X DOMENICA DOPO PENTECOSTE (2020).
(Messale Romano di S. Bertola e G. Destefani, comm. di D. G. LEFEBVRE O. S. B; L. I. C. E. – R. Berruti & C. Torino 1950)
Semidoppio. – Paramenti verdi.
La liturgia di questa Domenica ci insegna il vero concetto dell’umiltà cristiana che consiste nell’attribuire alla grazia dello Spirito Santo la nostra santità; poiché le nostre azioni non possono essere soprannaturali, cioè sante, se non procedono dallo Spirito Santo, che Gesù mandò agli Apostoli nel giorno della Pentecoste e che dona a tutti quelli che glielo chiedono. Dunque la nostra santificazione è impossibile se vogliamo raggiungerla da soli, perché, abbandonati a noi stessi noi non siamo che impotenti e peccatori. Dobbiamo a Dio se evitiamo il peccato, se ne otteniamo il perdono, se riusciamo a fare il bene, poiché nessuno può pronunciare neppure il santo nome di Gesù con un atto di fede soprannaturale, che affermi la sua regalità e divinità, se non mediante lo Spinto Santo. L’orgoglio è, dunque, il nemico di Dio, perché si appropria dei beni che solo lo Spirito Santo distribuisce a ciascuno nella misura che crede conveniente e impedisce alla potenza divina di manifestarsi nelle nostre anime in modo da farci credere che noi bastiamo a noi stessi. Come Dio potrebbe perdonarci (Oraz.), se noi non vogliamo riconoscerci colpevoli? Come potrebbe aver compassione di noi ed esercitare su noi la sua misericordia (Oraz.), se nel nostro cuore non vi è nessuna miseria riconosciuta cui il suo Cuore divino possa compatire? L’umile, invece, riconosce il proprio nulla perché sa che solo a questa condizione discenderà su lui la virtù di Cristo. Mentre la Chiesa sviluppa in questa Domenica tali pensieri, le letture, che fa durante questa settimana nel Breviario, danno due esempi di orgoglio e di grande umiltà. Dopo la figura del profeta Elia che si oppone così fortemente a quella di Achab e di lezabele, dei quali nell’ufficio è ricordato il terribile castigo, vi è quella del giovane Gioas che contrasta fortemente con quella di Atalia. Figlia di Achab e di lezabele, empia come sua madre, Atalia sposa il re di Giuda loram, che morì poco dopo. Allora la regina si trovò padrona del regno di Giuda e per esserlo per sempre fece massacrare tutta la famiglia di David. Ma losabeth, sposa del gran sacerdote Joiada tolse dalla culla l’ultimo nato della famiglia reale e lo nascose nel Tempio. Questi si chiamava Gioas. Per sei anni Atalia regnò ed innalzò templi in onore del dio Baal perfino nell’atrio del Tempio. Nel settimo anno il gran sacerdote attorniato da uomini risoluti e armati, mostrò Gioàs che allora aveva sette anni e disse: « Voi circonderete il fanciullo regale e se qualcuno cercherà di passare fra le vostre file, lo ucciderete! ». E quando il popolo si riversò nell’atrio, all’ora della preghiera, Joiada fece venire avanti Gioas, l’unse e lo coronò al cospetto di tutta l’assemblea che applaudi e gridò: «Viva il Re!». Quando Atalia intese queste grida, uscì dal palazzo ed entrò nell’atrio e quando vide il giovane re assiso sul palco, circondato dai capi e acclamato dal popolo col suono delle trombe, stracciò le sue vesti e gridò: «Congiura! Tradimento!». Il gran sacerdote ordinò di farla uscire dal sacro recinto e quando essa giunse nel suo palazzo venne uccisa. La folla allora saccheggiò il tempio di Baal e non lasciò pietra su pietra. E il re Gioas si assise sul trono di David, suo avo; regnò quarant’anni a Gerusalemme e si dedicò a riparare e abbellire il Tempio (All., Com.). La Scrittura fa di lui questo bell’elogio: «Gioas fece quello che è giusto agli occhi di Dio» È questa l’Antifona del Magnificat dei Vespri alla quale fa eco quella dei II Vespri che è tratta dal Vangelo di questo giorno: « Questi (il pubblicano) ritornò a casa sua giustificato e non quello (il fariseo), poiché chi si esalta sarà umiliato e chi s’umilia sarà esaltato ». – « Quelli che si innalzano sono visti da Dio da lontano, dice S. Agostino. Egli vede da lontano i superbi, ma non perdona loro. « L’umile invece, come il pubblicano, si riconosce colpevole! ». Egli si batteva il petto, si castigava da sé, e Dio perdonava a quest’uomo perché confessava la sua miseria. Perché meravigliarsi che Dio non veda più in lui un peccatore dal momento che si riconosce da sé peccatore? Il pubblicano si teneva lontano ma Dio l’osservava da vicino » (Mattutino). Così l’umile fanciullo Gioas fu gradito a Dio perché la sua condotta avanti a Lui era quale doveva essere. Egli fece ciò che era giusto agli occhi del Signore. Atalia, invece, orgogliosa ed empia, non fece ciò che era giusto avanti al Signore, e sdegnò e insultò quelli che facevano il loro dovere, poiché l’orgoglio verso Dio si manifesta ogni giorno nel disprezzo verso il prossimo. Dice Pascal che vi sono due categorie di uomini: quelli che si stimano colpevoli di tutte le mancanze: i Santi; e quelli che si credono colpevoli di nulla: i peccatori. I primi sono umili e Dio li innalzerà glorificandoli, i secondi sono orgogliosi e Dio li abbasserà castigandoli. « Il diluvio, dice S. Giovanni Crisostomo, ha sommerso la terra, il fuoco ha bruciato Sodoma, il mare ha inghiottito l’esercito degli Egiziani, poiché non è altri che Dio, il quale abbia inflitto ai colpevoli questi castighi. Ma, dirai tu, Dio è indulgente. Tutto ciò allora non è che parola vana? E il ricco che disprezzava Lazzaro non fu punito? … e le vergini stolte non furono discacciate dallo Sposo? E quegli che si trova nel banchetto con le vesti sordide non verrà legato mani e piedi e non morrà? E colui che richiederà al compagno i cento denari non sarà dato al carnefice? Ma Dio si fermerà solo alle minacce? Sarebbe molto facile provare il contrario e dopo quello che Dio ha detto e fatto nel passato possiamo giudicare quello che farà nell’avvenire. Abbiamo piuttosto sempre in mente il pensiero del terribile tribunale, del fiume di fuoco, delle catene eterne nell’inferno, delle tenebre profonde, dello stridore dei denti e del verme che avvelena e rode » (2° Nott.). Questo sarà il mezzo migliore per rimanere nell’umiltà, che ci fa dire con la Chiesa: « Ogni volta che io ho invocato il Signore, questi ha esaudita la mia voce. Mettendomi al sicuro da quelli che mi perseguitavano, li ha umiliati, Egli che è prima di tutti i tempi » (lntr.). « Custodiscimi, o Signore, come la pupilla dei tuoi occhi, perché i tuoi occhi vedono la giustizia » (Grad.). « Signore, io ho innalzata l’anima mia verso te, i miei nemici non mi derideranno perché quelli che hanno confidenza in te non saranno confusi » (Off.).
Incipit
In nómine Patris, ☩ et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.
Introitus
Ps LIV: 17; 18; 20; 23
Dum clamárem ad Dóminum, exaudívit vocem meam, ab his, qui appropínquant mihi: et humiliávit eos, qui est ante sæcula et manet in ætérnum: jacta cogitátum tuum in Dómino, et ipse te enútriet.
