L’IDEA RIPARATRICE (7)
[Traduzione del P. Giovanni Actis, S. J. dalla 25° edizione originale]
Torino-Roma Casa Editrice MARIETTI 1926
Imprimi potest.
P . ANTONIOS ARGANO S. I., Præp. Prov. Taur.
Visto: Nulla osta alla stampa.
Torino, 26 Maggio 1925.
Teol. Coll. ATTILIO VAUDAGNOTTI.
Imprimatur.
Can. FRANCESCO DUVINA, Prov. Gen.
PROPRIETÀ ARTISTICA LETTERARIA (2-xi-25-2M).
LIBRO III
Come riparare?
Tutti quanti i Cristiani sono tenuti alla riparazione, noi l’abbiamo visto fin qui: non tutti però debbono riparare allo stesso modo. Una madre di famiglia potrà essere una « riparatrice », ma non come lo dovrà essere una Suora Carmelitana. – I doveri dello Stato, l’attraimento della grazia divina, l’indirizzo di un buon direttore, sono tre fattori che concorrono a formare lo spirito e la pratica della riparazione in ciascuno di quelli che volonterosi si mettono sulla « Via Regale della Croce ». Premessa questa distinzione del tutto elementare, possiamo determinare due gradi nell’offerta di sé all’idea riparatrice, secondo la parte più o meno grande che si vorrà dare alla Croce nella propria vita. Noi l’abbiamo detto: l’elemento principale in questa materia non è altro che la generosità d’animo: tutti dovranno riparare con una vita ordinaria, i più generosi tenderanno invece ad una vita perfetta.
CAPO PRIMO
COME RIPARARE NELLA VITA CRISTIANA ORDINARIA.
Troppo spesso si crede che per darsi alla Riparazione sia necessario ritirarsi nel silenzio d’un chiostro e nelle austerità della vita monastica, e praticare gli esercizi più duri della penitenza cristiana. Questo è un errore. La Riparazione non consiste in un insieme di pratiche presentate con programma determinato, è piuttosto un indirizzo spirituale che facilmente si adatta alle varie condizioni di vita, supponendo però che questa sia sinceramente cristiana. Un indirizzo spirituale. Quindi prima di ogni altra cosa convien porre per base una chiara conoscenza e un intimo sentimento della verità di un Dio Crocifisso e Crocifisso per noi, ma che aspetta la nostra cooperazione, mentre intorno a noi v’hanno delle anime, e purtroppo sono in gran numero, che vanno perdute. Questa Conoscenza è di somma importanza: eppure quanti Cristiani ne sono totalmente privi! Or bene è appunto nel viver animati intimamente da queste due grandi idee che consiste l’indirizzo spirituale o se si vuole lo spirito di riparazione (Il Can. LEROUX di Bretagna dice molto bene: « La vita riparatrice non è per sé una forma speciale di vita cristiana, ma neppure si può dire che sia una vita comune, poiché non si trova purtroppo presso tutti i fedeli ». E la ragione si è che per l’una parte conviene sforzarsi a menare una vita veramente cristiana, il che è più raro di quanto si creda; e dall’altra parte « le attrattive che sente l’anima che pur cerca di santificarsi non sono sempre verso questo ideale particolare. Può provar desideri anche forti della santità in genere senza fissarsi esplicitamente nella pratica della riparazione ». “La vie reparatrice”). E questo ce spirito » manifesta subito le sue esigenze. Un’anima cristiana dominata dall’idea riparatrice comprende che prima di tutto essa dev’esser fedele alle promesse fatte nel S. Battesimo, ai comandamenti di Dio e della Chiesa, e non solo con una fedeltà trasandata come per lo più accade a molti, ma interamente, rigorosamente, senza scuse, senza transazioni, sia nella vita individuale che in quella sociale e famigliare. L’orizzonte si delinea fin dal principio nella sua vastità. Un romanziere americano prese come tema delle sue opere la seguente storia: Un pastore dovendo preparare il suo sermone scelse come testo: « Ecco la vostra vocazione. Gesù Cristo ha sofferto per voi, questo esempio dev’esser seguito da voi passo a passo fino alla perfezione ». Venuta