solo dalla bocca d’un maestro, ma da tutti i maestri che la religione deve uscire, ora per raccontare uno dei fatti della sua storia, una virtù dei suoi grandi uomini, una massima dell’Evangelio; ora per formare il cuore del fanciullo, correggere un errore della sua giovine intelligenza, sviluppare il germe nascente di una nobile disposizione; ora per rivelargli il motivo nascosto d’una rivoluzione o d’un avvenimento importante; e sempre per mostrargli ch’essa è la sorgente unica del bello, del bene, del vero, l’anima, l’occhio, la regola, il profumo di tutte le scienze ch’essa vivifica, che essa nobilita, ch’essa coordina, ch’essa spiega e guida allo scopo finale d’ogni cosa: la gloria di Dio e la salute dell’uomo. – Ecco ciò che deve essere, ed ecco ciò che non è. Si può egli allora sconoscere il vizio radicale che condanna, e che condannerà sempre la religione alla dimenticanza nel nostro sistema pagano di educazione? II catechismo del cappellano non vi cangerà nulla. Le sue istruzioni saranno lezioni che si ascolteranno come altre lezioni, forse con un po’ meno di attenzione e con un poco più di ripugnanza. Agli occhi del fanciullo la religione continuerà ad essere una scienza astratta, isolata dagli altri suoi studi, e che si è liberi d’imparare o di dimenticare, senz’altra conseguenza che il merito d’esser più istrutto, o il demerito di esserlo meno. Ciò vuol dire che ei conoscerà la religione quasi come l’inglese od il tedesco, di cui ogni settimana gli si danno una o due lezioni, senza essere, dopo cinque anni di studio, nel caso di leggere un libro, ed ancor meno di sostenere una conversazione in inglese od in tedesco. La prova palpabile di quanto asserisco si è che le generazioni universitarie e le classi della società ch’esse alimentano, conoscono molto meno la religione, e ne ragionano molto peggio delle donne e delle classi popolari. In ogni caso, l’insegnamento religioso di alcune ore per settimana, in concorrenza con un insegnamento pagano di ogni giorno e d’ogni ora del giorno, non sarà mai capace di formare generazioni solidamente religiose. Che sono mai alcune gocce di vino puro, grida il padre Possevino, per addolcire una botte di aceto? (Quanto vi pare che quadri che in una botte sincera s’infonda un bicchier di vino dolce, puro, defecato, cioè un poco di catechismo la settimana, e ad un tempo vi si versino dentro i barili interi d’aceto, di liquore, di muffa ed ogni altra sorte di vino putrido? Cioè ogni giorno i Terenzi e l’altre empietà! Tale è oggi il costume del mondo. Ragion., p. 2 ]. Oltre l’esperienza dell’Europa da tre secoli, me ne appello, sul valore di un tale insegnamento, al giudizio di un uomo, la cui opinione non è sospetta. « Non dobbiamo ingannarci, dice il signor Kératry; non è certo la presenza nelle scuole, a giorno fisso, di un ecclesiastico, per quanto rispettabile sia supposto, quella che inculcherà ai giovinetti uno spirito religioso di qualche durata. Questo non si acquista se non colla continuità di un insegnamento, in cui la legge divina si trovi come infusa. Gli studi, fossero anche meramente letterari, se ne devono risentire. Che cosa sarebbe se il dogma diventasse mai un oggetto di dubbio? Bisognano alla gioventù verità non contestate in fatto di religione; per essa ogni fede posta in controversia è ben tosto una fede morta ». – Queste osservazioni sull’insegnamento della religione negli stabilimenti secolari si applicano, lo dico con dispiacere, con alcune restrizioni tuttavia, alle case tenute da religiosi o da ecclesiastici, e nelle quali il paganesimo classico regna. Qui ancora la religione non esce naturalmente, direttamente, come il profumo dal fiore, né dai libri, né dai doveri, né dagli studi ordinari del giovinetto, né dalle spiegazioni del professore. Farla talvolta scaturire da ciò indirettamente, penosamente, e per così dire pervia di contrasto e di antitesi, ecco quanto può fare un maestro pio ed abile. Quindi ne viene questo fatale rovescio, che il paganesimo compone il festino di cui il Cristianesimo non è se non il dessert. Quindi ne viene ancora una conoscenza più o meno avanzata del paganesimo, ed un’ignoranza molto più grande che non si crede, del Cristianesimo. – Rendendo piena giustizia allo zelo ed alla virtù dei nostri maestri, noi non possiamo qui trattenerci dal protestare con energia contro il sistema d’insegnamento pagano che formò la nostra infanzia, e dal deplorare l’ignoranza in tatto di religione, che ne fu conseguenza obbligata. Uscendo di collegio noi sapevamo sulle dita i nomi, la storia, gli attributi, le avventure degli dei e delle Dee della favola; noi conoscevamo le Danaidi e le Parche, Isione e la sua ruota, Tantalo ed il suo supplizio, le oche del Campidoglio e le galline di Claudio. Senza il più piccolo sbaglio noi avremmo potuto fare la biografia di Minosse, di Baco e di Radamanto, di Codro e di Tarquinio, d’Epaminonda, di Scipione e di Annibale, di Cicerone e di Demostene, senza contare quella d’Alessandro, di Cesare, di Ovidio, di Sallustio, di Virgilio e di Omero. Noi conoscevamo Licurgo, Socrate, Platone, i Flamini, i Giuochi del Circo e dell’Anfiteatro, i sacrifici, le feste, i comizii del popolo-re. In una parola, noi possedevamo tutto il sapere desiderevole in onesti giovani di Roma e di Atene, rampolli dei Bruti o dei Gracchi, candidati delle glorie del Foro, adoratori o sacerdoti futuri di Giove e di Saturno. Ma se per disgrazia fossimo stati trasportati sul terreno del Cristianesimo, e se fossimo stati pregati di dire il nome dei dodici Apostoli, il numero delle loro Epistole; se fossimo stati interrogati sui nostri Santi e sui nostri Martiri, sui nostri eroi e sulle nostre glorie, sui Crisostomi, sugli Agostini, sugli Atanasi, sugli Ambrogi, sui re dell’eloquenza e della filosofia cristiana; sui Padri del mondo moderno, sui nostri maestri nella scienza della vita; se a noi, loro figliuoli, figliuoli della Chiesa e dei Martiri, fosse stato chiesto quale fu il tempo di loro nascita, quali combattimenti essi ebbero a sostenere, quali opere composero, quali azioni meritarono loro l’ammirazione dei secoli ed il culto dell’ universo, ci si sarebbe parlato un linguaggio sconosciuto. Il rossore della nostra fronte e l’umiliante immobilità delle nostre labbra, eccitando la pietà dell’uomo sensato, avrebbero posto a nudo il controsenso mostruoso dei classici nostri studi. Tale si è la nostra storia e quella forse di molti altri. – Si dirà forse che questa ignoranza deplorabile in fatto di religione sarà dissipata più tardi? Davvero! Quanti giovani, quanti uomini di matura età, nelle differenti cognizioni della vita, conoscete voi, i quali dopo la loro uscita di collegio abbiano seriamente consacrato ventiquattr’ore allo studio della religione? Quanti, all’ opposto, non se ne potrebbero citare, i quali, lungi dallo sviluppare le religiose loro cognizioni, perdettero (e da gran tempo) le più elementari nozioni del catechismo! Il paganesimo classico condanna dunque fatalmente l’immensa maggioranza delle persone istruite ad una eterna ignoranza in fatto di religione.