[Quando invocai il Signore, esaudí la mia preghiera, salvandomi da quelli che stavano contro di me: e li umiliò, Egli che è prima di tutti i secoli e sarà in eterno: abbandona al Signore ogni tua cura ed Egli ti nutrirà.]
Ps LIV: 2
Exáudi, Deus, oratiónem meam, et ne despéxeris deprecatiónem meam: inténde mihi et exáudi me.
[O Signore, esaudisci la mia preghiera e non disprezzare la mia supplica: ascoltami ed esaudiscimi.]
Dum clamárem ad Dóminum, exaudívit vocem meam, ab his, qui appropínquant mihi: et humiliávit eos, qui est ante sæcula et manet in ætérnum: jacta cogitátum tuum in Dómino, et ipse te enútriet.
[Quando invocai il Signore, esaudí la mia preghiera, salvandomi da quelli che stavano contro di me: e li umiliò, Egli che è prima di tutti i secoli e sarà in eterno: abbandona al Signore ogni tua cura ed Egli ti nutrirà.]
Oratio
Orémus.
Deus, qui omnipoténtiam tuam parcéndo máxime et miserándo maniféstas: multíplica super nos misericórdiam tuam; ut, ad tua promíssa curréntes, cœléstium bonórum fácias esse consórtes.
[O Dio, che manifesti la tua onnipotenza soprattutto perdonando e compatendo, moltiplica su di noi la tua misericordia, affinché quanti anelano alle tue promesse, Tu li renda partecipi dei beni celesti.]
Lectio
Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Corínthios.
1 Cor XII: 2-11
Fratres: Scitis, quóniam, cum gentes essétis, ad simulácra muta prout ducebámini eúntes. Ideo notum vobisfacio, quod nemo in Spíritu Dei loquens, dicit anáthema Jesu. Et nemo potest dícere, Dóminus Jesus, nisi in Spíritu Sancto. Divisiónes vero gratiárum sunt, idem autem Spíritus. Et divisiónes ministratiónum sunt, idem autem Dóminus. Et divisiónes operatiónum sunt, idem vero Deus, qui operátur ómnia in ómnibus. Unicuíque autem datur manifestátio Spíritus ad utilitátem. Alii quidem per Spíritum datur sermo sapiéntiæ álii autem sermo sciéntiæ secúndum eúndem Spíritum: álteri fides in eódem Spíritu: álii grátia sanitátum in uno Spíritu: álii operátio virtútum, álii prophétia, álii discrétio spirítuum, álii génera linguárum, álii interpretátio sermónum. Hæc autem ómnia operátur unus atque idem Spíritus, dívidens síngulis, prout vult.
[“Fratelli: Voi sapete che quando eravate gentili correvate ai simulacri muti, secondo che vi si conduceva. Perciò vi dichiaro che nessuno, il quale parli nello Spirito di Dio dice: «Anatema a Gesù»; e nessuno può dire: «Gesù Signore», se non nello Spirito Santo. C’è, sì, diversità di doni; ma lo Spirito è il medesimo. Ci sono ministeri diversi, ma il medesimo Signore; ci sono operazioni differenti, ma è il medesimo Dio che opera tutto in tutti. A ciascuno poi è data la manifestazione dello Spirito, perché sia d’utilità. Mediante lo Spirito a uno è data la parola di sapienza, a un altro è data la parola di scienza, secondo il medesimo Spirito. A un altro è data nel medesimo Spirito la fede; nel medesimo Spirito a un altro è dato il dono delle guarigioni: a un altro il potere di far miracoli; a un altro la profezia; a un altro il discernimento degli spiriti; a un altro la varietà delle lingue, a un altro il dono d’interpretarle. Ma tutte queste cose le opera l’unico e medesimo Spirito, il quale distribuisce a ciascuno come gli piace”].
Omelia I
[A. Castellazzi: La scuola degli Apostoli – Sc. Tip. Vescov. Artigianelli, Pavia,1921]
LE DIVERSE CONDIZIONI SOCIALI
Nei primi tempi della Chiesa, quando essa aveva maggior bisogno di prove esterne per affermarsi e dilatarsi, ai fedeli venivano concessi, visibilmente e in abbondanza, doni spirituali. Erano doni che dovevano servire non al vantaggio personale di chi li possedeva, ma per il bene generale della comunità cristiana. Nell’Epistola riportata, S. Paolo ne enumera nove. I Corinti, abbondantemente forniti di questi doni se ne insuperbivano. L’Apostolo per togliere tale abuso, stabilita la regola che, per conoscere se tali doni vengono da Dio o dal demonio, è da attendere se promuovono la fede in Gesù Cristo e il suo amore, insegna che, sebbene questi doni siano vari, distribuiti parte agli uni, parte agli altri; è lo stesso Spirito Santo che li distribuisce. Se sono molteplici e diversi i ministeri che si esercitano nella Chiesa; quelli che li esercitano sono tutti servi dello stesso Signore, Gesù Cristo. Se sono molteplici gli effetti prodotti da questi doni e da questi ministeri, è lo stesso Dio che opera in tutti. Il dono, poi, a chiunque sia stato concesso, è stato concesso per utilità degli altri. – La conseguenza da tirare è facile. I Corinti non avevano nessun motivo di orgoglio o di vanità per ì doni ricevuti. Quelli poi che avevano i doni più umili non dovevano invidiare quelli che avevano doni più eccellenti. Conseguenza pratica per noi: date le disuguaglianze che ci sono nella società:
1 I meno favoriti non devono rammaricarsi,
2 I più favoriti non hanno motivo di insuperbire,
3 Tutti devono cooperare a vivere in armonia.
1.
