DOMENICA II dopo EPIFANIA

DOMENICA II dopo l’EPIFANIA

Incipit
In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus
Ps LXV:4
Omnis terra adóret te, Deus, et psallat tibi: psalmum dicat nómini tuo, Altíssime. [Tutta la terra Ti adori, o Dio, e inneggi a Te: canti salmi al tuo nome, o Altissimo.]

Ps LXV:1-2
Jubiláte Deo, omnis terra, psalmum dícite nómini ejus: date glóriam laudi ejus.
[Alza a Dio voci di giubilo, o terra tutta: canta salmi al suo nome e gloria alla sua lode.]


Omnis terra adóret te, Deus, et psallat tibi: psalmum dicat nómini tuo, Altíssime. [Tutta la terra Ti adori, o Dio, e inneggi a Te: canti salmi al tuo nome, o Altissimo.]

Oratio
Orémus.
Omnípotens sempitérne Deus, qui coeléstia simul et terréna moderáris: supplicatiónes pópuli tui cleménter exáudi; et pacem tuam nostris concéde tempóribus.
[O Dio onnipotente ed eterno, che governi cielo e terra, esaudisci clemente le preghiere del tuo popolo e concedi ai nostri giorni la tua pace.]

Lectio
Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Romános.
Rom XII:6-16
“Fratres: Habéntes donatiónes secúndum grátiam, quæ data est nobis, differéntes: sive prophétiam secúndum ratiónem fídei, sive ministérium in ministrándo, sive qui docet in doctrína, qui exhortátur in exhortándo, qui tríbuit in simplicitáte, qui præest in sollicitúdine, qui miserétur in hilaritáte. Diléctio sine simulatióne. Odiéntes malum, adhæréntes bono: Caritáte fraternitátis ínvicem diligéntes: Honóre ínvicem præveniéntes: Sollicitúdine non pigri: Spíritu fervéntes: Dómino serviéntes: Spe gaudéntes: In tribulatióne patiéntes: Oratióni instántes: Necessitátibus sanctórum communicántes: Hospitalitátem sectántes. Benedícite persequéntibus vos: benedícite, et nolíte maledícere. Gaudére cum gaudéntibus, flere cum fléntibus: Idípsum ínvicem sentiéntes: Non alta sapiéntes, sed humílibus consentiéntes
.”.

OMELIA I

[Mons. Bonomelli, Omelie, vol. I, Torino – 1899 Omelia XIII]

“Avendo noi doni differenti, secondo la grazia, che ci è stata data, se abbiamo la profezia, adoperiamoci a proporzione della fede; se abbiamo il ministero, attendiamo al ministero; se il magistero, attendiamo ad insegnare. Colui che esorta, attenda ad esortare; chi distribuisce, lo faccia con semplicità; colui che presiede, lo faccia con diligenza; chi fa opere pietose, si presti con ilarità. La carità sia senza simulazione: abborrite il male, attenetevi al bene. Amatevi fraternamente: prevenitevi gli uni gli altri nel rendervi onore. Non siate pigri: siate ferventi nello spirito, dedicati al servizio di Dio, allegri nella speranza, costanti nelle afflizioni, perseveranti nell’orazione, partecipi ai bisogni dei santi, facili alla ospitalità. Benedite quelli che vi perseguitano: benediteli e non vogliate maledirli. “Rallegrate vi con chi è allegro, piangete con chi piange. Abbiate tra voi uno stesso sentimento, non rivolgete l’animo a cose alte, ma acconciatevi alle basse „ (Rom. cap. XII, vers. 6-16).