CAPITOLO XX

SEGUITO DEL PRECEDENTE

Al disprezzo! Condannare la religione alla dimenticanza, lasciandola ignorare alla gioventù, tale si è il primo effetto del paganesimo nell’educazione. Esso ne produce un altro molto più grave: abbandona la religione al disprezzo. Non ci dimentichiamo di quanto abbiamo detto, che la religione è la scienza universale, l’alfa e l’omega d’ogni cosa. Ad essa si applicano letteralmente le parole di san Tommaso parlando della teologia. « La scienza della religione, egli dice, comanda a tutte le altre scienze, perché essa è la più alta di tutte: essa le fa tutte lavorare sotto i suoi ordini, le tiene tutte al suo servizio, perché è incaricata di adoprarle; talché il fine, lo scopo, 1’oggetto di ogni scienza, essendo contenuti nel fine della religione e coordinati per relazione a questo fine, la scienza della religione dee dominare tutte le altre scienze e mettere in opera tutti i loro insegnamenti. Ne segue che la religione non può avere nel pensiero, nello studio, nella stima, nell’ammirazione d’alcun uomo né un superiore, né un rivale; che le sue ispirazioni, i suoi insegnamenti, i suoi fatti, i suoi combattimenti, i suoi trionfi, i suoi uomini, le sue glorie, i suoi capi d’opera sono al disopra d’ogni paragone. Solo una parte sovrana a lei si confà: qualunque altra parte la degrada. Essa è regina o è nulla : aut nihil, aut Cæsar. Ora, porre il paganesimo ed il Cristianesimo letterario, artistico, storico, scientifico e filosofico sulla stessa linea, egli è un dividere fra loro il regno delle idee e collocarli nello stesso grado nell’estimazione della gioventù. Porre il paganesimo letterario, artistico, storico, scientifico, filosofico al disopra del Cristianesimo, si è un dargli lo scettro delle idee e collocarlo nel posto d’onore, nella estimazione della gioventù: si è un degradare il Cristianesimo, si è un annientarlo, per quanto si può, per le generazioni nascenti, le cui prime impressioni costituiscono 1’essere morale sino alla morte. Posti tali principi, entrate con me in qualsiasi scuola di qualsiasi collegio d’Europa, dal secolo XVI sino a questo giorno. Qualunque sia la sua veste, il professore, dall’alto della sua cattedra, così parla ai suoi giovani uditori: « Miei amici, vi furono nell’antichità due contrade privilegiate, nelle quali il genio dell’ eloquenza, della poesia, della storia, della filosofia, dell’ architettura, della scultura, di tutte le arti e di tutte le scienze pose lungo tempo ed esclusivamente il suo soggiorno. In quei paesi nacquero i più grandi uomini che il mondo abbia mai conosciuto. Roma ed Atene furono la patria degli eroi i più celebri; la Grecia e l’Italia furono il doppio teatro dei fatti i più memorabili e i più degni del vostro studio: qui, uomini e cose, tutto è meraviglia. « Per citarvi solo alcuni nomi: Omero, Sofocle, Pindaro, Senofonte, Tucidide, Esopo, Demostene, Socrate, Platone, Aristotele, Epaminonda, Alessandro, Virgilio, Orazio, Tito Livio, Ovidio, Svetonio, Sallustio, Cicerone, Seneca, Plinio, Scipione, Fabio, Mario, Cesare, Pompeo, Augusto e una folla di altri sono i re del genio, della scienza, del valore e della gloria. Al loro confronto impallidiscono tutti gli altri uomini che li precedettero o che li seguirono. Ecco qui le loro opere e le loro azioni: voi avrete la fortuna di studiare le une; voi vi farete un dovere d’imitare le altre. Imparate a pensare, a sentire, a parlar come quelli, se volete pensar bene, sentir bene e parlar bene. Debbo solo avvisarvi che quei grandi uomini non erano cristiani: ma ciò nulla toglie ai loro capi d’ opera, né alle loro leggiadre azioni ». – Ed i giovinetti sbalorditi credono alla parola del maestro, ammirano perché 1’ha detto il maestro, e, sempre stando alla parola del maestro, cominciano tosto a sdegnare quanto nella letteratura, nella poesia, nella filosofia, nella storia, nelle scienze e nelle arti non ha il conio pagano. Tale è, meno un gran numero di lodi iperboliche, il modo con cui il paganesimo nella educazione viene applicato alla mente del fanciullo, cotanto impressionabile. E siffatta applicazione entusiasta si ripete ciascun giorno, per sette anni! E questi sette anni sono quelli in cui si forma l’uomo per la vita! Quale può mai essere, rispetto alla religione, i l risultato di un simile sistema? Sentiamo la risposta di un dotto vescovo: « Noi non giudichiamo e soprattutto noi non condanniamo alcuno; noi gemiamo sui traviamenti dell’umano spirito, e facilmente crediamo che se fossimo vissuti un secolo prima, avremmo sgraziatamente partecipato per sempre noi pure ai traviamenti che ora deploriamo. Ma noi vogliamo, o signori, farvi notare quanto avvenne allora, pur troppo! E quanto avviene ancora quasi dappertutto. « Durante quasi trecento anni fu detto a tutta la gioventù studiosa, cioè a quella che governare doveva la società: « Formate il vostro gusto collo studio dei buoni modelli; ora, i buoni modelli greci e latini sono esclusivamente gli autori pagani di Roma e d’Atene. Quanto ai Padri, ai Dottori ed a tutti gli scrittori della Chiesa, il loro stile è difettoso ed il loro gusto è alterato: uopo è dunque guardarsi ben bene dal formarsi alla loro scuola ». Ecco ciò che fu detto e specialmente ciò che si fece praticare a tutti gli studiosi in quella età, in cui è rigorosamente vero che le abitudini diventano una seconda natura. « Quindi, o signori, che ne avvenne? Quello che di necessità doveva avvenire: dapprima tutta quella gioventù si appassionò per lo studio delle produzioni del paganesimo, e dall’ammirazione delle parole giunse a quella dei pensieri e delle azioni. « Infatti, non fu forse allora che si cominciò ad inchinarsi innanzi ai sette saggi della Grecia, quasi altrettanto quanto innanzi ai quattro Evangelisti? Ad andare in estasi pei pensieri di un Marco Aurelio e per gli scritti filosofici di un Seneca, in modo da lasciar credere che nulla vi fosse di più profondo nei libri sacri? finalmente a vantare le virtù di Sparta e di Roma a segno da far quasi impallidire le virtù cristiane? – « Credete voi, o signori, che somiglianti insegnamenti, diventati unanimi e continui, non dovessero alla fin fine indebolire il sentimento della fede e far crescere fuori modo l’orgoglio dell’umana ragione? E sarebbe forse una temerità il dire che facendo così spiccare da per tutto le opere dell’uomo a gran detrimento della rivelazione, che è l’opera di Dio per eccellenza, si preparavano le vie al regno di questo razionalismo sfrontato che giunse pubblicamente a non adorar che se stesso (Lettera di monsignor vescovo di Langres al superiore ed ai direttori del suo piccolo seminario.)? » – Se tale risposta vi pare insufficiente, me ne appello a voi stessi. Io suppongo che nei giorni della Chiesa primitiva, i pagani, non ascoltando se non un preteso zelo per la letteratura, per la scienza e per le arti, avessero preso i nostri libri cristiani per base dell’istruzione dei loro figliuoli; che avessero pagato migliaia d’abili maestri per eccitare ogni giorno durante sette anni il loro entusiasmo pei nostri apostoli, pei nostri martiri, pei nostri oratori, pei nostri storici, pei nostri artisti, pei nostri filosofi, dicendo loro su tutti i tuoni ch’essi sono i re dell’eloquenza e del genio; che nulla fra i pagani può esser loro paragonato; che le nostre istituzioni e le nostre leggi sono il capo d’opera della sapienza e dell’equità. L’uomo fornito del più volgare buonsenso non avrebbe forse detto, e con ragione, che i pagani avevano perduto il cervello? Che essi distruggevano con le proprie loro mani i loro templi ed i loro altari? che lo spirito cristiano penetrerebbe di necessità nella letteratura, nella filosofia, nelle scienze, nelle arti, nei costumi, nelle credenze, nella società tutta quanta? che, ammiratori esclusivi degli uomini e delle cose del Cristianesimo, i loro figliuoli disprezzerebbero senza fallo gli uomini e le cose pagane? che abbraccerebbero tosto o tardi la religione del genio, e volgerebbero per sempre le spalle a quella che non aveva prodotto se non mediocri uomini e mediocri cose? Se più tardi i pagani avessero gemuto; se meravigliati si fossero del dispregio dei loro figliuoli pel culto paterno e della loro propensione al Cristianesimo, quale nome avreste voi dato ai loro lagni ed al loro stupore? Ebbene, questa è la nostra storia. Da tre secoli il paganesimo è nell’educazione, e voi vi meravigliate che si trovi nelle idee e nei costumi! Voi gemete oggidì più amaramente che mai nel veder la religione abbandonata, spregiata, e nel vedere con essa sparire l’ultimo argine opposto al torrente che minaccia di lutto trascinar via, l’ultima colonna della libertà umana, l’ultimo limite dei vostri campi, l’ultimo chiavistello dei vostri cofani. – Se i vostri lamenti sono sinceri, aiutateci a mutare sistema: chi respinge l’effetto deve far sparire la cagione. Il disprezzo della religione, conseguenza inevitabile del paganesimo classico, non aspetta gli anni della età matura per prodursi. Lo si scorge manifestarsi nel collegio stesso colla totale mancanza di pietà, colla profonda nausea per i dov’eri del Cristianesimo e della istruzione religiosa, colla incredulità e colla corruzione: doppia lebbra che divora insino alle midolle le generazioni imbevute del latte pagano. Si manifesta specialmente nelle disposizioni dei maestri e dei discepoli verso l’uomo, nel quale la religione si personifica. Ai loro occhi il cappellano, quali si siano le sue virtù ed il suo ingegno, non è più l’uomo necessario, l’uomo le cui lezioni devono eccitare il massimo ardore, la cui parola deve ottenere il massimo rispetto ed il massimo amore. Egli è un non so che, senza nome nel linguaggio dell’ammirazione, ancor meno nel linguaggio del cuore, poiché l’idea stessa, della quale è il rappresentante, non tiene se non un posto assai secondario nella stima e nessun posto nell’affetto di coloro che lo circondano. Per gli uni il cappellano è un mercenario che istruisce a tanto per giorno; per gli altri, è un professore di religione, ufficiale di morale che ne dà lezioni ad ore fisse, e che si prova di generare negli animi, non già la fede delle verità sante, ma non so quale convinzione secca e sterile, quasi come quella che genera un professore di algebra dimostrando problemi.

