GREGORIO XVII – IL MAGISTERO IMPEDITO: 1° corso di ESERCIZI SPIRITUALI “LA PERFEZIONE” (7)

GREGORIO XVII:

IL MAGISTERO IMPEDITO

I. corso di ESERCIZI SPIRITUALI

LA PERFEZIONE

(7)

9. La rettifica dell’intenzione

Per mettere delle solide basi alla nostra personale perfezione occorre studiare il metodo di qualunque atto della nostra vita. Perché le nostre azioni siano veramente valevoli e realizzino a poco a poco uno stato perfetto, bisogna che impariamo a farle tutte, senza distinzione, per quanto ci è possibile, con determinate condizioni. L’attenzione nostra, la volontà, la generosità si misureranno qui attraverso una disciplina, un’insistenza, perché noi dobbiamo acquistare l’abitudine di compiere ogni cosa con talune condizioni. – Quali sono dunque le condizioni che dobbiamo porre perché le nostre azioni siano veramente valevoli? Voi sapete che perché le nostre azioni siano veramente valevoli davanti a Dio e meritino, devono essere fatte in stato di grazia di Dio; se manca questo presupposto, essenziale per l’acquisto di qualunque merito, si potrà ottenere dal Signore grazie per la vita presente e grazie anche per la conversione, ma niente si guadagna per la vita eterna. E perciò è molto importante che questa condizione ci sia. E allora vengo alle altre condizioni. La prima di esse già è stata studiata, ma richiamarla mi dà modo di completarla dal punto di vista pratico. – La prima condizione perché le nostre azioni siano valevoli e raggiungano il massimo della perfezione è la rettitudine dell’intenzione: ne ho già parlato. Ma è opportuno il richiamo per venire a parlare dell’aspetto pratico della rettitudine d’intenzione. Vi ho detto che ci vuole la massima cura per renderla quanto ci è possibile attuale; non accontentarci di quella abituale, e nemmeno restare in quella virtuale, ma arrivare a quella attuale. Tuttavia io non vi ho dato alcun consiglio pratico in merito. Il consiglio pratico è questo: bisogna acquistare l’abitudine di formulare esplicitamente l’offerta a Dio di tutte le azioni della giornata, nessuna esclusa. Quando iniziamo la giornata e diciamo con la mente in stato di coscienza le orazioni del catechismo, questo viene fatto perché nelle orazioni del catechismo c’è l’offerta delle azioni della giornata, c’è la formulazione della intenzione rettissima la quale, se poi non avrà altri soccorsi lungo la giornata, potrà da attuale diventare virtuale o soltanto abituale. Ma almeno una intenzione abituale c’è ed è già qualche cosa. Tuttavia questo non è tutto quello che noi dobbiamo desiderare di fare; è un po’ troppo poco per chi vuol vivere veramente una vita spirituale. – E allora è necessario che vi siano nella giornata dei momenti scaglionati, e più se ne metterà e meglio sarà, nei quali si rinnovi la formulazione dell’intenzione che, notate, ha due aspetti: l’aspetto di offrire a Dio e l’aspetto di dare una direzione superiore alle nostre azioni. – Anche il secondo aspetto è importantissimo agli effetti della sincerità, della umiltà e del valore degli atti nostri, quello di rettificare l’intenzione. Qui è il momento di parlare non della rettitudine, ma della rettifica dell’intenzione. Per la vita spirituale e per il cammino di perfezione, la rettifica di intenzione è una delle cose fondamentali. È facilissimo che con tutta la buona volontà nostra, con tutta l’attenzione e con tutta la meditazione, inoltrandoci nel nostro dovere quotidiano, a un certo momento, per un certo incanto o per una certa attrazione o per una certa fantasia o per una certa distrazione, si finisca col compiere quell’azione buona che si sta facendo con uno scopo diverso da quello che era concepito inizialmente, cioè è possibile che lo si cominci a fare perché agli altri piace o perché si riscuote un omaggio di soddisfazione da parte degli altri. Lì comincia il pericolo. La cosa può avere un tale carattere sornione che non ci se ne avvede e a un certo momento ci si trova come inondati dalla dolcezza di fare un’azione buona come se si fosse spalancato il cielo e tutta la luce fosse piovuta giù e ci portasse una grande dolcezza, e se si osserva bene, a un certo momento ci si trova pieni di vana compiacenza. – Credete, chi vuol avere una vita spirituale sul serio, chi vuol camminare speditamente verso Dio, con generosità assoluta, con distacco completo, con dedizione