Questo tratto della epistola ai Romani segue immediatamente a quello che vi spiegai nell’omelia XI e non è che una serie di sentenze morali d’una bellezza veramente stupenda. Esse erompono dall’anima ardente dell’Apostolo con una foga, con una facilità ed efficacia incomparabile. Se queste massime sì sublimi e sì semplici, che rispondono a meraviglia a ciò che vi ha di più intimo e più nobile nella nostra natura, fossero cadute sotto gli occhi di Platone, di Aristotele, di Cicerone e di tanti filosofi pagani, quale stupore ne avrebbero avuto? Con quale entusiasmo le avrebbero abbracciate? Noi le abbiamo sotto gli occhi e negli orecchi ogni giorno e per poco non vi poniamo mente! Nati in mezzo alla luce, non ne comprendiamo il pregio: educati con queste santissime verità, non ne apprezziamo debitamente) l’altezza. Oggi veniamole considerando partitamente e con amore e ne rileveremo la bellezza. – S. Paolo dopo aver fatto osservare, che la Chiesa è somigliante al corpo umano, il quale è uno solo, ma ha molte membra differenti, con differenti uffici, tra loro armonicamente! coordinati, prosegue, e dice: “Avendo noi doni differenti, secondo la grazia, che ci è stata data, se abbiamo la profezia, adoperiamoci a proporzione della fede. „ Il sole è uno solo, eppure crea una varietà sterminata di  colori secondo la natura degli oggetti che illumina: così Dio, che è uno e semplicissimo, produce nelle anime una varietà prodigiosa di doni, che mostrano la grandezza e fecondità inesauribile del donatore. Ciascuno di noi ha i suoi doni particolari? Usiamone. Hai tu il dono della profezia? Qui il dono della profezia non significa propriamente annunziare le cose future, ma la facoltà di parlare delle cose spettanti alla religione. Ebbene: l’adopera nella misura che l’hai ricevuto, secondo le tue forze. “Se abbiamo il ministero, segue l’Apostolo, attendiamo al ministero. „ Abbiamo cioè 1’ufficio di presiedere, di governare? Adempiamolo come si deve. — Se abbiamo il magistero, ossia l’ufficio di ammaestrare, e questo facciamo meglio che per noi si possa. — Colui che esorta, ossia che eccita i fratelli a fuggire il vizio ed a praticare la virtù, vi metta tutto lo zelo. — Chi distribuisce, chi largheggia in elemosine, lo faccia con semplicità, allontanando ogni fine men retto e men nobile, intendendo solo di soccorrere il fratello e far cosa grata a Dio. — Chi presiede e regge altri, faccia il suo dovere con diligenza. — Nella Chiesa vi sono molti ed alti uffici: quelli che li tengono, devono ricordarsi che gli uffici non hanno per scopo di accumulare ricchezze, ricevere omaggi, ritrarne comodi ed onori, ma sì hanno per fine proprio ed immediato il bene delle anime e la salute loro eterna e perciò si vogliono adempire con ogni diligenza. — Chi fa opere pietose, scrive S. Paolo, si presti con ilarità. — Che bella e cara espressione! Soccorri tu il povero? Conforti tu l’afflitto? Ammaestri l’ignorante? Consigli il timido e vacillante? Visiti l’infermo ed eserciti qualunque opera di carità? E a tutto questo col volto ilare e contento, perché così vuole Iddio: Hilarem datorem dilìgit Deus, e perché così l’opera tua sarà più efficace e gradita. Vedi queste Suore di carità che giorno e notte si aggirano per gli ospedali, che vanno da un letto all’altro: che hanno sempre sotto gli occhi lo spettacolo delle miserie umane: esse hanno sempre serena la fronte, il sorriso sulle labbra, la parola soave, l’occhio pieno d’amore: eccovi, o cari, ciò che vuole S. Paolo allorché comanda: “Chi fa opere pietose si presti con ilarità. „ Prosegue l’Apostolo: “La carità sia senza simulazione. Via la finzione, via l’ipocrisia sì nelle parole come negli atti e la nostra carità sia schietta, piena di candore. E qui l’Apostolo, quasi volesse condensare tutto ciò che ha detto e gli resta a dire, esclama: “Abborrite il male, attenetevi al bene. „ Pareva che qui l’Apostolo dovesse por fine alle sue esortazioni ed ai suoi documenti; no. Egli è simile ad un padre amoroso, che non vuole che il bene dei suoi figli ed aggiunge alle esortazioni le preghiere, ai ricordi i comandi e allorché sembra abbia finito, ripiglia da capo: il suo cuore non dice mai: Basta! – E invero qui S. Paolo comincia un’altra esortazione, come se nulla avesse detto. Uditelo: “Amatevi fraternamente. „ È il precetto nuovo, che Gesù Cristo portò sulla terra, Egli, che disse agli apostoli e in loro a tutti gli uomini quella sublime sentenza: ” Vos autem fratres estis — Voi siete fratelli. „ Dunque “come fratelli amatevi. „ Vi furono uomini, che scrissero sulla loro bandiera, come se fosse stata una loro scoperta, questa parola: “Fratellanza,„ imbrattandola tosto di sangue. Ignoravano essi che Gesù Cristo diciotto secoli innanzi l’aveva proclamata: Vos autem fratres, estis, e qui S. Paolo la ripete: Charitate fraternitatis invicem diligentes? Non era possibile. Lo sapevano; ma volevano arrogarsi il vanto d’aver trovata quella sublime dottrina. O cari! più che delle parole e delle vane proteste di fratellanza, siamo solleciti di mostrare le opere della fratellanza, “rispettandoci, amandoci, compatendoci e soccorrendoci a vicenda. „ La carità fraterna è una radice feconda: da essa derivano non solo le opere, ma le parole e perfino quelle convenienze del vivere quieto ed onesto, che alimentano il rispetto reciproco e la mutua benevolenza. Ecco ciò che voleva dire S. Paolo nelle parole sì belle, che seguono: “Prevenitevi gli uni gli altri nel rendervi onore. „ Sì; se la carità regnerà nei nostri cuori ed informerà tutti i nostri atti, ci guarderemo da far cosa che spiaccia ai fratelli e faremo ciò che loro torna gradito e sarà una nobile e santa gara in prevenirci, rendendoci onore gli uni gli altri. E ciò che altrove inculca lo stesso Apostolo scrivendo: “Per umiltà, ciascuno di voi pregiando gli altri più che se stesso — Humilìtate… invicem superiores arbitrantes. „ Dite, o carissimi, il codice di Gesù Cristo, che si compendia nella carità, non è desso anche un perfetto codice di educazione e civiltà sociale? “Non siate pigri, „ soggiunge l’Apostolo; s’intende nei vostri doveri, ma ferventi nello spirito, „ pronti, alacri per il fuoco della carità, acceso in voi dallo Spirito Santo, intesi ad una cosa sola, a servire cioè al Signore, fine ultimo di tutte le opere vostre. – Né qui si ferma S. Paolo, ma, trasportato dall’impeto della sua carità, con una rapidità mirabile accumula verità pratiche sopra verità pratiche, con una concisione ben più grande e sostanziosa di quella di Tacito. “Allegri nella speranza, costanti nelle afflizioni, perseveranti nella preghiera. „ La speranza della mercede rallegra il contadino, che suda sul campo, l’operaio che lavora nell’officina, il mercante che viaggia; e la speranza del premio del cielo fa brillare la gioia sulla fronte del cristiano, che soffre nella lotta della vita, lo tiene saldo in mezzo ai dolori. E quando egli sente venir meno le forze (e ciò non è raro), dia di piglio all’arme sì valida e sì sicura della preghiera e in essa perduri, e la vittoria sarà certa. L’Apostolo non dimentica mai che l’uomo non vive, né può vivere quaggiù isolato: che egli ha dei rapporti e continui ed intimi coi suoi fratelli, ed eccolo di nuovo a ricordarli sotto un’altra forma: “Siate partecipi ai bisogni dei santi, facili alla ospitalità. „ Fate che i bisogni, le necessità di tutti siano comuni a voi, siano come se fossero vostre, e particolarmente quelle dei santi, dei vostri fratelli nella fede, chiamati ad essere santi e, se sono pellegrini, offrite loro l’ospitalità. – La facondia santa dell’Apostolo continua: “Benedite quelli che vi perseguitano, e non vogliate maledirli. „ Quale sentenza! Qual precetto! È qui che la carità di Gesù Cristo tocca il sommo della perfezione. Amare operosamente tutti gli uomini; amare gli stranieri, come fratelli, è già gran cosa, ignota a tutto il mondo pagano; ma amare anche i nemici, benedire perfino quelli che ci perseguitano, beneficarli, se è possibile, è cosa che trascende al tutto l’umano comprendimento, e questo solo precetto (giacche l’amore dei nemici non è consiglio, ma precetto) basta a provare l’origine sovraumana del Vangelo. Qualunque uomo, sia pur buono e virtuoso, deve avere più o meno dei malevoli, degli invidiosi, dei nemici. Li ebbero i santi e gli Apostoli: li ebbe il Santo dei santi, Gesù Cristo; qual meraviglia, che li abbiamo noi, pieni di difetti, sì facili ad offendere il prossimo, talvolta senza volerlo? Ameremo dunque tutti i nostri nemici, o fratelli. Che fare? Ciò che qui comanda l’Apostolo: “Benedite quelli che vi perseguitano: benediteli e non vogliate maledirli. „ Gesù Cristo, dall’alto della croce, rivolto al Padre pregava per i suoi carnefici e li scusava, dicendo: “Padre, perdona loro, perché non sanno quel che si fanno. „ S. Pietro, parlando di Gesù e proponendolo qual modello, scriveva: ” Oltraggiato non oltraggiava, soffrendo non minacciava „ (I. c. II, vers. 23). Perdoniamo le offese, amiamo i nemici, rendiamo bene per male, preghiamo per essi e il buon Dio userà misericordia a tutti. Si sta sì bene, o cari, quando si perdona e si beneficano i nemici! Si gusta tal pace, si sente tal gioia, che la lingua non sa esprimere. È questa tal mercede che anche sola ci compensa ad usura del sacrificio compiuto in far tacere l’amor proprio ferito. – Voi potete scorrere tutti i libri dei sommi filosofi morali del paganesimo, Epitteto, M. Aurelio, Cicerone, Platone, Aristotele: voi potete investigare tutti i codici sacri delle nazioni antiche e moderne fuori del Cristianesimo. Troverete qua e là sentenze belle, ammirabili sull’amore del prossimo, sulla ospitalità, sulla elemosina, sul perdono delle offese: ma non troverete mai queste verità insieme unite, con tanta chiarezza, brevità, sicurezza e perfezione come nel Vangelo e in queste poche sentenze di S. Paolo. E perche? Ah! Perché esse non vengono dagli uomini, ma da Dio. “Rallegratevi con chi è allegro e piangete con chi piange. „ E la conseguenza naturale della carità e delle cose sopra inculcate dall’Apostolo. La carità unisce i cuori per guisa che il bene ed il male è comune, e perciò si gode e si soffre insieme. Se il padre vostro, la vostra madre, i vostri fratelli salgono in onore e abbondano d’ogni cosa, voi che fate? Ne siete lietissimi. Se soffrono infermi, se sono tribolati, perseguitati, che fate voi? Soffrite con essi. Perché? Perché l’amore, che a loro vi lega, fa di voi tutti quasi una sola persona e sentite tutti lo stesso dolore o lo stesso piacere. Se questo amore abbracciasse tutti gli uomini, avremmo lo stesso effetto: ci rallegreremmo con chi è allegro e piangeremmo con chi piange. – “Abbiate, conchiude l’Apostolo, lo stesso sentimento. „ Ripete in altra forma ciò che ha detto nel versetto antecedente. “E non siate con l’animo alle cose alte, ma acconciatevi alle basse. „ Non aspirate a grandezze, ad onori, a ricchezze, a quelle cose, delle quali il mondo è sì ghiotto, e che non possono far pago il nostro cuore: ricevete ciò che Iddio vi dà, e collocati in basso stato, di questo accontentatevi e sarete, per quanto lo possiamo essere quaggiù, tranquilli e felici. – Se noi studiamo la causa vera d’una gran parte dei nostri dolori e delle nostre inquietudini, che troviamo? Troviamo che fonte massima di questi dolori e di queste inquietudini è il desiderio d’aver sempre più di ciò che abbiamo: è questo il pungolo, che ci spinge innanzi e ci tormenta, è questo il nostro implacabile carnefice. I desideri non soddisfatti sono il tormento dei nostri poveri cuori; soffochiamo quei desideri, ed avremo la pace, quella pace che il mondo non conosce.

Graduale

Ps CVI:20-21
Misit Dóminus verbum suum, et sanávit eos: et erípuit eos de intéritu eórum. [Il Signore mandò la sua parola e li risanò: li salvò dalla distruzione.]
V. Confiteántur Dómino misericórdiæ ejus: et mirabília ejus fíliis hóminum.  [V. Diano lode al Signore le sue misericordie e le sue meraviglie in favore degli uomini. ]

Alleluja
Allelúja, allelúja

Ps CXLVIII:2
Laudáte Dóminum, omnes Angeli ejus: laudáte eum, omnes virtútes ejus. Allelúja.
[Lodate il Signore, voi tutti suoi Angeli: lodatelo, voi tutte milizie sue. Allelúia.]

Evangelium
Sequéntia sancti Evangélii secúndum Joánnem.
Joann 2:1-11
In illo témpore: Núptiæ factæ sunt in Cana Galilaeæ: et erat Mater Jesu ibi.
Vocátus est autem et Jesus, et discípuli ejus ad núptias. Et deficiénte vino, dicit Mater Jesu ad eum: Vinum non habent. Et dicit ei Jesus: Quid mihi et tibi est, mulier? nondum venit hora mea. Dicit Mater ejus minístris: Quodcúmque díxerit vobis, fácite. Erant autem ibi lapídeæ hýdriæ sex pósitæ secúndum purificatiónem Judæórum, capiéntes síngulæ metrétas binas vel ternas. Dicit eis Jesus: Implete hýdrias aqua. Et implevérunt eas usque ad summum. Et dicit eis Jesus: Hauríte nunc, et ferte architriclíno. Et tulérunt. Ut autem gustávit architriclínus aquam vinum fáctam, et non sciébat unde esset, minístri autem sciébant, qui háuserant aquam: vocat sponsum architriclínus, et dicit ei: Omnis homo primum bonum vinum ponit: et cum inebriáti fúerint, tunc id, quod detérius est. Tu autem servásti bonum vinum usque adhuc. Hoc fecit inítium signórum Jesus in Cana Galilaeæ: et manifestávit glóriam suam, et credidérunt in eum discípuli ejus.