All’alterazione. Il paganesimo classico non solo ha per effetto di condannare la religione all’oblio ed al dispregio; ma il suo influsso è più fatale ancora, giacché l’altera profondamente. Che cosa è il Cristianesimo? È la religione dello spirito, la religione della eternità. Timore, disprezzo, distacco dalle ricchezze, dagli onori, dai piaceri della terra; abnegazione di se stesso, mortificazione della carne, con lo scopo di rendere all’anima il legittimo suo dominio: ecco ciò che il Cristianesimo predica dalla culla sino al Calvario, dalle fasce sino alla tomba, dalla prima pagina all’ultima dell’Evangelio. Beati gli umili, beati i poveri, beati quelli che soffrono; guai ai ricchi, guai ai potenti, guai ai felici di questo mondo! Tali sono le sue massime. Di nuovo, che cos’è il Cristianesimo? È una religione sovrannaturale che rigetta come insufficienti tutte le ragioni umane, tutte le intenzioni puramente naturali, e per conseguente tutte le virtù che non sono inspirate da vedute attinte all’ordine della grazia. « Non fate le vostre buone opere, le vostre belle azioni innanzi agli uomini per essere notato da loro; altrimenti voi non riceverete alcuna ricompensa dal vostro Padre che è nel Cielo. Rimanete congiunti con la carità al divin vostro Mediatore, come il tralcio della vite è congiunto col ceppo che la nutrisce e la sostiene; altrimenti i vostri meriti saranno nulli; voi sarete alberi sterili, servi inutili che sarete gettati con i piedi e con le mani legate nelle tenebre esteriori. » La purezza d’intenzione e la grazia santificante, ecco pel Cristianesimo le due condizioni indispensabili delle vere virtù: senza di esse, il Cristianesimo non ne conosce, non ne remunera alcuno. – Che cos’è finalmente il Cristianesimo? La religione della carità; per conseguenza è la religione della libertà e della vera eguaglianza fra tutti gli uomini; è la religione della abnegazione affettuosa del ricco al povero e del povero al ricco; è il rispetto religioso dell’uomo per l’uomo, e specialmente per l’essere debole, per il fanciullo, per la donna, per il povero, per l’infermo, per il prigioniero, per il servo. «Voi amerete il vostro prossimo come voi stesso. Si riconoscerà che voi siete miei discepoli se vi amate gli uni gli altri, non solo di bocca ed a parole,”ma in verità e con opere reali. » Tale è lo spirito del Cristianesimo.

