R. P. CHAUTARD D. G. B .
L’ANIMA DELL’APOSTOLATO (7)
TRADUZIONE del Sac. GIULIO ALBERA, S. D. B.
8a EDIZIONE
SOCIETÀ EDITRICE INTERNAZIONALE TORINO MILANO GENOVA PADOVA PARMA ROMA NAPOLI BARI CATANIA PALERMO
VISTO: Nulla osta alla stampa.
Torino: 22 giugno 1922.
Can. CARLO FRANCO – Rev. Arciv.
VISTO: Imprimatur.
C. FRANCESCO DUVINA – Provic. gen.
PARTE TERZA
“ La vita attiva, pericolosa senza la vita interiore, con questa assicura il progresso nella virtù.”
3.
La vita interiore base della santità dell’operaio apostolico
Siccome la santità non è altro che la vita interiore spinta fino alla strettissima unione della volontà con quella di Dio, ordinariamente, eccetto un miracolo della grazia, l’anima arriva a questo termine soltanto dopo di essere passata, con molti e penosi sforzi, per tutti i gradi della vita purgativa e illuminativa. Notiamo che è legge della vita spirituale, che nel corso della santificazione l’azione di Dio e quella dell’anima seguano un cammino inverso: le operazioni di Dio prendono di giorno in giorno una parte più importante, e l’anima agisce sempre di meno. Altra è l’azione di Dio nei perfetti, altra nei principianti: meno apparente in questi, essa provoca soprattutto e mantiene in loro la vigilanza e la supplica, offrendo loro anche il mezzo di ottenere la grazia per nuovi sforzi; nei perfetti invece Dio opera in modo più completo e talora esige soltanto un semplice consenso che unisce l’anima alla sua azione divina. – Il principiante, come anche il tiepido e il peccatore che Dio vuole avvicinare a sé, si sentono da principio portati a cercare Dio, poi a mostrargli sempre di più il loro desiderio di piacergli, finalmente a rallegrarsi di tutte le occasioni provvidenziali che loro permettono di detronizzare l’amor proprio per stabilire al suo posto il solo regno di Gesù Cristo. In tal caso l’azione divina si limita solo ad incitamenti e ad aiuti. Nei santi, quest’azione è assai più potente e più intera. In mezzo alle fatiche e ai patimenti, abbeverato di umiliazioni oppure oppresso dalla malattia, il santo, per così dire, non ha da fare altro che abbandonarsi all’azione divina, altrimenti sarebbe incapace di sopportare le agonie che, secondo i disegni di Dio, devono compiere la sua maturazione; in lui si avvera pienamente il testo: Deus subiecit sibi omnia, ut sit Deus omnia in omnibus (Dio sottomise a sé tutte le cose, affinché Dio sia tutto in tutte le cose – 1 Cor. XV, 28). Egli vive talmente di Gesù, che sembra vivere soltanto per mezzo di lui, come di se stesso affermava san Paolo: Vivo autem iam non ego; vivit vero in me Christus (Io vivo; ma non sono più io che vivo, è il Cristo che vive In me – Gal. II, 20). Soltanto lo spirito di Gesù è quello che pensa, che decide e che opera. Certo questa divinizzazione non possiede ancora l’intensità che avrà nella gloria, però questo stato riflette già i caratteri dell’unione beatifica. Non occorre dire che la cosa è ben diversa nel principiante, nel tiepido e anche nel semplice fervoroso. Al loro stato si adatta una serie di mezzi che del resto possono servire egualmente tanto all’uno che all’altro; ma il principiante, come un apprendista, stenterà molto, progredirà lentamente e in complesso farà un lavoro mediocre; il fervente invece, come abile operaio, farà presto e bene, e con poca difficoltà progredirà di più. Ma di qualunque categoria di apostoli si tratti, le intenzioni della Provvidenza a loro riguardo restano inalterabili. Dio vuole che sempre e per tutti le opere siano un mezzo di santificazione; ma mentre l’apostolato, per l’anima arrivata alla santità, non porta nessun pericolo serio, non esaurisce le sue forze e le offre molte occasioni di crescere in virtù e in meriti, abbiamo veduto con quanta facilità esso produce l’anemia spirituale, e perciò il regresso nella perfezione, nelle persone unite debolmente a Dio, nelle quali sono troppo poco sviluppati il gusto dell’orazione, lo spirito di sacrificio e soprattutto l’abitudine di custodire il cuore. Tale abitudine Dio non la nega mai a una preghiera assidua e alle ripetute prove di fedeltà; Egli la dà abbondantemente all’anima generosa che, ricominciando continuamente, a poco a poco ha trasformato le sue facoltà e le ha rese docili alle ispirazioni del Cielo e capaci di accettare allegramente contraddizioni e disdette, perdite e delusioni. Vediamo ora, da sei caratteri generali, come questa vita interiore, infiltrandosi in un’anima, la stabilisca nella vera virtù.