[In quel tempo: Vi furono delle nozze in Cana di Galilea, e li vi era la Madre di Gesù. E alle nozze fu invitato anche Gesù con i suoi discepoli. Venuto a mancare il vino, la Madre di Gesù disse a Lui: Non hanno più vino. E Gesù rispose: Che ho a che fare con te, o donna? La mia ora non è ancora venuta. Disse sua Madre ai domestici: Fate tutto quello che vi dirà. Orbene, vi erano lì sei pile di pietra, preparate per la purificazione dei Giudei, ciascuna contenente due o tre metrete. Gesù disse loro: Empite d’acqua le pile. E le empirono fino all’orlo. Gesù disse: Adesso attingete e portate al maestro di tavola. E portarono. E il maestro di tavola, non appena ebbe assaggiato l’acqua mutata in vino, non sapeva donde l’avessero attinta, ma i domestici lo sapevano; chiamato lo sposo gli disse: Tutti servono da principio il vino migliore, e danno il meno buono quando sono brilli, ma tu hai conservato il vino migliore fino ad ora. Così Gesù, in Cana di Galilea dette inizio ai miracoli, e manifestò la sua gloria, e i suoi discepoli credettero in lui.]

OMELIA II

 [Del canonico G. B. Musso – Seconda edizione napoletana, Vol. I -1851-]

Gesù onorava di sua presenza un convito di nozze in Cana della Galilea, così ci narra l’odierno Vangelo. Dunque il matrimonio, dice S. Agostino, ha Dio per autore. Dunque il matrimonio, soggiunge S. Paolo, è santo, ed è nella Chiesa di Cristo, un gran sacramento. “Sacramentum hoc magnum est… in Christo et in Ecclesia” (ad Ephes.V, 32). Della santità del matrimonio potrei, uditori amatissimi, tenervi ragionamento, se non credessi più profittevole parlarvi di alcuni obblighi annessi allo stato del matrimonio stesso. E per ciò fare il modo facile a intendersi, e ritenersi da tutti, contentatevi ch’io mi serva di cose sensibili, che fissino l’mmaginativa, e possano ritenersi più agevolmente nella memoria de’ meno istruiti. L’arca del Testamento è un simbolo assai espressivo delle obbligazioni del matrimonio. Su quella stavano due Cherubini d’oro, figura dei due sposi, l’amore e le intenzioni de’ quali devono esser pure come puro è l’oro. L’arca era formata di legni incorruttibili, simbolo della reciproca inviolabile fedeltà. Nel seno dell’arca si conservavano le tavole della legge data da Dio a Mosè sul Sinai, la verga d’Aronne, e un vaselletto di manna, piovuta già nel deserto (ad Heb. IX,4). In questi ultimi abbietti io raffiguro tre principali obbligazioni de’genitori verso i propri figliuoli. Istruzione, correzione e custodia. Ripigliamo: tavole della Legge, ecco l’istruzione: verga d’Aronne, ecco la correzione: vaselletto di manna, ecco la custodia della propria prole. Ciò ch’io passo ad esporvi con la maggiore a me possibile chiarezza.

I . Due erano, come voi sapete, le tavole della divina legge. Conteneva la prima i comandamenti che riguardano Dio, la seconda quei che al prossimo si appartengono. Padri e madri, siccome il grande Iddio impose a Mosè di promulgare al suo popolo i precetti scritti dal suo dito in quelle tavole, così lo stesso Dio comanda a voi di intimarli, e d’istruirne la vostra prole. Questo comando del Signore esattamente adempì il buon Tobia (Tob. IV). “Figliuol mio, diceva sovente all’unico suo figlio, abbi sempre il tuo Dio presente allo spirito, guardati dal trasgredire alcuno dei suoi comandamenti, guardati da qualunque peccato: fa’ volentieri limosina a’ poverelli, e noli far volto duro sopra l’altrui miserie: da’ prontamente agli operai la loro mercede, e non fare ad altri quel male che non vorresti fosse fatto a te”. Oh se i padri e le madri con frequenti esortazioni facessero penetrare queste massime sante nell’animo dei teneri figli, quanto si vedrebbe fiorire nelle città cristiane la Religione e il buon costume! Se tratto tratto dicessero come la madre dei Maccabei: “figliuoli chi vi ha data la vita, non siam in noi precisamente: Dio è l’autore del vostro essere. Da esso venite, a Lui dovete ritornare. Questa terra, su cui vi ha posti, è un esilio, un luogo di prova. Chi opera il bene avrà Iddio per premio, chi fa il male avrà Dio per nemico. Un po’ più presto, o un po’ più tardi io e voi dovremo sloggiare di questo mondo, e comparire al suo tremendo giudizio; il peccato è quel solo, che può trarci addosso una sentenza di eterna morte. Odiate adunque il peccato, o figli, fuggite da questo e da’malvagi compagni come dalla faccia del serpente. Queste e simili debbon essere le istruzioni de’genitori, se bramano salvi i propri figli e sé stessi. Ma i miei figliuoli, dirà alcun di voi, non mi danno ascolto, le mie parole se le porta il vento, ed essi son sempre più perversi. Sentite; le tavole del Decalogo erano di pietra, e il dito di Dio vi scrisse i precetti della sua legge. Quand’anche il cuor de’ figli nostri fosse di pietra, non cessate d’istruire, replicate le ammonizioni, gli avvisi, i buoni consigli, e vi assicuro che essi resteranno impressi nella loro mente. “Gutta cavat lapidem”. Verrà un giorno, che memori delle salutari vostre istruzioni e delle buone massime loro inculcate, diranno: benedetto quel mio padre, egli sempre mi raccomandava il timor santo di Dio. Ora mi leggeva e mi faceva leggere un libro spirituale, ora mi narrava i fatti più celebri della sacra Scrittura. Benedetta quella mia madre, essa m’istruiva nella cristiana dottrina, non ammetteva scuse per dispensarmi dalle quotidiane preghiere, mi voleva sempre sotto i suoi occhi; qualche volta mi sembrava troppo precisa, ora conosco il bene che mi fece , e i pericoli da’ quali mi liberò. Così i vostri ammaestramenti, a guisa di buona semente, produrranno a suo tempo il frutto desiderato. Tantopiù che voi padri e madri, avete per natura e per grazia del sacramento le più idonee disposizioni a muovere il cuore de’vostri figli, a formarne lo spirito, a regolarne i costumi, a riformarne i difetti. È necessario però agli insegnamenti congiungere i buoni esempi. Se raccomandate alla vostra famiglia il timor di Dio, e poi vi fate sentire a nominarLo invano, o a bestemmiarLo col proferire il suo santo nome nell’impeto della vostra collera, se ad essi inculcate la frequenza de’ sacramenti, e voi ne state lontani; se li mandate alla Chiesa e voi vi portate all’osteria; Voi distruggete con le opere quel ch’edificaste con le parole. Sostenete per carità con l’esempio cristiano là cristiana istruzione… la via de’ documenti e de’ precetti è troppo lunga, e il più delle volte senza successo, la più corta ed efficace è il buon esempio. L’intendeva anche un Gentile: “Longum iter per præcepta; breve et effìcax per exempla”.

