DOMENICA III dopo l’EPIFANIA

Incipit
In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus
Ps XCVI:7-8
Adoráte Deum, omnes Angeli ejus: audívit, et lætáta est Sion: et exsultavérunt fíliæ Judae. [Adorate Dio, voi tutti Angeli suoi: Sion ha udito e se ne è rallegrata: ed hanno esultato le figlie di Giuda]
Ps XCVI:1
Dóminus regnávit, exsúltet terra: læténtur ínsulæ multæ.
[Il Signore regna, esulti la terra: si rallegrino le molte genti.]

Adoráte Deum, omnes Angeli ejus: audívit, et lætáta est Sion: et exsultavérunt fíliæ Judae. [Adorate Dio, voi tutti Angeli suoi: Sion ha udito e se ne è rallegrata: ed hanno esultato le figlie di Giuda]

Oratio
Orémus.
Omnípotens sempitérne Deus, infirmitatem nostram propítius réspice: atque, ad protegéndum nos, déxteram tuæ majestátis exténde.
[Onnipotente e sempiterno Iddio, volgi pietoso lo sguardo alla nostra debolezza, e a nostra protezione stendi il braccio della tua potenza].

Lectio
Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Romános.
Rom XII:16-21
Fratres: Nolíte esse prudéntes apud vosmetípsos: nulli malum pro malo reddéntes: providéntes bona non tantum coram Deo, sed étiam coram ómnibus homínibus. Si fíeri potest, quod ex vobis est, cum ómnibus homínibus pacem habéntes: Non vosmetípsos defendéntes, caríssimi, sed date locum iræ. Scriptum est enim: Mihi vindícta: ego retríbuam, dicit Dóminus. Sed si esuríerit inimícus tuus, ciba illum: si sitit, potum da illi: hoc enim fáciens, carbónes ignis cóngeres super caput ejus. Noli vinci a malo, sed vince in bono malum.

Omelia I

[Mons. Bonomelli: Saggio di omelie, vol. I, Om. XV, Torino, 1899]

“Non riputate voi stessi sapienti: non rendete male per male a chicchessia: procurate il bene non solo innanzi a Dio, ma anche innanzi a tutti gli uomini. Se è possibile, quanto è da voi, siate in pace con tutti. Non vi vendicate da voi, o carissimi, ma date luogo all’ira, perché sta scritto: “A me la vendetta; renderò io la retribuzione, dice il Signore. Se dunque il tuo nemico ha fame, dagli da mangiare: se ha sete, dagli da bere; facendo così, radunerai carboni accesi sul suo capo. Non ti lasciar vincere dal male, ma col bene vinci il male „

