IL MATRIMONIO (2)
[ENCICLOPEDIA CATTOLICA, vol. VIII, Coll. 407 e segg. – Ente per l’Enciclopedia Cattolica e per il libro cattolico – Città del VATICANO – impr. 1952]
III. FINI DEL M. –
Già si è accennato come Dio stesso fissi i fondamenti naturali del M., promulgandone le leggi e determinandone le finalità nella procreazione e nel mutuo aiuto (Gen. 1, 26 – 31; 2, 7 – 25). Tali concetti sono altrove richiamati nei libri del Vecchio e Nuovo Testamento. La dottrina di s. Paolo a questo riguardo ha una importanza particolare, poiché indica un altro scopo a cui Dio ha ordinato l’istituto matrimoniale dopo il peccato originale, cioè il rimedio della concupiscenza. Nella prima Epistola ai Corinti, parlando delle vedove e dei non coniugati, dice: « È bene per essi se rimangono come me; ma se non possono osservare la continenza, si sposino; è meglio, infatti, sposare che bruciare » (7, 8 – 9); inoltre: « E bene per un uomo non toccar donna; tuttavia, per evitare la fornicazione, ciascuno abbia la propria moglie e ciascuna il suo proprio marito » (ibid. 7, 1-2). E dopo aver insegnato che è bene astenersi dai rapporti matrimoniali per dedicarsi all’orazione, soggiunge: « Poi siate nuovamente insieme, affinché non vi tenti Satana per la vostra incontinenza » (ibid. 7, 5). Questi dati rivelati sobri e profondi vennero poi sviluppati dalla tradizione cattolica nella dottrina sistematica.
Fini essenziali del M. nella dottrina della Chiesa. –Movendo dalle linee tracciate dalla S. Scrittura, l’insegnamento cattolico è stato sempre concorde nell’assegnare al M. tre fini essenziali: la generazione ed educazione della prole, il mutuo aiuto, il temperamento della concupiscenza. La generazione e l’educazione della prole è una finalità, che sulla scorta del sacro testo viene per prima messa in rilievo dalla tradizione cattolica. Il pensiero dei Padri è riassunto da s. Agostino: « Che le nozze si contraggono per ragione della prole, così ne fa fede l’Apostolo: voglio che le giovani si sposino (I Tim. V, 14). E come se gli dicesse: E perché?, subito soggiunge: A procreare figlioli ed nessere madri di famiglia » (De bono coniug., cap. 24, n. 32; cf. encicl. Casti Connubii, Denz-U, n. 2228 sgg.). – Nel M. l’uomo e la donna, oltre il prolungamento della stirpe, cercano e trovano il compagno della vita. Il M., infatti, mediante l’unione intima, totale, definitiva dei due coniugi, offre a ciascuno di essi il complemento cui aspirano naturalmente: un sostegno materiale e spirituale prezioso, che costituisce per la generalità degli uomini il mezzo provvidenziale del loro perfezionamento personale e sociale, del loro progresso morale e della loro santificazione. Si parla anche di « completamento » o « perfezionamento » degli sposi. Questi termini bene esprimono l’idea di un vuoto colmato, di pienezza, di equilibrio di tutto l’essere suscitati dall’amore scambievole. Di qui nei coniugi la gioia, la dedizione alla persona amata e al focolare, il coraggio nell’ora della prova e lo sviluppo armonico e completo della propria personalità. – Oltre al mutuum adiutorium nel M. si aggiunge nell’ordine attuale, il remedium concupiscentiœ. La concupiscenza della carne, infatti, non è solo un provvidenziale impulso verso il soddisfacimento di una esigenza della natura, ma, dopo il peccato originale, è spesso del naturale impulso una pericolosa deviazione, in quanto insorge contro il governo della ragione e spinge l’uomo verso l’uso disordinato del piacere sensuale ; vulnus naturæ lo ha ritenuto la teologia: rimedio legittimo per la natura ferita è il M., che, pure temperando l’ardore della passione, argina la concupiscenza, ordinandola al nobile fine della procreazione.