II. L’istruzione però non basterebbe, se ai dati tempi si escludesse l’opportuna correzione. Deve questa esser simile alla verga di Aronne, che non era un ramo d’albero selvaggio, ma di mandorlo, pianta fruttifera, e perciò la correzione riuscirà vantaggiosa, se sarà figlia della ragione, della prudenza e della carità, carità che finga sdegno per apportare rimedio, come fa il chirurgo che ferisce la piaga a fin di sanarla. – Se per l’opposto il vostro correggere sarà effetto di collera, sfogo di rabbia e di furioso trasporto, non n’aspettate buon esito; mancherete all’avviso che vi dà l’Apostolo, di non provocare i vostri figli a concepir ira contro di voi, “Patres, nolite ad indignationem, provocare filios vestros” (ad COL. III, 21) . La verga d’Aronne era flessibile, e in una notte si coprì prodigiosamente di fiori. Alla qualità della colpa, della persona e dell’età va adattata la correzione. Le mancanze de’ figlioletti meritan verga, ma dolce e flessibile, ma fiorita per discreta moderazione: da queste regole quanto si discostano comunemente i genitori! Quel fanciullo rompe un vaso, versa un liquido: e la madre di esso, lo batte senza riguardo, e lo vuol morto; lo stesso poi proferisce una parola scandalosa, e gli ride in faccia. Che razza di procedere è questo? L’interesse nel primo caso è quel che spinge una correzione ingiusta; nel secondo quel che va corretto si approva col riso. Non si approvano è vero certe colpe più notabili degli adulti, ma la troppa indulgenza, ma la trascuratezza in castigarli ridonda poi in danno de’ figli rei e de’ negligenti genitori. Che disgusto non provò Davide pe’ suoi due figliuoli Ammone e Assalonne? Sa che il primo ha fatto violenza a Tamar sua sorella, e non si legge che aprisse bocca ad un rimprovero. Gli arriva notizia, che il secondo ha ucciso Ammone a tradimento, e non si dà premura d’aver in mano il delinquente; e perciò nella più grande amarezza piange inutilmente uno trucidato in un convito, l’altro trafitto in un bosco: un proporzionato castigo avrebbe impedito la morte d’entrambi. Castigate i figli vostri, o padri e madri, se non volete disgusti, castigateli se volete salvarvi. Dio vel comanda; dovete ubbidire. Non vi lasciate sedurre da natural tenerezza, o da un falso amore. Non è amore, ma odio quel che risparmia al figlio reo il meritato castigo. Lo dice lo Spirito Santo: “Qui parcit virgæ odiit fìlium suum” (Prov. XVIII). Ho detto se volete salvarvi, dal Sacerdote Eli apprendete il vostro obbligo e il vostro pericolo. Riprese egli le scandalose azioni de’ figli suoi, pe’ quali il popolo si allontanava dal tempio e da’ sacrifizi; ma siccome invece d’una giusta severità e rigorosa punizione, si contentò di poche parole, Iddio gli fece intimare dal profeta Samuele la perdita dei propri figli in un sol giorno, e quel che più importa, perdette egli non solo la vita temporale, colpito da subitanea morte, ma secondo l’opinione de’ santi Cirillo e Giovanni Damasceno, anche la vita eterna.

III. Devono finalmente i genitori aggiungere all’istruzione, ed alla correzione l’esatta custodia della loro prole. La manna era custodita nell’arca del Testamento. Pareva dovesse bastare l’essere riposta in una delle sue cassette; no, non bastava, dice S. Paolo (ad Ebr.IX, 4) chiusa in un’urna, e da Dio conservata incorrotta. Usate voi somigliante cautela per custodire la vostra figliolanza? Oh Dio! su questo punto così declamava innanzi al suo popolo di Antiochia S. Giovanni Crisostomo, acceso di santo zelo: dovrò dirlo, o dovrò tacerlo? ma che giova il tacere per non contristarvi, se il mio silenzio vi fosse nocevole? Io vedo in questa vostra città che molti di voi hanno più cura degli asini e dei cavalli, che de’propri figliuoli. Maiorem asinorum et equorum, quam filiorum curam habent (Hom. 60). E forse che non può dirsi lo stesso di noi? Si ha più cura della vacca, della capra, della gallina, dell’uccello di gabbia, che della propria famiglia, che del proprio sangue; ond’è che si lasciano i figli tutto giorno in abbandono, come i cani alla strada; e se questo è un gran delitto riguardo ai figli qual sarà in rapporto alle figlie? Oh la mia figlia è innocente. Se la lascerete in libertà perderà la sua innocenza. La manna nel deserto appena vedeva il sole si dileguava. Io la lascio, è vero, andare a quella campagna, a quel passeggio, a quel festino, ma con persone oneste, buoni amici e stretti parenti. Voi vi fidate troppo, io piango la vostra figlia e voi. Ma io l’ho data in custodia a un mio congiunto, uomo di senno e di tutta probità. Sarebbe stato meglio, che si fosse offerto ad accompagnarla uno scapestrato, chè così non vi sareste fidati, e non fidandovi, voi e la figlia vostra eravate sicuri. Vi fidate? dunque arrischiate. Bisogna dire che voi, o padre, conosciate poco il mondo, e che a voi, o madre, non sia mai occorso di trovarvi in qualche cimento. Possibile che la vostra esperienza non vi faccia aprir gli occhi, e non vi renda più cauti! Con questo di più, che forse nella vostra adolescenza e giovinezza non v’erano tanti lacci, tant’inciampi, tanta dissolutezza come nel secolo presente, secolo presso che somigliante a quel di Noè avanti il diluvio, secolo in cui, rotto ogni freno all’impudenza, si aggirano ingordi avvoltoi intorno alle incaute colombe, lupi rapaci in cerca di agnelle non custodite. – Non volete restar persuasi sul pericolo delle vostre figlie se non avrete cent’occhi? Imparatelo da Dina unica figliuola di Giacobbe. Questa savia donzella si presenta un dì al suo buon genitore dicendogli.- siavi qui nelle vicinanze di Sichem, contentatevi ch’io vada a vedere come sono abbigliate le donne Sichimite. Qual più innocente domanda? Ah Giacobbe, chi presago dell’avvenire avesse potuto dire all’orecchio di questo patriarca: Giacobbe, non accordare questa licenza, che troppo ti costerà d’amarezza, di lacrime e di pericoli. Ma Giacobbe che nulla prevede, consente e permette. Va Dina per vedere ed è veduta, e l’esser veduta, rapita, disonorata fu una cosa stessa. Giunge al padre la contristante notizia, e ne piange, arriva ai fratelli, e van sulle furie, dissimulano per poco la vendetta, armati poi assalgono quella città, e mettono a ferro, a fuoco uomini, donne, bambini, case, campagne. I paesi vicini temono una egual sorte; onde tutti gridano all’armi contro i forestieri assassini. Ed ecco il buon Giacobbe e tutta la famiglia in evidente pericolo della vita, costretto a darsi a fuga precipitosa e notturna per selve, per balze e per dirupi. Che dite ora di quella domanda innocente, e di quella incolpabile licenza? Che avverrà delle figlie vostre, alle quali sì facilmente accordate la conversazione, il passeggio il ballo, il festino, il teatro? Ah per carità aprite gli occhi sulle altrui disgrazie. Tante ne vedete, e ne sapete meglio di me. Che aspettate voi dunque? Deh, ve ne prego, ammaestrare i vostri figli, tenete sempre innanzi agli occhi loro le tavole della divina legge, e datene loro l’esempio con l’osservarla; maneggiate la verga per loro correzione; custoditeli in fine come una manna, come un prezioso deposito che Iddio vi ha affidato, e di cui vi domanderà strettissimo conto. E così voi a’ vostri figli, e a voi medesimi procurerete una temporale ed eterna felicità, ch’ io vi desidero.

Credo…

Offertorium
Orémus
Ps 65:1-2; 65:16
Jubiláte Deo, univérsa terra: psalmum dícite nómini ejus: veníte et audíte, et narrábo vobis, omnes qui timétis Deum, quanta fecit Dóminus ánimæ meæ, allelúja
. [Alza a Dio voci di giubilo, o terra tutta: cantate un salmo al suo nome: venite, e ascoltate, voi tutti che temete Iddio, e vi racconterò quanto Egli ha fatto per l’anima mia. Allelúia.]

Secreta
Oblata, Dómine, múnera sanctífica: nosque a peccatórum nostrórum máculis emúnda.  [Santifica, o Signore, i doni offerti, e mondaci dalle macchie dei nostri peccati.]

Communio
Joann 2:7; 2:8; 2:9; 2:10-11
Dicit Dóminus: Implete hýdrias aqua et ferte architriclíno. Cum gustásset architriclínus aquam vinum factam, dicit sponso: Servásti bonum vinum usque adhuc. Hoc signum fecit Jesus primum coram discípulis suis. [Dice il Signore: Empite d’acqua le pile e portate al maestro di tavola. E il maestro di tavola, non appena ebbe assaggiato l’acqua mutata in vino disse allo sposo: Hai conservato il vino migliore fino ad ora. Questo fu il primo miracolo che Gesù fece davanti ai suoi discepoli.]

Postcommunio
Oremus.
Augeátur in nobis, quǽsumus, Dómine, tuæ virtútis operatio: ut divínis vegetáti sacraméntis, ad eórum promíssa capiénda, tuo múnere præparémur.
[Cresca in noi, o Signore, Te ne preghiamo, l’opera della tua potenza: affinché, nutriti dai divini sacramenti, possiamo divenire degni, per tua grazia, di raccoglierne i frutti promessi.]

 

 

BATTESIMO DI GESU’ CRISTO

 

BATTESIMO DI CRISTO (1)

[Dom P. Guéranger: l’ANNO LITURGICO, I vol. Ed. Paoline, Alba, 1957 impr. ]

(1) [Col decreto della Congr. dei Riti del 22 Marzo 1955, abolita l’Ottava dell’Epifania, venne istituita al 13 Gennaio la « Commemorazione del Battesimo di Gesù Cristo » (n. 16 del decreto) con le stesse prerogative e riti dell’abolito giorno ottavo. Tuttavia, nel caso che in questo giorno cadesse la festa della Sacra Famiglia, si celebra questa, senza commemorazione del Battesimo di Cristo].