Queste stupende sentenze dell’apostolo Paolo sono la continuazione di quelle che udiste nella penultima Omelia, come quelle erano la continuazione dell’altra penultima. La Chiesa nella epistola di queste tre Domeniche dopo la Epifania ci ha messo sotto gli occhi da meditare l’intero capo XII della lettera ai Romani, vero e sublime compendio della dottrina morale del Vangelo. – Io penso che raccogliendo e ordinando insieme tutto ciò che di bello e perfetto dissero sparsamente nei loro volumi tutti i filosofi di Grecia e di Roma intorno ai doveri morali degli uomini, non avremmo la decima parte delle verità morali che S. Paolo ha condensate in questo solo capo. Quanta differenza tra l’insegnamento incerto, diffuso, manchevole, misto ad errori e senza autorità di quelli, e l’insegnamento preciso, breve, compiuto, scevro d’ogni ombra ed autorevole di S. Paolo! È questa dell’Apostolo una pagina che, anche sola, meditata a dovere, ci fa sentire e conoscere quale abisso corra tra la dottrina morale dei sommi sapienti del paganesimo e quella di Gesù Cristo. Ma veniamo al commento. – “Non reputate voi stessi sapienti: non rendete male per male a chicchessia. „ Una delle cause più frequenti e più gravi delle nostre colpe e, dirò anche, dei nostri malanni domestici e pubblici, è la soverchia fiducia che riponiamo nella nostra abilità e nelle nostre forze: essa ingenera la presunzione, l’avventatezza nel parlare e nell’operare e l’imprudenza con tutti i suoi effetti. Perciò S. Paolo grida ai suoi figli spirituali: “Non reputate voi stessi sapienti; „ non appoggiatevi soverchiamente a voi stessi, ma rivolgetevi per lumi ad altri più savi di voi e soprattutto appoggiatevi a Dio, da cui viene ogni lume. “Non rendete male per male a chicchessia: „ è una sentenza, che l’Apostolo, nella foga del dire, ha cacciata qui, ma, che tosto ritorna sotto la sua penna e che svolge più ampiamente, onde è bene rimetterla ai versetti seguenti. – “Curate il bene non solo innanzi a Dio. ma anche innanzi a tutti gli uomini. „ Queste parole l’Apostolo le piglia dal libro dei Proverbi capo III, vers. 4, e qui si vogliono spiegare alquanto diffusamente. Noi dobbiamo sempre fare il bene: ma talvolta può avvenire che quello che è bene in sé e dinanzi a Dio, non lo sia egualmente dinanzi agli uomini che giudicano dalle apparenze, od anche secondo le loro passioni od inclinazioni; e noi allora adoperiamoci a raddrizzare i loro giudizi e mostriamo che ciò che facciamo è veramente bene e avremo tolto lo scandalo. Queste parole possono anche intendersi in altro modo e forse migliore: Dio vede la nostra mente, il nostro cuore e la nostra intenzione, e gli uomini vedono e conoscono soltanto le nostre opere e le nostre parole. Ebbene: vediamo di fare ogni cosa, internamente ed esternamente, dinanzi a Dio e dinanzi agli uomini, in modo da piacere a Dio ed agli uomini stessi. Anzi tutto dobbiamo fare il bene dinanzi a Dio. Come? avendo sempre un fine retto, quello di adempire il nostro dovere, di ubbidire a Dio, di procurare la sua gloria, il bene dei prossimi, e scacciando qualsiasi altro fine men degno del cristiano, come sarebbe la vanità, il capriccio, l’interesse e andate dicendo. Nel fine specialmente sta la bontà delle opere nostre e questo Dio solo lo vede. Dobbiamo fare il bene anche dinanzi agli uomini, cioè in guisa che non sia offesa la carità, che non sia male interpretato, che giovi, se è possibile, a tutti e tutti ne ricevano edificazione. – “Se è possibile, quanto è da voi, siate in pace con tutti. „ Vuole l’Apostolo che abbiamo pace con tutti, quella pace che Gesù Cristo portò sulla terra e tante volte raccomandò ai suoi Apostoli; ma vi mette due condizioni, che sono naturali. La pace è desiderabile e dobbiamo procurarla con ogni studio, ma salvi sempre i diritti della verità e della giustizia. Se gli uomini per accordarci la pace ci domandano il sacrificio della verità e della giustizia, noi dobbiamo rinunciare alla pace e rassegnarci alla lotta, sia quanto si vuole lunga e crudele. Era in questo senso che Gesù Cristo diceva d’essere venuto a portare, non la pace, ma la spada, ossia la guerra, e questa verità accenna l’Apostolo allorché dice: “Se è possibile, siate in pace con tutti. „ Vi è un’altra condizione ed anche questa non infrequente. Noi possiamo volere, desiderare e procurare, la pace, ma gli altri per animo malvagio, possono ricusarla: in tal caso la pace non è possibile. Allora che dobbiamo fare? Che si richiede da noi? Si richiede e basta, che noi dal canto nostro siamo sempre disposti a fare e mantenere la pace, il che S. Paolo ha espresso chiaramente in quelle parole: ” Quanto è da voi. „ Che altri non voglia la pace o la turbi, è male, ma tal sia di loro; ne risponderanno a Dio; ma voi vogliatela sempre e dal lato vostro non la turbate mai. Seguiamo l’Apostolo nelle magnifiche sue lezioni morali. ” Non vi vendicate da voi, o carissimi. „ Gli altri, cosi in sentenza S. Paolo, potranno turbare la pace, offendervi, manomettere i vostri diritti, farvi ingiustamente ogni male. Che farete voi? Potrete voi da voi stessi rendervi giustizia e vendicarvi dei vostri nemici ed oppressori? No, no, grida il grande Apostolo: ciò non è lecito, non è da cristiano, e nemmeno da uomo. “Date luogo all’ira, „ insegna S. Paolo. E che vuol dire dar luogo all’ira ? Se altri vi odia e rompe in ira con voi e vi copre d’ingiurie, voi tacete pazientemente; lasciate che l’ira sua, a guisa di torrente o di nembo impetuoso passi e si dilegui: l’opporvi potrebbe accrescerne il danno, e bisogna ricordarci che una parola benigna e mansueta ammorza l’ira e che un vento procelloso atterra l’albero che sta ritto e resiste, ma non la molle erbetta che si piega e cede. Oh! quante discordie, quante querele, quante risse sarebbero impedite in casa, per le vie, dovunque, se noi dessimo luogo all’ira, frenassimo la lingua ed al fratello che sbuffa d’ira e getta fuoco dagli occhi opponessimo il silenzio tranquillo e senza fiele! Ricordate sempre le parole di S. Paolo: “Date luogo all’ira. „ “Non vi vendicate da voi. „ Se ciascuno volesse vendicarsi da sé per le offese ricevute, che ne avverrebbe? Manifestamente la società intera andrebbe sossopra, anzi sarebbe distrutta. – Se tu vuoi farti giustizia da te stesso, qualunque altro uomo avrebbe egual diritto, e perciò ogni uomo sarebbe giudice e vindice delle offese che ha ricevute, o crede di aver ricevute, e troppe volte il diritto soccomberebbe alla forza e si scambierebbe con la violenza. Dunque non spetta mai all’individuo fare la vendetta per le offese ricevute. A chi spetta? A Dio, solo a Dio, che rende giustizia quaggiù per mezzo della autorità costituita, che mantiene l’ordine e turbato lo ristora, che può e deve rendere a ciascuno secondo le opere sue. – Non occorre il dirlo: in queste parole di S. Paolo: “Non vi vendicate da voi, „ son vietate non solo tutte le vendette private, ma il duello, del quale sì spesso udite parlare e che in sostanza è una vendetta, che uno si prende da se stesso. Uno è offeso in un modo qualunque e sfida a duello l’offensore e scendono sul terreno per decidere con le armi alla mano le loro ragioni, accompagnati dai medici e da quelli che si dicono padrini o testimoni. Nulla di più irragionevole, o cari, di questi duelli, che si osa chiamare partite d’onore, necessità sociali. Tu sei stato offeso ingiustamente? Eccoti il tribunale, eccoti i giudici, e se meglio ti piace, gli arbitri. A loro esponi i tuoi diritti offesi ed essi ti faranno ragione. Ma tu esigi la riparazione con le armi in pugno. Ma così facendo tu rimetti alla forza il giudizio del diritto. Si può fare ingiuria maggiore al buon senso, alla ragione naturale quanto con l’appellare, non alla ragione stessa, alla legge, ma alla forza e talvolta al caso? Quante volte chi aveva ragione nel duello ebbe la peggio ed alla offesa ricevuta aggiunse il danno delle ferite ed anche della morte e la vergogna di soccombere! Qual differenza tra due villani o facchini,, che offesi a vicenda nell’impeto dell’ira si scagliano addosso, si pestano a pugni o danno di piglio ai coltelli, si feriscono od uccidono? Nessuna, anzi, se v’è differenza, essa sta tutta a danno dei duellanti, perché generalmente più istruiti; e perché si battono a sangue freddo ed in modi determinati e con armi scelte e perciò il loro delitto è più inescusabile. E mettono innanzi l’onore offeso! L’onore si ripara col giudizio di uomini competenti, con la sentenza dei giudici, non mai con l’uso delle armi e con l’offesa fatta alle leggi ed all’onore. Il duello, tenetelo ben fermo, o cari, è cosa indegna di uomini ragionevoli, di buoni cittadini, è un avanzo di barbarie, è il diritto della forza, è il giudizio del caso e tutti i sofismi del mondo non varranno mai a giustificarlo. È un delitto nel senso più volgare della parola. – Alla autorità, che è posta da Dio e lo rappresenta sulla terra, sottomettiamoci, come a Dio stesso. Che se ella non può o non vuole renderci giustizia, leviamo gli occhi in alto, a lui che è il Giudice infallibile, al quale nessuno può sfuggire e che ha detto: “A me la vendetta; io renderò la retribuzione. „ Rimettiamo la nostra causa a Dio; Egli, a suo tempo, punirà i nostri offensori e darà loro la mercede secondo le opere loro. Se noi volessimo fare la vendetta per conto nostro, usurperemmo il diritto, che spetta a Dio solo. Ponete che un padre abbia molti figliuoli e che questi vengano a litigio tra di loro e che l’uno se la pigli con l’altro, lo offenda e lo percuota malamente sotto gli occhi del padre suo. Voi che direste? Certamente voi lo condannereste anche nel caso che avesse ragione contro del fratello, e gli direste: “Tu hai il padre tuo, tuo giudice naturale: a lui devi rimettere ogni giudizio: la vendetta che ti prendi da te stesso è una offesa gravissima al diritto paterno, è una brutta usurpazione d’una autorità che non hai. ,, Noi tutti siamo figli del Padre nostro, che è nei cieli: siamo dunque fratelli: che l’uno dunque non si levi mai contro dell’altro, e ne lasci il giudizio a quelli che Iddio ha posto sulla terra a reggere gli uomini e, se questi vengono meno, ne lasci il giudizio a Dio stesso, a cui tutti dovranno rendere ragione delle opere loro. E tu che devi fare intanto col tuo offensore, col tuo nemico? Guardarlo di mal occhio? Serbargli odio in cuore? Fuggirlo come un nemico? Udite, udite, o cari, l’insegnamento di S. Paolo: ” Se il tuo nemico ha fame, dagli a mangiare: se ha sete, dagli a bere. „ È l’insegnamento stesso di Cristo, in altre parole: ” Amate i vostri nemici, diceva Gesù Cristo nel Vangelo (Matt. V, 44), benedite coloro che vi maledicono, fate bene a coloro che vi odiano, pregate per quelli che vi fanno torto e vi perseguitano. „ La carità non può poggiare a maggiore altezza. “Così facendo, prosegue l’Apostolo, tu radunerai carboni accesi sul suo capo. „ Come ciò? Amando chi ti odia, beneficando chi ti perseguita e fa danno, tu lo costringerai a smettere il suo odio, lo forzerai ad amarti, vincendolo a forza di benefici. ” Radunerai, così commenta S. Girolamo, radunerai carboni accesi sul capo di lui, non già a sua maledizione e condanna, come pensano alcuni, ma a sua correzione ed a suo ravvedimento, sinché vinto dai beneficii e conquistato dalla carità, cessi dall’esserti nemico. „ ” Non ti lasciar vincere dal male, è la conclusione di S. Paolo, ma col bene vinci il male. „ Che vuol dire, fa bene a chi ti fa male, e sarà questa la più bella e la più gloriosa delle tue vittorie. – Sono piene le storie ecclesiastiche e le biografie dei Santi di esempi luminosi di tanta carità e non sono rari nemmeno al giorno d’oggi in quelle anime, nelle quali la dottrina di Gesù Cristo non è una semplice professione di fede, ma operosa realtà. Ho conosciuto un negoziante, sorto dal nulla, ottimo marito e padre eccellente di numerosa famiglia: era un cristiano modello. I suoi negozi prosperavano a meraviglia. Se ne rodeva d’invidia un suo vicino, pur esso negoziante: ne parlava male, gettava sospetti sulla sua onestà e spargeva voci sinistre sul suo conto in modo da cagionargli non solo grave dispiacere, ma non lieve danno, scemandogli il credito. Il pio cristiano soffriva e taceva, né mai rifiutava il saluto al suo vicino invidioso e maledico. Gli affari di questo precipitarono: impotente a pagare certe grosse cambiali, il disastro era imminente ed inevitabile. Lo seppe la vittima innocente della sua invidia e della sua maldicenza: senza farne motto a persona corse dai creditori, pagò i debiti dell’emulo suo e suo nemico e lo salvò dalla catastrofe, limitandosi a fargli tenere in bel modo le cambiali soddisfatte. – L’infelice salvato stupì a tanta generosità, pianse, corse dal suo benefattore, gli gettò le braccia al collo, gli chiese perdono e narrò a tutti l’eroica virtù di lui. Ecco, o dilettissimi, un uomo che raduna sul capo del suo nemico carboni accesi e col bene vince il male.