Rapporto tra i fini del M. – Tra i fini del M., non c’è opposizione, ma armonia. Gli sposi infatti, cercando il completamento reciproco, contribuiscono al benessere della società, d’altra parte la procreazione e l’educazione dei figli non giova soltanto allo Stato e alla Chiesa, ma viene pure a cementare l’amore coniugale con nuovi vincoli. Questi fini, tuttavia, non sono su di uno stesso piano e tra loro eguali: esiste un rapporto gerarchico per cui uno è più elevato e importante dell’altro. – « Fine primario del M . è la procreazione ed educazione della prole; fine secondario, il mutuo aiuto ed il rimedio della concupiscenza» (CIC, can. 1013 § 1). Questo enunziato è una sintesi della dottrina tradizionale della Chiesa. Infatti, sulla scorta dei Padri, i teologi, i moralisti e i canonisti anteriori al CIC si mossero costantemente entro questo schema dottrinale acquisito. In modo particolare nessuno ritenne che il fine primario del M. sia altro dalla procreazione ed educazione della prole: il solo Ugo di San Vittore vi sostituì l’unione d’amore tra l’uomo e la donna, da cui deriva, come conseguenza, la funzione generativa dei coniugi (cf. M . Abellan, El fin y la significación sacramental del matrimonio, desde s. Anselmo hasta Guillermo de Auxerre, Granata 1939). S. Tommaso lo disse il « fine più essenziale senza del quale il M. non può né essere compreso né definito : « Proles est essentialissimum in Matrimonio; et secundo fides, et tertio Sacramentum (Sum. Theol., Suppl., q. 49, a 3). Così la Chiesa fece anche dopo il CIC. La Casti connubii di Pio XI (31 dicembre 1930) riaffermò « quanto viene pure espresso efficacemente nel Codice di diritto canonico », riferendo il can. 1013 § 1. Del resto, è la natura che fa concludere a questa gerarchia di rapporti: solo la prole infatti, può essere considerata come il termine naturale a cui è stata ordinata la differenza stessa dei temperamenti, che corrispondono alle diverse mansioni dell’uomo e della donna entro l’ambito della famiglia. La cosa è ancora più evidente se si considera il rimedio della concupiscenza. Voler separare questo fine dalla procreazione, significa invertire l’ordine stabilito da Dio, secondo cui il piacere congiunto con l’uso del M. è per sua natura un mezzo provvidenziale per facilitare ai coniugi il compito della procreazione del genere umano, e quasi a controbilanciare le gravi responsabilità. – Occorre ancora sottolineare che i tre fini sono subordinati, ma distinti e assolutamente irreducibili. Il fine secondario, cioè, non si esaurisce nell’essere semplicemente un mezzo, uno strumento, sia pure del fine principale, ma conserva la sua ragione di fine, benché subordinato a un altro, che è principale, ossia non è qualcosa di accessorio e di accidentale che si aggiunge all’essenza del M., ma appartiene alla sostanza dell’istituzione e del Sacramento, e pertanto è perseguibile per se stesso. Si spiega così come in certi periodi, in cui il fine primario è assolutamente e temporaneamente irrealizzabile, il M. e il suo uso rimangono ragionevoli e leciti, poiché continua ad esistere un fine sufficiente a dar loro una ragione d’essere. L’unione matrimoniale però, privata allora « per accidens » del suo fine superiore, verso cui non cessa di essere orientata nella sua intima costituzione, è imperfetta senza il suo ultimo coronamento.
Nuove teorie e autorevoli riconferme della dottrina tradizionale. – Recentemente, invece, si è cercato di dare rilievo primario all’elemento psicologico e affettivo della società coniugale, che deve essere una piena comunione di anime tra due sposi. In Italia, tra gli altri, si orientano verso questa corrente B. Brugi (L’art. 107 del Codice Civile italiano e lo scopo del M. in Rivista intern. di Filosofia del diritto, 5 [1925], pp- 113 segg.); L. Cornaggia Medici (Dell’essenza del M., in Il diritto eccles., 39 [1928], p. 398 sgg.); G. Viglino (Oggetto e fine primario del M., in Diritto eccles., 40 [1928], p. 142 sgg.). In Germania, sono da ricordare Von Hildebrand (Die Ehe, Monaco 1928), N. Rochol (Die Ehe als geweites Leben, Dulmen, 1936) soprattutto H. Doms (Vom Sinn und Zwek der Ehe, Breslavia 1935), e B. Krempel (Die Wzechfrage der Ehe in neue Beheuchtung begriffen aus dem Wesen der beiden Geschlechter im Lichte der Beziehunglehre des hl. Thomas, Benzinger 1941). – Sulle ragioni che hanno determinato questo abbandono della posizione tradizionale prevale il motivo psicologico, il desiderio sincero cioè di introdurre nel M. una nota più alta di spiritualità. La concezione canonistica non sembra sufficiente, perché secondo essi, ridurrebbe il M. a