Il secondo Mistero dell’Epifania, il Mistero del Battesimo di Cristo nel Giordano, attira oggi in modo speciale l’attenzione della Chiesa. L’Emmanuele si è manifestato ai Magi dopo essersi mostrato ai pastori; ma questa manifestazione è avvenuta nel ristretto spazio d’una stalla a Betlemme, e gli uomini di questo mondo non l’hanno conosciuta. Nel mistero del Giordano, Cristo si manifesta con maggior splendore. La sua venuta è annunciata dal Precursore; la folla che accorre al Battesimo del fiume ne fa testimonianza, e Gesù esordisce alla vita pubblica. Ma chi potrebbe descrivere la grandiosità delle cose che accompagnano questa seconda Epifania?

Il mistero dell’acqua.

Essa ha per oggetto, al pari della prima, il bene e la salvezza del genere umano; ma seguiamo il progredire dei Misteri. La stella ha condotto i Magi verso Cristo. Prima essi aspettavano e speravano; ora, credono. La fede nel Messia venuto comincia in seno alla Gentilità. Ma non basta credere per essere salvi; è necessario che la macchia del peccato sia lavata nell’acqua. « Chi crederà e sarà battezzato sarà salvo» (Mc. XVI, 16): è tempo dunque che avvenga una nuova manifestazione del Figlio di Dio, per inaugurare il grande rimedio che deve dare alla Fede la virtù di produrre la vita eterna. Ora, i decreti della divina Sapienza avevano scelto l’acqua come strumento di questa sublime rigenerazione della razza umana. Già all’origine delle cose lo Spirito di Dio ci è rappresentato mentre sorvola sulle acque, affinché, come canta la Chiesa il Sabato Santo, la loro natura concepisse già un principio di santificazione. – Ma le acque dovevano servire alla giustizia contro il mondo colpevole, prima di essere chiamate a compiere i disegni della misericordia. Ad eccezione d’una sola famiglia, il genere umano per un terribile decreto, scomparve sotto le acque del diluvio. Tuttavia, alla fine di quella terribile scena, si manifestò un nuovo indizio della futura fecondità di questo elemento predestinato. La colomba, uscita per un momento dall’arca della salvezza, vi rientrò con un ramoscello d’ulivo, simbolo della pace ridata alla terra dopo l’effusione dell’acqua. Ma il compimento del mistero annunciato era ancora lontano. Nell’attesa del giorno in cui il mistero sarebbe stato manifestato, Dio moltiplicò le immagini destinate a sostenere l’attesa del suo popolo. Così, fu attraversando le acque del Mar Rosso che il popolo arrivò alla Terra promessa; e durante il misterioso tragitto, una colonna di nube copriva insieme il cammino d’Israele e le acque benedette alle quali questi doveva la sua salvezza. Ma il solo contatto delle membra umane d’un Dio incarnato poteva dare alle acque la virtù purificatrice che ogni uomo colpevole sospirava. Dio aveva dato il Figlio suo non al mondo soltanto come Legislatore, Redentore e Vittima di Salvezza, ma perché fosse anche il Santificatore delle acque; e appunto in seno a questo sacro elemento doveva rendergli una testimonianza divina, manifestarlo una seconda volta.

Il battesimo di Gesù.

Gesù dunque, all’età di trent’anni, va verso il Giordano, fiume già famoso per le meraviglie profetiche operate nelle sue acque. Il popolo ebreo, risvegliato dalla predicazione di Giovanni Battista, accorreva in massa per ricevere il Battesimo che poteva produrre il pentimento del peccato, ma non cancellarlo. Il nostro divino Re va anch’egli al fiume, non per cercarvi la santificazione, poiché Egli è il principio di ogni giustizia, ma per dare finalmente alle acque la virtù di produrre, come canta la Chiesa, una razza nuova e santa. Scende nel letto del Giordano, non più come Giosuè per attraversarlo a piedi asciutti, ma affinché il Giordano lo cinga delle sue acque, e riceva da Lui, per comunicarla a tutto l’elemento, quella virtù santificatrice che esso non perderà mai più. Riscaldate dai divini ardori del Sole di giustizia, le acque divengono feconde, nel momento in cui il sacro capo del Redentore viene immerso nel loro seno dalla mano tremante del Precursore. Ma in questo preludio di una nuova creazione, è necessario che intervenga tutta la Trinità. Si aprono i cieli, e ne scende la Colomba, non più come simbolo e figura, ma per annunciare la presenza dello Spirito d’amore che dà la pace e trasforma i cuori. Essa si ferma e si posa sul capo dell’Emmanuele, scendendo insieme sull’umanità del Verbo e sulle acque che bagnano le sue auguste membra.

La testimonianza del Padre.

Tuttavia il Dio-Uomo non era manifestato ancora con abbastanza splendore; bisognava che la parola del Padre risonasse sulle acque, e le agitasse fin nella profondità dei loro abissi. Allora si fece sentire quella Voce che aveva cantata David: Voce del Signore che risuona sulle acque, tuono del Dio di maestà che spezza i cedri del Libano, l’orgoglio dei demoni, che spegne il fuoco dell’ira celeste, che scuote il deserto, che annuncia un nuovo diluvio (Sal. 28), un diluvio di misericordia; e quella voce che diceva: Questi è il mio Figlio diletto nel quale mi sono compiaciuto. – Così fu manifestata la Santità dell’Emmanuele dalla presenza della divina Colomba e dalla voce del Padre, come era stata manifestata la sua Regalità dalla muta testimonianza della Stella. Compiuto il divino mistero e investito della virtù purificatrice l’elemento delle acque, Gesù esce dal Giordano e torna a riva, portando con sé – secondo l’opinione dei Padri – rigenerato e santificato il mondo di cui lasciava sotto le acque i delitti e le immondezze.

Usanze.

Come è grande la festa dell’Epifania, che ha per oggetto di onorare così sublimi misteri! E come non c’è da stupire se la Chiesa Orientale ha fatto di questo giorno una delle date per l’amministrazione solenne del Battesimo. Gli antichi monumenti della Chiesa delle Gallie ci mostrano che l’usanza esisteva anche presso i nostri avi; e più d’una volta – stando a quanto riferisce Giovanni Mosch – si vide il santo battistero riempirsi d’un’acqua miracolosa il giorno di questa grande festa, e asciugarsi da sé dopo l’amministrazione del Battesimo. La Chiesa Romana, fin dal tempo di san Leone, insisté per riservare alle feste di Pasqua e di Pentecoste l’onore di essere gli unici giorni consacrati alla celebrazione solenne del primo fra i Sacramenti; ma in parecchi luoghi dell’Occidente si conservò e dura ancora oggi l’usanza di benedire l’acqua con una solennità del tutto speciale nel giorno dell’Epifania. – La Chiesa d’Oriente ha conservato inviolabilmente tale usanza. La funzione ha luogo, ordinariamente, nella Chiesa, ma talvolta il Pontefice si reca sulle rive di un fiume, accompagnato dai sacerdoti e dai ministri rivestiti dei più ricchi paramenti e seguito da tutto il popolo. Dopo alcune magnifiche preghiere, che ci dispiace di non poter riportare qui, il Pontefice immerge nelle acque una croce rivestita di pietre preziose che significa il Cristo, imitando così l’azione del Precursore. Un tempo, a Pietroburgo, la cerimonia aveva luogo sulla Neva, e attraverso un’apertura praticata nel ghiaccio il Metropolita faceva scendere la croce nelle acque. Questo rito si osserva parimenti nelle Chiese dell’Occidente che hanno conservato l’usanza di benedire l’acqua nella Festa dell’Epifania. – I fedeli si affrettano ad attingere nella corrente del fiume quell’acqua consacrata; e san Giovanni Crisostomo – nella sua ventiquattresima Omelia sul Battesimo di Cristo – attesta, chiamando a testimone il suo uditorio, che quell’acqua non si corrompeva mai. Lo stesso prodigio è stato riconosciuto molte volte in Occidente. – Glorifichiamo dunque Cristo per questa seconda manifestazione del suo divino carattere, e rendiamogli grazie, insieme con la santa Chiesa, per averci dato, dopo la Stella della fede che ci illumina, l’Acqua potente che toglie le nostre immondezze. Nella nostra riconoscenza, ammiriamo l’umiltà del Salvatore che si curva sotto la mano di un uomo mortale al fine di compiere ogni giustizia, come dice egli stesso; poiché, avendo assunto la forma del peccato era necessario che sopportasse l’umiliazione per risollevarci dal nostro abbassamento. Ringraziamolo per questa grazia del Battesimo che ci ha aperto le porte della Chiesa terrena e della Chiesa celeste. Infine, rinnoviamo gli impegni che abbiamo contratti sul sacro fonte, e che sono stati la condizione di questa nuova nascita.