a) La premunisce contro i pericoli del ministero esteriore
Difficilius est bene conversari cum cura animarum propter exteriora pericula (È più difficile vivere bene quando si ha cura d’anime, per causa dei pericoli estemi (S. TOMM., 2a 2æ, q. 184, a. 8). Già abbiamo parlato di questi pericoli, nel capo precedente. Mentre l’operaio evangelico sprovvisto di spirito interiore ignora i pericoli che nascono nell’azione, e si trova così come un viaggiatore che attraversa senz’armi una foresta infestata dai briganti, l’apostolo vero li teme e ogni giorno prende le sue precauzioni contro di essi con un serio esame di coscienza, il quale gli rivela i suoi punti deboli. Se la vita interiore non desse altro vantaggio che quello di conoscere un pericolo continuo, già contribuirebbe assai a proteggere dalle sorprese della strada, perché un pericolo previsto è già mezzo evitato; ma ben maggiore è la sua utilità. Essa è per l’uomo di azione una completa armatura: Induite armaturam Dei, ut possitìs stare adversus insidias diaboli (Eph. VI, 11-17), armatura divina che gli permette non solo di resistere alla tentazione e di evitare le insidie del demonio: ut possitis resistere in die malo, ma anche di santificare tutte le sue azioni: et in omnibus perfecti stare. – Essa lo cinge con la purità d’intenzione la quale concentra in Dio i pensieri, i desideri, gli affetti, e gl’impedisce di traviarsi nella ricerca delle comodità,dei piaceri e delle distrazioni: Succincti lumbos vestros in veritate. – Essa lo riveste con la corazza della carità la quale gli dà un coraggio virile e lo difende contro le seduzioni della creatura e dello spirito mondano, come pure contro gli assalti del demonio: induti loricam iustitiæ. – Lo calza con la discrezione e con la riservatezza, affinché in tutti i suoi passi egli sappia unire la semplicità della colomba con la prudenza del serpente: calceati pedes in præparatione Evangelii. Il demonio e il mondo cercheranno d’illudere la sua intelligenza con i sofismi delle false dottrine, di snervare la sua energia adescandolo con massime rilassate; ma a tali menzogne la vita interiore oppone lo scudo della fede che fa risplendere agli occhi dell’anima lo splendore dell’ideale divino: in omnibus sumentes scutum fidei in quo possitis omnia téla nequissimi ignea extinguere. La conoscenza del proprio nulla, la sollecitudine per la propria salvezza, la convinzione di non potere nulla senza l’aiuto della grazia, e perciò la preghiera assidua, supplichevole e frequente, tanto più efficace quanto è più fiduciosa, sono per l’anima un elmo di bronzo contro il quale si spunteranno i colpi dell’orgoglio: galeam salutis assumite. – Così armato da capo a piedi, l’apostolo può dedicarsi senza timore all’azione, e il suo zelo infiammato dalla meditazione del Vangelo, fortificato dal Pane eucaristico, diventa una spada che gli serve ad un tempo per combattere i nemici dell’anima sua e per conquistare una moltitudine di anime a Gesù Cristo: gladium spiritus quod est verbum Dei.