una funzione specificamente sessuale, sminuendo la sua spiritualità e riducendolo a qualcosa di materiale e quasi volgare. Quindi si ritiene superata la dottrina corrente, che sarebbe collegata con lo stato delle scienze biologiche del secolo XIII, e che pertanto occorre aggiornare col pregresso degli studi psicologici. Queste teorie minacciarono di determinare sbandamenti dottrinali e pratici in una materia che più di ogni altra esige perspicuità di termini e di concetto. Per tali motivi la Chiesa ritenne opportuno riaffermare i principi immutabili della sua dottrina. Un primo intervento si ebbe il 3 ott. 1941, con il discorso che Pio XII tenne alla S. Rota: « Due tendenze sono da evitarsi, quella che nell’esaminare gli elementi costitutivi dell’atto della generazione dà peso unicamente al fine primario del M. , come se il fine secondario non esistesse, o almeno non fosse finis operis stabilito dall’Ordinatore stesso della natura; e quella che considera il fine secondario come egualmente principale, svincolandolo dalla sua essenziale subordinazione al fine primario, il che, per logica necessità, condurrebbe a funeste conseguenze » (AAS, 38 [1941], p. 423). – Il S. Uffizio, in data 1°apr. 1944 (AAS, 36 [1944], p. 103), insiste sulla pericolosità del nuovo modo di pensare fatto apposta per favorire errori ed incertezze. Il che fu largamente dimostrato dagli autori che difesero la linea tradizionale. Secondo essi è già una affermazione grave il fatto di interpretare il can. 1013 § 1 come una semplice formula pastorale. Ma gli errori non si limitano a ciò. Per accennare alcuni: 1) se lo scopo principale del M. è il completamento dei coniugi, e la prole è soltanto un mezzo a tale fine, ne segue che questa potrebbe venire sacrificata quando potesse costituire una minaccia per la vita della madre. – 2) Considerando poi il M. come un essenziale perfezionamento della vita umana, quasi che fuori del M. l’uomo resti incompleto, ne segue un deprezzamento del celibato virtuoso, o dello stato sacerdotale e religioso, contro la dottrina tradizionale della Chiesa. 3) Ugualmente non rimane sufficientemente spiegata la gravità intrinseca dell’onanismo, così decisamente asserita dalla Chiesa, in quanto appunto si oppone al fine primario del M. – Secondo le ultime direttive del magistero ecclesiastico, occorre conservare la dicitura e il significato dei termini: fine primario e fine secondario, e affermare che i fini secondari sono subordinati al principale, e non indipendenti.
Il M. PRESSO I PRIMITIVI [omissis]
III. STORIA DEL M. [Omissis]
IV DIRITTO E TEOLOGIA MORALE
SOMMARIO: I. Diritto Canonico. – II. Diritto concordatario italiano. – III. Seconde nozze. – IV. M. di coscienza. – V. M. morganatico. – VI. M. putativo. – VII. M. rato e non consumato. – VIII. Uso del M.
DIRITTO CANONICO. – .1. Nozione. – Il M. può essere considerato giuridicamente, come è stato rilevato nella trattazione dogmatica, sotto due diversi aspetti, come atto transeunte o come stato permanente. Il primo, chiamato matrìmonium in fieri, è l’atto costitutivo della società coniugale, ossia il contratto matrimoniale. Il secondo, chiamato matrimonium in facto esse, è la società coniugale costituita, ossia, il rapporto matrimoniale. In altri termini il matrimonium in fieri è il momento iniziale dello stato coniugale o matrìmonium in facto esse. – La disciplina giuridica matrimoniale potrebbe dunque teoricamente sistemarsi in relazione a tali due momenti; ricollegando al primo tutto quanto concerne i requisiti di capacità e di forma necessari per la istituzione di un valido negozio matrimoniale, cioè del contratto-Sacramento, e al secondo quanto concerne il regime del vincolo, i suoi effetti nei rapporti tra i coniugi e di questi con la prole, la separazione e lo scioglimento. Nel sistema canonico, peraltro, è da notare che l’interesse giuridico è prevalentemente, se non quasi esclusivamente, concentrato sul primo momento, o atto costitutivo. E questo sia per l’efficacia permanente e definitiva attribuita al consenso iniziale dei nubenti e conseguente proscrizione del divorzio, sia perché, mentre la Chiesa afferma la propria esclusiva competenza e giurisdizione su ciò che concerne la formazione del vincolo fra i cristiani in quanto questo è inseparabilmente contratto-Sacramento, una volta costituito il vincolo ne considera il regime essenzialmente sotto il profilo teologico-morale, di foro interno; e lascia allo Stato di disciplinarne gli effetti civili, consentendo talora, come nel Concordato italiano, che esso ne regoli aspetti anche non puramente civili, come quello della separazione.