IL MATRIMONIO CATTOLICO – 5 –

IL MATRIMONIO (5)

[ENCICLOPEDIA CATTOLICA, vol. VIII, Coll. 407 e segg.  – Ente per l’Enciclopedia Cattolica e per il libro cattolico – Città del VATICANO – impr. 1952]

VIII. USO DEL M.

1. Principi. – L’uso del M., anche dopo il peccato originale, nonostante il fervore della concupiscenza che ad esso si accompagna, è del tutto onesto (cf. Gen. 1, 28; cann. 1111, 1081 § 2, 1015 § 1). La rettitudine obiettiva di tale uso è necessariamente subordinata alle finalità intrinseche del M. e alla gerarchia degli stessi fini. Pertanto, essendo la procreazione e l’educazione della prole alla base dell’ordine da Dio stabilito per l’incontro dei due sessi, tutto ciò che si dimostra a quest’ordine direttamente contrario, privando l’atto coniugale della sua naturale tendenza alla generazione, è intrinsecamente illecito, e quindi per nessun motivo giustificabile. Al contrario, ove quest’ordine sia rispettato, l’atto non è illecito, anche se infecondo, potendo egualmente raggiungere le altre finalità che lo giustificano. È infatti da tener presente, a tale riguardo, che all’uomo è imposta l’osservanza dell’ordine, non già il raggiungimento del fine cui esso tende: ciò infatti non dipende solo dall’azione dell’uomo, ma anche da quella della natura, la quale non solo non è sottoposta all’arbitrio dell’individuo, ma sfugge molte volte alla sua stessa conoscenza. – La considerazione obiettiva non è la sola sulla valutazione etica concreta dell’uso del M. nei casisingoli: come in tutte le altre attività dell’uomo, è necessario tener presenti le circostanze dell’atto; sotto l’aspetto soggettivo è preminente la considerazione del fine.

2. Alcune applicazioni. – A richiesta dell’altro coniuge si è obbligati alla prestazione del debito coniugale sotto pena di peccato grave (1 Cor. 7, 3); il rifiuto è si tanto peccato veniale (a meno che l’altro coniuge venga esposto al pericolo di incontinenza), quando la parte richiedente rinuncia facilmente alla sua domanda o la prestazione è soltanto differita per breve tempo, oppure il rifiuto avviene di rado. Di più, a volte, il rifiuto può essere legittimo, data l’esistenza di determinate cause scusanti, quali l’adulterio volontario e non condonato dal richiedente, la grave trascuratezza negli obblighi di mantenimento della famiglia, la mancanza anche temporanea dell’uso di ragione, l’esagerazione nelle richieste. – Nell’uso del M. non si può non tener conto, anche in ragione della sua finalità primaria, della sanità fisica della prole futura e dei diritti della prole concepita. Il giudizio nei singoli casi va fatto tenuto conto di tutte le circostanze. – Si può, in genere, dire che quanto più grave è il pericolo ed il danno che si teme, tanto più grave deve essere la causa che ne giustifichi la permissione. Così a parità di condizioni, il probabile danno della prole già concepita pesa di più sulla valutazione etica dell’atto che non il probabile danno del futuro prodotto del concepimento; e ciò sia per la stessa incertezza di questo, sia perché non si può parlare di lesioni di diritti di chi ancora non esiste; che anzi, se si dovesse tener conto unicamente di un tale futuro soggetto, si potrebbe, nei suoi confronti applicare il principio melius est esse quam non esse. Senonché c’è anche da tener conto della sanità della stirpe, ossia del bene comune; e qualora alla prole futura si possa provvedere in maniera migliore, la stessa primaria finalità del M. impone che a ciò si badi. – Altra circostanza da valutare per il retto uso del M. è il pericolo di danno per la salute di uno dei due coniugi. Anche in questo caso, in cui non urge il diritto derivante dalla mutua traditio propria del M., la soluzione concreta delle innumerevoli situazioni che possono crearsi va ricercata nella prudente applicazione dei principi, che disciplinano l’attività umana e ne definiscono la responsabilità. Soprattutto è necessario non perder mai di vista la gerarchia dei valori e l’ordine della carità. – Una questione assai dibattuta in questi ultimi tempi è quella relativa alla liceità della cosiddetta continenza periodica, ossia all’uso del M. riservato ai periodi o cicli che, secondo alcuni calcoli e particolari teorie, si prevedono infecondi (tempo agenesiaco). Di natura assai diversa è la continenza temporanea suggerita dal concorde desiderio degli sposi di dedicarsi più liberamente alla preghiera, cui si riferisce il discreto consiglio dell’Apostolo, seguito, però, immediatamente dal prudente richiamo alla concreta ed ordinata realtà della vita (« ma poi di nuovo siate come prima »), affinché non si muti in tentazione ciò che era ordinato al perfezionamento dello spirito (I Cor. 3-6).

3. Peccati dei coniugi. – Tutto ciò che non è effettivamente ordinato o non è obiettivamente ordinabile al fine primario stabilito da Dio per l’unione dei due sessi, costituisce una violazione sostanziale dell’ordine ed è quindi peccato. Trattandosi, d’altra parte, di ordine essenziale per l’uomo, dato che dipende dal medesimo la coservazione e propagazione del genere umano, il peccato è grave, perché direttamente ed essenzialmente opposto alla carità. – L’ordine può essere violato sia nell’ambito della vita coniugale ed in contrasto con i suoi diritti e le sue leggi, o al di fuori di essa. Nell’ambito della vita coniugale costituiscono colpa grave tutte le pratiche anticoncezionali, malthusiane, qualunque sia il mezzo o il modo usato per rendere sterile l’unione. La loro diretta opposizione al fine primario del M., le rende intrinsecamente illecite, e quindi ingiustificabili, qualunque sia il motivo che le suggerisca. – Quanto poi al coniuge innocente, il quale non di rado soffre il peccato piuttosto che esserne causa, egli non commette colpa, se, per ragione veramente grave, permetta la perversione dell’ordine dovuto, purché l’atto non sia fin dal principio intrinsecamente corrotto, ma ripeta la sua malizia dalla successiva frode dell’altro coniuge, e purché, memore anche in tal caso delle leggi della carità, non trascuri di dissuadere il coniuge dal peccato. Che se, invece, l’atto fosse fin dal principio intrinsecamente viziato, è dovere opporvisi positivamente e respingere l’inedia non altrimenti che qualsiasi altro attentato alla virtù. – Qualunque esperienza extra-coniugale da parte di uno dei due coniugi, anche se incompleta, è colpa grave e costituisce il peccato specifico di adulterio. E siccome non può considerarsi estraneo al M., ossia alla mutua traditio, l’affetto, che anzi esso ne è l’elemento spirituale ed in un certo senso principe, la fedeltà coniugale può essere tradita anche solo spiritualmente, mediante relazioni affettive di ordine non sessuale con altre persone (adulterio spirituale). [BIBL.] – Pietro Palazzini.