Graduale
Ps CI:16-17
Timébunt gentes nomen tuum, Dómine, et omnes reges terræ glóriam tuam.
[Le genti temeranno il tuo nome, o Signore: tutti i re della terra la tua gloria.]

V. Quóniam ædificávit Dóminus Sion, et vidébitur in majestáte sua [V. Poiché il Signore ha edificato Sion: e si è mostrato nella sua potenza. Allelúia, allelúia.]
Alleluja

Allelúja, allelúja.
Ps 96:1
Dóminus regnávit, exsúltet terra: læténtur ínsulæ multæ.
Allelúja. [Il Signore regna, esulti la terra: si rallegrino le molte genti. Allelúia].

Evangelium
Sequéntia sancti Evangélii secúndum Matthaeum.
Matt VIII:1-13
In illo témpore: Cum descendísset Jesus de monte, secútæ sunt eum turbæ multæ: et ecce, leprósus véniens adorábat eum, dicens: Dómine, si vis, potes me mundáre.
Et exténdens Jesus manum, tétigit eum, dicens: Volo. Mundáre. Et conféstim mundáta est lepra ejus. Et ait illi Jesus: Vide, némini díxeris: sed vade, osténde te sacerdóti, et offer munus, quod præcépit Móyses, in testimónium illis. Cum autem introísset Caphárnaum, accéssit ad eum centúrio, rogans eum et dicens: Dómine, puer meus jacet in domo paralýticus, et male torquetur. Et ait illi Jesus: Ego véniam, et curábo eum. Et respóndens centúrio, ait: Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur puer meus. Nam et ego homo sum sub potestáte constitútus, habens sub me mílites, et dico huic: Vade, et vadit; et alii: Veni, et venit; et servo meo: Fac hoc, et facit. Audiens autem Jesus, mirátus est, et sequéntibus se dixit: Amen, dico vobis, non inveni tantam fidem in Israël. Dico autem vobis, quod multi ab Oriénte et Occidénte vénient, et recúmbent cum Abraham et Isaac et Jacob in regno coelórum: fílii autem regni ejiciéntur in ténebras exterióres: ibi erit fletus et stridor déntium. Et dixit Jesus centurióni: Vade et, sicut credidísti, fiat tibi. Et sanátus est puer in illa hora.

[In quel tempo: Essendo Gesù disceso dal monte, lo seguirono molte turbe: ed ecco un lebbroso che, accostatosi, lo adorava, dicendo: “Signore, se vuoi, puoi mondarmi”. Gesù, stesa la mano, lo toccò, dicendo: “Lo voglio. Sii Mondato”. E tosto la sua lebbra fu guarita. E Gesù gli disse: “Guarda di non dirlo ad alcuno: ma va, mòstrati ai sacerdoti, e offri quanto prescritto da Mosè, onde serva a loro di testimonianza”. Entrato poi in Cafàrnao, andò a trovarlo un centurione, raccomandandosi e dicendo: “Signore, il mio servo giace in casa, paralitico, ed è malamente tormentato”. E Gesù gli rispose: “Verrò, e lo guarirò”. E il centurione disse: “Signore, non son degno che tu entri sotto il mio tetto, ma di’ solo una parola e il mio servo sarà guarito. Perché anch’io, sebbene soggetto ad altri, ho sotto di me dei soldati, e dico a uno: va, ed egli va; e all’altro: vieni, ed egli viene; e al mio servo: fa’ questo, ed egli lo fa”. Gesù, udite queste parole, ne restò ammirato, e a coloro che lo seguivano, disse: “Non ho trovato fede così grande in Israele. Vi dico perciò che molti verranno da Oriente e da Occidente e siederanno con Abramo, Isacco e Giacobbe nel regno dei cieli, ma i figli del regno saranno gettati nelle tenebre esteriori: ove sarà pianto e stridore di denti”. Allora Gesù disse al centurione: “Va, e ti sia fatto come hai creduto”. E in quel momento il servo fu guarito.]