Quella distinzione di grazie, di attività, di misteri, che fa notare S. Paolo nel mistico corpo della Chiesa, può applicarsi alla società in generale. Anche questa, così varia nelle condizioni degli individui, vive una vita unica, a cui partecipano, come parte di un sol corpo, tutti i suoi membri. Ci sono ministeri diversi, ma il medesimo Signore. Altro è il ministero dell’Apostolo, altro quello del Vescovo, altro quello del sacerdote; ma è uno solo che dispensa questi ministeri: Dio. Nella società altra è la funzione di chi governa e di chi è governato; altra quella del ricco e altra quella del povero; altra quella del pensatore e altra quella del bracciante: ina tutti hanno un compito che va a risolversi nell’armonia sociale voluta da Dio. – Si usa considerare la società come divisa in due campi: quello dei ricchi, dei gaudenti, dei parassiti, e quello dei diseredati, degli infelici, dei lavoratori. Naturalmente quelli d’una classe non hanno sempre sentimenti lodevoli verso quelli dell’altra. Ma non dovrebbe essere così. Cominciamo dalla classe dei meno favoriti. Vediamo i lavoratori. Generalmente il lavoro manuale viene considerato come un lavoro di poca considerazione, che avvilisce i lavoratori, mettendoli al disotto di coloro che non attendono a simili lavori. Se il lavoro manuale avvilisse, se mettesse i lavoratori in condizione di inferiorità di fronte agli altri, non si capirebbe come Gesù Cristo abbia lasciato gli splendori del cielo, la compagnia degli Angeli per sudare in una bottega. Quando in un lavoro si ha per compagno Gesù Cristo, chi può affermare che è un lavoro che disonora? Chi lavora, sia pure manuale il suo lavoro, può portar la testa alta come il grande pensatore. Ciò che disonora non è il genere di lavoro, è l’ozio. Vediamo coloro che nella società sono trascurati, non compresi, dimenticati, accanto a coloro che godono onori, posseggono titoli, gradi ecc. Anche questi non dovrebbero rammaricarsi, darsi alla tristezza. Le cose non continueranno sempre così. È questione di un po’ di pazienza. Sulla scena del teatro, chi rappresenta la parte di re, chi di suddito, chi di mecenate, chi di protetto, chi di padrone, chi di servo. Gli uni indossano abiti preziosi, gli altri portano abiti dimessi. Nessuno però, ha invidia della parte rappresentata da un altro, o degli abiti che indossa. Tanto è una scena di breve durata. Quando cala il sipario, tutte le grandezze scompaiono. Quando cala il sipario che chiude la nostra vita, tutti siamo eguali; nessuno porta di là blasoni, titoli, onorificenze. Ci sono i poveri di fronte ai ricchi. Qui il motivo di rammaricarsi è minore ancora. Sorge dalla falsa persuasione che ricchezza e felicità siano una cosa sola. S. Giuseppe Oriol, era chiamato dai suoi Catalani il «Santo allegro ». Un giorno fu visto in coro in preda a una certa inquietudine. Chiestogli da chi gli stava vicino che cosa gli fosse accaduto, rispose di aver in tasca un certo diavoletto che gli cagionava molto fastidio. E, uscito subito dal suo posto, diede a un povero, che trovò nella chiesa, la moneta che lo tormentava. Così riacquistò la sua tranquillità abituale (M. Carlo Salotti, Vita di S. Giuseppe Oriol; Roma, 1909). Si tratta di un Santo, direte; è vero. Ma persuadiamoci pure che le ricchezze turbano l’animo anche di chi non è santo. Per chi si lascia da esse dominare, le ricchezze sono «splendidi tormenti», come le chiama S. Cipriano» (Ad Donatum, 12). E, naturalmente, sono tormenti tanto più gravi, quanto più sono abbondanti. Ne abbiamo la prova ogni giorno. Chi sono quelli che si tolgono la vita, incapaci di resistere alle prove che l’accompagnano? Sono quasi sempre dei ricchi; e tra questi è preponderante il numero dei ricchissimi.
2.
A ciascuno poi è data la manifestazione dello Spirito, perché sia di utilità. Qui è dichiarato lo scopo di questi doni soprannaturali. Essi sono dati non in vista dell’individuo che è ne è fornito, ma in vista dell’utilità della Chiesa. Questi doni hanno un’unica origine, il Signore, hanno un unico fine, l’utilità della Chiesa. Sbagliano, quindi, quei Corinti che si lamentano per averne ricevuti meno che gli altri; e sbagliano quei Corinti che diventano orgogliosi per averne ricevuti di più. Anche rispetto alla società civile possiamo dire che sbagliano tanto quelli che si rattristano, perché si trovano inferiori agli altri, quanto quelli che vanno gonfi, perché si trovano superiori. Se tu hai beni, gradi, titoli che ti fanno superiore agli altri, non devi credere che dipenda tutto da te. Se il Signore non avesse benedetto le tue fatiche, i tuoi tentativi, se non ti avesse posto in particolari condizioni e in particolari circostanze, saresti povero, dimenticato, sconosciuto come gli altri. Quanti hanno sudato, pensato, osato più di te, e si trovano in condizione ben inferiore alla tua. Dove Dio aiuta ogni cosa riesce. Senza la benedizione di Dio, al contrario, tutte le fatiche e tutti i pensamenti degli uomini non riescono a nulla. «Se il Signore non edifica la casa, inutilmente vi si affannano i costruttori» (Ps. CXXVI, 1).Se ti trovi in condizioni sociali migliori di quelle degli atri, pensa che è anche maggiore la tua responsabilità. « A chi molto fu dato, molto sarà richiesto» (Luc. XII, 48) è scritto nel Vangelo. In certo modo, invece di disprezzare chi ti è inferiore, dovresti onorarlo, perché egli ha meno responsabilità della tua, e a lui sarà chiesto conto con meno rigore che a te. L’uomo si giudica dalle sue opere. Se tu con tutti i tuoi privilegi e i tuoi beni, non fai niente di buono; e un altro, povero, disprezzato compie delle buone opere; chi è più degno di stima di rispetto, di considerazione? Se poi entriamo nel campo spirituale, quello che tu stimi a te inferiore, può essere cento volte superiore a te. Chi più grande: S. Isidoro, agricoltore; S. Giuseppe Benedetto Labre, pellegrino medicante; S. Zita, domestica, o tanti fortunati del mondo, che passarono all’altra vita senza biasimo e senza lode? – Per quanto possono essere notevoli le disuguaglianze su questa terra, non dovrebbero essere motivo di tristezza o di orgoglio. «Tutte queste disuguaglianze possono essere uguagliate dalla grazia divina, perché quei che restano fedeli fra le tempeste di questa vita non possono essere infelici» (S. Leone M. Epist. 15, 10).
3.
Lo Spirito Santo distribuisce a ciascuno come gli piace. Nessuno, quindi, può domandargli conto o lamentarsi, se agli uni distribuisce doni più abbondanti che agli altri. Se lo Spirito Santo distribuisce a suo piacimento, non fa, però, una distribuzione capricciosa. Tutti i doni distribuiti debbono cooperare al bene comune della Chiesa; perciò, tra essi bisogna che ci sia quella comunicazione che c’è tra le varie membra di un sol corpo. Lo stesso possiam dire delle varie mansioni nella società. La natura della società, stabilita da Dio, è tale che le varie classi, sono collegate tra di loro in maniera che una non possa far senza dell’altra. Esse sono destinate ad armonizzare fra loro, in guisa da produrre un completo equilibrio. – Ci deve essere armonia tra padroni e dipendenti. I padroni, i superiori in genere, devono essere animati dal pensiero di procurare la felicità dei loro dipendenti. Proteggerli se deboli; difenderli, se vessati; procurare il loro benessere se bisognosi. Non devono dimenticarsi che i loro dipendenti hanno un’anima da salvare. Perciò devono facilitar loro il vivere secondo le leggi dell’onestà e secondo i comandamenti di Dio. Sull’animo dell’uomo, sia pure un dipendente, nessuno può aver un dominio maggiore di quello che ha Dio. Nessuno, quindi, può comandare ciò che è contrario ai comandi di Dio. Alla loro volta i dipendenti devono considerare i padroni e i superiori come quelli che sono stati da Dio destinati a curare il loro bene, a esser sostegno nelle difficoltà della vita, a esser guida nelle incertezze. E neppure ci deve essere contrasto tra il lavoro della mente e il lavoro della mano. È necessaria l’uno ed è necessario l’altro. Una macchina che proceda senza chi la guidi non potrà andare avanti bene. La sua forza, invece di produrre benefici, produce danni. Lavora tanto chi studia e dà l’indirizzo, quanto chi eseguisce il lavoro. L’importante è che lavorino tutti, poiché «chi non vuol lavorare non deve neppure mangiare» (2 Tess. III, 10). – Armonia ci dev’essere anche tra ricchi e poveri. La sollecitudine moderata di migliorare la propria condizione e di provvedere all’avvenire non è proibita, ma con tutte le sollecitudini e con tutte le provvidenze, non si chiuderà mai la porta alle miserie: queste si affacceranno sempre. E qui il ricco può colmarsi di meriti e di benedizioni: «Se hai dei beni terreni — scrive S. Agostino — usane in modo da far con essi molti beni e male nessuno» (Epist. 220, 11 ad Bonif.). Ti acquisterai vera gloria, poiché « gloria del buono è l’aver chi possa ricolmare dei suoi benefici » (S. Giovanni Grisostomo. In II Epist. ad Thess. Hom. 3, 12). Ti acquisterai la ricompensa delle preghiere dei beneficati, e farai un sacrificio molto accetto a Dio, come ti assicura l’Apostolo: «Non vogliate dimenticarvi di esercitare la beneficenza e la libertà, perché con tali sacrifici si rende propizio Dio» (Ebr. XIII, 16).
