Paolo SEGNERI S. J.:
L’INCREDULO SENZA SCUSA
Tipogr. e libr. Salesiana, TORINO, 1884
PARTE SECONDA
CAPO III.
Da quali contrassegni debba distinguersi la vera Religione dalle bugiarde.
I. Veggiamo sorte al mondo più religioni. Tutte per loro padre vantano Dio, mentre è certissimo che una solamente può essere a Lui figliuola: L’altre gli son tutte ribelli. Come faremo noi dunque a ravvisare quest’unica fortunata dalla vil turba dell’altre? Miriamole tutte in viso, ma fissamente. E quella che vedremo all’Altissimo più conforme, quella sia la nata da Lui.
II. Ora a noi Dio risplende singolarmente per l’aggregato di quei tre famosi attributi, potenza, sapienza e bontà, che come sono il meglio di quanto può concepirsi da mente umana (Hugo de s. Vict. 1. 2. de sacr. p. 3. c. 19), così giustamente son da noi presi di mira, in più di queste nostre dimostrazioni, per desiderio di colpire nel segno. Quella fede adunque la quale in sé più chiaramente possegga questi tre pregi, dovrà più giustamente venire riconosciuta qual parto nobile del gran Padre de’ lumi: dacché, come Egli non può in sé ricettare verun errore, così né anche può tramandarlo fuori di sé. A questi tre capi ridurremo frattanto per brevità tutti i vari segni che ci distinguono la vera religione dalle fallaci. Riconosceremo il suo divino potere nella forza de’ miracoli, nella fortezza de’ martiri, e in quant’altro a ciò si appartiene di segnalato. Riconosceremo il suo divino sapere nella dottrina celeste da lei recataci, dottrina tutta opposta a quella che insegnano le altre sette, che è sì obbrobriosa. E riconosceremo la sua divina bontà nella virtù che professano i suoi seguaci, e virtù provata qual invitto diamante sotto ad ogni martello, benché implacabile.
III. Rimane solo il premettere un’avvertenza di gran rilievo, ed è, che quanto sarebbe gran fallo in un matematico l’appagarsi nelle sue dimostrazioni di un’evidenza morale, tanto sarebbe in un morale aspirare a quell’evidenza che chiamasi matematica. Come diverse son le materie di cui si tratta, così diversi sono anche i generi delle pruove. Satis de re dictum est, ubi explicabitur quantum rei feri materia, dice il filosofo (Arist. eth. 1. 1. metaph. 1.1. cult.). Certitudo mathematica non in omnibus rebus quærenda est (Eppoi forsechè la matematica è essa sola il tipo della scienza vera e perfetta,io non lo credo: reputo anzi in contrario, che la certezza matematica, anziché assoluta e sovranamente perfetta, è ipotetica, perchéposata su certe definizioni e concetti propedeutici accolti senza previa discussione, e per di più non va scevra di oscurità, come ne fanno fede le contese dei matematici stessi intorno a certe definizioni ed alla natura delle quantità infinitesimali!). La fede è richiesta da Dio negli uomini come ossequio, come obbedienza. Adunque non doveva ella portarsi con dichiarazioni tanto sensibili agl’intelletti, anche pertinaci, che non fosse merito il credere. Doveva il credere essere un tributo giusto, ma volontario, da noi renduto alla prima verità di buon grado. Però in esso ha Dio mescolato talmente il chiaro col fosco, che i fedeli avessero qualche motivo di dubitare, qualor audaci volessero ribellarsi a ciò che insegna la chiesa, e gl’infedeli n’avesser infiniti ad arrendersi, qualor attenti volessero darvi mente: e così giustamente poi si rendesse, l’ultimo giorno alla credenza il suo guiderdone, e giustamente alla incredulità il suo supplizio: Qui crediderit, salvus erit: qui vero non crediderit, condemnabitur(Marc. XVI. 16). Tale fa appunto il sentimento di Ugone da s. Vittore. Quia fideles semper habent locum unde dubitare possunt, et infideles unde credere valent, ìuste et fidelibus prò fide datur præmium, et infidelibus prò infidelitate supplicium.
IV. Quindi avviene, non dover noi fondar la credenza nostra su quelle ragioni umane che ci dimostrano, la nostra fede esser vera. Dobbiamo fondarla sulla veracità infallibile di quel Dio, da cui ci fu rivelata si bella fede. Sulle ragioni umane abbiamo a fondare quel giudizio prudente e pratico il qual ci detta, esserpiù che credibile, aver Dio fatta una tale rivelazione. – Testimonia tua credibilia facta sunt nimis (Ps. XCII. 5). Giudizio che può alterarsi in chi non ripensi più alle dette ragioni, o ripensandovi, voglia cavillarle e combatterle con sofismi non sussistenti: ma non può alterarsi in chi tra sé le consideri a ciel sereno.