Ed ora, che cos’è il paganesimo? È l’antipode del Cristianesimo, è la religione dei sensi, la religione del tempo, è l’adorazione della materia, l’amore delle ricchezze, 1’amore degli onori, l’amore dei piaceri. Beati i ricchi, beati i potenti, beati coloro che nuotano in seno ai godimenti: ecco ciò che il paganesimo canta, ciò ch’egli ama, ciò ch’ei preconizza coll’esempio dei suoi uomini e dei suoi dei, con lla voce dei suoi storici, dei suoi poeti, dei suoi oratori, dei suoi artisti, di tutti coloro che sono dati per modelli ai nostri figliuoli. Di nuovo, che cos’è i l paganesimo? È il naturalismo in fatto di virtù. Virtù ispirate da viste umane, dal desiderio di farsi una rinomanza, dall’umore, dal carattere, dal temperamento; virtù senza la grazia santificante che sola può renderle vantaggiose al fine eterno dell’uomo; virtù di mostra, delle quali si ha poi cura d’indennizzarsi segretamente. Quindi ne vengono storici, oratori, moralisti, i Sallusti, i Senechi, i Ciceroni, che parlano eloquentemente della temperanza, che declamano contro l’ambizione e contro l’immoralità, ed i quali nel segreto di loro particolare condotta non rifiniscono dall’oltraggiare il pudore, la temperanza e tutte quante le virtù. Che cos’è finalmente il paganesimo? È la religione dell’odio universale, la religione della schiavitù e del profondo disprezzo per l’umanità: disprezzo dell’uomo per l’uomo e soprattutto per l’essere debole, ch’essa calpesta sotto i piedi, o di cui fa lo strumento dei più brutali godimenti; pel fanciullo, ch’essa lascia uccidere, vendere, esporre; per la donna, di cui consacra la vergognosa schiavitù; pel povero, ch’essa perseguita col suo disprezzo e che chiama un animale immondo; per l’ammalalo, ch’essa abbandona sul suo letto di dolore alle cure immaginarie di Esculapio; per il prigioniero, che scanna; per lo schiavo, di cui fa minor conto che non del cane che trastulla il suo padrone o della bestia da soma che trasporta i suoi pesi. Ecco il paganesimo nelle sue massime, nel suo spirito, nei suoi atti. In due parole, il Cristianesimo è la glorificazione dello spirito; il paganesimo è la glorificazione della carne; spiritualismo da un lato, sensualismo dall’altro: ecco il fondo opposto delle due religioni. Ora, egli è il paganesimo che educa i nostri figliuoli. – Il suo insegnamento è altrettanto più efficace in quanto parla su tutti i tuoni, riveste tutte le forme, s’insinua di per sé; poiché esala per natura, come il profumo dal fiore, da ogni libro, da ogni pagina, da ogni frase; che il giovinetto è obbligato ad ammirare, a leggere, a studiare, a capire, a tradurre, ad imparare sulle dita, in una parola, a mutare in sua propria sostanza, e questo in ogni dì ed in ogni ora del giorno, durante sette anni! Sotto somigliante influsso, che mai può diventare lo spirito cristiano? Pur troppo! esso si altera, s’indebolisce, si estingue. L’ordine soprannaturale dispare, il naturalismo solo rimane. L’uomo diventa quale l’educazione lo forma; diventa carne, diventa pagano. Osservale piuttosto: non è egli vero che il sensualismo e l’egoismo straripano sull’Europa? Non è egli vero ch’essi penetrano più o meno in tutte le anime, in tutte le arti, in tutte le scienze, in tutte le vite, da quella che comincia a quella che termina? Ascoltiamo un uomo che non sarà punto sospetto. « La è una ingrata cosa l’educazione della gioventù borghese. Terreno logoro, arido, sterile, in cui più non germoglia altra cosa, tranne i consigli dell’interesse. Io li conosco questi figliuoli della borghesia; la giovinezza è sul loro viso, ma non nel loro cuore. Speculano ancor collegiali. Quello che cercano meno è il bello e il vero; poco sensibili ci sono alle attrattive delle amene lettere ed alla luce delle scienze. La loro ambizione prossima si concentra tutta nell’ottenere un grado universitario, che aprirà loro ciò che si suole chiamare una carriera; la loro ambizione la più lontana non giunge al di là d’uno studio di notaio o di procuratore, d’un diploma d’avvocato o di medico, d’una spallina o d’un abito gallonato; e sotto queste forme diverse ciò che tutti scorgono e bramano, si è il ben essere materiale, sì è una buona mensa, begli abiti, buon letto ed il rimanente in proporzione. La loro virtù dominante è la virtù dei vecchi, la prudenza. La gloria è per essi un vano fumo, cui gli sciocchi soltanto vanno dietro; il merito è un lusso che non vale gli sforzi che costa; ben minchione chi gli sacrificasse un piacere. – « Si occupano eglino, a caso, delle cose politiche? Sono conservatori sotto la monarchia e reazionari sotto la repubblica. Appartengono al gran partito dell’ordine; stimano che la religione sia necessaria per il popolo, sebbene non credano già più a nulla; difendono la famiglia in generale, salvo poi ad affliggere la loro colla loro pigrizia, ed a minarla più tardi con le loro prodigalità; difendono anche e soprattutto amano la proprietà, ma senza il lavoro. Vi sono delle eccezioni, lo so; esse d’ordinario non fanno nascere altro che il riso. Nella più alta scuola dell’Università, alla scuola Normale, l’insegnamento della filosofia era, ora sono quindici anni, l’oggetto di tutte le ambizioni; spregiato adesso, vien reclutato difficilmente e male. E d’onde questo? Altre volte simile insegnamento era scelto come altrettanto sicuro e più lucroso di un altro; eccolo pericoloso e perseguitato; se ne allontanano. Ah! miei giovani amici, è appunto per ciò che dovrebbe avere le vostre preferenze (Il signor Jacques, professore di filosofia in Parigi) ». – Questo dipinto colpisce per la sua rassomiglianza. Uscite di collegio, entrate nella società. Dove troverete voi oggi lo spirito cristiano di sacrificio e di abnegazione? Dov’è mai il disprezzo solenne e solido delle ricchezze, degli onori e dei piaceri? In qual tempo mai le tre grandi concupiscenze regnarono esse più dispoticamente, più universalmente sul mondo? Forse che l’oro non è il dio di questo secolo? Forse che il piacere non è l’unico paradiso che si ambisce? Forse che il dogma pagano della felicità sulla terra, della felicità mediante la ricchezza, non diventò la base delle selvagge teorie che di presente acquistano un sì formidabile favore? Che dirò di più? Il mondo attuale non è forse pieno d’oratori, di scrittori, d’uomini di tutte le classi letterate, i quali, ad esempio dei loro modelli classici, parlano eloquentemente della virtù, alla quale la loro sporca condotta fa testimonianza che punto non credono? Finalmente, per ultimo tratto di rassomiglianza, non giungiamo forse a vedere una società tutta quanta educarsi a noi d’intorno, e proclamare come facevano i pagani, che basta essere onest’uomo, e che si può essere virtuosi senza il Cristianesimo? Cercate ora da quale epoca cominciò in Europa quest’abbassamento spaventoso dello spirito cristiano? Ricordatevi che tutto deriva dall’educazione; e, ne sono persuaso, voi indicherete ad occhi chiusi l’epoca del Rinascimento del paganesimo classico. Né si dica, per attenuare la potenza accusatrice di questo fatto, che i classici pagani furono corretti e purgati; non si dica nemmeno, per negare la riforma che noi chiediamo, che si potrà correggerli ancora e purgarli con cifra più grande: vane pretese! Le correzioni, le espurgazioni, le soppressioni tolsero e toglieranno al più le immoralità grossolane, gli errori palpabili; ma non muteranno per nulla lo spirito pagano, che respira necessariamente, inevitabilmente nelle opere pagane. Ecco però dov’è il pericolo. – Ecco quello che i Padri della Chiesa e tutto quanto il medio-evo avevano benissimo capito. Quando i Gerolami, gli Agostini, i Gregorii proscrivevano con tanta energia il paganesimo classico; quando ne indicavano con tanta eloquenza l’immenso pericolo, credete voi sul serio ch’eglino fossero ispirati dalla tema di vedere il mondo cristiano ritornare al culto di Giove, di Venere o di Mercurio? No, gli Dei dell’Olimpo erano caduti dai loro altari per non più riascendervi. Il paganesimo nella sua forma materiale era morto, ben morto; ma esso viveva nel suo spirito, e questo spirito si conservava nei libri pagani; e questi libri pagani, messi in mano ai giovinetti, sono onnipotenti per infonderlo nel cuore delle generazioni cristiane, e per mezzo di esse nella società. Ivi era il pericolo, ivi è ancora, ivi sarà sempre. Vi si faccia bene attenzione; verrà un istante, se forse non è già venuto, in cui sarà impossibile lo scongiurarlo. « Dalla questione del Paganesimo o del Cristianesimo nell’ educazione dipende la salvezza del mondo ». Ecco quello che proclamava in faccia all’Europa uno dei veggenti del secolo XVI. Ora fa quindici anni, un uomo dei più notevoli per l’altezza del suo sapere e per la sicurezza del suo colpo d’occhio, ci scriveva: « Ancora trent’anni di paganesimo nella educazione, ed è finita per la religione in Europa ».