b) Rinvigorisce le forze dell’apostolo
Come abbiamo detto, solamente il santo, in mezzo alle preoccupazioni degli affari e nonostante un abituale contatto con il mondo, sa custodire il suo spirito interiore edirigere sempre i suoi pensieri e le sue intenzioni verso Dio solo. In lui ogni dispendio di attività esteriore è così soprannaturale e infiammato di carità, che non solo non ne diminuisce le forze, ma gli dà necessariamente un aumento di grazia. Nelle altre persone, anche fervorose, dopo un tempo più o meno lungo dedicato alle occupazioni esteriori, la vita soprannaturale sembra che subisca qualche perdita; troppo preoccupate del bene da fare al prossimo, troppo assorbite da una compassione non abbastanza soprannaturale, per le miserie da sollevare, il loro cuore imperfetto sembra che innalzi verso Dio delle fiamme meno pure, oscurate dal fumo di molte imperfezioni. – Dio non castiga tale debolezza con una diminuzione della sua grazia e non si mostra rigoroso contro tali deficienze, purché vi siano stati sforzi seri di vigilanza e di preghiera durante l’azione, e l’anima si disponga, compiuto il suo lavoro, a ritornare vicino a Lui per riposarsi e per riprendere forza. Questo continuo ricominciare causato dall’intreccio della vita attiva con la vita interiore, rallegra il suo cuore paterno. Del resto, in coloro che lottano, tali imperfezioni diventano sempre meno profonde e meno frequenti di mano in mano che l’anima impara a ricorrere senza stancarsi a Gesù che essa trova sempre pronto a dirle: Ritorna a me, povero cervo ansante e assetato per il lungo cammino, vieni a trovare nelle acque vive il segreto di una nuova agilità per nuove corse; ritirati un momento dalla moltitudine la quale non ti può dare l’alimento di cui abbisognano le tue stanche forze: Venite scor-sum et requiescite pusillum (Venite In disparte in un luogo deserto e riposate un poco – MARC. VI, 31).). Nella calma, nella pace che gusterai vicino a me, non solo tu ritroverai ben presto il tuo vigore di prima, ma troverai anche i mezzi di fare di più, stancandoti di meno. Elia, accasciato e scoraggiato, si vide ravvivare le energie da un pane misterioso: così, o mio apostolo, nel compito invidiabile di mio corredentore che io ti assegnai, ti offro il mezzo, con la mia parola che è vita e con la mia grazia, cioè col mio Sangue, di rivolgere nuovamente la tua anima verso gli orizzonti eterni, di rinnovare nel tuo cuore e nel mio un patto d’intimità. Vieni, io ti consolerò delle tristezze e delle delusioni del tuo viaggio, e nel fuoco del mio amore tu ritemprerai l’acciaio delle tue risoluzioni: Venite ad me omnes qui laboratis et onerati estis et ego reficiam vos (Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi e io vi ristorerò – MATT. XI, 28).