V. LITURGIA DEL M.

Nella Chiesa cristiana antica non esisteva un rito speciale per la celebrazione del M. Gli sponsali e le cerimonie nuziali si svolgevano senza l’intervento attivo di un sacerdote, in famiglia, con il rito usato nella vita civile. Soltanto, in sostituzione del sacrificio pagano, si aggiunsero in presenza dei fedeli la Messa e la benedizione solenne nuziale. Più tardi, il contratto matrimoniale si fece con l’intervento del sacerdote, prima fuori, poi dentro la chiesa, la quale innovazione si traeva dietro gli antichi riti nuziali. Nel rito attuale dunque si distinguono due parti: la prima è costituita dai riti che accompagnano e solennizzano la manifestazione del consenso, la seconda, complementare, si compone della Messa e della benedizione. Già s. Ignazio martire desidera che il M. dei cristiani si faccia con il consiglio del vescovo (secondo H. Lietzmann, anche con l’intervento attivo di lui). Tertulliano (Ad uxor., 11, 8) distingue bene l’approvazione del M. da parte della Chiesa (« Ecclesia conciliat »), l’offerta degli sposi (« confirmat oblatio ») e la loro benedizione (« obsignat benedictio »), cioè gli sponsali familiari approvati dalla Chiesa, e la Messa con la speciale benedizione nuziale; accenna all’anello pronubo, al bacio degli sposi, alla coronazione e all’accompagnamento nella casa dello sposo. S. Ambrogio parla del velo (flammeum) che si impone alla sposa. Da questo velo, l’azione vien denominata « velario nuptialis », ed anche la voce « nuptialis » sembra derivarsi da questa azione « nubere » (« obnubilatio »). I Sacramentari offrono non i riti, ma le preghiere della Messa nuziale e della benedizione; ad es., il cosiddetto Sacramentario Leoniano, il Gelasiano antico, contenuto nel cod. Reginensis 316 della Biblioteca Vaticana. La prima descrizione dei riti si trova nella risposta del papa Niccolò I (m. nel 867) ai Bulgari (Responsa ad consulta Bulgarorum, 3). Si distinguono gli atti preliminari e gli atti complementari. Gli atti preliminari che si facevano a casa contengono tre cose: a) gli sponsali, cioè la promessa mutua del futuro M., la manifestazione del consenso dei fidanzati e dei genitori, b) la consegna delle arre, ossia dell’anello dello sposo alla sposa, c) la sottoscrizione dei patti in presenza dei testi, la consegna delle tavole nuziali o assegnazione della dote. Gli atti complementari o le parti propriamente nuziali sono: a) la celebrazione della Messa davanti ai fidanzati che prendono parte alla offerta ed alla Comunione, b) la benedizione congiunta con la velazione, c) all’uscita di chiesa, la coronazione. – Tutti questi riti corrispondono bene ai riti degli antichi Romani, cioè ai riti degli sponsali, della preparazione al M. ed ai riti del M. stesso. La Chiesa ha accettato i costumi già in uso, purificandoli da ciò che era sconveniente e rendendoli più augusti. Ma questi riti erano soltanto la solennità del M., la solennizzazione del M. contratto fuori della chiesa per « il solo consenso reciproco » (Niccolò I). – Questi riti si osservano anche oggi nella celebrazione del M., con questa differenza che il rito del M. oggi comprende tanto i riti degli sponsali quanto quelli nuziali. Particolare rilievo ha la manifestazione del consenso, l’unico elemento sostanziale del M. Nei tempi antichi, sia precristiani che cristiani (ad es., da Papa Niccolò I), il consenso si dava tra le cerimonie degli sponsali, non tra quelle delle nozze. Ma dopo il 1000 (non si sa precisare quando), si incominciò ad introdurre la manifestazione esplicita del consenso nell’atto del M. stesso, con una certa varietà: o i contraenti pronunciavano (o da soli o insieme con il sacerdote benedicente) il consenso, o il sacerdote interrogava (una o tre volte) i contraenti ed essi rispondevano. All’interrogazione e risposta dei contraenti il sacerdote aggiungeva una formola solenne di ratifica in nome di Dio: « Ego coniungo vos in matrimonium in nomine… » ( E . Martène, Ordo Rotomag. sec. XIII, in Antiquæ Ecclesiæ ritus, II, p. 367). – Un rito usato già dagli antichi, non ricordato da papa Niccolò I, era la congiunzione delle destre. In Tob. 7, 15 Raguel congiunge le mani di Tobia e Sara; presso i Romani nel giorno della solennità del m., la « pronuba » diceva agli sposi di darsi le mani. Anche oggi, nella Chiesa, alla manifestazione del consenso, il sacerdote dice agli sposi di darsi la destra; poi, secondo alcuni riti, egli li avvolge con la stola, pronuncia le solenni parole della ratifica ed asperge con l’acqua benedetta. La consegna dell’anello, presso i Romani ed anche sotto papa Niccolò I, facendo parte degli sponsali, passò tra le cerimonie del M., prima o dopo il consenso; il sacerdote benediceva l’anello, lo consegnava allo sposo per infilarlo al dito della sposa e poi ratificava il consenso. In alcune regioni non solo lo sposo mette l’anello alla sposa, ma anche la sposa allo sposo. – L’intervento della Chiesa alla celebrazione del M. cominciò quando cessò il M. tutorio, ossia quando la sposa stessa poteva darsi in M. senza l’intervento del tutore nato, cioè del padre. Una triplice fase si deve rilevare: il M. davanti o fuori della chiesa in presenza di un sacerdote che recitava un’orazione, poi con l’intervento del sacerdote come tutore eletto invece del tutore nato, e finalmente con l’intervento del sacerdote per constatare e domandare la manifestazione del consenso. Dal sec. XII sinodi o concili locali (Treviri 1227, Praga 1350, Magdeburgo 1370) proibiscono i M. laicali senza l’intervento della Chiesa. Finalmente il Concilio Tridentino prescrive l’assistenza del parroco; il nuovo CIC (can. 1095 § 1 ad 3) ordina che il parroco domandi e riceva il consenso (« requirant excipiantque contrahentium consensum »). L’atto di M. si compone di due parti : a) dell’interrogazione del sacerdote in ordine alla manifestazione del consenso, b) del consenso stesso degli sposi. L’anello sponsalizio è divenuto anello nuziale o coniugale. Seguono le parti religiose e complementari, la Messa e la benedizione solenne nuziale. Prima si diceva la Messa votiva, ad es., della S.ma Trinità, aggiungendovi le orazioni proprie per gli sposi, poi la Messa votiva prò sponsis. La benedizione nuziale, prerogativa delle prime nozze della sposa, si trova già negli antichissimi Sacramentari; si faceva dopo il Pater noster. Durante la benedizione s’imponeva alla sposa il velo, la cerimonia più appariscente del M. presso gli antichi Romani, ritenuta anche dagli sposi cristiani, mentre poi andò cedendo il primo posto alla consegna dell’anello. Ed anche la cerimonia, assai antica, dell’incoronazione degli sposi con fiori scomparve; si compiva dopo la Messa, quando gli sposi uscivano di chiesa. Oggi vive nei fiori, con cui si suole adornare la sposa nel presentarsi alla chiesa. Dopo il Benedicamus Domino, il sacerdote pronuncia di nuovo una benedizione speciale agli sposi per la loro felicità terrena ed eterna. Dove si sono conservati riti speciali o locali nel contrarre il M., si possono adoperare. – Un rito antico è la benedizione e l’uso della bevanda nuziale, presentata agli sposi come simbolo della carità cristiana. Alla sera del giorno nuziale vien poi benedetto il loro talamo, usando fin dal sec. X una formola che si trova già nel Messale di Bobbio (sec. VIII). [BIBL.] Pietro Siffrin.

M. NELLE LITURGIE ORIENTALI. –

Nei riti matrimoniali odierni si vedono ancora chiaramente distinte, sebbene congiunte, le due antiche parti che li compongono: la prima può chiamarsi fidanzamento, sposalizio ed è caratterizzata dalla tradizione dell’anello; la seconda sono le nozze con il rito particolare dell’incoronamento. Anticamente, e ancora recentemente nel mondo semitico, queste due parti erano celebrate separatamente e poteva intercorrere fra le due cerimonie un tempo assai lungo, anche di molti anni. E quel fidanzamento non era una promessa rescindibile di un futuro M., ma con quel rito si aveva l’inizio del M. già con la sua proprietà di indissolubilità, mentre il diritto di coabitazione si otteneva soltanto con il rito dell’incoronamento. Prima ancora di procedere al rito dell’anello, il sacerdote si assicurava del consenso degli sposi; in Occidente questa espressione del consenso seguito dal rito dell’anello diventò il rito sacramentale, perché il consenso di due cristiani costituisce il contratto elevato alla dignità di Sacramento, e la benedizione nuziale data durante la S. Messa fu considerata come un sacramentale non obbligatorio. – Al contrario in Oriente anche l’incoronamento è stato riguardato sempre almeno come una conditio sine qua non del Sacramento, e il nuovo Codice orientale (can. 85 § 2) tiene conto di questo concetto dove esige per la validità del M. l’intervento del sacerdote adsistentis ac benedicentis (cf. AAS, 41 [1949], p. 107). – Nel rito bizantino, secondo l’Eucologio dei Greci, la prima parte è composta dalla grande colletta con domande speciali seguita da due preghiere, poi dalla tradizione degli anelli con una formola, e da una preghiera finale. La seconda parte comincia anche con la grande colletta, con altre domande speciali, seguita da tre preghiere nuziali; allora il sacerdote impone le corone con una formola e dà una triplice benedizione; dopo questo si ha una specie di Messa dei presantificati, cioè: Epistola, Vangelo, Litanie, Pater Noster con preghiera d’inclinazione, anticamente l’ammonizione: « Præsantificata sanctis » con la S. Comunione, oggi la sunzione di una coppa di vino; segue la processione intorno alla tavola davanti alla quale si fa la cerimonia, poi la deposizione delle corone, ciò che anticamente si faceva l’ottavo giorno dopo il M ; ancora due preghiere, il bacio dei novelli sposi e il congedo. – L’Eucologio di Benedetto XIV (Roma 1754), nella rubrica iniziale, prescrive al Sacerdote di interrogare gli sposi sul loro libero consenso. Il Trebnik dei Russi e dei Serbi dà la formola di tale domanda ma la pone all’inizio della seconda parte (la prima volta nel Trebnik di Moghila, Kiev 1646). Nel Trebnik dei Ruteni (dall’edizione riformata di Leopoli 1720 in poi) la struttura del rito fu sconvolta (soppressione della prima parte; ma un rito abbreviato dell’anello è intercalato fra le preghiere nuziali e si aggiunge un giuramento sul libro del Vangelo prima dell’incoronamento); il Malii Trebnik di Roma (1946) ristabilì la netta divisione fra le due antiche parti. Negli altri riti orientali, sebbene molto diversi fra loro, si può osservare uno sviluppo, che sembra oggi esagerato, di preghiere e di inni nella cerimonia dell’incoronamento, ma che mette bene in rilievo la solennità di questo atto costitutivo della famiglia cristiana. [BIBL.] Alfonso Raes. –

 

Diamo ora un cenno al c. d. Privilegio Paolino, riservandoci una trattazione più particolareggiata in seguito. [ndr.]