OMELIA II

 [Del canonico G. B. Musso – Seconda edizione napoletana, Vol. I -1851-]

Volontà di salvarsi

Un povero lebbroso andava in cerca di Gesù Nazzareno, spinto dal desiderio di ricuperare la perduta sanità. Quando opportunamente lo vede discendere dal declive d’un monte, seguitato da numerosa turba, e fattosi a Lui incontro, proteso a terra profondamente L’adora. Indi alzato il capo, le mani e la voce, “Signore, Gli dice, se Voi volete, io son guarito, il potere non manca: basta un atto di vostra volontà; “Domine, si vis, potus me mundare”. In vista di tanta umiliazione, di tanta fede, stende la mano il pietoso Signore, e “tu, gli risponde, mi chiedi se voglio mondarti, e ciò è appunto che voglio. Orsù resta mondo”, “volo mundare”. E così avvenne sull’istante. “Vattene, soggiunse poi, presentati al sacerdote, ed offerisci al Tempio quel che da Dio vien prescritto nella legge di Mose”. Fin qui un tratto dell’odierno Vangelo, in cui due cose naturalmente si presentano alla nostra riflessione; cioè la volontà del lebbroso in cercar la sua guarigione, e in procurarsela con i modi più moventi ed efficaci, e la volontà dei divin Redentore, manifestata con quell’imperioso “volo”, e compiuta coll’istantaneo prodigioso risanamento di quell’infelice. Da ciò dobbiamo apprendere, uditori miei, che per conseguire la nostra eterna salvezza, sono necessarie due volontà: quella di Dio, e la nostra. Quella di Dio è sempre pronta, la nostra sovente manca. Sono questi i due riflessi, che meritano tutta la nostra applicazione. La volontà di Dio è sempre disposta e pronta a salvarci. Dio vuole che tutti si salvino, “vult omnes homines salvos fieri” (ad Tim. II, 4). Di questa sua volontà ci ha Egli dato prove? Infinite! Noi eravamo per l’originale peccato, figli d’ira, vasi di riprovazione, e secondo la frase di S. Agostino, una “massa dannata”. Dio Padre, mosso a pietà di noi, diede il proprio Figlio riparatore dei nostri mali, e vittima dei nostri falli; ed Egli discese dal cielo per liberarci dalle catene del peccato, e dalla schiavitù del demonio. “Propter nos homines, et propter nostram salutem descendit de cœlis” (Symb. Nic.). Osservate pertanto quel Dio fatto uomo nella capanna di Bettelemme, quelle lacrime che sparge sono sparse per lavarci dalla lebbra immonda delle nostre colpe; quel sangue che versa fin dai primi giorni nella sua circoncisione, è il balsamo per le nostre ferite. – OsservateLo in Gerusalemme nella Galilea, nella Palestina, ove ammaestra i discepoli, istruisce i popoli, catechizza le turbe, e ovunque sparge con la sua predicazione i semi dell’Evangelica sua dottrina, e con gli stupendi prodigi i lampi della divinità, che in Lui si asconde. E tutto ciò a fine di farsi conoscere per nostro liberatore, maestro e guida; onde seguendo le sue pedate, arriviamo per istrada sicura all’esenta salute. OsservateLo finalmente nell’orto dei suoi languori sudante sangue, nel pretorio da ogni parte grondante sangue, sul Calvario dalle piaghe e dal cuor trafitto versante sangue fino all’ultima stilla, e poi dite, di questo suo sangue Gesù Cristo ha formato un bagno salutare per lavarci dalla macchia dell’originale peccato; ed a riparo dell’innocenza perduta ha aperto un altro bagno dello stesso suo sangue nel Sacramento della penitenza, Battesimo secondo, seconda tavola dopo il naufragio. Che vi pare di queste prove? doveva forse far di più per dimostrarci la volontà che ha della nostra salvezza? – Poco forse vi muovono le indicate prove, perché universali, estese a tutto il genere umano? Seguite ad ascoltarmi. Siete voi nel numero degl’innocenti, o de’ penitenti, o dei peccatori? Se siete innocente, ditemi: “chi vi conservò illibata la candida stola della battesimale innocenza?” Chi vi ha liberato dai tanti pericoli del mondo e della carne? È Dio, che vi fece sortire un’anima buona, un’indole inclinata al bene, un’ottima educazione cristiana; è desso che con le sante ispirazioni, con i lumi della sua fede, con gli aiuti della sua grazia regolò i vostri passi, i vostri affetti, le vostre azioni. Desso è che vi ha tenuto lontano da tante occasioni nelle quali avrebbe fatto naufragio la vostra innocenza. Desso è finalmente che, in mezzo ai lacci e agli scandali d’un secolo così pervertito, vi ha difeso come un giglio fra le spine, come Lot fra le abominazioni di Sodoma: dunque Dio vi vuol salvo! Siete penitente? Or bene chi fu il primo a richiamarvi dalla via di perdizione? chi v’ispirò di tornare ai suoi piedi? chi vi diede forza a risolvervi? Chi vi diede grazia di vomitare il veleno dei vostri peccati ai piedi del confessore? Chi medicò le vostre ferite? Gesù, Samaritano pietoso, col vino della sua sapienza, con l’olio della sua misericordia! Egli vi accolse al suo seno come un altro fìgliuol prodigo, vi diede un bacio di pace, e vi rivestì della stola prima, cioè della grazia santificante. Dunque Dio vi vuol salvo! Se poi siete peccatore non ancor ravveduto, ditemi da chi vengono quelle interne voci che vi chiamano a penitenza? Da chi sono eccitati i rimorsi, che v’inquietano nelle vegliate notti, che vi amareggiano nei tediosi giorni, che vi avvelenano gli stessi vostri piaceri, che vi fan toccar con mano che il peccato non può farvi contento? Dalla divina misericordia partono questi colpi, la quale vi vola d’intorno, come provò S. Agostino, e vi assedia, e amaramente vi affligge con tetre apprensioni, con nere malinconie massime in quel tempo che una sventura vi attrista, che una febbre vi crucia, un dolor vi tormenta, una grave infermità vi minaccia di morte vicina. Son questi finissimi tratti della bontà di un Dio che non vi perde di vista, che tutta adopera i mezzi per farvi uscire dal vostro misero stato e vi molesta per consolarvi, e vi ferisce per risanarvi, perché in fine, sazio e mal contento del mondo, del peccato e di voi stesso, cerchiate in Lui la pace che non avete, la felicità che aver non potete, se non in Lui. Dunque Dio vi vuol salvo! A finirla, siete una pecorella innocente? È Gesù buon pastore, che vi custodì nel suo gregge. Siete pecorella ritornata dai vostri traviamenti? È Gesù buon pastore che sugli omeri suoi vi riportò all’ovile. Siete pecora ancora errante? È Gesù buon pastore, che vi tien dietro, e vi chiama a sé, perché non andiate in bocca al lupo infernale. Dunque, ripetiamolo ancor una volta: Dio vi vuol salvo!