c) Moltiplica le sue forze e i suoi meriti
Tu ergo, fili mi, confortare in gratia (Tu dunque, figlio mio, rafforzati nella grazia – Tim. II, 1). La grazia è una partecipazione alla vita dell’Uomo-Dio. La creatura possiede una certa misura di forza e in qualche senso si può anche qualificare e definire una forza; ma Gesù è la Forza per essenza: in Lui risiede la Forza del Padre, l’Onnipotenza dell’azione divina, e il suo Spirito si chiama Spirito di Forza. O Gesù – esclama san Gregorio Nazianzeno – in Voi solo risiede tutta la mia forza. Fuori di Gesù Cristo, dice san Gerolamo, io non sono altro che impotenza. – Il Dottore Serafico nel 4° libro del suo Compendìum Theologiæ, enumera i cinque caratteri principali che riveste in noi la forza di Gesù: il primo è d’intraprendere cose difficili e di affrontare risolutamente gli ostacoli: Viriliter agite et confortetur cor vestrum (Operate da forti e il vostro cuore si conforti – SALMO XXX). – Il secondo è il disprezzo delle cose della terra: Omnia detrimentum feci et arbitror ut stercora (Fil. III, 8). – Il terzo è la pazienza nelle tribolazioni: Fortis ut more dilectio (Cant. VIII, 6). Il quarto è la resistenza alle tentazioni: Tamquam leo rugiens circuit… cui resistite fortes in fide (1 Piet. V, 8-9). Il quinto è il martirio interiore, la testimonianza non del sangue, ma della vita stessa che grida a Gesù: Voglio essere tutta vostra. Esso consiste nel combattere le concupiscenze, nel domare i vizi e nel lavorare energicamente per l’acquisto delle virtù: Bonum certamen certavi (Ho combattuto la buona battaglia – 2 Tim. IV, 7). Mentre l’uomo esteriore fa assegnamento sulle sue forze naturali, l’uomo interiore invece vede in esse soltanto degli aiuti utili sì, ma insufficienti. Il sentimento della sua debolezza e la sua fede nella potenza di Dio danno a lui, come a san Paolo, la misura esatta della sua forza. Alla vista degli ostacoli che gli si parano dinanzi, egli con umile fierezza esclama: Cum enim infirmar, tunc potens sum (Perché quando sono debole, allora sono forte – II Cor. XII, 10). Senza la vita interiore, dice san Pio X, le forze non basteranno a sopportare con perseveranza le noie che porta seco ogni apostolato, la freddezza e lo scarso aiuto degli stessi buoni, le calunnie dei nemici, talora anche la gelosia degli amici e dei compagni di armi… Soltanto una virtù paziente, radicata nel bene e in pari tempo soave e delicata, può evitare o diminuire tali difficoltà (Enc. Ai Vescovi d’Italia, 11 giugno, 1905). – Per mezzo della vita di orazione, simile al succo che dalla vite scorre nei tralci, la forza divina scende nell’apostolo per fortificarne l’intelligenza, radicandolo sempre più nella fede. Egli progredisce perché questa virtù illumina con luce più viva la sua via; egli si avanza risoluto, perché sa dove andare e in che modo deve raggiungere la sua meta. Insieme con questa luce, egli riceve tale energia soprannaturale di volontà, che anche il carattere debole e volubile diventa capace di azioni eroiche. In tal modo il Manete in me (Rimanete in me – Giov. XV, 4), l’unione con l’Immutabile, con colui che è il Leone di Giuda e il Pane dei forti, spiega la meraviglia dell’invincibile costanza e della fermezza cosi perfetta che nell’ammirabile apostolo che fu san Francesco di Sales, si univano a una dolcezza e ad un’umiltà senza pari. Lo spirito e la volontà si fortificano per mezzo della vita interiore, perché ne è fortificato l’amore. Gesù lo purifica, lo dirige, lo accresce progressivamente, lo fa partecipe dei sentimenti di compassione, di generosità, di abnegazione e di disinteresse del suo Cuore adorabile. Se questo amore cresce fino a diventare passione, allora porta fino al massimo sviluppo e adopera a suo profitto tutte le forze naturali e soprannaturali dell’uomo. – È facile giudicare ora l’aumento di meriti che risulta dalle energie moltiplicate dalla vita di orazione, se non dimentichiamo che il merito non consiste tanto nella difficoltà che vi può essere nel compiere un atto, quanto piuttosto dall’intensità della carità che si porta nel compierlo.