la domenica egli recita il suo discorso dinanzi ad un uditorio mondano che l’ascolta colla solita attenzione. D’un tratto un vecchio mendicante entra precipitoso e grida: « Come non sentite voi vergogna? Voi che osate cantare: Gesù io presi la mia croce pesante E per seguirti tutto abbandonai? e poi vivete così come fate? ». Al termine della sua sfuriata egli cade morto. Impressione enorme tra gli uditori, anche maggior impressione nell’animo del Pastore. Venuta la domenica seguente egli propone alle sue pecorelle di fondare una lega in cui ciascun membro si obblighi a interrogare se stesso al cominciare di ogni azione: « Che farebbe Gesù se fosse qui in questo momento? ». Molti vi danno il loro nome: degli uomini politici, dei commercianti, dei giornalisti… e tosto in conseguenza della parola data s’accorgono di dover mutar completamente la loro vita. Il sig. E. Norman, direttore del Raymond Daily News, è uno dei segnatari: gli si presenta un lungo articolo sulle corse, tre colonne e mezza. Egli s’interroga: « Se Gesù Cristo avesse la responsabilità del giornale lascerebbe Egli uscire queste tre colonne di scritto così com’è…? …No ». E l’articolo è cestinato. E queste notizie politiche?… E gli annunzi di quarta pagina?… ». E il giornale muore. È questo un romanzo — e portato all’esagerazione; — però l’idea non è cattiva, tutt’altro. Quanta perfezione di vita cristiana si potrebbe facilmente avere se, come gli ascritti alla lega del romanzo americano, noi ci proponessimo di riflettere al cominciare delle nostre azioni: « Qui. a mio posto, in questa circostanza, che farebbe Gesù Cristo? ». E chi non vede che d’un tratto noi avremmo certamente una profonda mutazione nella condotta dei singoli individui, nelle relazioni tra i popoli, nella vita delle famiglie e della società? Studiando la questione, delicata insieme e importantissima ai nostri giorni, del ripopolamento della famiglia, materia in cui purtroppo molti Cristiani mancano ad un preciso loro dovere, un autore diede all’opera sua questo titolo : « La Francia ripopolata dai Cristiani praticanti », titolo con cui si formula tutto un programma mentre si esprime ancora unacondanna. – Come in siffatta materia così in tutte le altre di dominio della morale pubblica nulla si potrà « riparare » senza l’intervento efficace dei veri Cristiani: e ancora conviene che non vengano meno al loro compito ma siano Cristiani intrepidi, tutti d’un pezzo, come si esprimeva L. Veuillot, anche « sfrontati ». Le occasioni di praticar la propria fede fino al sacrifizio non mancano mai per le anime generose. Noi abbiamo già combattuta la tendenza che hanno molti Cristiani a farsi una Religione che non li disturbi troppo. Il Card. Manning scriveva: « Noi viviamo in tempi facili. Chi digiuna ancora ai nostri giorni? ». E vero che la Chiesa si mostra indulgente, tuttavia « riflettiamo che anche ai nostri giorni gli israeliti tre volte nell’anno non prendono cibo alcuno dal levare al tramontar del sole: amaro rimprovero per noi che siamo discepoli di Gesù Crocifisso ». Quali sofferenze non hanno dovuto sostenere durante l’ultima guerra certi nostri soldati, ad esempio quei fucilieri di marina dell’epopea di Dixmude, che dovettero rimanere coi piedi nell’acqua per ventisei giorni senz’altro nutrimento che qualche scatola di conserva? La causa che difendevano ne valeva certo la pena. Ma la causa di Gesù Cristo non è forse più nobile ancora? Perché noi vorremmo limitare i nostri sacrifizi? Intorno a noi che non si fa per seguire il mondo, per adattarsi alla moda del giorno! — E per le anime? — Per Gesù Cristo? Noi amiamo piuttosto i crocifissi di lusso, non troppo sofferenti, d’avorio su fondo vellutato. Lasciatecelo ripetere: non son quelli i « veri » crocifissi. I veri sono meno fini e sopra di