2. Fondamenti dogmatici. — Per una chiara comprensione dei principi del diritto canonico in materia, occorre tener sempre presenti i fondamenti dogmatici sui quali si basa l’istituto matrimoniale secondo la dottrina cattolica; e cioè che il M. è stato istituito e restaurato da Dio e che il contratto è stato elevato alla dignità di Sacramento. – Al M. così considerato vanno connessi tre grandi beni, che in senso rigoroso costituiscono anche tre capi di obbligazioni: proles, fides, sacramentum. Il bonum prolis consiste nella procreazione e nella educazione cristiana della prole; il bonum fidei nella fedeltà che ognuno dei coniugi deve all’altro nell’adempimento del contratto matrimoniale, ossia nel diritto esclusivo e reciproco obbligo di ognuno di essi ad officia coniugalia verso l’altro; esso richiede inoltre amore vero e aiuto vicendevole, e ordine gerarchico familiare (encicl. Casti connubii, I); il bonum sacramenti nell’indissolubilità del vincolo matrimoniale e nella comunanza di vita; indissolubilità assoluta per il M. rato e consumato, mentre può eccezionalmente venire meno per i M. rati ma non ancora consumati. Questa dottrina dei bona matrimonii ha fondamentale importanza sotto l’aspetto giuridico, come si vedrà più oltre, specialmente per la determinazione della validità del consenso.
Requisiti. — Per la costituzione di un valido rapporto matrimoniale (che può essere, ma non necessariamente, preceduto dal contratto di promessa di M.) occorrono i seguenti requisiti: la capacità; il consenso o volontà matrimoniale; la forma legittima della manifestazione del consenso, ossia della celebrazione. Questi requisiti, analoghi nella loro formulazione generica a quelli di ogni altro contratto, vanno intesi però in relazione alla peculiarissima natura e disciplina giuridica dell’istituto matrimoniale. Essi non devono quindi valutarsi alla stregua degli altri negozi giuridici, ma secondo i principi speciali dettati per questa materia.
3. – La capacità matrimoniale e gli impedimenti. – Questa osservazione vale soprattutto in ordine al requisito della capacità. Principio generale è che tutti possono contrarre M. quando non ne abbiano divieto dal diritto (can. 1035), ossia quando non sussistano i peculiari ostacoli preveduti dalla legge in opposizione alla valida esistenza del M. Quindi la capacità matrimoniale non va apprezzata in base alla capacità giuridica ordinaria, ma in relazione alla sussistenza o meno di tali ostacoli, detti impedimenti, o condizioni relative alle persone dei contraenti. Nel diritto anteriore al CIC sotto il nome di impedimento erano comprese tanto le cause che costituivano ostacoli al M . in dipendenza della condizione personale dei contraenti (ex parte personæ), quanto quelle che costituivano motivo di invalidazione del M. in dipendenza di difetti della volontà (ex parte consensus) o della forma della celebrazione (ex parte formæ). Il loro elenco era consuetamente espresso in versi mnemonici di cui ecco una delle versioni più usate dopo il Concilio di Trento: « Error, conditio, votum, cognatio, crimen, / Cultus disparitas, vis, ordo, ligamen, honestas, / Ætas, affinis, si clandestinus et impos, / Raptave sit mulier loco nec reddita tuto : / Hæc facienda vetant connubia, facta retractant ». A questi impedimenti, detti dirimenti, perché causa di nullità del M., si aggiunge l’elenco degli impedimenti semplicemente impedienti, cioè che non rendono il M. nullo ma solo illecito : « Ecclesiæ vetitum; nec non tempus feriatum / atque catechismus, sponsalia, iungito votum, / Impediunt fieri, permittunt facta teneri », ridotti poi a quelli contenuti nel versicolo « sacratum tempus, vetitum, sponsalia, votum ». – Nel sistema del CIC, invece, pur usandosi talora saltuariamente la parola impedimento ancora in senso lato, più razionalmente si considera quanto si attiene alla validità o meno del consenso o della forma della celebrazione distintamente dalle circostanze inerenti alla persona dei contraenti