d) Gli dà gioia e consolazione
Soltanto un amore ardente e incrollabile può essere come il sole di una vita, perché l’amore possiede il segreto di dilatare il cuore anche in mezzo ai gravi dolori e alle fatiche opprimenti. La vita dell’uomo apostolico è un intreccio di patimenti e di fatiche; se egli non ha la convinzione di essere amato da Gesù, quante ore tristi, inquiete e scure per lui, anche se il suo carattere è allegro, eccetto che il cacciatore infernale non gli faccia luccicare lo specchietto delle consolazioni umane e dei buoni risultati apparenti, per meglio attirare l’ingenua allodola nelle sue reti inestricabili. Soltanto l’Uomo-Dio può strappare all’anima quel grido sovrumano: Superabundo gaudio in omni tribulatione nostra (II Cor. VII, 4). In mezzo alle mie prove interne, dice l’apostolo, la parte superiore del mio essere, come quella di Gesù al Getsemani, gode di una felicità che non ha nulla di sensibile, senza dubbio, ma è di tale realtà che, nonostante l’agonia della parte inferiore, non la muterei certamente con tutte le gioie umane. – Viene la prova, la contraddizione, l’umiliazione, il dolore, la perdita dei beni, anche quella delle persone care, e l’anima accetterà tutte queste croci con disposizioni ben diverse da quelle che aveva al principio della sua conversione. Di giorno in giorno essa cresce nella carità. Il suo amore potrà essere senza splendore, il Maestro la potrà trattare da anima forte, conducendola per le vie di un annientamento sempre più profondo o per l’arduo sentiero dell’espiazione per lei o per il mondo, poco importa! Favorito dal raccoglimento, alimentato dall’Eucaristia, l’amore continua a crescere, e la prova ne è quella generosità con cui l’anima si sacrifica e si abbandona; quello slancio che la spinge a correre, senza badare alla pena, alla ricerca delle anime verso le quali si esercita il suo apostolato con una pazienza, con una prudenza, con un tatto, con una compassione e con un ardore che spiega la penetrazione della vita di Gesù in lei: Vivit vero in me Christus. Il sacramento dell’amore dev’essere il sacramento della gioia: l’anima non può essere interiore se non è eucaristica e se non gusta a fondo il dono di Dio, se non gode della presenza, se non gusta la dolcezza dell’Essere amato che essa possiede e adora. La vita dell’uomo apostolico è una vita di preghiera. «La vita di preghiera, dice il santo Curato d’Ars, è la grande felicità di quaggiù. Oh! bella vita! bella unione dell’anima con Gesù! L’eternità non può bastare per comprendere tale felicita… La vita interiore è un bagno di amore in cui l’anima s’immerge… Essa è come affogata dall’amore… Dio tiene l’anima interiore, come la madre tiene la testa del suo bimbo nella sua mano, per coprirla di baci e di carezze ». – È pure un alimento della gioia il contribuire a far servire e a far onorare l’oggetto del proprio amore. L’uomo apostolico conosce tutte queste felicità. Mentre si serve dell’azione per accrescere il suo amore, egli sente nel tempo stesso crescere la sua gioia e la sua consolazione. Venator animarum, egli ha la gioia di contribuire a salvare anime che si sarebbero perdute, e perciò ha la gioia di consolare Dio dandogli cuori che sarebbero stati per sempre separati da Lui, la gioia insomma di sapere che procura a se stesso una delle più salde assicurazioni del progresso nel bene e della gloria eterna.
e) Raffina la sua purità d’intenzione