Graduale
Ps XVI: 8; LXVIII: 2
Custódi me, Dómine, ut pupíllam óculi: sub umbra alárum tuárum prótege me.
[Custodiscimi, o Signore, come la pupilla dell’occhio: proteggimi sotto l’ombra delle tue ali.]
V. De vultu tuo judícium meum pródeat: óculi tui vídeant æquitátem.
[Venga da Te proclamato il mio diritto: poiché i tuoi occhi vedono l’equità.]
Alleluja
Allelúja, allelúja
Ps LXIV: 2
Te decet hymnus, Deus, in Sion: et tibi redde tu votum in Jerúsalem. Allelúja.
[A Te, o Dio, si addice l’inno in Sion: a Te si sciolga il voto in Gerusalemme. Allelúia.]
Evangelium
Sequéntia ✠ sancti Evangélii secúndum S. Lucam.
Luc XVIII: 9-14.
“In illo témpore: Dixit Jesus ad quosdam, qui in se confidébant tamquam justi et aspernabántur céteros, parábolam istam: Duo hómines ascendérunt in templum, ut orárent: unus pharisæus, et alter publicánus. Pharisæus stans, hæc apud se orábat: Deus, grátias ago tibi, quia non sum sicut céteri hóminum: raptóres, injústi, adúlteri: velut étiam hic publicánus. Jejúno bis in sábbato: décimas do ómnium, quæ possídeo. Et publicánus a longe stans nolébat nec óculos ad cœlum leváre: sed percutiébat pectus suum, dicens: Deus, propítius esto mihi peccatóri. Dico vobis: descéndit hic justificátus in domum suam ab illo: quia omnis qui se exáltat, humiliábitur: et qui se humíliat, exaltábitur.”
[“In quel tempo disse Gesù questa parabola per taluni, i quali confidavano in se stessi come giusti, e deprezzavano gli altri: Due uomini salirono al tempio: uno Fariseo, e l’altro Pubblicano. Il Fariseo si stava, e dentro di sé orava così: Ti ringrazio, o Dio, che io non sono come gli altri uomini, rapaci, ingiusti, adulteri; ed anche come questo Pubblicano. Digiuno due volte la settimana; pago la decima di tutto quello che io posseggo Ma il Pubblicano, stando da lungi, non voleva nemmeno alzar gli occhi al cielo; ma si batteva il petto, dicendo: Dio, abbi pietà di me peccatore. Vi dico, che questo se ne tornò giustificato a casa sua a differenza dell’altro: imperocché chiunque si esalta, sarà umiliato; e chi si umilia, sarà esaltato”].
Omelia II
Sopra la superbia.
Omnis, qui se exaltat humiliabitur; et qui se humiliat exaltabitur. Luc.XVIII
Noi vediamo, fratelli miei, nell’odierno Vangelo un vivo ritratto del vizio della superbia e della virtù dell’umiltà ad esso contraria. Due uomini, dice il Salvatore, salirono al tempo per farvi le loro orazioni. L’uno era fariseo, l’altro pubblicano, il fariseo, tutto pieno di stima per se stesso, stavasene in piedi, ed indirizzavasi a Dio con queste parole: Io vi ringrazio, o Signore, perché non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adulteri, né tale come quel pubblicano; io digiuno due volte alla settimana, do la decima di tutti i miei beni. Il pubblicano dal canto suo stando lontano, non ardiva neppur alzar gli occhi al cielo, ma percuotevasi il petto, dicendo: Mio Dio, siate propizio ad un peccatore come son io. La preghiera di questi due uomini, come vedete, era molto differente l’una dall’ altra; quindi ebbero ancora un effetto molto differente. Quella del fariseo, che partiva da un cuore orgoglioso e gonfio del suo merito, fu riprovata da Dio e non servì che a renderlo più colpevole: laddove quella del pubblicano, che era il linguaggio della umiltà, gli ottenne il perdono dei peccati, e di peccatore che era , ne fece un giusto ricolmo delle grazie del Signore. Così conchiuse Gesù Cristo: chiunque s’innalza sarà abbassato, e chiunque s’abbassa sarà innalzato; Omnis, qui se exaltat humiliabitur; et qui se humiliat, exaltabitur. Egli è facile, fratelli miei, il comprendere l’istruzione che Gesù Cristo ha voluto darci nel ritratto di questi due uomini. Nel primo ci fa vedere il carattere ed i castighi della superbia; e nell’altro ci rappresenta le ricompense dell’umiltà. Il fariseo, in vece di comparire in umile atteggiamento come conviensi al luogo santo e davanti alla maestà di Dio, vi sta ritto in piedi, stans; il che fa vedere la gonfiezza e l’orgoglio del suo cuore. In vece di render gloria a Dio di tutto il bene che credeva aver fatto, egli si vanta, si fa gloria d’un merito immaginario; la sua preghiera non è che una ostentazione, un racconto delle sue lodi; e perciò egli vien riprovato da Dio. Il pubblicano, al contrario, è sì penetrato di infusione alla vista dei suoi peccati, che non osa neppure alzar gli occhi al cielo; e per quest’umile via, per questi bassi sentimenti, che ha di se stesso, merita gli sguardi favorevoli del Signore. Il fariseo s’innalza, e Dio s’allontana da lui. Il pubblicano si abbassa, e Dio se gli accosta. Il fariseo esce dal tempio più colpevole che non vi era entrato, ed il pubblicano se ne ritorna giustificato alla sua casa. Ecco, fratelli miei, dei motivi molto atti a farci detestar la superbia, amar l’umiltà. Castigo della superbia nel fariseo; ricompensa dell’umiltà nel pubblicano; due soggetti che danno materia a due istruzioni. – Quest’oggi, non ne tratteremo che uno, che sarà la superbia, riserbandoci di parlar un’altra volta sopra l’umiltà. Come il superbo resiste a Dio, primo punto. Come Dio resiste ai superbi, secondo punto. Innalzamento colpevole e giusta umiliazione del superbo: il suo peccato, il suo castigo.