essi non vi si sta troppo comodamente. Quando Eraclio poté ricuperare la Croce, rimasta per quattordici anni bottino di guerra nelle mani dei persiani di Cosroe, volle portarla egli stesso fino alla sommità del Calvario ed a questo fine rivestì gli abiti regali più sfarzosi, colle perle preziose e la sua corona da imperatore. « Non così, Maestà, gli disse il Vescovo di Gerusalemme, non così! C’è troppo contrasto tra il lusso del vostro abbigliamento e la povertà della Croce ». E l’imperatore cambiò il suo oro e le sue perle con un povero cilicio. La Croce del Salvatore è una croce che crocifigge. Infatti è una vera contraddizione quella che vediamo praticare da molti Cristiani, che pretendono seguire Gesù Cristo e poi mettono ogni cura per evitare le penitenze più semplici e più ordinarie imposte per legge dalla Chiesa. Scherzando il Cardinale Manning si rivolge ad essi: « Permettetemi ch’io vi domandi se voi stessi credete al vostro prossimo quando lo sentite dire che non può digiunare, fare le astinenze del venerdì, che queste cose nuocciono alla sua salute, ecc.? » E poi aggiunge: «Se io pervenissi a turbare qualche poco la vostra coscienza non ne proverei dispiacere, poiché io son convinto di vivere in un tempo in cui la mollezza dei costumi tende a far «comparire la dolce severità delle leggi ecclesiastiche ». – Così si vede che senza andar troppo lontano, col solo praticare la lettera — o almeno lo spirito — dei comandamenti di Dio, si presentano a mille a mille le occasioni di offrire al Signore dei sacrifizi ben meritorii per la riparazione. Accettiamo dunque per prima cosa le mortificazioni che ci vengono imposte dalla Chiesa e poi in secondo luogo quelle che ci si presentano nelle diverse circostanze della nostra vita. Anche queste abbondano: rovesci di fortuna, malattie, lutti, disgrazie, dispiaceri d’ogni sorta. La vita ne è colma e può esser paragonata ad una lira con sette corde, sei dedicate al dolore e una alla gioia. Bossuet comparava i minuti di vera felicità nella nostra vita a quei chiodi d’oro che adornano una porta; visti di lontano sembrano migliaia; strappateli, appena riempiono il cavo d’una mano. Le nostre gioie sono come le pietre di un torrente, instabili, e lontane l’una dall’altra, che se volete passarlo appena ponete il piede sopra l’una di esse, subito dovete saltare ad un’altra e così di seguito senza potervi arrestare. Ma tu chi se’ che sì se’ fatto brutto? domanda Dante (Inf. C. 8, v. 35) a un dannato mentre questi lo vede passare nella barca di Virgilio. Rispose: « Vedi che son un che piango ». « Uno che piange!». Ecco quella che può dirsi la definizione di ogni uomo quaggiù, specialmente in certi giorni. E allora come fa pena il vedere che non si sa trarre profitto da quelle lagrime che pur non si può non versare! Ciascuno di noi colla somma dei patimenti di cui è formata la vita, come con un capitale, avrebbe modo di guadagnare dei meriti immensi. E la maggior parte non ne fa nulla, non ci pensa: invece di utilizzare le proprie croci per il Cielo e per le anime, le sciupa, non ne ritrae nulla… peggio, ribellandosi, trova in esse un’occasione di nuovi peccati. Che si direbbe di un uomo che possedendo una fortuna in tutte monete d’oro, invece di portarle alla banca per la « ristorazione nazionale » le andasse gettando ad una ad una dall’alto di un ponte in un profondo abisso?