V. Però, com’è follia riputare per buona una religione, per questo solo, perché si bevve col latte; cosi è gran fallo alzare nella sua mente un tribunale sofistico che non voglia in materia di religione passare per legittima altra prova che l’evidenza, non soggetta a contrasto. Convien sospettare, dov’è ragionevole sospettare, e convien saper sicurarsi, dove è ragionevole sicurarsi. Altrimenti tanto sarà contra ragione il credere tutto, quanto il dubitare di tutto. Il vedere di notte, non è virtù dell’occhio umano, è fiacchezza. Così è fiacchezza il presumere di vedere ciò che dee credersi. Basti a noi l’avere per marchio della vera fede un aggregato di testimonianze vivissime, tali e tante, che tutte insieme (come da principio si disse) non si congiungono in alcuna fede non vera. Sicché l’avere a quell’unica conceduti Dio quei gran segni particolari di verità, è un argomento infallibile, che gli è accetta anche unicamente, e che unicamente vien da lui proposta a’ mortali, perché l’abbraccino. Chi richiede il vantaggio per sottomettere la sua mente orgogliosa, o cerca una religione la qual non abbia misteri eccedenti i sensi, e per conseguente professisi senza fede; o per lo meno la cerca per una via che non ha mai fine, qual è l’esaminare ad uno ad uno tutti gli articoli che egli crede, e così chiarirsene: certo di non pervenire mai per tal via al termine della quiete da lui bramata ma d’aggirarsi di dubbio in dubbio, di disputa in disputa, senza mai concludere nulla, spendendo però nel ricercare il vero culto divino tutta quella vita che da Dio gli fu conceduta ad esercitarlo. Facciasi ciò che mai piace. Il credere, perché sia credere, ha da esser volontario: e però chi crede ha sempre, se egli vuole, a poter non credere: Multa potest facere homo nolens, dice s. Agostino, credere autem non potest, nisi volens (Tract. 56 in Ioan.). Posto ciò, chiunque si accorge di avere in capo un cervello altero, conviene che contentisi di abbassarlo; non ricordarsi che l’ingegno, come il mercurio, sublimato è veleno, precipitato è rimedio.
VI. Datemi uno spirito ragionevole, che non si ritiri a bello studio dal vero, ma gli esca incontro, e che, ritrovatolo, non trapassi di là dal segno per impeto concepito nel contraddire, come trapassa di là dal segno un dondolo per l’impeto concepito nell’incontrarlo; ed io gli farò vedere in faccia alla Religione Cattolica raggi così splendenti, che sarà costretto ad abbassar le palpebre, ed a confessare: Questa è la dottrina che merita unicamente d’esser creduta, mentre dall’Onnipotente vien confermata con suggelli di note così cospicue, che se ella fosse bugiarda converrebbe dir, che Dio stesso ci avesse indotti di suo consiglio in errore.
VII. E ciò meravigliosamente potrà giovare ai fedeli ed agli infedeli: ai fedeli per infervorarli di vantaggio nella risoluzione di credere questa dottrina celeste: essendo le prove della sua credibilità somiglianti ad un cammino acceso, a cui la fede, che è cieca, è vero che non vede, ma si riscalda: e agl’infedeli, per disporgli a domare l’orgoglio del loro spirito; dacché la sola umiltà è quella che fa la strada alla fede di Cristo. In mansuetudine suscipite insitum, verbum, quod potest salvare animus vestras (Iac. 1. 21). Questa parola innestata che ha da salvarci, è qualsisia verità soprannaturale: verità che dalla ragion naturale, pianta selvaggia, non si può apprendere, salvo che per innesto. Ora a tanto ci vuole mansuetudine d’intelletto: altrimenti l’innesto non terrà mai: Esto mansuetus ad audiendum Verbum Dei, ut intelligas (Eccli. V. 13). Ma questo medesimo non vi toglie ogni scusa? Se il Signore, affine di darvi ad intendere bene la sua parola, vi addimandasse ingegno altissimo, spiritoso, svegliato, potreste rispondergli, che la natura non vi fu cortese di tanto. Ma egli non vuole altro da voi, che docilità. E questa è vero che viene assai da natura, ma più viene ancor da virtù (S.Th. 2. 2. q. 49. art. 5. ad 3).