I. Punto. Ella è cosa sohrprendente, fratelli miei, che l’uomo trovando in se medesimo tanti motivi di umiliarsi, sia nulladimeno così pieno di superbia. Questo vizio infetta quasi tutti gli stanti del mondo; il suo dominio si estende sì lungi, che ben pochi vi ha, che non gli siane soggetti. Per guarire dunque coloro che non sono macchiati, e preservarne quelli che nol sono ancora, bisogna quest’oggi farvene conoscere il carattere, la malizia e gli effetti. Che costi è la superbia? È, dice s. Tommaso, un amor disordinato della propria eccellenza, fondato sulla buona opinione di se stesso, il quale fa che uno si stima e ricerca ariosamente la gloria e l’onore: Superbia est amor inordinatus propriæ excellentiæ; e perché il superbo non istima che se stesso, così non ha per gli altri che del dispregio; egli si sforza, per quanto può, di abbassarli per innalzarsi sopra di essi. Stimar se stesso, dispregiar gli altri; ecco il carattere della superbia, quale ci è rappresentato nel fariseo. Quest’uomo, infatuato d’un merito che crede d’avere, si vanta, si applaudisce, racconta le buone azioni che ha fatte. Ma che dice egli degli altri? Li biasima, li carica di delitti, perché crede mettere la sua virtù in maggior luce per lo confronto, che ne fa con gli altrui difetti. – Notate bene la superbia, dice s. Agostino. Io non sono – dice egli – come gli altri uomini. Dicesse almeno come alcuni uomini, come la maggior parte degli uomini; ma si preferisce a tutti, si crede il solo uomo dabbene sopra la terra: qual vanità! Quanti non ne vediamo ancora noi di questo carattere? Ripieni di se stessi, si vantano, si fanno gloria, l’uno della sua nobiltà o delle sue ricchezze, l’altro del suo potere; questi del suo talento, della sua abilità, quegli delle sue virtù, delle sue buone azioni! Quanti che si applaudiscono d’un merito che non hanno! E perché questi superbi credonsi soli degni d’essere stimati e onorati, non hanno per gli altri che del dispregio; li abbassano quanto possono per stabilire la loro riputazione sulla rovina dell’altrui. Or volete voi sapere, fratelli miei, quanto questo peccato è opposto a Dio? Giudicatene dai tratti, che sono per darvene. La superbia rapisce al Creatore la gloria, che gli è dovuta per attribuirla ad altra creatura; distrugge la carità, che si deve avere pel prossimo, ed è la sorgente funesta d’infiniti altri peccati: quale orrore non dobbiamo noi averne? A Dio solo l’onore e la gloria appartengono, dice l’Apostolo: Soli Deo honor, et gloria (1. Tim. 2). L’uomo non ha da se stesso, che il nulla ed il peccato; tutto quel che possiede, lo tiene dalla mano liberale di Dio; vita, sanità, ricchezze, spirito, talenti, beni di natura, di fortuna e di grazia, tutto abbiam ricevuto da Dio. Senza di Lui noi saremmo nel nulla, nell’indigenza d’ogni cosa: non siamo da noi stessi capaci di cosa alcuna, neppure di aver un buon pensiero per la salute. Alla sua grazia noi dobbiamo tutto il bene, che abbiamo fatto, se pure abbiamo fatto qualche cosa per il cielo. Qual ingiuria non fate voi dunque a Dio, uomini vani e superbi? In vece di rendergli gloria dei beni, dei talenti che avete ricevuti, voi vi prevalete dei suoi doni, come se venissero da voi medesimi; invece di riferir a Dio il successo delle vostre intraprese, voi le attribuite alla vostra industria; in vece di riconoscerlo per principio e autore di tutte le vostre buone azioni, ve ne arrogate la gloria, vantandole, pubblicandole, come se fossero unicamente opera vostra, e non già della grazia di Dio. Se tutti i beni, che possedete nell’ordine della natura e della grazia, voi li tenete dalla mano liberale di Dio, perché gloriarvene come se non li aveste ricevuti? dice l’Apostolo. Quid gloriaris, quasi non acceperis (1 Cor. IV)? Non è forse un rapire a Dio la gloria che gliene ritorna? Non è forse imitare l’audacia dell’angelo ribelle, che portò il suo orgoglio sino a disputare a Dio la sua gloria, e la sua indipendenza? Mentre questo fu, come sapete, il suo peccato e la cagione della sua disgrazia. Questo celeste spirito, la più bell’opera che fosse uscita dalla mano di Dio, si accecò coi suoi propri lumi; invaghito della bellezza del suo essere, dell’eccellenza delle sue perfezioni, talmente se ne compiacque, che si credette indipendente da tutti: in vece di sottomettersi a Dio, pretese sollevarsi sino a Lui, rendersi simile all’Autore del suo essere: Similis ero Altissimo. Tale è l’eccesso di temerità, a cui l’orgoglio è capace di portar la creatura. Usurpar gli onori divini, affettar l’indipendenza, che non appartiene che all’Essere supremo; tale è stata l’audacia negli angeli ribelli. che hanno avuto degli imitatori negli uomini, sin dai primi secoli del mondo. Imperciocché, donde pensate voi, fratelli miei, che sia venuta l’idolatria, la quale sparse sì dense tenebre sulla faccia dell’universo, che quasi tutto il genere umano ne fu involto? Fu dalla superbia degli uomini, che ripieni di sé medesimi, infatuati, ebri della loro grandezza, della loro possanza, del loro merito, giunsero a tale accecamento da farsi rispettare come dei da quelli, che erano cotanto ciechi per condiscendere ai loro sentimenti. Gli uni fecero fabbricar tempi in loro nome, gli altri rizzare statue, cui si rendevano onori divini. Tal fu l’orgoglio d’un Nabucco che fece mettere nella fornace tre figliuoli ebrei, che ricusarono di adorarlo. Così la superbia degli uomini è venuta a capo di rapir al Creatore la gloria che gli era dovuta, per attribuirla alla creatura: quale ingiustizia! qual disordine! Se la superbia non porta presentemente gli uomini ad eccessi così mostruosi, non se veggono forse ancora che vorrebbero, per così dire, esser riguardati come divinità sulla terra, sia elevandosi al di sopra degli altri, che pretendono far abbassare avanti ad essi, sia esigendo che si abbiano per essi certi riguardi, perché hanno più di nobiltà, più di beni, più di credito, più d’autorità, più di talento, più di spirito, e perché sono in un grado più elevato? Cenere e polvere, di che v’insuperbite? Quid superbis, terra et cinis (Eccl. III)? Che cosa siete voi avanti a Dio? Nulla e peccato. Ecco di che potete voi vantarvi, o piuttosto di che dovete umiliarvi; tutto il restante non è vostro, la gloria ne appartiene a Dio solo. Voi rassomigliate ad un vaso di terra adornato di vesti preziose, e che non diviene perciò più prezioso in sé stesso: mentre deve tutto il suo splendore a chi l’ha rivestito. Voi dovete tutto a Dio; dunque è un rapirgli la gloria che gli è dovuta il gloriarvi voi medesimi di ciò che avete ricevuto. – Perciocché finalmente, per farvi ancora meglio conoscere l’ingiustizia del vostro orgoglio, e quanto sia egli mal fondato, su di che l’appoggiate voi? Qual è il fondamento della stima che avete di voi medesimi? È forse la nobiltà della vostra origine? Ma questa nobiltà non viene da voi, ella è una cosa straniera; non è già vostro merito l’esser nati da genitori illustri. Sono forse i beni che vi rendono orgogliosi? Ma questi beni non danno il merito, neppur lo suppongono; quelli che han ricchezze sono spesse volte più viziosi. Che avete voi fatto a Dio per avere più beni di tanti altri, che sono nell’indigenza, e forse più dabbene che voi? Donde vi vengono questi beni? Sono