… – Appena siam raggiunti da un qualche patimento la prima cosa che facciamo è per lo più il lamentarci, il prendercela con Dio: « Io vorrei, diceva Nostro Signore a S. Geltrude, che almeno i miei amici non mi giudicassero tanto crudele. Dovrebbero farmi l’onore di pensare che se talvolta li obbligo a servirmi con fatica, e quasi con loro sacrifizio, io lo faccio pel loro bene, anzi pel loro maggior bene. Io vorrei che invece di irritarsi contro i loro dolori, vedessero in essi uno strumento del mio amore di Padre… ». I Cristiani ferventi lo comprendono benissimo. Ai piedi del letto di morte di un loro figlio, giovane religioso, loro rapito da un morbo fulminante, il padre e la madre si scambiano le seguenti parole: « Vuoi che recitiamo il Te Deum? — Oh sì, di tutto Cuore! ». Ampère si era da poco sposato. La vita gli si affacciava tutta in festa: quand’ecco una malattia colpisce la sposa e minaccia di rapirgliela. Ampère, benché tutto immerso nella trepidazione, ha la forza di scrivere: «Mio Dio, io vi ringrazio… Io vedo che voi volete che io viva solo per voi, che tutti i miei istanti vi siano dedicati. Volete voi togliermi tutta la felicità che io posseggo quaggiù? Voi ne siete il padrone, o mio Dio! le mie colpe meritano bene questa punizione. Ma io spero che voi ascolterete ancora una volta la voce della vostra misericordia ». Qual meravigliosa forza può dare al povero cuore di un uomo una fede veramente profonda! – Una madre riceve la notizia che il figliuolo suo è ferito da un obice e spaventosamente mutilato, ma non ha perduto per nulla il suo coraggio eroico. Essa scrive di lui : « Egli soffre una vera passione in unione col nostro caro Gesù e fa meraviglia il veder questo mio figlio felice, crocifisso, steso sulla croce sanguinolente, rimanersene tranquillo e sorridente nel suo martirio di ogni momento… Io ringrazio il Signore… che l’ha messo a parte dei patimenti redentori del Calvario. Noi non possiamo comprendere, così afflitti come siamo, i misteri di misericordia che rimangono nascosti sotto queste prove, ma io credo che in cielo ci saranno svelate le ricchezze di queste sanguinose immolazioni e che intanto questi poveri feriti sono ben potenti presso Dio ». Il povero mutilato si preparava pel sacerdozio, quindi la madre continua: « Poco importa il modo con cui vien fatto il sacrifizio, purché il Signore prenda quanto Egli crede bene e ritragga dalla sua creatura quella gloria che gli è gradita… Se L . . . non potrà più essere sacerdote, sarà certamente Ostia e questo è l’Ufficio di Gesù Cristo: chi dunque potrà lamentarsi nel vedersi trattato come lo fu il Figlio di Dio? ». Poco tempo dopo anche il fratello del povero mutilato cade gloriosamente sul campo; e la madre, forte sempre, esce in questi accenti di rassegnazione: « Povera piccola vittima che si aggiunge a tante altre! Ci fu dato da Dio perché lo conducessimo al Cielo; egli vi è arrivato. Ringraziamo il Signore. Tuttavia per noi che abbiamo una fede ancora debole è cosa dolorosa ». Quante madri, quante sorelle, quante spose che per ragione della grande guerra sono ormai destinate ad essere altrettanto « dolorose »! Così tutte avessero il coraggio di trasformare il sacrifizio che venne loro « imposto » in sacrifizio « volontario » e dicessero al Signore: « Gesù, grazie per avermi associata in questo modo alla vostra Croce. Voi avete voluto il sangue di chi era come una parte di me stessa, voi volete le mie lagrime., io ve le offro tutte quante. Forse in me stessa non troverei la forza di dirvi: prendete… Ma ormai voi avete preso quanto avete voluto, io voglio almeno aver il coraggio di dirvi che voi avete fatto bene… che ho capito… che io mi rassegno… – Io non mi sento ancora di pronunziare l’Alleluja, mormorerò per ora sommessamente: Amen, così sia ». Parlando del proprio figliuolo, vittima come tanti altri nella gloriosa ma sanguinosa guerra, una persona diceva in confidenza ad una sua amica: « Voi lo sapete benissimo, già prima io l’avevo offerto al Signore, quindi al presente rimetto nelle mani sue il mio olocausto non soltanto accettando ma volendo quanto Egli ha disposto ». Si noti che le parole furono sottolineate dalla madre stessa. « II mio povero