seria all’amore del Signore, deve praticare, se già non lo fa, l’uso della rettifica di intenzione durante la giornata. Al mattino si comincia con la rettitudine d’intenzione, con l’offerta a Dio, ma nel prosieguo la rettitudine, per rimanere tale, ha bisogno di un’altra cosa, ha bisogno della rettifica. Ogni tanto bisogna dire: Signore, qui il mio povero asino sta per andare fuori strada; Signore, io agisco per te; non per me, ma soltanto per te. È una pratica questa che quando fosse consacrata in qualche pia giaculatoria, in qualche cosa che, direi, deve avvenire quasi per regolamento, sarebbe una pratica santissima e del massimo interesse. Per quale motivo tante anime cominciano il mattino benissimo: si levano, pregano, salutano il Signore con la freschezza dei raggi dell’aurora, poi la Comunione, poi tutto bene, l’ardore, la quiete spirituale, la pace, la sicurezza, ma a un certo punto della giornata comincia un dondolio, si comincia a pencolare di qua e di là, per cui alle volte la sera le oche sono lì tutte spennacchiate e hanno bisogno di rifarsi qualche pezzo d’ali perché hanno perduto per la strada metà di sé stesse? Perché è mancata la rettifica d’intenzione. Alle volte si comincia a fare un discorso, e il discorso è giusto, si parla di qualcosa anche di spirituale; ma a un certo momento si deve nominare qualcuno; per la nostra superbia occorre che nel discorso passi qualcuno, siamo come il cacciatore che sta lì da dieci ore ad aspettare che passi un uccello e gli spara subito. Siamo fatti così. La nostra superbia è sempre in agguato; basta che nel discorso passi un nome che, se non si sta proprio attenti, ecco una mossa, una tirata, un giudizio, una schioppettata. – Voi capite, vero, quante volte bisogna fare la rettifica d’intenzione! Ma la rettifica d’intenzione deve essere continua. Concludiamo. La prima caratteristica che rende perfette le nostre azioni è la rettitudine. Ma aggiungo che questa rettitudine d’intenzione, che è da farsi a ogni inizio di giornata, è da rinnovarsi più che si può, legandola a tutte le pratiche di pietà. Bisognerebbe che ogni pratica di pietà cominciasse con la rettifica d’intenzione perché, siccome in una giornata se ne fanno parecchie di pratiche, se si segue la serie di quelle, effettivamente in una giornata si ha la riabilitazione di noi stessi almeno attraverso la rettifica d’intenzione. Se ce la fate fino alla sera, la sera potete cominciare a cantare veramente, perché quando uno è arrivato a mettere insieme in una giornata una perfetta rettitudine d’intenzione in tutto quello che ha fatto, e ciò che ha fatto l’ha fatto perché era il suo dovere, perché lo voleva Dio, perché lo portava a Dio e non per un altro motivo, ed è sempre stato pronto a scacciare anche qualsiasi incosciente sbandamento, arriva alla fine della giornata e può dire: adesso ho diritto di dormire. – Anche quello con rettitudine d’intenzione, e senza essere tenuto a rettificarlo, perché dormendo non si pecca. – La seconda condizione è l’attenzione. Che cosa vuol dire l’attenzione? Vuol dire fare in modo che nell’atto libero umano, umano in quanto c’entra la intelligenza e la volontà, la intelligenza non si offuschi, non si stanchi, cioè inizi con chiarezza; veda quello che fa e poi non s’offuschi, resista tanto quanto occorre per potere in piena chiarezza portare l’atto fino in fondo. L’attenzione è questa. Accendervi la luce sopra, in modo che non se ne vada in crepuscolo, in incoscienza, ma sia chiaro. Siccome il valore dell’atto, a parte la grazia di Dio che è sempre la radice soprannaturale prima delle nostre azioni, inizia da quando c’entra la nostra intelligenza e la nostra volontà, è molto importante che l’intelligenza non si oscuri. E questo si chiama attenzione, fare caso a quel che si fa. Badate che quando si accende l’intelligenza, quella muove la volontà. Ma è la intelligenza che deve essere tenuta accesa contro la forza dell’abitudine che, ripetendo gli atti, può far sì che noi ci dispensiamo dal metterci l’attenzione. Sono le abitudini le tentazioni contro questa seconda caratteristica che rende gli atti perfetti. Come vedete, non occorrono molte disquisizioni per parlare della seconda caratteristica, l’attenzione. Ma è evidentissimo che questa caratteristica decide proprio del valore dell’atto perché tiene accesa la sorgente