le eredità dei vostri antenati che nulla vi han costato; forse sono essi il frutto delle loro ingiustizie, o delle vostre, e per conseguenza non vi appartengono: voi non avete dunque motivo di vantarvene. Ma io voglio che vi appartengano per giusti titoli; forse saranno essi la causa della vostra riprovazione, e lo saranno infatti, se voi ne fate un malvagio uso. Non è forse questo piuttosto un motivo d’umiliarvi? Di che vi gloriate voi ancora? Delle qualità del corpo, dello spirito, della sanità, della bellezza, dei vostri talenti? Ma tutto questo non viene forse da Dio? Non dipendeva che da Lui di ridurvi in uno stato così umiliante come quelli che dispregiate, perché non hanno quell’avvenenza, quelle qualità personali, che sono materia della vostra superbia. La sola cosa che vi fa onore si è la virtù; ma di questa virtù, di queste buone opere, a Dio dovete il merito e per conseguenza la gloria. Se l’attribuite a voi medesimi, voi fate ingiuria a Dio, e la vostra virtù cessa per questo appunto d’essere vera virtù; ella è una virtù farisaica, riprovata da Dio; poiché dal momento che cercate la vostra gloria nella pratica della virtù, che fate buone azioni in vista di piacere agli uomini, di attirarvi la loro stima, non è più la gloria di Dio che si ricerca, come si deve ricercare, ma è un bene che gli appartiene. – Non è forse tuttavia quello che voi fate in mille occasioni, allorché praticate certe azioni virtuose avanti gli uomini, le quali non fareste in segreto e prevedete che vi loderanno, che vi stimeranno? Non è forse anche per un principio di superbia , che voi vi date delle lodi; che raccontate il bene che avete fatto, affinché gli altri ve ne diano; che vi vantate dei vostri talenti, delle vostre belle qualità, delle vostre virtù ? Quante volte per una dannevole ipocrisia vi siete coperti del mantello della virtù, che non avevate, per occultare i difetti cui eravate soggetti, evitando il peccato per il solo timore dal disonore, ma sempre pronti a commetterlo da che l’onor vostro non vi andasse? Forse anche per una detestabile vanità voi vi siete fatta gloria di ciò che doveva coprirvi di confusione, mentre la superbia fa tutto servir ai suoi disegni, così le malvage azioni come le buone. Qual ingiuria non fa dunque a Dio questo peccato? – Ma egli non è già men opposto alla carità, che si deve avere per il prossimo. Il superbo, che non stima che se stesso, tratta gli altri con un sommo disprezzo. Ascoltate il discorso del fariseo. Io non sono – dice egli – soggetto a vizi vergognosi come quel pubblicano: Non sum velut iste publicanus. Egli sparge su la condotta di lui la censura la più inoltrata. Quindi è che il superbo si preferisce a tutti. Io non sono – dice egli – come il tale ed il tale: io avrei fatto meglio in tal occasione. Egli si crede solo aver più di spirito, intendere meglio gli affari. Tutto quel che egli pensa, tutto quel che dice, tutto quel che fa, è sempre meglio che quello che possa pensare, dire o fare gli altri. Unicamente occupato del suo merito, esso non trova negli altri che difetti: sempre a farsi vedere nel bello, non studia che di far scorgere il debole degli altri, sul riflesso che il dispregio che se ne farà, servirà d’ombra al ritratto che egli fa di sé medesimo. Se è forzato di rendere giustizia al merito, egli fa tutto quel che può per oscurarne la gloria con maligne interpretazioni, che dà alle azioni. Geloso dell’altrui innalzamento non evvi rigiro alcuno, che non metta in opera per soppiantarlo. Egli vuole aver dappertutto il miglior posto nelle assemblee, sino ai piè del santuario. È egli superiore ad altri? Li riguarda come vermi di terra. Quindi quella fierezza, quell’aria d’alterigia, che affetta a loro riguardo: quindi quell’affettazione di non conoscere coloro che gli appartengono per i legami del sangue, perché sono i miseri ridotti in una povera e bassa condizione, mentre d’altra parte egli si vanterà d’appartenere a persone più ricche e più elevate, e che sovente nulla gli sono. Quindi quelle pretensioni ridicole, che tutti accondiscendano al suo parere vero o falso, mentre egli medesimo non ha veruna condiscendenza per l’altrui sentimento. – A questi tratti, fratelli miei, che non fanno che abbozzare il ritratto del superbo, riconoscete, che egli abbia molta carità pel prossimo? Ah! come questa virtù è difficile a trovarsi nei superbi! La carità pensa bene di tutti e non giudica male d’alcuno, dice l’Apostolo. Il superbo fa tutto il contrario; egli la fa da giudice critico dell’altrui condotta e condanna tutti. La carità è paziente per sopportare gli altrui difetti, non si adira punto del male, che le vien fatto; ma un superbo nulla vuol tollerare, si offende del minimo disprezzo, d’una parola talvolta sfuggita a caso, senza disegno di recargli disgusto. Egli è un monte che getta neri vapori, tosto che vien toccato: tange montes, et fumigabunt. Quindi quegli sdegni, quei trasporti cui si abbandona; quelle maledizioni, quelle ingiurie che proferisce; quelle vendette che medita, e che effettivamente eseguisce contro coloro che hanno avuto per lui quei riguardi che si crede meritare. Ed è ciò, che mi ha fatto dire, che la superbia era la sorgente di molti peccati. – Non si attribuiscano – fratelli miei – ad altre cagioni fuorché alla superbia, tanti contrasti e nimicizie, che regnano tra gli uomini. Perché mai quelle persone tra loro nemiche da sì lungo tempo, non sono ancora riconciliate, malgrado gli avvisi d’un confessore? Si è la superbia che le ritiene. Ciascuno crede aver la giustizia dal suo canto, o se conosce il suo torto, non vuol confessarlo. Egli si stima più che un altro, crederebbe abbassarsi, e troppo costerebbe all’amor proprio il fare i primi passi; così rimane esso sempre nel medesimo stato, cioè in uno stato di dannazione. Perché mai s’intentano liti da lui in occasione delle ingiurie reali o pretese? Perché è egli intrattabile su i mezzi d’accomodamento che si propongono? Conviene, dice egli, aver soddisfazione d’un’ingiuria ricevuta, conviene sostenere il proprio onore. Ma che cosa si cerca in questo? Il soddisfare la sua passione, l’umiliare gli altri per innalzarsi. Donde vengono le maldicenze, le calunnie, di cui altri si serve per macchiare la reputazione altrui, se non dalla brama di mettersi al di sopra del prossimo? Così la superbia, il primo dei peccati capitali, ne strascina dopo di sé un’infinità d’altri. Ella fa venire al suo seguito l’invidia, l’ingiustizia, l’ira, la vendetta. Che dirò di più? Initium omnis peccati, superbia (Eccl. X). Ella acceca lo spirito e lo getta in mille errori; ella gonfia il cuore e gli ispira mille sentimenti d’ambizione; ella acceca lo spirito e gl’impedisce di vedere le verità, che deve credere; combatte anche con un’ostinata resistenza quelle che riconosce. Tale è stata l’origine fatale delle eresie, che hanno desolata la Chiesa di Gesù Cristo fin dal suo cominciamento. Uno spirito di superbia, che si è impadronito d’uomini che abbondavano nel loro senso, fece loro preferire i lumi d’un certo ingegno agli oracoli della verità eterna: hanno spregiate le rispettabili decisioni della Chiesa, quantunque abbiano riconosciuto che la sua autorità era la sola regola capace di fissare la loro certezza; ma troppo costava