LA “CHIESA IN ESILIO” NELLA PROFEZIA SUI PAPI DI SAN MALACHIA

LA CHIESA IN ESILIO NELLA PROFEZIA SUI PAPI DI SAN MALACHIA

 [P.S.D.]

 San Malachia di Armagh

 Malachia O’Morgair, in gaelico irlandese Maelmhaedhoc O’Morgair, in medio gaelico irlandese Máel Máedóc Ua Morgair  (Armagh, 1095, – Abbazia di Clairvaux, 2 novembre 1148), è stato un abate e arcivescovo cattolico irlandese, titolare dell’arcidiocesi di Armagh; egli fu proclamato santo da Papa Clemente III il 6 luglio 1190.

Con buona pace dei suoi detrattori ed in genere di coloro che, ricorrendo ad una semplificazione esasperata, adattano le cose a ciò che fa ad essi più comodo, San Malachia ci ha lasciato un’opera a dir poco straordinaria, un’elencazione che, con precisione sorprendente, individua i Pontefici suoi contemporanei e quelli che sarebbero seguiti a questi, in un rigore cronologico che lascia stupiti. – Egli ha infatti scritto la Profezia sui Papi, un elenco di tutti i Pontefici della Chiesa Cattolica che, a partire da Celestino II (eletto nel 1142), si snoda descrivendo tutti coloro che, uno dopo l’altro, si sarebbero avvicendati sul soglio petrino. – La “Profezia sui Papi” consiste nella successione di 112 brevi frasi in latino in qualche modo associate a tutti coloro che, uno dopo l’altro, sarebbero stati considerati i successori di Pietro, senza far riferimento alla loro effettiva validità come Papi regolarmente eletti, alla loro eventuale decadenza in quanto macchiatisi di eresia o ancora alla loro impostura in quanto risultati i papi eletti nel corso di Conclavi irregolari.

E’ bene partire da queste considerazioni per avere piena consapevolezza del fatto che nell’elenco di San Malachia si ritrovano Papi ed antipapi, dei quali la storia avrebbe poi rivelato l’eresia, senza che sia sempre rinvenibile, nella Profezia sui Papi di San Malachia, una chiara indicazione del loro essere estranei alla Chiesa cattolica e, in quanto tali, antipapi.

Seguendo i motti di San Malachia, il presente lavoro parte dal Conclave del 1958 per proseguire lungo la cronologia ben esposta nella Profezia sui Papi diramandosi in due filoni: quello dalla gerarchia apparente e quello della Gerarchia reale, che, ad un esame più approfondito di quello che comunemente viene fatto, sembrerebbero essere state entrambe esposte nella Profezia. Ma, mentre la prima è evidente, la seconda sembra essere, anche nella Profezia sui Papi, quasi occultata, nascosta; esattamente come la “Chiesa eclissata”, che sta forse vivendo in questi tempi gli ultimi anni del suo esilio.

Nella tabella che segue è riportata, nelle colonne indicate con il numero (1), la reale successione dei Papi successivi a Pio XII; in quelle indicate con il numero (2) è riportata la cronologia delle successioni “papali” così come questa ci è stata indicata.

         1 2
Data Evento “Motto” di San Malachia con relativa numerazione Evento Motto” di San Malachia con relativa numerazione
9 ottobre 1958 Morte di S.S. Pio XII 106 “Pastor Angelicus
25 ottobre 1958 Indizione del Conclave per la designazione del successore di Pio XII
26 ottobre 1958 Un Papa è stato eletto”. Elezione di Giuseppe Siri, Papa della Chiesa eclissata, in esilio, il quale assunse il nome di Gregorio XVII 107 “Pastor et nauta Svolgimento del conclave per la designazione del successore di Pio XII
28 ottobre 1958 “elezione” di A. Roncalli quale primo “papa” della pseudo-chiesa conciliare 107Pastor et nauta
21 giugno 1963 Conferma dell’elezione di S.S. Gregorio XVII al soglio pontificio 107 “Pastor et nauta “elezione” di G. B. Montini quale secondo “papa” della pseudo-chiesa conciliare 108Flos florum
26 agosto 1978 “elezione” di A. Luciani quale terzo “papa” della pseudo-chiesa conciliare 109De medietate lunæ
14-16 ottobre 1978 Conferma dell’elezione di S.S. Gregorio XVII al soglio pontificio 107 “Pastor et nauta “elezione” di K. Wojtyla quale quarto “papa” della pseudo-chiesa conciliare 110De labore solis
2 maggio 1989 Morte a Genova di S.S. Gregorio XVII in esilio
3 giugno 1990 Indizione del Conclave segreto per la nomina del successore di S.S. Gregorio XVII
3 maggio 1991 Elezione di S.S. Gregorio XVIII, Papa della Chiesa eclissata, in esilio Petrus romanus
2005 “elezione” di J. A. Ratzinger quale quinto “papa” della pseudo-chiesa conciliare 111 “De gloria olivæ
2013 “elezione” di J. M. Bergoglio “sesto” papa della pseudo-chiesa conciliare  

=======

 

Tabella 1: gli eventi succedutisi nella “vera” Chiesa (1) e nella pseudo-chiesa conciliare (2) a partire dall’ottobre 1958.

 Analizzando i motti di San Malachia ed interfacciandoli con gli eventi effettivamente avvenuti e con altri motti dello stesso San Malachia, si delinea un quadro molto interessante, di cui l’Arcivescovo irlandese sembra aver voluto lasciare una traccia “nascosta”, che fosse possibile verificare solo dopo il succedersi degli eventi. In tal modo, alla luce di una chiave di lettura che dà modo di fornire un’interpretazione esaustiva, emergono particolari che, in un primo momento invisibili e apparentemente non uniti da correlazione, forniscono ulteriori elementi una volta appaiati e messi in condizione di fornire indicazioni più precise.

S.S. Pio XII

106 S.S. Pio XII,Pastor angelicus

L’ultimo Papa del secolo scorso per il quale c’è concordanza fra la gerarchia della Chiesa e la pseudo-gerarchia “apparente” è Pio XII, indicato da San Malachia con il motto “Pastor angelicus” preceduto dal numero progressivo 106.

 S.S. Gregorio XVII

107 – S.S. Gregorio XVII, “Pastor et nauta”

Questo motto è il successivo di quello con cui San Malachia individua il Pastor Angelicus che fu Pio XII, nato Eugenio Pacelli. – Per la seconda volta in due motti consecutivi San Malachia ripete la parola Pastor, “pastore”. Emblematicamente, San Malachia userà il verbo “pascere”, dal quale deriva il termine “pastor” poco più avanti, nel motto relativo all’ultimo Pontefice, quello non preceduto da alcun numero, di cui si dirà dopo; ora, poiché il Pastore è colui che pasce le pecore, San Malachia ha voluto quindi indicare una correlazione esclusiva, una continuità diretta che inizia dal Pontefice da lui indicato al numero 107 e che lungo un filo nascosto ed invisibile giunge all’ultimo dei Pontefici della sua serie, a quel Petrus Romanus di cui si dirà in fine di questo lavoro.