di luce che, per quanto riguarda noi, dà valore all’atto. E se quella si estingue, a un certo momento si estingue anche il valore dell’atto. – Io non parlo degli effetti buoni che ne vengono in campo umano, perché voi sapete che il lavoro rende in quanto si fa con attenzione. Ma io non sono qui per difendere la dottrina della produttività, a me interessa una dottrina più grande che è quella della santità. Ed è certo che è proprio da questa attenzione che deriva tutta l’efficacia del nostro lavoro. L’abitudine e la fantasia sono due grandi nemici dell’attenzione. – Lasciamo stare la fantasia e parliamo dell’ abitudine. Vi sono degli atti e, manco a farlo apposta, sono i più grandi, i più santi, che vengono ripetuti continuamente nella nostra vita, da farci cascare, nolenti o volenti, in una certa abitudine. E allora la forza dell’attenzione va portata là. Sono gli atti più grandi. Noi sacerdoti diciamo la S. Messa tutti i giorni; e proprio perché la diciamo tutti i giorni, siamo nel pericolo, tutt’altro che lieve, di finire col fare forse bene tutto meno che dire la S. Messa. Perché l’abitudine dispensa dalla attuale attenzione. E se non c’è una ripresa di volontà quanto mai energica, impegnata e assoluta, si finisce col fare tutto sul tapis roulant, senza nemmeno muovere un passo. – Voi avete delle adorazioni, degli atti comuni, delle preghiere da dire, e io osservo che le dite bene, non ve le mangiate, non precipitate; osservo che cantate bene i Salmi, fate bene le genuflessioni. Per carità, difendete quanto potete questo modo di pregare. Lo so che si può fare anche esternamente tutto bene e poi con la testa essere a caccia; però, se anche l’atto esterno è fatto bene, non c’è dubbio è sollecitato anche l’ordine interno. Attenti perché le cose che si fanno tutti i giorni sono quelle che vengono massacrate quando l’attenzione se ne va, perché l’attenzione, andandosene estingue la sorgente del merito. Non che manchi totalmente il merito, perché per quel poco che l’attenzione sarà rimasta accesa, qualche cosa avrà fatto; ma come quella si estingue, dove va a finire il merito? Rimarrà semmai il merito dell’intenzione virtuale, in quanto essa ha spinto all’azione, e la sequenza è ancora sotto la prima spinta; ma è finita con la perfezione. La perfezione domanda l’attenzione. Age quod agis. – La terza è la diligenza. È una cosa diversa dall’attenzione, anche se la può comprendere. Perché, mentre l’attenzione consiste in un fenomeno intellettuale, che tiene accesa la lampadina elettrica e non permette che s’entri in ombra crepuscolare, la diligenza è piuttosto una funzione della volontà. La diligenza sovvenziona continuamente con la forza di volontà, e sovvenziona in modo da arrivare al dettaglio dell’azione, alla sfumatura dell’ azione e, attraverso il dettaglio e la sfumatura, alla perfezione e perfino all’imponderabile dell’azione. – È chiaro che se non c’è un intervento della volontà, le azioni vengono raffazzonate, con grandissima facilità s’accorciano, si rabberciano, si tirano. Ci vuole una erogazione di forza di volontà perché s’arrivi al dettaglio, alla sfumatura, perché si realizzi la precisione, si raggiunga perfino l’imponderabile; allora l’azione è a posto. – Non sto a dire che cosa sia la diligenza nella produttività, di questo si occuperanno gli economisti, non noi. Dico che per la santità ci vuole la diligenza e che la diligenza è l’elemento condizionante la perfezione dell’atto. Sì, perché, a parte la grazia del Signore, le sorgenti del valore dell’azione nostra, sono due: l’intelletto e la volontà. Se si estingue l’attenzione, è dimostrato che se ne va il valore, almeno in parte; se si estingue la volontà, cioè se viene meno la diligenza, parte l’altra sorgente; se poi partono tutte e due, immaginatevi il risultato! – Ora veniamo al quarto punto. Il quarto è l’amor di Dio e con questo va a posto tutto, perché se ogni atto concepito perfetto vale 90, l’amor di Dio lo prende a 90 e lo porta a 100, a 200, a 1000. E qui ci si ferma. Qui la scala non può enumerare gli scalini; chi più ne ha, più ne metta. Il motivo dell’atto lo condiziona l’amor di Dio. È vero che il motivo può ricadere nel fine, cioè nella prima condizione, però è opportuno tenerle distinte allorché si è in sede di trattazione perché, è evidente, non è necessario che motivo e fine