e che possono limitare la capacità matrimoniale. Solo queste ultime si dicono ora, in senso proprio, impedimenti, e dal loro esame si desumono, con processo a contrario, i requisiti di capacità richiesti per la validità del M. – Gli impedimenti sogliono classificarsi sotto diversi punti di vista (cann. 1036-42), ma di tali distinzioni due soprattutto hanno qui importanza fondamentale. La prima ed essenziale è quella già accennata, fra impedimenti impedienti (che inducono una grave proibizione di contrarre M. e perciò lo rendono illecito, ma non invalido se il M. ciò nonostante sia stato celebrato), e impedimenti dirimenti (che non solo vietano di contrarre M., ma ne impediscono la valida celebrazione, e, se il M. sia stato ugualmente contratto, ne producono l’invalidità: can. 1036). – Altra distinzione è quella fra impedimenti di diritto divino e impedimenti di diritto umano od ecclesiastico, a seconda che siano posti dal diritto divino (naturale o positivo), o da leggi della Chiesa. Questa distinzione è pure di importanza capitale perché di regola possono essere dispensati gli impedimenti di diritto umano od ecclesiastico, e non invece quelli di diritto divino. Solo alla suprema autorità della Chiesa, cioè al Pontefice, spetta di dichiarare in modo autentico quando il diritto divino impedisce o dirime il M. (can. 1038). Devono distinguersi dagli impedimenti i divieti individuali, che possono essere stabiliti per un determinato M., temporaneamente e per giusta causa, dagli Ordinari locali (can. 1039 § 1). Il loro effetto è semplicemente proibente, e perciò rende il M. illecito ma non invalido. Soltanto la S. Sede può aggiungere a tale divieto la clausola irritante, cioè la sanzione di invalidità, nel caso di inosservanza del divieto medesimo (can. 1039 § 2). Gli impedimenti impedienti, più numerosi nel diritto antico e in quello anteriore al Tridentino, si riducono nel sistema attuale a due: 1) il voto semplice di verginità, di castità perfetta, di non sposarsi, di ricevere gli Ordini Sacri e di abbracciare lo stato religioso; 2) la mista religione. A questi due può eventualmente aggiungersi un terzo impedimento, la cognazione legale. – Nel diritto vigente gli impedimenti dirimenti sono in numero di dodici di diritto generale, più un tredicesimo di diritto particolare, per quei luoghi dove è ritenuto tale dalla legge civile. Essi sono l’età, l’impotenza; la disparità di culto; il M. precedente; l’Ordine Sacro; la professione religiosa solenne e quella dei professi di voti semplici a cui, per indulto della S. Sede, fu aggiunta la forza di irritare le nozze (can. 132 § 2); il ratto; il delitto, ossia l’adulterio qualificato; la consanguineità; l’affinità; la pubblica onestà; la cognazione legale e quella spirituale. Per quelli fra gli impedimenti che sono dispensabili, competenti a dispensare sono il Sommo Pontefice e chi ne abbia concessa facoltà o per diritto comune o per speciale indulto della S. Sede (can. 1040). Il Pontefice esercita il suo potere di dispensare o personalmente (nel caso di sovrani o di prìncipi reali) o a mezzo di organi della Curia romana (Congregazione Disciplina dei Sacramenti; S. Penitenzieria; Congregazione del S. Uffizio; Congregazione per la Chiesa orientale), a seconda che si tratti di foro interno o di foro esterno, e a seconda degli impedimenti (v. cann. 247 § 3; 249 § 1; 251 § 3; 257 § 3; 259 § 1). I vescovi possono concedere dispense dagli impedimenti matrimoniali o per potestà ordinaria, cioè attribuita loro per diritto comune (così nel caso di pericolo di morte, o di impedimento scoperto nell’imminenza delle nozze; v. cann. 1043-45) o per potestà delegata, cioè attribuita loro con indulto particolare dalla S. Sede. Poteri analoghi spettano anche al parroco, al sacerdote che assiste al M. e al confessore (ma a quest’ultimo soltanto per il foro interno all’atto della confessione sacramentale), nei casi in cui non si possa ricorrere all’Ordinario locale (cann. 1044, 1045 § 3).