alla loro superbia il ritrattarsi ed essere tenuti per uomini soggetti ad ingannarsi; e perciò ostinati rimasero nel loro errore; hanno fatto naufragio, quando una umile sommissione li avrebbe condotti al porto della salute. Tanto è vero, che, quando la gonfiezza della superbia è giunta sino ad un certo punto, egli è molto difficile il guarirla. Questo veleno s’inoltra anche nel cuore per via delle brame smisurate che vi fa nascere, d’innalzarsi agli onori, di pervenire a certe dignità, ch’esso non è capace di riempiere. La buona opinione ch’egli ha di se stesso, fa tutto intraprendere per venire a capo de’ suoi disegni; e quando una volta si è giunto al punto che erasi proposto, si fanno cadute deplorabili per l’incapacità di adempiere i doveri d’uno stato temerariamente abbracciato. Tali sono le funeste conseguenze della superbia. – Del resto, non crediate, fratelli miei, che questo vizio non s’insinui che nelle case dei grandi; egli regna nelle condizioni più vili e più abbiette. Sovente v’ha più di superbia sotto un abito plebeo, che sotto la porpora ed il diadema: si vede nel semplice popolo la medesima brama di dominar gli uni su gli altri; la medesima ostinazione: il medesimo attaccamento al suo parere; ciascuno vuol comandare; niuno vuol soffrire riprensioni, niuno vuol essere avvertito, corretto de’ suoi mancamenti; li pallia, li scusa, né vuol confessare di aver fatto male. Si giunge anche all’eccesso di giustificare i suoi delitti; si prendono tutte le precauzioni possibili per nascondere quel che è, e farsi vedere quel che non è. Egli è anche rarissimo che tra le persone che fan professione d’una vita regolata, non se ne trovi alcuna che non abbia qualche macchia di superbia. Voi vedrete di quelli che non possono sopportar una parola, un dispregio che offenda la loro delicatezza; che vogliono essere applauditi in tutto e non essere giammai contradetti. Qual cura non hanno essi di mostrare sempre le loro virtù e di occultar i loro difetti? Non ricercano le lodi, ma sono ben contenti di riceverle; amano essi molto meglio gli adulatori che i censori del vizio; non sono disgustati di essere conosciuti per certi tratti che fanno onore, di avere una riputazione nel mondo; ed hanno in orrore tutto ciò che chiamasi umiliazione, abbiezione. – Quante compiacenze e riflessioni non hanno della loro propria virtù, su qualche buon’opera che hanno fatta? Si preferiscono d’ordinario quelle, che fanno onore a quelle, che si fanno nell’oscurità. Qual destrezza a rigettare i loro mancamenti sull’ignoranza, la sorpresa, o qualche altra circostanza che ne sminuisca la confusione? Qual attenzione a far scorgere tutto ciò che può far onore! Ecco ciò che prova che la superbia è un veleno sottile, cui è molto difficile preservarsi. Non è che a forza di combattimenti, che si può sperar di vincere questo formidabile nemico della storia di Dio e della salute dell’uomo. Mentre se la superbia è opposta a Dio, Dio non le è meno opposto; il che si può conoscere dai castighi con cui la punisce.
II Punto. Ella è una regola della giustizia di Dio di proporzionare il castigo alla malizia del peccato, che vuol punire; il che ha Egli osservato ed osserva ancora nei castighi, che esercita sopra il superbo. L’uomo con la sua superbia rapisce a Dio la gloria, che gli è dovuta: Dio vicendevolmente umilia l’uomo superbo e l’opprime di confusione. L’uomo superbo dispregia gli altri; Dio permette che divenga anch’esso l’oggetto dello scherno, e del dispregio degli uomini. La superbia finalmente è una sorgente avvelenata, donde nasce un’infinità di vizi e di peccati; questa sorgente con la sua contagione distrugge il merito delle virtù. Qual colpi fatali non porta ella dunque a coloro che ne sono infetti? Ancor un momento d’attenzione. – In ogni tempo Dio, il quale dà la sua grazia agli umili, ha resistito ai superbi: più i superbi han voluto innalzarsi, più Iddio gli ha abbassati. Noi abbiamo una prova convincente nel castigo degli angeli ribelli, che la superbia sollevò contro Dio, sino all’eccesso di volersi a Lui uguagliare. Appena ebbero essi formato i loro baldanzosi progetti, che furono nell’istante spogli dei doni di natura e di grazia, di cui li aveva Iddio arricchiti. Scacciati dal cielo furono precipitati nel profondo dell’abisso: Quomodo cecedisti de cœlo Lucifer (Isai. XIV). Come mai Lucifero è caduto dal cielo coi suoi partigiani? Come mai quelle sublimi intelligenze di perfette creature che erano, sono divenute orribili demoni? Si è per la superbia. Egli è questo peccato, che ha aperto l’inferno, quella orribil dimora, ove saranno essi per tutta l’eternità, e che sarà il retaggio di tutti coloro, che avranno imitato gli angeli prevaricatori nelle loro ribellioni. – Noi abbiamo ancora nella sacra Scrittura un gran numero di esempi dei castighi della superbia: eccone dei più memorabili. Assalonne, il figliuolo di Davide, è sospeso ad una quercia, e percosso dal colpo della morte, in punizione del progetto ambizioso che aveva formato di salir sul trono di suo padre. Nabucco, spinto da un eccesso di superbia, vuol essere riguardato come il Dio della terra; egli fa erigere una grande statua per essere adorato dagli uomini; ma nel tempo medesimo che s’innalza e si perde nelle sue grandi idee, Dio l’abbassa e l’umilia togliendogli il suo regno, levandolo dalla società degli uomini, e riducendolo alla condizione delle bestie, con cui è obbligato di abitare e di mangiare l’erba nelle foreste. Non è che dopo sette anni d’una sì dura penitenza, che Dio perdona a quel principe cosi umiliato. Tale fu ancora l’umiliazione del superbo Amano, allorché si vide condannato a morire sul patibolo, che aveva fatto alzare per Mardocheo, il quale non voleva piegar il ginocchio avanti a lui. Cosi Dio si compiace di umiliar i superbi: e senza uscir dal nostro Vangelo, consideriamo come Dio vi tratta il superbo fariseo. L’umile pubblicano merita per la sua umiltà il perdono de suoi peccati; ma il fariseo è riprovato da Dio: egli ritorna a casa più colpevole di quel che era prima, che entrasse nel tempio del Signore per farvi comparire la sua superbia. – Questo è ciò, che accade ogni giorno ai superbi; mentre essi cercano d’innalzarsi, di distinguersi, di meritar la gloria e la stima degli uomini, Dio si allontana da essi, ritira da loro le grazie, gli abbandona ai loro sregolati desideri, come dice l’Apostolo, a passioni d’ignominia che li disonorano; così cadono in mancamenti considerabili, che li caricano d’obbrobrio o di Confusione; a misura, che si perdono le idee lusinghiere del loro spirito, la carne li strascina nel fango il più profondo, essendo la superbia ordinariamente seguita dall’impurità. Essere superbo e casto è una specie di chimera: Dio ritira il suo spirito dall’uomo superbo; e tosto che l’uomo non è più condotto dallo spirito di Dio, diventa tutto carne e si abbandona alle sue sregolate passioni; funesto castigo del peccato di superbia, che ricopre l’uomo di obbrobrio avanti a Dio ed agli uomini: Odibilis coram Deo, et hominibus est superbia (Eccl. X). – Così il superbo, che dispregia gli altri, diventa vicendevolmente l’oggetto del loro dispregio, sia per i vizi cui la sua superbia lo strascina, sia per la superbia medesima, che lo rende a tutti