Una cosa che si evidenzia nel leggere il motto n° 107 è la congiunzione “et”. – Oltre che in questo, San Malachia ha usato questa congiunzione nei motti relativi ad altri quattro Pontefici: quelli indicati ai numeri 56, 57, 81 e 98. Per ognuno di questi motti la congiunzione indica due attribuzioni diverse della stessa persona, come brevemente indicato di seguito [Con la premessa che è evidentemente arduo affermare che sia sufficiente la semplice presenza di questa congiunzione per indicare una correlazione fra i vari motti riportati in tabella, invito a rilevare alcuni particolari interessanti. Fra questi, i motti n° 56 e 57, relativi ad un Pio (II) e ad un Paolo (II), esattamente come i nomi assunti da coloro i quali hanno rispettivamente preceduto (S.S. Pio XII) e seguito (G. B. Montini) Roncalli sul soglio pontificio della Chiesa prima e poi della pseudo-chiesa “apparente”. – I motti 81, 98 e 107, che sono riferiti a Papi regnanti dopo la scoperta dell’America da parte di Cristoforo Colombo, al quale si accennerà appena più avanti, mettono in relazione, volta per volta: due vegetali, due animali, due esseri umani. – Circa il simbolismo dei vari animali citati, caratterizzati da corna (capra) o palchi (cervo), dallo “strisciare sul proprio ventre e mangiare polvere per tutti i giorni della vita”, o ancora dall’essere cani (empi) o (super)predatori, lascio al lettore lo spunto per trovare gli innumerevoli agganci.]

n° progr. Motto Papa Spiegazione del motto
56 De capra et albergo Pio II (1458-1464) Enea Silvio Piccolomini fu segretario dei Cardinali Capranica e Albergatti.
57 De cervo et leone Paolo II (1464-1471) Pietro Barbo era stato Cardinale di San Marco Evangelista (che ha per simbolo un leone alato) e Commendatario della Chiesa di Cervia.
81 Lilium et rosa Urbano VIII (1623-1644) Lo stemma di Maffeo Barberini era animato da api che volano su gigli e rose.
98 Canis et coluber Leone XII (1823-1829)

 

Annibale della Genga fu definito dai suoi collaboratori fedele alla causa della Chiesa come il cane ed allo stesso tempo prudente nei suoi attacchi come un serpente.
107 Pastor et nauta Gregorio XVII Vedasi appresso
“Giovanni XXIII” Vedasi appresso

Tabella 2 – Motti di San Malachia in cui compare la congiunzione “et”.

 A differenza che nei primi tre motti, i n° 56, 57 e 81, in cui la congiunzione “et” è riferita a due elementi diversi che sono in possesso (reale o figurato) della persona cui si riferisce il motto, nel n° 98 essa si riferisce a due elementi chiaramente allegorici che rappresentano simbolismi a cui la persona stessa viene associata; si tratta, in tutti i casi, di elementi estranei alla persona stessa, essendo attributi che si limitano ad indicarla. – Nel motto 107, invece, la congiunzione “et” separa quelli che appaiono essere due mestieri (o compiti, o missioni che dir si voglia) della persona: pastore e marinaio. Se evidentemente nessun essere umano può essere nella realtà una capra, un cervo, un leone, un cane o un colubro, egli può ben essere “pastore e marinaio”. Ora, un pastore potrebbe in teoria essere evidentemente anche un marinaio: in questo caso si tratterebbe della stessa persona, per cui la congiunzione “et” si riferisce alle due attività diverse che farebbero capo alla stessa persona. – Oppure potrebbe trattarsi di due persone diverse, delle quali una fa il pastore e l’altra il marinaio. Ma … c’è forse, ancora, una possibilità. – Da un punto di vista religioso, è evidente che pastore (di anime) [1] e marinaio, o forse meglio pescatore (di uomini) [2], potrebbero essere la stessa persona.

[1]“In partic., guida spirituale: pd’anime, il sacerdote; e assol., il p., il parroco e più spesso il vescovo: Se ’l pastor di Cosenza, che alla caccia Di me fu messo … (Dante); ma anche, in genere, chi esercita la missione sacerdotale: Quello da Cui abbiam la dottrina e l’esempio, ad imitazione di Cui ci lasciam nominare e ci nominiamo pastori, venendo in terra a esercitare l’ufizio, mise forse per condizione d’aver salva la vita? (Manzoni: sono parole del cardinal Federigo a don Abbondio); sommo o supremo p., o pdei p., o pdella Chiesa, il Papa; il Buon p., figura largamente diffusa nell’antica iconografia cristiana come immagine di Cristo, ispirata forse dalla parabola evangelica del buon pastore, pronto a lasciare il gregge per ritrovare la pecorella smarrita. Nelle chiese protestanti, il ministro del culto. “ (da Treccani, Vocabolario online http://www.treccani.it/vocabolario/pastore/).

[2]Gesù disse loro: «Venite dietro a me, vi farò diventare pescatori di uomini»

Viceversa, in senso materiale, si tratta di due mestieri così differenti che è impossibile che chi sappia fare bene uno sappia fare anche bene l’altro. Chi dovesse dichiarare di essere contemporaneamente pastore e pescatore sarebbe un bugiardo, in quanto potrebbe essere l’uno o potrebbe essere l’altro (non entrambi) o, nella peggiore delle ipotesi, né l’uno né l’altro: un impostore, quindi. – Pertanto, il motto di San Malachia potrebbe lasciar suggerire che esso sia riferito:  – ad un vero Papa nel caso in cui questi, in possesso del mandato divino, sia possessore di entrambe le prerogative; – oppure potrebbe suggerire, nel caso materiale di un papa nominato tale ma non legittimamente eletto, che si tratti di un impostore.

Quindi, il motto di San Malachia lascia aperte possibilità diverse agli estremi delle quali troviamo, da una parte, un pastore di anime e pescatore di uomini e, dall’altra, nella migliore delle ipotesi un millantatore. – E forse il motto vuole indicare entrambi, come quella congiunzione “et”, al di là dell’attribuzione di caratteristiche diverse, potrebbe suggerire.

Pastor et nauta, pastore (di anime) e marinaio 1° – Le analogie con il pontificato di Giuseppe Siri, che, eletto canonicamente nel corso del conclave del 1958, divenne Papa con il nome di Gregorio XVII, sono sorprendenti. – Giuseppe Siri fu Arcivescovo di Genova (pastor), una delle città marinare (et nauta). Le analogie potrebbero fermarsi qua, risultando abbastanza tenui, ma ce n’è una a dir poco sorprendente che fa di Giuseppe Siri il naturale destinatario del motto n° 107 di San Malachia. – Giuseppe Siri nacque infatti a Genova il 20 maggio 1906, esattamente 4 secoli dopo la morte dell’altrettanto genovese Cristoforo Colombo, il marinaio per eccellenza che certo non ha alcun bisogno di presentazione, morto a Valladolid il 20 maggio 1506.

“pastore e marinaio” 2° – Per il “papa” della pseudo-chiesa conciliare cui viene comunemente attribuito questo motto di San Malachia, le analogie si limitano alla prima riportata per Giuseppe Siri, essendo stato il Roncalli  arcivescovo di Venezia; davvero un po’ poco, il che renderebbe conto alla vaghezza di cui alcuni recenti detrattori dell’opera “Profezia sui papi” accusano qua e là lo stesso Malachia.

Eloquente immagine di S.S. Gregorio XVII tra il cardinale che, alla sua destra (sinistra per chi guarda), tiene un dito davanti alla bocca ed il cardinale Roncalli che, alla sua sinistra (destra per chi guarda), tiene la mano al centro del petto.

Si potrebbe aggiungere che al Roncalli andrebbe ascritta anche l’opera di traghettatore della Chiesa fino a farle raggiungere approdi molto lontani dai suoi porti di sempre, ma questo, lungi dal fare di lui un marinaio, ne farebbe un semplice traghettatore, non dissimile da quel Caronte che traghettava le anime sull’Acheronte nell’Ade, gli inferi pagani.