L’uomo di fede giudica l’azione ben diversamente da chi vive solo di vita esteriore: egli ne scorge non tanto l’aspetto apparente quanto piuttosto la parte che ha nel disegno di Dio e i suoi risultati soprannaturali. Perciò, considerando se stesso come un semplice strumento, conserva in sé l’orrore di ogni compiacenza nella sua capacità, perché fonda la speranza della sua riuscita sulla persuasione della sua impotenza e sulla confidenza in Dio solo. Così egli si fonda nello stato di abbandono. In mezzo alle difficoltà, quanta differenza tra il suo atteggiamento e quello dell’uomo apostolico che non conosce l’intimità con Gesù! Questo abbandono del resto non diminuisce per nulla il suo ardore per l’opera intrapresa. Egli agisce come se la buona riuscita dipendesse unicamente dalla sua attività, ma in realtà egli l’attende soltanto da Dio (S. Ignazio). Egli non prova nessuna pena nel subordinare tutti i suoi progetti e le sue speranze ai disegni incomprensibili di quel Dio che spesso, per il bene delle anime, si serve dei rovesci meglio che dei trionfi. Da ciò risulta in quest’anima uno stato di santa indifferenza così per l’insuccesso come per la buona riuscita. Essa è sempre pronta a dire: O mio Dio, Voi non volete che l’opera incominciata si compia; a Voi non piace che io mi limiti ad agire generosamente ma sempre in pace, a sforzarmi per raggiungere lo scopo prefisso, ma lasciando a Voi solo la cura di decidere se la riuscita vi procurerà maggior gloria che non l’atto di virtù che una disdetta mi darebbe occasione di fare. Sia mille volte benedetta la vostra santa e adorabile volontà e, con l’aiuto della vostra grazia, possa io calpestare i più piccoli sintomi di vana compiacenza quando Voi benedite i miei disegni, come pure umiliarmi e adorarvi quando la vostra Provvidenza crederà bene di distruggere il frutto delle mie fatiche. A dire il vero, il cuore dell’apostolo sanguina quando vede le tribolazioni della Chiesa, ma non vi è nulla di comune tra il suo modo di soffrire e quello dell’uomo che non è animato da uno spirito soprannaturale. Ne è prova il contegno e l’attività febbrile di questo, quando sopraggiungono le difficoltà, le sue impazienze e il suo abbattimento, la sua disperazione e talora il suo annientamento dinanzi a rovine irreparabili. Il vero apostolo invece si giova di tutto, dei trionfi e dei rovesci, per accrescere la sua speranza e per dilatare la sua anima nell’abbandono fiducioso nella Provvidenza. Non vi è particolarità del suo apostolato, la quale non diventi soggetto di un atto di fede; non vi è momento del suo lavoro perseverante, che non gli dia occasione di dare prova di carità, perché con l’esercizio della custodia del cuore egli arriva a compiere ogni cosa con una purità d’intenzione sempre più perfetta e, con l’abbandono, a rendere il suo ministero sempre più impersonale. – In tal modo ciascuna delle sue azioni riveste sempre di più i caratteri della santità, e il suo amore delle anime, prima mescolato con molte imperfezioni, purificandosi sempre più, finisce con non vedere più le anime se non in Gesù, con non amarle più se non in Gesù, e cosi per mezzo di Gesù le genera a Dio: Filioli mei, quos iterum parturio donec firmetur Christus in vobis (Figliuolini miei, 1 quali io porto nuovamente in seno fino a tanto che sia formato in voi Cristo – Gal. IV, 19).
f.) È uno scudo contro lo scoraggiamento
L’apostolo che non comprende quale dev’essere l’anima del suo apostolato, non comprende questa frase di Bossuet: Quando Dio vuole che un’opera sia tutta di sua mano, riduce ogni cosa all’impotenza e al nulla, e poi agisce. Nessuna cosa ferisce tanto Dio, quanto l’orgoglio. Ora nella ricerca della buona riuscita, noi possiamo, per mancanza di purità d’intenzione, arrivare al punto di erigerci a divinità, a principio e fine delle nostre opere. Dio abbomina tale idolatria; perciò quando vede che l’apostolo manca di quella impersonalità che la sua gloria esige dalla creatura, lascia talvolta libero il campo alle cause seconde, e l’edificio non tarda a crollare. L’operaio, attivo, intelligente, generoso, si è messo all’opera con tutto il suo ardore; egli ha forse conosciuto i trionfi della buona riuscita, ne ha goduto e se n’è compiaciuto: era l’opera sua! la sua! Vorrebbe quasi far sue quelle parole famose: Veni, vidi, vici. Ma attendiamo un momento; un caso permesso da Dio; un’azione diretta di satana o del mondo vengono a colpire l’opera o la persona stessa dell’apostolo, e allora tutto va in rovina! Ma più deplorevole ancora è la rovina interiore, frutto dello tristezza e dello scoraggiamento di quel valoroso di ieri: quanto più esuberante era la gioia, tanto più profondo è lo scoraggiamento. Soltanto il Signore potrebbe rialzare quelle rovine: «Alzati, egli dice allo scoraggiato, invece di operare da solo riprendi il tuo lavoro con me, per mezzo di me e in me». Ma questa voce il disgraziato non la intende più; egli è così travolto dalla vita esteriore, che per intenderla ci vorrebbe un vero miracolo della grazia che egli non si può aspettare, per causa delle sue molte infedeltà. Soltanto una vaga convinzione della Potenza di Dio e della sua Provvidenza aleggia Sopra la desolazione di quello sventurato e non può bastare a dissipare la tristezza che lo inonda. Che spettacolo diverso nel vero sacerdote il cui ideale è di riprodurre in sé Gesù Cristo! Per lui la preghiera e la santità di vita rimangono i due grandi mezzi di azione sul cuore di Dio e sul cuore degli uomini. Egli si è sacrificato generosamente; ma il miraggio del trionfo gli è sembrato una prospettiva indegna di un vero apostolo. Arrivano le burrasche: poco importa quali siano le cause seconde che le hanno prodotte. In mezzo alle rovine, poiché egli ha lavorato soltanto con Gesù Cristo, ode in fondo al cuore ripetersi quello stesso Noli timere che durante la tempesta rendeva la pace e la sicurezza ai discepoli tremanti. Il primo risultato della prova è un nuovo slancio verso l’Eucaristia e un rinnovamento di intima divozione a Maria Addolorata. La sua anima, invece di lasciarsi schiacciare dal rovescio, esce ringiovanita di sotto il torchio: « sicut aquilæ iuventus renovabitur » (La tua giovinezza sarà rinnovata come quella dell’aquila – Ps. CII). Di dove gli viene quell’atteggiamento di umile trionfatore in mezzo alla sconfitta? Non bisogna cercarne il segreto altrove che in quella unione con Gesù e in quella fiducia incrollabile nella sua onnipotenza, che facevano dire a sant’Ignazio: Se la Compagnia venisse soppressa senza mia colpa, un quarto d’ora di colloquio con Dio mi basterebbe per ricuperare la calma e la pace. « Il cuore delle anime interiori è in mezzo alle umiliazioni e ai patimenti come uno scoglio in mezzo al mare » (Il CURATO D’ARS. — La maggior parte degli uomini di azione sono essi capaci di fare propri i sentimenti che il generale de Sonis esprime in questa bella preghiera riferita dall’autore della sua Vita?). Certamente l’apostolo soffre: la perdita di parecchie sue pecorelle sarà forse la conseguenza di ciò che ha reso inutili i suoi sforzi e che ha distrutto l’opera sua. Per questo vero pastore è una tristezza amara, ma che non può frenare l’ardore che lo spingerà a ricominciare da capo. Egli sa che la redenzione, applicata anche a un’anima sola, è un’opera grande che si compie soprattutto col dolore. La certezza che le prove sopportate generosamente aumentano i suoi progressi nella virtù e procurano a Dio una gloria maggiore, basta a sostenerlo. Egli poi sa che spesso Dio vuole da lui soltanto i germi della buona riuscita: altri verranno a raccogliere messi abbondanti e forse crederanno di potersene attribuire il merito; ma il Cielo saprà discernerne la causa nel lavoro ingrato e in apparenza sterile che le precedette. Misi vos metere quod non laborastis; alii laboraverunt et vos in labores eorum introistis (Vi ho mandati a mietere ciò che non avete lavorato; altri lavorarono e voi siete entrati nei loro lavori – Giov. IV, 38). Gesù Cristo, autore dei trionfi degli Apostoli dopo la Pentecoste, durante la sua vita pubblica volle soltanto lasciare dei germi, delle lezioni, degli esempi, e prediceva ai suoi Apostoli che loro sarebbe dato di fare opere più grandi che le sue: Opera quæ ego facio et ipse faciet et malora horum faciet (Giov. XIV, 12). Il vero apostolo scoraggiarsi! lasciarsi impressionare dai discorsi dei pusillanimi condannarsi al riposo dopo le disdette! Ma questo sarebbe non capire la sua vita intima e la sua fede in Gesù Cristo! Ape infaticabile, egli va allegramente a ricostruire i favi nell’alveare devastato.
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