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PRIVILEGIO PAOLINO

[Enc. Catt. vol IX COLL. 49-50]

 – Il p. p. è il caso di scioglimento di matrimonio legittimo, concesso a favore della fede dal diritto positivo divino; privilegio proclamato da s. Paolo (1 Cor. 7, 1 2 – 1 5 ) da cui perciò ha preso l’appellativo. È detto anche casus Apostoli, privilegium Christi, privilegium fidei. Il matrimonio degli infedeli (matrimonio legittimo, cui non si opponga nessun impedimento di diritto divino o naturale è valido e indissolubile e non si può sciogliere per l’arbitrario abbandono di una delle parti o per mutuo consenso e volontà dei coniugi ( S . Uffìzio, 18 sett. 1824 ad 3; S. Uffizio, 18 giugno 1866 ad 8). – Dai matrimoni misti, però, in nessuna maniera cautelati da previ accordi, possono derivare dei gravissimi inconvenienti, poiché spesso per la cattiva volontà di colui che rimane infedele non è più possibile la convivenza pacifica, la fede del neofita si trova in pericolo e i figli divengono oggetto di conquista dell’uno o dell’altro dei coniugi per essere attratti a diverse e opposte forme di educazione morale e religiosa. Allora, nel concorso di un bene di ordine superiore, il mantenimento dell’indissolubilità non rimane più obbiettivo principale, ma passa automaticamente in second’ordine; e lo stesso diritto naturale dà al neofita il diritto e il dovere di andarsene, piuttosto che perdere il dono della fede. Questa legge ha interpretato s. Paolo per far sì che l’uomo non fosse allontanato dalla fede o dal perseverare in essa dalla prospettiva di dover osservare la castità perfetta e per questo promulgò l’eccezione, in base alla quale il matrimonio degli infedeli, quando l’uno dei coniugi solamente si converta alla fede e non sia più possibile la pacifica convivenza, è solubile dall’esterno.

I. NOZIONE. – In vista di questo p., dunque, il matrimonio dei non battezzati o infedeli, sebbene consumato, si può sciogliere nel caso in cui una parte, non battezzata, o non voglia coabitare con la parte convertita o non voglia coabitare pacificamente, cioè senza offesa al nome di Dio o disprezzo del Creatore. Il disprezzo del Creatore si può avere in vari modi, o trascinando la parte convertita al peccato mortale o impedendo l’educazione cattolica della prole (S. Uffizio, 14 diC. 1848) o perseverando nel concubinato (S. Uffizio, 4 luglio 1853 ed 11 luglio 1866), ecc. Né cessa il p., se i coniugi, dopo il Battesimo di uno di essi, coabitarono ancora ed in seguito la parte infedele (senza che il convertito però abbia dato ragionevole motivo di andarsene) non solo ricusi di convertirsi, ma inoltre, mancando alla parola data di coabitare pacificamente, si allontani o per odio alla religione o per altri motivi, o non voglia più stare insieme senza il disprezzo del Creatore, o abbia tentato di trascinare la parte fedele al peccato mortale o all’infedeltà. Ma questo p. non ha più ragione di essere, se tutti e due i coniugi convertiti e battezzati abbiano poi usato del matrimonio. Il p. vale per il matrimonio valido di due infedeli, uno dei quali si converta alla fede; non comprende però il matrimonio di due eretici, di cui uno abbracci la fede cattolica, perché il matrimonio di questi ultimi è rato (Sacramento), e perciò, una volta consumato, per nessun motivo si può più sciogliere. Il p. non si applica al matrimonio che un fedele, ottenuta regolare dispensa, contrae con un infedele, sebbene poi la parte infedele non voglia più coabitare pacificamente (can. 1120 § 2). Così pure non ha luogo il p. nel matrimonio contratto fra due parti battezzate, di cui una sia passata all’apostasia o all’infedeltà. Neppure si applica, se si tratta di un matrimonio invalido tra due infedeli. Quando si applica il p. p., il vincolo matrimoniale si scioglie, appena il convertito contragga un altro matrimonio valido (can. 1126)..

IL FONDAMENTO DEL P. – Il fondamento è nel testo scritturistico della 1 Cor., 7, 12 : «Agli altri poi dico io, non il Signore. Se un fratello ( = un cristiano cioè) ha una moglie infedele e questa è disposta a coabitare con lui, non la ripudi. E se una moglie fedele ha un marito infedele, che è contento di abitare con essa, non lo abbandoni. Che se l’infedele si separa (discedit), si separi (discedat): poiché non soggiace a servitù il fratello o la sorella in tal caso: ma Iddio ci ha chiamati alla pace ». Che con quest’ultimo versetto l’Apostolo permetta l’allontanamento della parte fedele o lo scioglimento del vincolo stesso, lo si prova: dal contesto della lettera ai Corinti, dalla comune interpretazione di Padri e teologi, dai decreti dei Romani Pontefici e dalla prassi della Chiesa.

1. Il contesto della lettera ai Corinti. – Mentre l’Apostolo nei versetti precedenti, parlando della separazione di coniugi cristiani, comanda che la moglie non sposi più, rimanga cioè senza sposare: in questi versetti invece permette che si allontani, senza più porre alcuna restrizione; e quindi senza neppur più porre la condizione che rimanga non sposata, altrimenti non ci sarebbe più nessuna differenza dal caso precedente. Questa interpretazione è confermata anche dalle parole che seguono, « perché in tal caso il fratello o la sorella non soggiace alla servitù ». La servitù in questione non è che il vincolo coniugale che legava i due coniugi. Se ora il coniuge fedele non soggiace più a servitù, vuol dire che non soggiace più al vincolo matrimoniale verso l’infedele che non voglia pacificamente coabitare. In altre parole il vincolo, in caso, è solubile. […] Pietro Palazzini.

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Chi ha avuto la pazienza di consultare la voce MATRIMONIO dell’Enciclopedia Cattolica pubblicata sul blog, si è sicuramente reso conto della complessità della materia. Ma le domande più ovvie e frequenti che si pongono i residui Cattolici della Chiesa “eclissata”, che hanno a cuore la salvezza della propria anima innanzitutto, e dei loro cari familiari, e che in buona fede hanno aderito alla setta modernista del novus ordo, setta vaticana che si spaccia per Chiesa Cattolica [e sono la maggior parte], o alle sette scismatiche degli eretici fallibilisti-gallicani, sedevacantisti, sedeprivazionisti della tesi manichea, degli eretici Feyneisti, dei monasteri virtuali e via discorrendo, riguardano la validità e liceità del loro matrimonio. È evidente che, essendo il matrimonio contratto da due fedeli o infedeli, o addirittura pagani, che hanno avuto intenzione di sposarsi, con qualunque rito, pure laico, è sempre e comunque valido e quindi indissolubile, fatti salve le eccezioni già considerate. Il problema grave si pone per la sacralità e sacramentalità del matrimonio, che praticamente è, da 1958, sempre illecito e quindi senza che apporti la grazia santificante che ogni Sacramento valido e lecito comporta, in vista della eterna salvezza. Per rendere il Sacramento lecito ed operante, è sufficiente rientrare nella Chiesa Cattolica, quella “vera” guidata da Gregorio XVIII, legittimo successore di Gregorio XVII, canonicamente eletto il 26 ottobre del 1958. Importante è la distinzione tra i battezzati validamente da un prete cattolico, o illecitamente o invalidamente da un prete cattolico apostata delle setta scismatica roncallo-montiniana, o addirittura da un mai-prete, mai-ordinato da un mai-vescovo a sua volta mai-consacrato prima del 18 giugno del 1968, non tonsurato e senza che sia passato per gli ordini minori, come stabilito nel Sacrosanto Concilio tridentino. Ogni caso va quindi innanzitutto valutato su questo presupposto: una volta ricevuto validamente il Battesimo, in forma ordinaria o condizionale e rimosse le censure contratte per aver partecipato ad un culto acattolico, gli sposi automaticamente recuperano anche la grazia sacramentale del loro matrimonio, senza dover rinnovare il rito o le cerimonie prescritte. Del fatto che il matrimonio non conferisca alcuna grazia santificante, se contratto nella falsa chiesa dell’uomo, ne è prova il fallimento pressoché sistematico di tali unioni, la cui percentuale è anche superiore alle unioni laiche o di fatto, o ai pseudo-matrimoni contratti nelle sedi municipali. Il “recupero” del Sacramento, incide naturalmente su tutti i componenti del nucleo familiare e soprattutto sulla prole, che passa finalmente nello stato di legittimità canonica davanti a Dio. Sono infatti i giovani a pagare maggiormente questa situazione di illegittimità, oltre ad essere per la maggior parte non validamente battezzati, confessati, comunicati e cresimati. Si spiega così il deplorevole stato spirituale della gioventù dei Paesi un tempo cattolici oggi invasi da modernisti e scismatici! Tutte le altre questioni, soprattutto quelli inerenti alla solvibilità matrimoniale, restano immutate, non c’è spazio per “divorzi” o separazioni fuori dal “rato non consumato” o dal privilegio paolino, ed eventuali casi controversi devono essere sottoposti alla valutazione della Gerarchia Cattolica in esilio ed al Santo Padre a cui spetta unicamente la decisione finale..  –  [Nota redazionale].