coincidano; anche se il fine diventa generalmente il motivo, possono essere distinti. Per questo è opportuno trattarli distintamente. – Fare quel che si fa per amore, ecco. Quanta gente che fatica da mattina a sera è contenta di faticare. Non che fatichi per la santità, no, no; è contenta perché lavora per amore. Ha una famiglia, ha dei piccoli in casa, e guardate come lavora volentieri. Quando il lavoratore non lavora più volentieri, c’è da temere che non ami più del tutto la sua famiglia. L’amore trasforma tutto. Quando le cose si fanno per amore, entrano in una possibilità nuova, in una risurrezione degli atti se fossero morti, in una vivificazione degli atti già vivi, in un potenziamento, in una elevazione ad alta potenza degli atti. – Parliamo dell’amore di Dio. Sentite, ci vuole un certo calore per tenere in piedi tutta sta macchina: rettitudine, rettifica d’intenzione, attenzione, diligenza; ci vuole del calore. La preghiera porterà questo calore e poi porterà la grazia di Dio e sarà erogazione di energia continua. Ma anche noi dobbiamo metterci la nostra parte, perché se questo calore ci viene a mancare, si cadrà in quella rigidità nella quale si cammina a vuoto; viene la tiepidezza, la mancanza del gusto spirituale, la tenebra. E allora non c’è che una cosa che salvi, è l’amor di Dio. L’amore salva anche senza gusto, nella notte oscura. Se non c’è questo, non ci si salva. Quando si passa nella notte oscura, direbbe S. Giovanni della Croce, cade tutto, perché allora arriva quel tale fenomeno che si chiama la spoetizzazione. È un fenomeno che nella vita spirituale va tutt’altro che trascurato. C’è della gente che vibra di santità, ha l’apertura dell’aquila nelle ali, ma fintanto che i termosifoni sono accesi; spegnete quelli e voi vedete che viene la tiepidezza, viene lo choc nervoso, l’interruzione della corrente, del sentimento, cioè viene la spoetizzazione. Fintanto che c’è la poesia, la devozione cola come il miele giù nell’esofago; ma quando non c’è più il miele, si chiude il capitolo. Ci sono dei temperamenti nervosi che quando il tempo si mette sullo scirocco sono a terra, non fan più niente, non han più voglia di fare niente, nemmeno di andare in Paradiso. Come cappe di piombo. E talvolta noi uomini siamo così deboli che siamo proprio, come costituzione fisica, alla mercé dello scirocco o della tramontana. Siamo così, con tutte le arie che ci diamo. Talvolta basta un piccolo choc perché s’interrompa la corrente, non si sente più nulla; una piccola contrarietà, una piccola umiliazione, un piccolo fallimento basta perché lo choc sia tale da inchiodare anche per una giornata, per due, per tre la vibrazione del sentimento, che è quella che aiuta ad amare Dio. Succede che una persona che stravolge gli occhi e va a vedere un bel quadro perché sente l’arte intimamente, se si trova davanti a un quadro di Raffaello, lo guarda come se guardasse il carro della spazzatura, non sente più niente. Si può trovare la persona che si esalta con le magnificenze, mai abbastanza decantate, della divina Liturgia e che dinanzi alla più grande coreografia religiosa seria, vera, profonda, si trova allo stesso livello del banco sul quale si siede. Sono fenomeni che succedono, e quando si parla di vita di perfezione, bisogna tenerli in considerazione, perché se noi trattiamo delle vicende della santità come se di casi avversi non ce ne fossero mai, poveri noi, non arriveremo mai alla santità. – Guardate che i fenomeni della spoetizzazione, chiamateli choc, aridità, tutto quello che volete, vengono con una facilità tale che possono compromettere quello che noi andiamo componendo. Dunque bisogna prendere dei provvedimenti che siano validi. Il più valido è questo: tutti gli atti debbono avere sempre per movente l’amore di Dio. L’amore vero, non l’amore sentimento, non abbracci, baci, dolcezze, quella sarebbe una società di mutuo sfruttamento, non l’amore. L’amore è un’altra cosa, è volontà in atto, è forza. E voi capite quanta necessità ci sia perché l’amore sia veramente forte. Ecco, queste sono le quattro condizioni perché le nostre azioni costruiscano l a perfezione della nostra vita. Non spaventatevi; se farete l’orazione come va fatta, tutte queste cose diventeranno facili, e allora sì che l’abitudine, invece di essere un imbroglio, diventerà un sussidio. E Dio lo voglia!