cuore, scrive una delle sì numerose e sì valorose nostre vedove di guerra, i l mio povero cuore che non può abituarsi alla solitudine prova un’ardente sete di darsi ancor più completamente a Dio, di offrirsi totalmente senza riserva ». — Sete avventurata, così il Divin Maestro la comunicasse questa sete ad un grande numero di anime. — Essa riconosce che « il suo amore era forse troppo umano, diventerà ora più sovrannaturale » . — Questo è appunto il desiderio del Signore, quello che forse Egli aveva di mira nel permettere la tribolazione. — Ed essa prega per « avere il grande coraggio di offrirsi sempre più al Signore ». – Le ammirabili suore che dirigono la Casa di salute di Villepinte hanno fondato fra le loro ammalate un’associazione detta « della riconoscenza ». Una delle ragazze esitava nel darvi il suo nome: « Io temo, diceva, di non saper dire grazie al Signore, quando io soffro ». per riuscire a trionfare di un siffatto timore, ecco un eccellente mezzo e molto pratico per tanti poveri cuori che sanguinano disorientati per gli ultimi avvenimenti: offrirsi a Dio in « ostia » di amore e di riparazione. « Questa è la più grande ricchezza dell’anima, diceva S. Giovanna Francesca dì Chantal, soffrire molto per amore ». I veri Cristiani non lo ignorano e lo mettono in pratica. « L’anima si può unire a Dio colla preghiera, come pure lo può fare col lavoro: ma il patimento accettato per piacere a Dio, il patimento offerto a Dio, il patimento diventato caro per amore di Dio unisce l’anima al suo Signore ben più intimamente. Un patimento simile è la migliore delle preghiere, è la più fruttuosa delle fatiche ». Son queste parole del P. Ramière, ed il P. Ponlevoy rincalza: « La più dolce consolazione di questa vita e la più grande fortuna dell’anima nostra è certamente quella li unirci a Gesù Cristo. Ma non si può negare che v’ha ancora di meglio: ed è di conformarci alla volontà di Dio e di esser confitti in croce insieme a Gesù Cristo, o, che è la stessa cosa, attaccati a Gesù Cristo per mezzo della sua Croce ». – È nota l’ammirabile « Preghiera di Pascal per il tempo delle infermità. » In essa, meglio che altrove, si manifesta l’intenzione di trarre grande profitto dalle malattie tanto penose e così facilmente riparatrici. « Non permettete, Signore, che io possa ricordare l’anima vostra contristata fino alla morte e il vostro corpo pesto dai flagelli e dissanguato per i miei peccati senza sentirmi contento di patir qualche cosa anch’io nel mio corpo e nella mia anima. Difatti che v’ha di più vergognoso e tuttavia anche più frequente nei Cristiani e in me stesso, che mentre voi agonizzate e trasudate sangue noi viviamo tra le delizie? Liberatemi, o Signore, dalla tristezza che l’amor sregolato di me stesso mi potrebbe suggerire… ma infondete nell’anima mia una tristezza conforme alla vostra. Che i miei patimenti servano a dissipare la vostra collera… Io non vi domando né sanità, né malattia, né vita, né morte: ma che voi disponiate della mia sanità e della mia infermità, della mia vita e della mia morte per vostra gloria, per mia salvezza eterna, e per l’utilità della Chiesa e dei vostri Santi ». Degne d’esser citate a fianco della Preghiera di Pascal riferiamo alcune frasi di un’anima che pur visse nel mondo e che aveva per divisa preferita « adoratrice, riparatrice e consolatrice » : « Mio Dio, diceva Elisabetta Leseur (dal suo diario), io sono e voglio esser sempre tutta vostra nella pena e nella gioia, nell’aridità e nella consolazione, nella sanità e nella malattia, nella vita e nella morte. Io non desidero che una cosa sola: che la vostra volontà sia fatta in me e per mezzo mio. Io non ho altra mira e sempre più desidero di non averne mai altra che questa: raggiungere la vostra maggior gloria corrispondendo il meglio che