insopportabile. No, non si amano punto le persone che presumono tanto, che non fanno che lodarsi, che vantarsi di ciò che han detto o fatto. Se per una condiscendenza che si ha per esse, o per tema di loro dispiacere, altri qualche volta applaudisce, internamente le dispregia, sa benissimo ritrattare in loro assenza le lodi, che in presenza di esse ha loro date; egli si beffa a suo bell’agio della loro maniera di parlare o di agire. Niuno ama d’essere dispregiato, insultato e trattato con alterigia, e siccome il superbo dispregia ed insulta sovente gli altri, e vuole dappertutto signoreggiare, non occorre stupirci se niuno può tollerarlo nel mondo. Tutto dispiace in lui, le sue parole, le sue maniere, il suo contegno, non si vede, che con noia comparire nelle assemblee » perché vi cagiona turbolenze, e si vede sempre uscirne con piacere. Si preferisce anche nel mondo profano la conversazione d’una persona umile e riserbata a quella d’un superbo, che vuol sempre vincerla su tutti: tanto è vero, come diceva il savio, che la gloria fugge il superbo che la ricerca, e segue l’umile, che la fugge: Superbum sequitur humilitas , humilem spiritu suscipiet gloria (Prov. XIX). La sola confusione, che è anche in questa vita il castigo della superbia, dovrebbe bastare per guarir da questa malattia chiunque ne sia attaccato, se vi facesse attenzione. Ma il proprio della passione, principalmente di questa, si è di accecare lo spirito, e di corrompere il cuore. Un superbo non vuol confessare il suo mancamento, e s’inasprisce anche di ciò che dovrebbe guarirlo. I dispregi, le umiliazioni, non fanno che accrescere il suo male. Qual passione più pericolosa per la salute? Ella è la sorgente di tutti i vizi, ella riduce al nulla la virtù. Ella è un vento ardente, dice la Scrittura, che disecca, che consuma ogni cosa. No, fratelli miei, non evvi più merito nelle azioni delle virtù le più eroiche, se l’orgoglio vi ha parte. Recitate lunghe preci, date tutti i vostri beni ai poveri, digiunate, mortificatevi con le più austere penitenze, affaticatevi quanto gli Apostoli alla salute degli uomini, soffrite quanto i martiri; se voi cercate in tutto questo di piacere agli uomini, di meritar la loro stima: se è la vanità che vi anima e non il desiderio di piacere a Dio, di glorificar Dio, voi non ne riceverete giammai ricompensa alcuna nel cielo. Vi si dirà, come ai farisei, che facevano lunghe preghiere, limosine abbondanti, che digiunavano in vista della gloria degli uomini: voi avete ricevuta la vostra ricompensa: receperunt mercedem suam (Matth. VI). La vostra superbia vi farà naufragar con tutte le vostre virtù ed i vostri meriti; e non arriverete al porto della salute. Qual disgrazia! Ma qual follia più tosto! Quale accecamento di tanto travagliarsi inutilmente, di faticare, e di consumarsi per correre dietro ad un fumo d’onore, ove sovente non si può giungere, o che si dissipa tosto che vi si giunge Mentre che cosa è la stima degli uomini, che voi ricercate nelle vostre azioni? Ella è un’ombra che svanisce. Oggi gli uomini vi lodano, domani vi biasimano. Non si deve dunque fare maggior conto dei loro sentimenti, che dei loro sogni, dice s. Gregorio Nazianzeno; essi s’ingannano sovente nei loro giudizi, stimano ciò che dovrebbero dispregiare, dispregiano ciò che dovrebbero stimare. Non bisogna dunque attaccarsi alla loro stima; ma non ricercare che quella di Dio, il quale sa fare il giusto discernimento della virtù: Quem Deus commendat, Me probatus est (2 Cor. X). Non siamo sicuri di avere la stima degli uomini, quando la ricerchiamo, ma lo siamo sempre di avere quella di Dio. Non ricercate che la sua gloria in tutte le cose, e troverete la vera e soda gloria per voi.
Pratiche. Per preservarsi ancora dal veleno della superbia, osservate la massima seguente. Il proprio della superbia è di stimar se stesso e dispregiar gli altri: fate tutto al contrario; non abbiate che del dispregio per voi medesimi, e della stima per gli altri. Per ciò fare, bisogna cangiar d’oggetto. Esaminate i vostri difetti per considerare le buone qualità del prossimo. La vista dei vostri difetti v’inspirerà del dispregio per voi medesimi, e le perfezioni degli altri ve li faranno stimare. – Ciascuno ha i suoi difetti e le sue buone qualità. Dio ha divisi i suoi doni in diverse maniere, dice s. Paolo: Divisiones gratiarum sunt (1 Cor. XII). Affinché l’uno non avendo ciò, che l’altro possiede, questi non possa innalzarsi su di quello. Non evvi alcuno, che sia perfetto, e che non possa riguardarsi inferiore ad un altro per quel che non ha. Se voi avete qualche talento, qualche virtù che altri non hanno, voi siete soggetti a mancamenti, cui non sono essi soggetti; hanno virtù e qualità, che voi non avete. Sono queste virtù che convien riguardare in essi per stimarle, giacché in questo vi sorpassano; voi troverete nei vostri difetti di che dispregiarvi e nelle loro virtù di che stimarli: se sono caduti in qualche mancamento, che voi non abbiate commesso, non dovete prevalervene, perché non avvi alcuno, dice s. Agostino, che non possa cadere nei medesimi traviamenti che un altro, se Dio l’abbandonasse a sé stesso; quell’ uomo, che voi dispregiate più, sarà forse un più gran santo che voi. Non vi gloriate di cosa alcuna, non vi vantate giammai dei vostri beni, né dei vostri talenti, della vostra origine, della nobiltà dei vostri congiunti, ancor meno delle vostre virtù. – Rimandatene tutta la gloria a Dio, senza il cui aiuto noi non siamo capaci, dice l’Apostolo, di pronunziar solamente il nome di Gesù. Il vostro motto il più frequente sia quello del medesimo Apostolo: Soli Deo honor, et gloria. Siate contenti che le vostre buone opere siano conosciute da Dio solo, giacché egli solo ne deve essere la ricompensa. Così sia.
Credo…
https://www.exsurgatdeus.org/2019/10/12/il-credo/
Offertorium
Orémus
Ps XXIV: 1-3
Ad te, Dómine, levávi ánimam meam: Deus meus, in te confído, non erubéscam: neque irrídeant me inimíci mei: étenim univérsi, qui te exspéctant, non confundéntur.
[A Te, o Signore, ho innalzata l’anima mia: o Dio mio, in Te confido, che io non abbia ad arrossire: che non mi irridano i miei nemici: poiché quanti a Te si affidano non saranno confusi.]
Secreta
Tibi, Dómine, sacrifícia dicáta reddántur: quæ sic ad honórem nóminis tui deferénda tribuísti, ut eadem remédia fíeri nostra præstáres.
[A Te, o Signore, siano consacrate queste oblazioni, che in questo modo volesti offerte ad onore del tuo nome, da giovare pure a nostro rimedio.]
https://www.exsurgatdeus.org/2019/10/20/comunione-spirituale/
Communio
Ps L: 21.
Acceptábis sacrificium justítiæ, oblatiónes et holocáusta, super altáre tuum, Dómine.
[Gradirai, o Signore, il sacrificio di giustizia, le oblazioni e gli olocausti sopra il tuo altare.]
Postcommunio
Orémus.
Quǽsumus, Dómine, Deus noster: ut, quos divínis reparáre non désinis sacraméntis, tuis non destítuas benígnus auxíliis.
[Ti preghiamo, o Signore Dio nostro: affinché benigno non privi dei tuoi aiuti coloro che non tralasci di rinnovare con divini sacramenti.]
https://www.exsurgatdeus.org/2019/10/20/preghiere-leonine-dopo-la-messa/
https://www.exsurgatdeus.org/2018/09/14/ringraziamento-dopo-la-comunione-2/
https://www.exsurgatdeus.org/2019/05/20/ordinario-della-messa/