II. “S’è così, ripigliate voi, noi abbiamo in pugno la nostra salvezza. Dio ci vuol salvi, noi vogliamo salvarci, e chi è quello stolto che non voglia salvarsi? … dunque la nostra salvezza sarà sicura”. Sicura sarà se avrete una volontà decisa, efficace, operante. Una volontà astratta, superificiale, oziosa non vi salverà. Siccome vi sono delle monete legittime, e delle false, così v’è una volontà vera, ed una fallace. Come faremo a distinguerle facilmente? L’oro si conosce alla prova del fuoco, la volontà si distingue alla prova del fatto. Perché Iddio ha una vera volontà di salvarci, abbiamo veduto poc’anzi quanto abbia fatto, e quanto fa continuamente per noi. Veniamo dunque all’opere, se ci preme la nostra salute. Voi pertanto, anime innocenti, allontanatevi dai pericoli del tristo mondo, adempite i doveri del vostro stato, frequentate le Chiese e i Sacramenti, regolatevi con le massime della fede, fortificatevi colle incessanti preghiere, perseverate nel bene e vi salverete! Voi penitenti cristiani, piangete i vostri trascorsi, ed il vostro pianto vi accompagni fino all’ultimo dei vostri respiri, fuggite le occasioni pericolose, soddisfate la divina giustizia con le opere di penitenza, mortificate i vostri sensi, raffrenate le vostre passioni, la mutazione del vostro cuore si manifesti col cambiamento dei vostri costumi, perseverate nell’intrapresa via di penitenza, e vi salverete. Voi peccatori, fratelli miei cari, ancor macchiati da colpa, ancor coperti di lebbra, imitate il lebbroso del presente Vangelo, gettatevi ai piedi di Gesù, portatevi ai pie del sacerdote, tuffatevi nel bagno formato dal sangue dell’immacolato Agnello di Dio nella sacramental confessione, e sarete guariti, e Dio vi salverà. Non vi sentite acconci di farlo? Dunque non volete salvarvi! Costantino imperatore, carico di schifosa lebbra, consultò per liberarsene i più valenti medici del suo impero, ed essi gli consigliarono un bagno di sangue di fanciulli lattanti, in cui dovesse immèrgersi, e ricuperare la pristina salute. Questo crudel consiglio, questo crudelissimo bagno, non ebbe effetto; poiché gli apparì S. Pietro, gli propose un bagno migliore nel santo Battesimo, ove acquistò la salute dell’anima e del corpo. Fingete però che si fosse eseguito, immaginatelo presente. Che orrore! Chi può soffrir la vista di quel sangue innocente, caldo, fumante? “Spogliati barbaro imperatore”. Che mi spogli? l’aria fredda, la stagione cruda, non mi sento per ora, più tosto … ah disumano, ah mostro di crudeltà! dunque per così poco tu rendi inutile il dolor di tante madri, il sangue di tanti bambini? Deh cessiamo dalle invettive in un supposto accidente, rivolgiamole contro di noi in un fatto vero. Gesù Cristo ha dato tutto il suo sangue, ne ha formato un mistico bagno nel Sacramento di penitenza per darci vita e salute, e noi per non spogliarci di un abito cattivo, per risparmiare un incomodo, rifiutiamo un tanto e così necessario rimedio? Dunque non vogliamo salvarci! – Se il Signore ci comandasse aspre, difficili cose pure per la salute eterna converrebbe eseguirle. Quanto si soffre per la salute del corpo? Rigorose diete, amare bevande, tagli di membra, dolori di spasimo; e per l’anima si ricusa un rimedio così consolante, qual è chiedere a Dio perdono col cuor contrito, e scoprire le proprie piaghe a chi tiene il suo luogo? “Se il Profeta Eliseo (dissero i cortigiani al loro principe Naaman Siro), se Eliseo per guarirvi dalla lebbra v’avesse ordinato una cura lunga, ardua, penosa, dovreste intraprenderla; ma una cosa sì agevole, qual è il lavarsi nel fiume Giordano, perché non praticarla?” Si arrese il principe al saggio consiglio, e doppiamente fu risanato, nel corpo cioè e nello spirito. Un esito egualmente felice dobbiamo sperare dal Sacramento della penitenza. Più dell’acque del Giordano è salubre il sangue dei Redentore. – Lavati così nei fonti del Salvatore, ecco quel che far ci resta, fedeli amatissimi, apprendetelo dalla bocca di Gesù Cristo. Un certo giovane Gli domandò che far doveva per conseguire la vita eterna, “si vis, gli rispose, ad vitam ingredi, serva mandata” (Matth. XIX, 17). Ponderate bene queste divine parole : “si vis”, se tu vuoi entrare nell’eterna vita, osserva i comandamenti; se tu vuoi, e veramente vuoi, tu mi darai prove del tuo volere con l’osservanza dei divini precetti. – Altrettanto ripete a ciascun di noi. Volete salvarvi? ecco la necessaria condizione, osservate la legge di Dio! Ma se invece bestemmiate il suo santo Nome, se non santificate le feste, se per santificarle vi contentate d’una Messa sentita in piedi, con gli occhi in giro, con la mente altrove, se usurpate la roba d’altri, se non restituite, se odiate il prossimo, se gli togliete la fama, se non lasciate il giuoco, il ridotto, la scandalosa amicizia, non state a dire che volete salvarvi, perché direste bugia, perché smentite col fatto quel che pronunziate con la lingua. La strada non passa. Quel Dio, dice S, Agostino, che ha creato voi senza di voi, non vuol salvare voi senza di voi. “Qui creavit te sine te, non salvabit te sine te”. Iddio per crearvi non ha avuto bisogno di voi, vi ha tratto dal nulla, con un sol atto di sua volontà; ma per salvarvi, e assolutaménte vuole, che alla sua volontà sia unita la vostra, con eseguire in tutto la sua santissima volontà. Non vi sentite, non volete farlo? Dunque non volete salvarvi, non vi salverete! – Concludiamo, e mi sia permesso servirmi d’un detto tratto dalla storia non sacra. Nei passati secoli, e nella nostra Europa eravi forte guerra tra due possenti monarchi; e com’è costume di tutti i tempi, tra i novellisti e geniali si teneva diverso partito, e la futura vittoria chi la voleva per l’uno, chi per l’altro sovrano. Interrogato su di ciò un principe neutrale, qual di quei due credeva sarebbe il vincitore, rispose: “vincerà quegli a cui presterò la mia spada”. Cristiani amatissimi, tra Dio e il demonio, a nostro modo d’intendere, passa una forte guerra contro dell’anima nostra. Iddio la vuole per sé, e come abbiam veduto, ne ha dato i più evidenti contrassegni, il demonio la vuol sua, e fa tutti i suoi sforzi. Chi la vincerà? senza alcun dubbio colui la vincerà, al quale presteremo la nostra spada, a cui uniremo la nostra volontà. – Se unita la volontà nostra è con quella del demonio, volendo persistere nel peccato, noi siam perduti. Sarà unita a quella di Dio con la fedele osservanza della sua santa legge? Noi sarem salvi!

 Credo …

Offertorium
Orémus
Ps CXVII:16;17
Déxtera Dómini fecit virtutem, déxtera Dómini exaltávit me: non móriar, sed vivam, et narrábo ópera Dómini.
[La destra del Signore ha fatto prodigi, la destra del Signore mi ha esaltato: non morirò, ma vivrò e narrerò le opere del Signore.]

Secreta
Hæc hóstia, Dómine, quǽsumus, emúndet nostra delícta: et, ad sacrifícium celebrándum, subditórum tibi córpora mentésque sanctíficet. [Quest’ostia, o Signore, Te ne preghiamo, ci mondi dai nostri delitti e, santificando i corpi e le ànime dei tuoi servi, li disponga alla celebrazione del sacrificio.]

Communio
Luc 4:22
Mirabántur omnes de his, quæ procedébant de ore Dei.
[Si meravigliavano tutti delle parole che uscivano dalla bocca di Dio.]

 Postcommunio
Orémus.
Quos tantis, Dómine, largíris uti mystériis: quǽsumus; ut efféctibus nos eórum veráciter aptáre dignéris.
[O Signore, che ci concedi di partecipare a tanto mistero, dégnati, Te ne preghiamo, di renderci atti a riceverne realmente gli effetti.]