posso ai vostri disegni sopra di me. Io mi offro a voi in un’intima e completa immolazione e vi supplico di servirvi di me come di un vile ed inutile strumento in favore delle anime che vi sono care per vostro servizio ». Secondo il parere di tutti gli autori ascetici le « croci » che ci vengono imposte sono le migliori, « Le migliori croci sono le più pesanti, e sono più pesanti quelle che vanno contro il nostro gusto, quelle che non sono sottoposte al nostro arbitrio: le croci che incontriamo per via. e anche meglio quelle che troviamo in casa nostra… Queste sono più utili che i cilici, le discipline, i digiuni e quante altre austerità si possano inventare. Le croci che sono oggetto di nostra scelta hanno sempre alcun che di amabile e di gradito, perché in esse c’è del nostro, quindi sono meno atte a crocifiggerci. Umiliatevi dunque e ricevete con gaudio quelle croci che vi vengono imposte contro il vostro genio ». Abbiamo riconosciuto in queste parole S. Francesco di Sales. Dobbiamo dunque conchiudere, come per lo più si fa coi Cristiani ordinari, che le penitenze volontarie sono da lasciarsi esclusivamente ai religiosi ed ai claustrali? No, certamente. Ascoltiamo a questo proposito il Card. Manning il quale dopo aver raccomandato la fedeltà alle mortificazioni raccomandate per legge dalla Chiesa come il meno che siamo tenuti a fare, aggiunge: « Andrò più innanzi. V’ha ancora ai nostri tempi chi abbia il coraggio di condurre la vita dei santi? Noi ne leggiamo la vita e li ammiriamo: conosciamo le austerità con cui si affliggevano e la povertà in cui vivevano e ne facciamo oggetto delle nostre lodi, intanto però ci sentiamo i brividi nelle ossa. Che sappiamo noi fare? Quali sono le nostre penitenze? Dov’è per noi la livrea di Gesù Cristo?… Noi cerchiamo… che il mondo ci ponga nelle file di quelli che gli appartengono. E noi ci crediamo Cristiani!». Egli parlava ai suoi compatrioti, gli inglesi, grandi amatori, come tutti sanno, del « comfort »; ma il consiglio non è inopportuno anche al di qua della Manica. Quanti Cristiani in punto di morte non dovranno rivolgere a sé stessi quello stesso rimprovero che in tempo di Esercizi Spirituali e per umiltà Paolina Reynolds (Entrata in convento tra le Carmelitane di Avranches in età di 57 anni) faceva a se stessa: « Non trovo più modo di dilatare questo povero mio cuore destinato ad esser ricolmo di vita divina. Non c’è più tempo. Avrei potuto dispormi con una più fedele corrispondenza a riceverne centomila volte più nell’eternità e non l’ho voluto fare, lo non mi sono voluta disturbare che con “misura” ». Se invece di una fedeltà qualsiasi, d’una fedeltà « dosata abilmente » ci decidessimo ad esser generosi senza alcuna misura, quale cumulo di meriti noi non potremmo versare nel tesoro della Comunione dei santi! Ecco in quale maniera, secondo l’autore della Mission du Saint-Esprit dans les àmes (Card. Manning, p. 450)), noi dovremmo riparare: « Anzitutto colla nostra prontezza nel seguire le inspirazioni dello Spirito divino, poi con una fedeltà proporzionata alla sua grazia e nella stessa misura dei suoi doni e non già con un gesto gretto nascondendo sotterra il talento ricevuto: conviene farlo fruttificare e di mille talenti riprodurne diecimila… Finalmente bisognerebbe servirlo con grande purità di cuore, e con questo intendo due cose: non soltanto l’evitare tutto quanto potrebbe macchiare il nostro cuore, ma ancora il rinunziare a tutto quello che lo potrebbe dividere… ». Come si vede non manca modo di riparare: ma una cosa manca purtroppo! E queste sono le anime che diano mano a questi diversi modi, le anime che accettino di combattere non solo contro il peccato ma contro i minuti difetti; le anime che si consacrino risolute non già a pratiche straordinarie ma al perfetto