4. – Il consenso matrimoniale. — Il secondo dei requisiti voluti per la sussistenza di un M. valido, e cioè il consenso o la volontà matrimoniale da parte dei contraenti, è definito l’« atto della volontà con il quale ognuna delle due parti conferisce e riceve il diritto sul corpo, perpetuo ed esclusivo, in ordine agli atti per sé idonei alla generazione della prole » (can. 1081 § 2). Su questo elemento consensuale è costruito con rigorosa coerenza tutto l’istituto matrimoniale canonico. Con l’unione dei consensi il M. diviene perfetto, senza che occorra la consumazione. Il consenso dei contraenti, che non può venire supplito da alcun potere umano (can. 1081 § 1), deve essere dato da persone che ne abbiano la capacità, e cioè che, oltre a non trovarsi in alcuno dei casi già visti costituenti impedimento, siano fornite di sufficiente capacità di intendere e di volere, e non siano quindi prive di ragione, tanto per cause transitorie (ebrietà, ipnotismo, sonnambulismo), quanto per cause permanenti (demenza, paranoia, ecc.). È ovvio che, per la validità del consenso, i contraenti non devono ignorare almeno che il M. è una società permanente tra l’uomo e la donna per la procreazione dei figli (ma tale ignoranza dopo la pubertà non si presume). Il contratto è invalido se una o entrambe le parti escludono con un atto positivo della volontà, anche solo interno, il M. stesso, oppure ogni diritto all’atto coniugale o qualche proprietà essenziale del M. (can. 1086 § 2). Però si richiede una precisa intenzione, e cioè, come espressamente dice il CIC, un positivo atto di volontà escludente qualche proprietà essenziale del Sacramento, e non è sufficiente a determinare l’invalidità un pensiero accessorio o secondario nel senso suddetto, né il semplice desiderio né il proposito di non adempiere le obbligazioni assunte. La validità del M. può inoltre essere infirmata, sotto l’aspetto del consenso, per altre cause dipendenti da vizi nel processo di formazione o di determinazione della volontà, oppure da discordanze tra la volontà manifestata e la volontà interna. Nella descrizione e valutazione di tali elementi, per altro, la disciplina matrimoniale segue criteri peculiari che la differenziano nettamente da quella relativa agli altri contratti, ai cui concetti pertanto non si può d’ordinario, in questa materia, fare sicuro riferimento. Così, in ordine al vizio di consenso per errore il CIC, oltre al tipico caso di errore sull’identità della persona (ove si ha piuttosto un assoluto difetto di consenso, per discordanza fra la manifestazione di volontà e la volontà reale), considera influente sulla validità del M. solo l’errore sulla qualità che ridondi in errore sulla persona (tale sarebbe la qualità che serve a individuare la persona), o quello per cui una persona libera contragga M. con una schiava, credendola libera (can. 1085). Non invalida il consenso l’errore di diritto (error iuris) intorno all’unità o all’indissolubilità del M., o alla sua dignità sacramentale dia causa al contratto (can. 1084), ma solo quello consistente nell’ignoranza dell’essenza del M. (v. can. 1052). – Il consenso può anche essere viziato per violenza o timore che abbia influito nella determinazione della volontà matrimoniale, purché concorrano determinati estremi. È invalido il M. contratto per timore grave (ob vim vel metum gravem) incusso dall’esterno ed ingiustamente (ab extrinseco et iniuste) e per liberarsi dal quale alcuno sia costretto a scegliere il M. (Can. 1087). Così non è influente il timore che manchi di gravità, quale il semplice timore reverenziale verso i genitori, (a meno che non si tratti di timore reverenziale qualificato, ossia intervengano minacce di gravità tali, o maltrattamenti o rimproveri, sì da rendere impossibile la vita nella casa paterna); così pure il timore che non provenga dall’esterno, come quello di castighi soprannaturali, etc.; così infine il timore che, benché grave, sia incusso per giusta causa, ad es., per costringere il seduttore a sposare la sedotta, purché la minaccia non ecceda e perciò ingiusta quoad modum. – Il diritto stabilisce come regola generale che il consenso o volontà interiore (internus animi consensus) si presume sempre conforme alle parole o dai segni adoperati nella celebrazione del M. (can. 1086 § 1). Tale presunzione però è iuris tantum, e quindi può vincersi dalla prova contraria con la quale si dimostri che la volontà reale era discordante da quella manifestata, il che rende il M. invalido. Tale è il caso della simulazione, che si ha quando il contraente finge esternamente di voler contrarre, esprimendo con serietà e in modo rituale che invece internamente non ha. Sia nel caso di simulazione bilaterale, cioè quando le parti d’intesa fra loro fingano di contrarre M. per raggiungere invece un altro scopo (ad es., di conseguire un mutamento di cittadinanza, ecc.), sia nel caso di simulazione unilaterale o riserva mentale, quando una sola delle parti simuli traendo in inganno l’altra parte ignara, il M. è invalido. Gli stessi effetti della simulazione produce lo scherzo (iocus), per quanto questa sia un’ipotesi oggi assai difficilmente avverabile. – La funzione di elemento centrale riconosciuta al consenso nel M. cristiano, fa sì che il diritto canonico prenda anche in considerazione le ipotesi in cui esso sia prestato con l’aggiunta di qualche modalità o determinazione accessoria da parte dei contraenti, che intendano far dipendere da essa la validità o la sussistenza, o il permanere del vincolo. Escluse assolutamente le condizioni di questa ultima specie, ossia le condizioni risolutive (perché contrarie al principio dell’indissolubilità), si ammette entro determinati limiti che possa condizionarsi il consenso, con effetto sospensivo del M., o con