GREGORIO XVII – IL MAGISTERO IMPEDITO: 1° corso di ESERCIZI SPIRITUALI “LA PERFEZIONE” (6)

GREGORIO XVII:

IL MAGISTERO IMPEDITO

I. corso di ESERCIZI SPIRITUALI

LA PERFEZIONE

(6)

  1. La rettitudine d’intenzione

Per costruire l’edificio della perfezione le considerazioni grandi debbono adattarsi anche a quelle piccole. E vi porto sul terreno assolutamente pratico per continuare l’argomento di come si faccia a vivere di fede. Perché il vivere di fede è certamente il fondamento della nostra perfezione. –  Vorrei insieme, obbiettivando, cominciare a dare delle indicazioni precise e completamente definite, di concretezza pratica; e per raggiungere l’uno e l’altro scopo vi parlo oggi della rettitudine di intenzione. Perché è impossibile che si cammini nella perfezione se la nostra intenzione non è retta. Se noi trascurassimo questo punto, come fanno molti, noi metteremmo l’una sull’altra delle pietre anche preziose, ma a tutte queste pietre mancherebbe un fondamento. Chi veramente e decisamente vuole volgersi verso il suo Signore e Padre deve stare attento a sistemare la propria intenzione. Innanzi tutto parliamo della intenzione e poi della rettitudine intenzionale, perché se non abbiamo l’idea chiara di che cosa sia l’intenzione e di quale funzione essa sia rivestita e del beneficio che essa dà, noi batteremmo l’aria. – Che cosa è l’intenzione? L’intenzione è un atto composito dell’anima per cui l’anima vede con la sua intelligenza uno scopo e vuole, ecco la facoltà motiva, vuole che sia raggiunto quello scopo. L’intenzione è l’atto col quale ordina, infila verso una direzione il proprio atto. Questo infilare verso una direzione è atto composito, perché risulta e della visione dello scopo e dell’atto motivo verso quello scopo. C’entra insieme l’intelligenza e la volontà. Questa è l’intenzione, e credo di non dover spiegare oltre perché la cosa è chiara, e talvolta per spiegarle, le cose chiare si fanno diventare oscure. Ma il bello viene ora, perché quello che soprattutto si deve guardare è che l’intenzione ci sia. Che vuol dire? Avere una finalità in ciò che si fa. Se noi osserviamo bene i vuoti maggiori che si creano nella vita spirituale, il che è dannosissimo alla perfezione, dipendono dal fatto che manca assolutamente l’intenzione. Si fa, ma sfugge all’intelletto il perché si fa; si fa, ma non si vuole nulla. Si fa, perché? Se uno mi misura un pugno, io, prima di volere qualunque cosa, alzo la mano e paro. Molto prima: si fa e basta. Vedete come si delinea quel caratteristico tipo di vivere che è di moltissimi, cristiani e non cristiani: non pensare affatto che un’azione possa avere un ordine, che possa servire a uno scopo e debba essere indirizzata a uno scopo. Se io chiedo a uno: perché stai seduto? Mah, sto seduto perché mi sono seduto. Chiedo a un altro: perché canti? Perché canto? Mah! Andiamo un po’ a vedere: forse perché sono un po’ allegro, ma di preciso non lo so; canto perché canto. È proprio questo l’impoverimento dell’azione, manca della sua luce che la eleva, la illumina, la mette su una strada, non la lascia come rifiuto al margine della strada. Il discorso serio a proposito di intenzione è questo. Ci sono troppe rarefazioni di intenzione nella nostra vita. Perché? Cerchiamo di dare una risposta pratica, concreta a questa domanda. Probabilmente la prima ragione per cui c’è una rarefazione di intenzioni nella nostra vita è una disistima, nel subcosciente, delle proprie azioni o di parte delle proprie azioni. Disistima. Che io stia in piedi o stia seduto, è niente. No, non è niente, è qualche cosa. Che io mangi, che io beva, è niente: mangiare è un’azione banale. No, non è niente, è qualche cosa. Che cos’è mangiare, bere, dormire? Sono tutte cose della vita vegetativa, animalesca. Sì, ma non sono del tutto animalesche, perché l’anima c’entra un pochino anche quella, tanto più che, se non entra per niente, scappa. Ma non sono niente, sono qualche cosa di più che niente, tante azioni che sono il legamento tra uno stato e l’altro, tra un’azione e l’altra; ma se sfuggono, piombano nel pozzo di questa disistima. Che io mi sia mosso per arrivare fin qui, è niente. No, non è niente; è qualche cosa, perché io non sono niente, poco sì, ma niente no. La disistima. Questa disistima ha bisogno di essere corretta con una dottrina precisa sulla inesistenza degli atti indifferenti. Quando si compie un atto umano, e atto umano è quello in cui la mente vede e capisce e la volontà vuole, cioè quando non si è in stato d’ebrietà, d’anestesia o di forte sofferenza o di sonno, l’atto umano non è mai indifferente; è buono o cattivo, cioè quando non è cattivo è positivamente buono. Perché qualunque atto nell’uomo ha sempre un ordinamento, e comunque basta il fatto che c’entri l’avvertenza dell’intelletto, che si muova questa luce suprema che viene accesa da Dio e ci sia l’intervento della volontà, e questo lo rende ricchissimo di qualche cosa, anche se esternamente può sembrare perfettamente indifferente e perfettamente inutile. Non esistono atti umani che siano indifferenti. I moralisti in qualche momento si sono accapigliati fortemente su questa questione, perché qualcuno aveva voluto sostenere che l’atto può essere indifferente, ma la sentenza comune è stata che l’atto non è mai indifferente. È questo che bisogna mettere in chiaro; e voi siete in grado di misurare che importanza abbia tale dottrina per la nostra vita. – Non parlo della attenzione perché di questa ne parlerò dopo. Bisogna pure stimare la perfezione dei singoli atti, ma la base dei singoli atti sta sempre nella intenzione. Questo è il primo motivo per cui c’è la dissuetudine, dissuetudine contro la quale bisogna lottare vigorosissimamente se si vuole andare verso la perfezione. Perché effettivamente se noi lasciamo cadere l’intenzione, possiamo lasciar cadere nel nulla la maggior parte delle azioni della nostra vita. E queste azioni che cadono nella dissuetudine rappresentano il più della nostra giornata. Poiché la nostra giornata non è fatta di una firma di Versailles o di un trattato di Cambrai. La vita è fatta di tante cose piccine, miserelle, comuni, domestiche, persino ridicole. Siamo dei poveretti; di cose illustri ne facciamo poche; quando ci pare di fare delle cose illustri, se dicessimo di fare delle cose illustri faremmo ridere. Ma quello che forse non vale niente per il mondo, e nemmeno per noi, spesso vale per Iddio. Ora l’effetto della dissuetudine dell’intenzione è questo: lasciar cadere nel nulla una parte della nostra vita. E questo è esattamente il contrario della perfezione, che è l’impiego massimo di tutto nella volontà di Dio. È vero che non sarà sempre così, perché qualche volta, e molte volte, l’intenzione si può salvare, anche se non è attuale, attraverso l’intenzione abituale, cioè quella tale intenzione implicita e virtuale; e molte volte queste intenzioni qualche cosa muovono e qualche cosa comunicano alle azioni che vengono in un modo o nell’altro vivificate. Però è troppo poco, se uno al mattino fa l’atto di indirizzo giusto nelle proprie azioni e dice: tutto quello che oggi farò, di qualunque