compimento dei piccoli doveri per riparare. Noi spesso sogniamo imprese impossibili. « È invece nelle piccole cose che si rivela un grande amore; per le cose grandi siamo come portati e non ne sentiamo la difficoltà, ma per le ordinarie, le meschine, le noiose è necessaria una dimenticanza di sé che supera le forze comuni » (Vallery-Radot: Le vase d’albatre, nella Revue des Jeunes del 25 settembre 1917). Mgr. De Ségur diceva colla solita sua finezza e col suo buon senso: « La nostra santificazione è come un edifizio fatto di grani di sabbia e gocce d’acqua; un’occhiata repressa, una parola trattenuta, un sorriso interrotto, una linea incompiuta, un ricordo soffocato; una lettera cara percorsa rapidamente e poi riposta; un piccolo movimento naturale coraggiosamente frenato: un importuno, un noioso dolcemente sopportato: una scappata, un ghiribizzo immediatamente compresso: la privazione di una spesa inutile; una nube di tristezza dolcemente dissipata; una gioia naturale temperata con uno sguardo all’Ospite divino del proprio cuore; una ripugnanza vinta; che so io? cose da nulla, impercettibili all’occhio degli uomini ma ammirabilmente visibili allo sguardo interiore di Gesù Cristo; su queste cose fissiamo tutta la nostra attenzione, esse sono nello stesso tempo piccolissime e grandissime fedeltà che attirano sulle anime nostre veri torrenti di grazie… ». – Oh! i poveretti che siamo noi se queste minuzie di rinunzie bastano a misurare le nostre forze. Ma questo è un fatto e nessuno che abbia provato a praticare di cotali piccole immolazioni, potrà contradire all’osservazione che l’abate Perreyve deduce dall’esperienza: « Quando si è ancor fanciulli sembra cosa del tutto facile e naturale l’essere degli eroi o dei martiri. Ma coll’avanzarsi nella vita si viene a scoprire il prezzo d’un semplice atto di virtù e Dio solo può darci la forza di esercitarlo ». Siamo dunque i fedeli operai delle umili fatiche. Chi potrà dire se durante la guerra la salvezza di più d’uno, caduto nelle trincee o mentre marciava all’assalto non fu il frutto di una povera preghiera d’una umile vecchierella che offriva i suoi dolori pel nipote lontano? Chi sa dove va a colpire durante la mischia la palla tirata dal più umile fantaccino? E non si dica: « Con che cosa e come riparare? Io sono sì miserabile; io non posso che dire col Profeta : A, a, a et nescio locui, io non posso che dare un gemito inarticolato e confessare la mia impotenza. Che potessero riparare i Santi, si comprende., ma io? ». — Voi il potete fare, così quale voi siete, colla vostra fedeltà, compensando per le vostre miserie e facendo un’opera di giustizia. Voi potete fare ancor più: per le vostre miserie lasciate fare al Signore, e i vostri meriti offriteli a Lui per compensare le colpe e i peccati altrui. Noi presi da soli per la riparazione nulla possiamo, è verissimo; ma insieme colla grazia di Dio, che non manca agli umili e ai volonterosi, siamo una forza, siamo un valore più grande di quello che possiamo immaginarci. Gesù Cristo quando tolse la fame ai cinque mila uomini nel deserto, di che si volle servire? Di soli cinque pani e due pesci. Anche allora i mezzi furono per se stessi insufficienti al fine. Per finire di convincerci di questa verità ascoltiamo ancora una « professionista » della Riparazione (Simona Denniel: Une ame réparatrice, p. 75): « Per fare un’ostia il Signore non volle servirsi dell’oro, dell’argento o di pietre preziose, ma di un misero pezzetto di pane, cosa del tutto volgare e di nessun valore ». Chi si faceva coraggio in questa maniera dimostrava pure la sua umiltà, ma per noi le sue parole sono principalmente una verità sicura che deve infonderci lena e coraggio nel praticare la riparazione.
https://www.exsurgatdeus.org/2020/08/12/lidea-riparatrice-8/