108 – “Flos florum”

 S.S. Gregorio XVII e, di bianco vestito , il “patacca” G.B. Montini

Nel corso del conclave avvenuto nel 1963, alcune fonti affermano che si sarebbe verificata una riconferma – peraltro inutile – del Papa eletto nel corso del Conclave precedente, di pari passo alla conferma degli eventi che già avevano portato all’ “impedimento” forzato al Papato dopo la rituale accettazione.

lo stemma di “flos florum”

In merito al “papa” conciliare incaricato, che, indicato con il motto di “flos florum”, ha risposto al nome di G. B. Montini, non si ritiene qui né utile né opportuno soffermarsi con una parola di più; il motto è qui incardinato sullo stemma ‘papale’ del suddetto, stemma che pare non essere una sua ideazione originale, bensì la copiatura pedissequa dello stemma della città natale di questo, ossia Concesio, che riporta gli stessi tre gigli. – Un importante richiamo al fiore del giglio si troverà poco più avanti a proposito del motto n° 110.

109 – “De medietate lunæ”

 Nel 1978, l’anno dei due “falsi” conclavi, un primo conclave portò all’elezione di Albino Luciani, il quale restò in carica 33 giorni con il nome di “Giovanni Paolo I”, cui è associato il motto n° 109 che recita “De medietate lunæ”. – Il mese lunare ha una durata media di 28 giorni, molto prossima a quella della durata dello pseudo-pontificato di Luciani. – Inoltre, Luciani proveniva da Canale d’Agordo, in provincia di Belluno, città veneta il cui suffisso (Bell-luno) ricorda molto il nome “luna”. – Lo stesso nome, Albino, indica un chiarore che nel linguaggio comune si accorda più con i “chiari di luna” che con la luce abbagliante del sole: a questo avrebbe pensato il suo successore nel prosieguo conciliare. Molto simile al nome Albino il termine “albedo lunare”, che indica il chiarore diafano tipico della luna.

 A. Luciani riceve la stola da G. B. Montini

Il paragone scelto da San Malachia per indicare Albino Luciani fa ricorso a questo astro che brilla di luce riflessa, come di luce riflessa era brillato Albino da cardinale in quanto futuro falso-papa, quando, nel corso di un suo viaggio a Venezia, G. B. Montini gli aveva fatto indossare la propria stola papale – forse ad indicarlo come suo successore designato -. Come di luce riflessa aveva deciso di brillare questo strano finto ”papa”, che aveva scelto come nome da papa i nomi dei due “papi” precedenti, con l’aggiunta per di più di un numero ordinale nella consapevolezza che sarebbe stato seguito da un secondo. Cosa che in effetti sarebbe avvenuta in brevissimo tempo.

110 – “De labore solis”

 

S.S. Gregorio XVII e, bianco-vestito, K. Wojtyla.

Dopo la luna, San Malachia indicò il sole, dotato questo di luce propria, nel motto che fa ricorso al lavoro di questo astro che sorge da oriente. – Come da oriente veniva Wojtyla, a suo tempo indicato come “arcivescovo di Cracovia”, per il quale fu preparato in Vaticano un posto che sarebbe durato dall’ottobre del 1978 fino al mese di aprile del 2005. – Ma le similitudini con il sole non si fermano a quella appena indicata. Il 18 maggio 1920, nello stesso giorno in cui nacque Karol Wojtyla, ci fu un’eclissi parziale di sole nell’emisfero australe, da dove sarebbe giunto, ad occupare il suo stesso posto, quel Bergoglio da lui stesso “creato” cardinale il 21 febbraio 2001. – L’8 aprile 2005, appena sei giorni dopo la sua morte, avvenne un’altra eclissi di sole, stavolta totale.

 Ra, il dio egizio del sole che governava ogni parte del mondo: il cielo, la terra e l’oltretomba.

Fra le altre cose, Wojtyla ha lasciato i “misteri” che, come i raggi solari, egli stesso chiamò “misteri luminosi”; detti “misteri” si aggiungono ai Misteri Gaudiosi, ai Misteri Dolorosi e ai Misteri Gloriosi del Rosario, modificando profondamente la struttura dello stesso e rendendone impropria la dicitura “Salterio”, fino a prima di Wojtyla del tutto analoga. – Siamo ben lontani, come si vede, dal tenue albedo lunare del, forse sprovveduto, Albino: l’aggiunta apportata da Wojtyla, un vero e proprio stravolgimento, scardina il concetto stesso del Rosario che, sognato da San Domenico da Guzman, al quale apparve la Madonna che recava una corona fatta da 150 rose (le Ave Marie) e 15 gigli (i Pater Noster), aveva un canone prestabilito che, come tante altre cose, all’uomo non sarebbe stato dato di modificare. Fra i molti motivi per cui le “Ave Maria” del Rosario devono essere 150, il Beato Alano della Rupe scrisse i seguenti:

RAGIONE MISTICA: Nella Sacra Bibbia, molte volte si riscontra il numero 150: sia nelle misure nella costruzione dell’Arca, del Tabernacolo di Mosè e del Tempio di Salomone, sia nel calcolo e nella forma del Nuovo Tempio, che Dio rivelò in visione ad Ezechiele. E se questo numero 150 si ritrova nel Rosario, tale numero possiede anche la sacralità biblica delle antiche figure. Così, nel Rosario di Gesù e di Maria, il numero 150, prefigurato dal Salterio di Davide, viene ora confermato nella sua verità.” (da: Beato Alano della Rupe – IL SALTERIO DI GESU’ E MARIA”)

111 – “De gloria olivæ”

 Lo stemma dello Stato di Israele, rappresentato da una menorah affiancata da due ramoscelli d’olivo

La gloria a cui si riferisce San Malachia, correlata a J. A. Ratzinger, non è quella dell’albero di olivo, le cui radici superficiali e molto estese in ampiezza sono ben assestate nel terreno anche arido dal quale riescono a ricavare l’acqua anche nel corso delle stagioni più aride; non è l’albero maestoso il cui tronco contorto e a volte straordinariamente imponente dà un’eccezionale sensazione di stabilità; non è la pianta dall’eccezionale longevità che riesce a sopravvivere quasi indefinitamente riuscendo a passare attraverso svariati millenni. – No, niente di tutto questo: la gloria a cui si riferisce San Malachia non è la gloria dell’albero di olivo: è la gloria “della” oliva, il prodotto principale dell’albero, un prodotto tutto sommato effimero che, se non raccolto e debitamente conservato, si esaurisce nel giro dei pochi mesi che vanno dall’autunno della produzione fino all’inverno, senza riuscire a giungere incorrotto all’estate e nemmeno alla primavera successiva all’emissione.

 De gloria olivæ (J. A. Ratzinger) con, ben visibile sulla mitra, la stella di David!

L’associazione con l’oliva risiede con ogni probabilità non tanto nel fatto che, come asseriscono i più, gli Olivetani siano una branca dei Benedettini (il sacerdote Ratzinger, consacrato non-vescovo secondo il rito blasfemo “rinnovato” del Novus Ordo, e “creato” non-cardinale dal Montini [in quanto falsa autorità], una volta eletto “papa”, ha scelto il nome di Benedetto XVI), ma più verosimilmente nel fatto che nello stemma di Israele due rametti di olivo, quelli che recano le olive, fiancheggiano la menorah. – E con Ratzinger, di ascendenze ebraiche, la gloria di Israele è giunta per mezzo delle molteplici affermazioni che quest’uomo ha fatto su suoi libri, in merito alla permanenza dell’Antica Alleanza fra l’uomo e Dio (in realtà infranta dal Peccato), alla “non necessità per gli Ebrei di passare attraverso la Chiesa per salvarsi”; si è manifestata nel suo copricapo papale con la stella a sei punte; ha visto la sua apoteosi nell’eliminazione anche dall’effigie papale del triregno che segna l’alleanza fra l’uomo e Dio.