natura sia, di qualunque ordine e grado, intendo farlo per la gloria di Dio, direttamente o indirettamente. Certo, questa intenzione riflette già una luce su tutti gli atti della giornata. Ma io mi chiedo: quanti fanno questo? E mi chiedo alle volte: che razza di colpa abbiamo noi, e molti nostri confratelli, se queste cose non le insegniamo al popolo? E così, per quel che può dipendere da noi, molte cose cadono nell’inutilità. È consolante pensare che a molti fedeli, ai quali noi non facciamo da parroco, fa da parroco Dio. Se non ci fosse questo, ci sarebbe veramente d’aver freddo a riflettere su queste carenze di cui noi siamo, molte volte, i responsabili. – L’altra ragione per cui manca la intenzione è simile alla prima, ed è probabilmente l’influsso della poca stima che gli altri, e tra gli altri ci siamo anche noi, hanno e abbiamo delle cose che non sono illustri. E allora questa poca stima si riverbera su di noi e ci aiuta a mettere da parte tutto ciò che non è illustre. Io osservo che quando chiedo a certa gente: Ne fate di opere buone?, stanno un po’ a guardare, fanno un po’ d’esame e poi dicono: Beh, qualche elemosina l’ho fatta. Oh, poverini, se voi credete che le opere buone siano soltanto fare l’elemosina, siete nel falso! Opera buona è anche nel bicchiere di acqua che bevete. La gente non ci fa caso: chi fa caso alla cosiddetta povera gente che con gli stracci luridi cammina per le strade? Chi fa caso a tutte quelle povere donne che in fondo a una casa, e non sempre in una casa molto agiata, lavorano tutto il giorno, da mane a sera, non escono quasi più, sono lì, fanno da mangiare, lavano, stirano, rammendano, fanno i conti, pensano e ripensano come far quadrare i bilanci? Gli altri se ne vanno, poi tornano a casa; i sorrisi li hanno esauriti e portano soltanto i musi. E ci sono tante altre cose — forse il primo pensiero, nei nostri ricordi, cammina a quel che faceva nostra madre — ci sono tante altre cose che sono sullo stesso piano e che il mondo ignora perfettamente. Adesso fra i tanti premi che si danno, meno male che si sono messi a dare un po’ di premi della bontà! Non dico che indovinino sempre, ma almeno quella è una cosa che non farà ridere, perché forse si ha da ammettere che degna di stima, per il riverito pubblico, è un’azione alla quale prima non pensava nessuno. Ma non hanno mai fatto il monumento alla povera donna che lava i panni, non l’hanno mai fatto il monumento al povero spazzino! Eppure l’ordine degli spazzini non è forse benemerito in una città? Il mondo non tiene conto di quasi niente. Ed è appunto perché non tiene conto di quasi niente che noi finiamo, per riverbero di quella disistima, col non tener conto quasi niente di quello che ci riguarda e gettiamo via tutto. Non c’è nulla da gettar via, quasi nulla. Nell’ordine spirituale bisogna avere un criterio economico molto di più che non in quello materiale. Non che nell’ordine materiale non ci stia bene l’economia, perché quando c’è, l’economia mette a posto cinque o sei virtù di quelle abbastanza importanti che sono piantate lì con dei chiodi che non li scardina nessuno. – Ma io parlo dell’economia nell’ordine spirituale; e perché dobbiamo essere prodighi proprio in questo e lasciare che molte cose se ne vadano così, senza sugo, senza gusto e senza risultato né per noi né per gli altri? Mi pare che il discorso sull’ intenzione sia finito e sia abbastanza importante per il nostro progresso spirituale e per la nostra perfezione cominciare a riqualificare tutto quello che lasciavamo cadere nella spazzatura. È tutto buono, tutto oro colato. Ora nel nostro studio diciamo così: La intenzione è quella che dà la rivalutazione di gran parte della nostra vita. Noi dobbiamo fare in modo di spingerci a mettere l’intenzione, e poi a camminare, da quella abituale emessa una volta e poi non ritrattata ma che non influisce più sull’azione a quella virtuale non ritrattata ma che influisce ancora sull’azione anche a una certa distanza; e poi, per certa colleganza di successione, alla intenzione attuale, che è la migliore di tutte, ed è proprio quella che dà il lancio all’azione, che la mette in moto: è quella che vale di più. E vediamo subito venir fuori questo grande proposito; anzi vi dico una cosa: se anche da tutti gli Esercizi non doveste cavar fuori altro che questo proposito, sarei contento. Se questi Esercizi vi portassero alla riqualificazione di gran parte della vostra vita, ci sarebbe da essere contenti. Non fate molti propositi, vi prego di farne uno solo, e potrebbe essere questo. Ricordatevi di tutto, perché volta a volta vi verrà bene. Ma fra i propositi a cui potreste legarvi a catena, limitatevi a uno o due. Perché se ne fate tre, c’è pericolo che nessuno tenga. A ogni modo questo che ho detto ora potrebbe essere il vero, profondo, rivoluzionario proposito degli Esercizi: mettere in moto la macchina dell’intezione e farla camminare, farla diventare a poco a poco da abituale a virtuale il più possibile, e da virtuale farla diventare il più possibile attuale. Perché voi capite che mettere l’intenzione nella propria vita significa stabilire la presenza spirituale nostra nella nostra vita. Quando uno mette in moto l’intenzione è sempre presente alla propria vita, ossia non vivrà con la testa nel sacco; non solo, ma oltre a stabilire la nostra presenza, con tutte le indovinabili conseguenze, s’introduce nella propria esistenza il principio dell’ordine, del metodo, ossia la vita diventa metodica, e siccome il modo migliore per poter far funzionare la macchina dell’intenzione sono i programmi, si finisce col fare una vita programmata, il che porta da solo a tre quarti della santità. Il più grande ausilio meccanico, quindi concreto, non etereo, assolutamente pratico per poter mettere continuamente in moto la macchina della intenzione è la programmazione. Vivere di programmi. Se io prendo l’abitudine di fare la sera il programma dettagliatissimo del giorno dopo, voi capite che questo programma sì che me la fa tirar fuori l’intenzione, perché per starci dietro bisogna che io per forza abbia l’intenzione continuamente presente a me stesso, altrimenti il programma mi rimane nella testa e non faccio niente. Se ho un’ora libera e dico: io in quest’ora voglio fare questo, questo io delibero, e deliberando faccio un atto di volontà, con l’intelletto pongo la intenzione. Verrà facile allora, quasi connaturato, diverrà abitudine mettere un fine alle mie azioni. Io tocco il vertice della mia possibilità se tengo lo sguardo al fine. Vedete, a questo mondo si può uscire, andare a passeggio. Dove vai? Non lo so. Cosa fai? Sto su due gambe, un po’ sull’una e un po’ sull’altra. Oppure posso avere un’intenzione, che è quella di scacciare ogni altra intenzione, fare una passeggiata che mi servirà a scacciar via dei pesi; è un’intenzione, ci vuole anche quella, talvolta una passeggiata è sacrosanta. – Il programma. Io posso andare a passeggio. Vado a passeggio e voglio arrivare fino a S. Francesco. Osserverò tutti i portali della Basilica. Cosa serve guardare i portali? Beh, diventerò un po’ meno ignorante. Lo scopo è questo; e