effetto di farne dipendere la sussistenza o validità, alla esistenza o meno di determinate circostanze, denominate genericamente condizioni. Esse però comprendono sia condizioni sospensive vere e proprie (e cioè la determinazione di un avvenimento futuro e incerto) sia condizioni impropriamente dette, costituite dalla determinazione di fatti passati o presenti della cui esistenza le parti sono incerte oppure dalla aggiunzione re al consenso, come indissolubilmente connessi al medesimo, di patti riguardanti il futuro. I loro effetti (sempre quando la condizione apposta non sia stata in seguito revocata) sono notevolmente diversi. Il CIC distingue le condizioni in de futuro e de futuro e de præterito vel de præsenti. Le condizioni proprie o relative a fatti futuri leciti, sospendono il valore del M. (Can. 1092 n. 3). Pendente la condizione, la vita coniugale non è permessa; se la condizione si avvera, il M. è valido e si producono senz’altro tutti i suoi effetti, senza bisogno di rinnovare il consenso; se la condizione non si verifica, il M. è nullo. Se però si tratta di fatti futuri necessari (ad es. se domani sorgerà il sole), o impossibili (ad es. se toccherai il cielo col dito), o turpi ma non contrari alla sostanza del M. (p. es., se ucciderai) la condizione si considera apposta (can. 1092, n . 1). Se si tratta invece di condizioni contrarie alla sostanza del M., esse lo rendono invalido (can. 1092, n. 2). Tali sono quelle che escludono lo jus in corpus, o quelle contrarie o i nconciliabili con i tre bona del M. – Quanto alle condizioni improprie de præterito vel de præsenti, il M. sarà valido o no, a seconda che il fatto dedotto in condizioni sussista o no (can. 1092, n. 4). Possono in tal modo essere assunte come condizioni qualità personali dell’altra parte, la cui esistenza o inesistenza sarebbero invece irrilevanti a determinare la nullità del M. a titolo di errore, qualora non dedotte espressamente
5. – La celebrazione del M. — Il terzo requisito per la esistenza del M. valido, la celebrazione, non ha avuto una disciplina uniforme che in epoca relativamente recente. Fino al Concilio di Trento non vi era una norma generale che prescrivesse una determinata forma essenziale per la validità del M. Essa fu stabilita col celebre decreto Tametsi (sess. XXIV, c. I, de reform. Matr.), nel quale per eliminare gli inconvenienti che si verificavano per il passato, si stabilì che fosse non solo illecito, ma anche invalido il M. ( detto clandestino [v. sopra]) non contratto dinanzi al proprio parroco o ad altro sacerdote, con licenza di questi o dell’Ordinario, e di almeno due testi. La mancata promulgazione del decreto tridentino in molte regioni, fece sì che esso non fosse applicabile dovunque; onde questo punto del diritto matrimoniale canonico, restò regolato diversamente nei vari paesi a seconda che vi fosse stato o meno pubblicato il decreto. Tale disuguaglianza non cessò che agli inizi di questo secolo con il decreto del 2 ag. 1907, Ne temere, di Pio X, con il quale fu estesa a tutti i cattolici ed anche ai M. tra Cattolici ed acattolici, la forma stabilita dal Concilio di Trento. Il CIC accolse pressoché integralmente le norme del decreto Ne temere.- Prima che il M. sia celebrato deve constare che nulla osti alla sua validità o lecita celebrazione (can. 1019 § 1). A tale fine, (salvo nel caso di pericolo di morte, can. 1019 § 2, è prescritta l’osservanza di certe forme preliminari: le investigazioni. o processetto prematrimoniale e le pubblicazioni. Adempiute queste formalità senza che risulti l’esistenza di qualche impedimento, può procedersi alla celebrazione nella forma ordinaria. Questa consiste nella espressa manifestazione del consenso dinanzi o all’Ordinario del luogo o ad un sacerdote delegato da uno di costoro e alla presenza di due testimoni. Per le determinazione della competenza ad assistere validamente e lecitamente al M. da parte del parroco o dell’Ordinario (la cui figura giuridica è propriamente quella di teste qualificato del M., ministri essendone, come noto, gli sposi) il CIC detta varie norme (cann. 1094-1097). Per regola generale il M. deve celebrarsi davanti al parroco della sposa se non vi sia giusta causa in contrario (can. 1097 § 2). Non si ri chiedono particolari requisiti per i testimoni, è soltanto necessario che abbiano l’uso di ragione e siano i n grado di testimoniare sulla prestazione del consenso. I contraenti devono essere presenti realmente o a mezzo di procuratore (cann. 1088 § 1, 1089, 1091); è permesso l’uso dell’interprete (cann. 1090, 1091). – Oltre alla forma ordinaria della celebrazione sono ammesse, in casi eccezionali, due forme straordinarie: a) il M. davanti ai soli testi, che può contrarsi in pericolo di morte (M. in extremis), quando non sia possibile senza grave incomodo avere la presenza del parroco o del vescovo o di un loro delegato, o anche fuori del pericolo di morte, quando parimenti non sia possibile avere tale presenza e si preveda che la mancanza di uno dei suddetti ecclesiastici durerà per un mese (can. 1098); b) il M. di coscienza (v. oltre), detto anche M. segreto od occulto, che è contratto senza pubblicazioni, in segreto, davanti al parroco proprio o ad altro sacerdote delegato d all’Ordinario e a due testimoni (can. 1104). Esso deve essere autorizzato dall’Ordinario, il quale non può permetterlo se non per causa gravissima, e importa l’obbligo di serbare il segreto da parte del sacerdote assistente, dei testi, dell’Ordinario e suoi successori, e anche del coniuge, se l’altro non consenta alla divulgazione (cann. 1104, 1105). L’obbligo del segreto da parte del vescovo cessa se ne derivi scandalo o ingiuria alla santità del M. o se i genitori manchino alle loro obbligazioni verso i figli (can. 1106).