  Stemma “non-papa” Benedetto XVI

L’effigie non-papale di J. A. Ratzinger

 L’effigie pseudo-papale di J. A. Ratzinger è caratterizzata da un complesso simbolismo di non immediata comprensione. – Vi si notano la presenza dal moro di Frisinga, dell’orso, della conchiglia; brilla per la sua assenza la tiara, che rappresentava l’unione fra l’uomo e Dio, che un infausto dì il Montini (“Flos florum”: da un fiore ha origine l’oliva…..) alienò materialmente, ma che continuò a permanere nelle effigi di A. Luciani e di K. Wojtyla. In Ratzinger invece la tiara viene eliminata definitivamente anche dalla rappresentazione anti-papale.

Il kazaro Adam Weishaupt, fondatore degli “Illuminati di Baviera”

La conchiglia riprende l’ “annuncio” di Adam Weishaupt, fondatore degli Illuminati di Baviera, il quale ebbe a dire che gli “Illuminati” si sarebbero infiltrati nella Chiesa ad avrebbero scavato dall’interno fino a quando non l’avessero ridotta ad una conchiglia vuota, un simulacro visibile dall’esterno ma privo di ogni santità (si parla, non è forse neanche il caso di specificarlo, della pseudo-chiesa apparente, non della Vera Chiesa di Cristo). –

Duomo “terremotato” di San Benedetto a Norcia, icona perfetta della chiesa-conchiglia effigiata sullo stemma del sedicente Benedetto XVI

E, come se si fosse fino ad allora restati in attesa del segnale convenuto, è stato nel corso dell’era ratzingeriana che è venuto fuori il sig. Bergoglio, che, ordinato non-sacerdote” secondo i riti del “novus ordo” e parimenti non-consacrato “vescovo”, è un perfetto semplice laico secondo i canoni della Chiesa di N. S. Gesù Cristo.

Di questo personaggio non compare infatti traccia alcuna nella Profezia sui papi di San Malachia.

PETRUS ROMANUS

 Davanti all’ultimo Pontefice le parole di San Malachia da Armagh si fanno grandiose, imponenti e tremende, come non può che essere quando ci si riferisce a qualcuno che è destinato ad essere artefice o testimone di accadimenti di immensa portata.

In persecutione extrema Sanctae Romanæ Ecclesia sedebit Petrus Romanus, qui pascet oves in multis tribulationibus; quibus transactis, civitas septicollis diruetur, et Judex tremendus iudicabit populum suum. Finis” [“Nella persecuzione estrema della Santa Chiesa Romana siederà Pietro il Romano, che pascerà il gregge fra molte tribolazioni; passate queste, la città dai sette colli sarà distrutta e il tremendo Giudice giudicherà il suo popolo. Fine.”]

C’è qui ben poco da aggiungere che non sia stato già detto dall’autore della Profezia dei Papi: ogni allegoria cede qui il posto alla chiara realtà, per la quale non c’è alcun bisogno di chiarimenti o di ipotesi. – Qualche parola si può però dire a proposito di Petrus Romanus, di questo ultimo Pontefice che appare privo del riferimento progressivo che ha contrassegnato prima di lui tutti gli altri Papi, nessuno escluso. – Ci si può chiedere per quale motivo egli non sia stato indicato dalla numerazione, cosa che potrebbe apparire priva di logica, essendo Petrus Romanus l’ultimo dei pontefici elencati da San Malachia ed essendo pertanto con ogni logica posteriore a tutti quelli già indicati con un numero che ne precede il relativo motto: per quale motivo la numerazione è stata sospesa proprio in corrispondenza dell’ultimo Papa?

– Una spiegazione plausibile, del tutto in linea con la situazione di fatto presente nella Chiesa, è la seguente: il numero di Petrus Romanus non è stato indicato non già perché non fosse nota la sua collocazione cronologica (la datazione precisa) o temporale (il suo posto nella successione papale), ma perché, come si è detto all’inizio, San Malachia non ha fatto alcuna distinzione fra Papi legittimi ed illegittimi e pertanto, una volta attribuita una numerazione omnicomprensiva che comprende sia chi è al suo posto che, progressivamente, chi è dove non dovrebbe essere, in periodo di due “Chiese” [una falsa ed una autentica] distinte e separate l’inserimento di un Pontefice che fa parte di un’altra successione temporaneamente oscurata (eclissata) creerebbe motivo di confusione, che richiederebbe precisazioni ulteriori le quali, in periodi di Chiesa eclissata, non potrebbero sussistere, pena l’esplicitazione di ciò che la Chiesa in esilio sta vivendo e pertanto la divulgazione dello stato di fatto.

– Quella stessa confusione di cui si è qui parlato a proposito di “Pastor et nauta”, nel cui motto è insita la parola Pastor – di derivazione dal latino pastor, da pascère: pascolare – sembra qui lasciare un’altra traccia della sua presenza. E, in un’accezione che qui ricompare e che potrebbe indicare una consequenzialità diretta fra i due, segue un filo logico che parte da quel Pastor et nauta che qui è stato indicato con il numero 1, cioè Giuseppe Siri, Gregorio XVII, il Papa in esilio, e che conduce direttamente a Petrus Romanus, Gregorio XVIII, scavalcando in silenzio tutti coloro che sono stati rappresentati dai motti dal n° 107 (per quel che si riferisce al “traghettatore”) al n° 111.

– “In persecutione extrema” indica chiaramente che la persecuzione cui la Chiesa di Cristo è soggetta, benché percepibile dappertutto in maniera sempre meno velata, raggiungerà il suo culmine nel corso del Pontificato dell’attuale Pontefice, che perdura già da oltre 26 anni.

Per ultimo, il nome, Petrus Romanus, indica che sarebbe il nuovo Pietro, quello che, fedele alla dettato della Chiesa, ricostituirebbe la Sancta Romana Ecclesia secondo lo schema che le è proprio e che nessun uomo può modificare, più bella e Santa che mai.

Gesù disse a Simon Pietro: “Simone di Giovanni, mi ami tu più di costoro? Egli gli rispose: “Sì, Signore, tu sai che io ti amo”. Gli disse: “Pasci i miei agnelli”. Di nuovo gli domandò: “Simone di Giovanni, mi ami tu ?”. Gli rispose: “Sì, Signore, tu sai che io ti amo.” Gli disse: “Pasci i miei agnelli”. Per la terza volta gli chiese: “Simone di Giovanni, mi ami tu ?” Pietro s’attristò perché gli aveva detto per la terza volta: “Mi ami tu ?”. Ed esclamò: “Signore, tu sai ogni cosa, tu sai che io ti amo”. Gli disse (Gesù): “Pasci le mie pecore. In verità, in verità ti dico: quando tu eri più giovane ti cingevi da solo e andavi dove volevi; ma quando sarai vecchio, tenderai le mani e un altro ti cingerà e ti porterà dove non vorrai”. Disse questo per indicare con quale morte avrebbe reso gloria a Dio. E detto ciò, gli soggiunse: “Seguimi”.

San Pietro

Tu es Petrus, et super hanc petram ædificabo Ecclesiam meam.

Et portæ inferi non prævalebunt adversus eam.