quando sarò meno ignorante, avrò uno strumento di più per sentire Dio. Tutto serve, tutto è legna che può alimentare il calore del nostro braciere. Vedete come è importante programmare le opere e la vita dei singoli uomini. Perché ci sono dei programmi perenni, ce ne sono di cinque anni, così ce ne sono di un anno, di un mese, di una settimana, di una giornata, di un’ora. Avere il bernoccolo del programma: ne salta fuori una vita ordinata, una vita che non solo riqualifica quello che ricadrebbe nella pattumiera, ma sforza ad agire enormemente più di quello che si agisce. E a questo modo si fanno tante cose. – Alle volte certa gente dice ad altri: come fate voi a fare tante cose? Come si fa? Si fa una cosa dopo l’altra, si è programmatici. Quando si è programmatici, non si sta su una gamba o sull’altra, perché anche se ci si concede dieci minuti di ricreazione, quando scoccano i dieci minuti si pianta lì e si va. Quando si programma, allora gli orologi servono a qualche cosa, e sono terribili padroni gli orologi; ma è molto meglio avere per padroni degli orologi che degli altri. Questo è il discorso sull’intenzione. – Ora bisogna cominciare a parlare di quale intenzione. Quale sarà il fine dell’acqua nel nostro corpo? Sarà di idratarci, ossia di completare quell’equilibrio idrico che è necessario per il nostro equilibrio fisiologico. Nei libri di Morale si fa una distinzione tra il finis operis e il finis operantis. Il finis operis consiste nella finalità immanente per natura sua nell’azione che si compie. Questo è il finis operis, è il fine immanente. Ma ora direte: il fine immanente, se c’è, è nell’opera stessa. D’accordo. Ma il fine che è immanente ha valore in quanto lo percepiamo noi. Perché se io perdo la nozione del finis operis, agisco macchinalmente, il che non è affatto un agire da uomo, è un agire da macchina, è un agire da bestie. È logico che non si potrà evitare del tutto l’agire macchinalmente; ma noi dobbiamo cercare di spostare l’agire macchinalmente al margine più stretto e più piccolo, vivendo invece coscientemente. Il finis operis c’è, ma ha valore in quanto noi ne prendiamo coscienza. – E allora dove sta il valore morale del finis operis? Sta in due cose. Primo, che il finis operis deve essere valevole dal punto di vista morale; secondo, che obbliga noi a vivere riflessivamente, e ritorniamo al primo punto della intenzione generica. Voi capite che è difficile pensare a una perfezione della nostra vita se noi non viviamo riflessivamente, badando a quello che facciamo; è l’adagio che i latini avevano condensato nel celebre motto « age quod agis »; fa’ quello che fai, ossia fa’ con presenza cosciente quello che fai. Non agire macchinalmente, agisci coscientemente, rendendoti conto di quello che stai compiendo. Io vorrei che non perdeste di vista che il finis operis ha questa importanza, d’essere il primo cardine della nostra sincerità. Perché siccome il finis operis è immanente, potrebbe essere trattato così: gli si sovrappone un altro fine che è completamente divergente dal primo, uno scopo in contrasto cioè con lo scopo scelto. E allora la linearità, il rispetto del finis operis diventa sempre un grande esercizio per la sincerità del nostro atto e per la rettitudine delle nostre intenzioni. Non deve mai essere avariato a danno dell’altrui perfezione, perché il finis operis deve rispettare le cose come sono. Adesso viene l’altro, il finis operantis. Il finis operantis è quello scopo che noi, senza diventare innaturali e falsi, aggiungiamo e sovrapponiamo al finis operis in modo che quel finis operis può essere immediato e piccolo, mentre il finis operantis può essere di molto più lunga e grande gettata. Io posso dare a un poveretto che passa un bicchiere d’acqua perché si idrati, se non proprio per levarsi la sete, ma glielo posso dare per amor di Dio. E voi capite bene che tra l’idratarsi e l’amor di Dio c’è di mezzo un mare, e con una simile intenzione, cioè col finis operantis, varco questo mare che separa l’azione umana da una azione soprannaturale, e il bicchiere d’acqua mi diventa quel qualche cosa di cui ha parlato anche N. S. – Gesù Cristo nel Vangelo, facendo la casistica del bicchiere d’acqua e dicendo come verrà premiato un solo bicchiere d’acqua dato sulla terra per amor suo. Ecco il finis operantis: non me ne devia la naturalezza; non comporta un elemento di doppiezza, e pertanto non sovrappone una falsità, ma sovrappone una più lunga gettata. Allora sarà questione di vedere quale debba essere abitualmente il finis operantis. Il finis operantis può essere il fine ultimo e il fine mediato. – Il finis operantis, che è bene mantenere sempre, sia con l’intenzione abituale, sia con quella virtuale più progredita, sia con quella attuale più progredita di tutte, è sempre quello di fare per l’ultimo fine, per amore di Dio. Ed è per questo che quando si formano le intenzioni di carattere generale è sempre bene enunciarle così: faccio tutto per l’amore di Dio. Almeno si saltano le intermedie, si arriva all’ultimo e la gettata è massima, il frutto è al massimo; s’impiegano col massimo interesse i nostri piccoli capitali con questa intenzione, con questo finis operantis. – Ma ci possono essere delle finalità mediate che hanno la loro moralità nel fatto di essere allineate al fine ultimo; cioè se non sono contrarie al fine ultimo, possono essere allineate al fine ultimo. Io posso dare un bicchiere d’acqua al povero non solo perché si idrati, non solo per amor di Dio, posso darlo anche perché gli altri vedano e siano mossi ad aiutarlo. Certo, se io lo faccio perché gli altri me ne diano gloria, allora è bell’e finita! Guasto il finis operis e il finis operantis; guasto tutto, se ci infilo un pensiero di questo genere. Ma se io do un bicchiere d’acqua anche perché dando io forse qualche altro imparerà a dare un bicchiere d’acqua alla gente che ha sete, il fine è mediato, non ultimo, ma è allineato al fine ultimo e pertanto ci può stare. La tecnica dei fini mediati non è da rimproverarsi, anzi è da consigliarsi, perché i fini mediati hanno il vantaggio d’attaccarsi, di prendere degli appigli che ci sono offerti, degli appigli che si trovano nella vita, cioè mettono a frutto elementi che potrebbero sfuggire, cose che si trovano fuori di noi. La rettitudine non è una cosa impostata per aria. Esiste quando ci sono tutte le condizioni che io vi ho enumerate. Ma se le condizioni che io ho enumerate non esistessero, sono obbligato d’avvertirvi: badate che la rettitudine non resiste. La rettitudine avete visto che cosa fa? In sostanza è quella che valorizza tutte le nostre azioni, perché nelle azioni rende presente il fine. Il fine ultimo « in executione » è primo « in intentione ». Il fine è quella bontà intrinseca della fede, la sorgente del suo valore morale, e pertanto, con la grazia di Dio, sorgente del suo merito eterno. Il fine è sempre la cosa più splendida di ogni esperienza. Il fine sovrasta tutto. – Mettiamoci a meditare, e nessuno pensi di arrivare alla perfezione cristiana se non ha la rettitudine sempre, dovunque, in tutte le circostanze della sua terrena esistenza.