- Effetti del M. Separazione. Scioglimento. – Dal M. valido sorgono particolari effetti giuridici, sia nei rapporti dei coniugi, sia in quello della prole. I primi sono: l a creazione di un vincolo per sua natura perpetuo ed esclusivo (can. 1110); il rispettivo diritto e dovere al debito coniugale (can. 1111); la partecipazione, salvo sia diversamente stabilito per diritto speciale, della donna allo stato del marito (can. 1112); l’obbligazione gravissima di curare l’educazione della prole, sia religiosa che morale, sia fisica che civile (can. 1113). A tali effetti, detti canonici, si aggiungono anche quelli puramente civili (mere civiles) che cioè non sono, come i precedenti, essenziali al M. ed inevitabilmente connessi ad esso (ad. es., quelli inerenti ai rapporti dotali, ecc.), e che sono regolati dalla legge civile. Rispetto alla prole il M. ha inoltre l’effetto di determinare la legittimità dei figli concepiti o nati nel medesimo, salvo che la professione religiosa solenne o l’Ordine sacro vietasse ai genitori l’uso del M. anteriormente contratto (can. 1114). Il M. valido rato e consumato non può essere sciolto da nessun potere umano e da nessuna causa, all’infuori della morte (can. 1118). Il M . non consumato tra battezzati o fra un battezzato e un infedele, si scioglie ipso iure con la solenne professione religiosa di uno degli sposi e, fuori di questo caso, può anche essere sciolto per dispensa concessa dalla S. Sede per giusta causa, e sopra istanza di una sola o di entrambe le parti (can. 1119). Quanto al M. legittimo dei non battezzati, per quanto pure considerato dalla Chiesa come rigorosamente indissolubile, esso può in via di eccezione essere sciolto in seguito al Battesimo di uno dei coniugi, in favore della fede, in forza del Privilegio paolino. – Il divorzio, come scioglimento del M., non è dunque ammesso dal diritto canonico. Gli sposi possono invece per giusti motivi, sempre restando fermo il vincolo, essere liberati dall’obbligo della comunione di vita che il M. impone, mediante la sospensione della convivenza maritale o separazione (separatio; talora anche detta, nelle fonti e negli scrittori, divortium). La legge canonica regola (cann. 1129-32) i casi e le modalità in cui può essere concessa la separazione, che non è lasciata al semplice arbitrio delle parti, ma va sempre giustificata da una giusta causa.
5. – Il M. nullo: convalidazione e dichiarazione di nullità.— Verificandosi un caso di nullità del M., in cui o le parti non vogliano ottenere o non possa farsi luogo né alla convalidazione semplice né all’altra più favorevole forma di convalidazione costituita dalla sanazione in radice, le parti incolpevoli, come pure l’autorità ecclesiastica per gli impedimenti di loro natura pubblici, possono chiedere che la nullità venga dichiarata giudizialmente. Benché nel sistema canonico non abbia luogo la distinzione, che vien fatta nella dottrina civilistica, fra M. inesistente e M. semplicemente annullabile, e quindi la mancanza di uno qualsiasi dei requisiti necessari alla valida esistenza del M . ne produca sempre la nullità assoluta (le espressioni di M. irrito, nullo, invalido, vanno intese nel CIC come sostanzialmente equivalenti), tuttavia non è lecito alle parti, anche nella certezza soggettiva della nullità del precedente M., contrarne un altro prima che di tale nullità consti in modo legittimo e certo (can. 1069 § 2). A tal fine è necessaria una pronuncia del giudice ecclesiastico, unico competente a conoscere delle cause relative al M. fra battezzati, cattolici e non cattolici, o in cui anche una sola delle parti sia battezzata (can. 1960; v. oltre: M. rato non consumato e Nullità).