Incipit
In nómine Patris, ☩ et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.
Introitus
Ps XLIII:23-26
Exsúrge, quare obdórmis, Dómine? exsúrge, et ne repéllas in finem: quare fáciem tuam avértis, oblivísceris tribulatiónem nostram? adhaesit in terra venter noster: exsúrge, Dómine, ádjuva nos, et líbera nos. [Risvégliati, perché dormi, o Signore? Déstati, e non rigettarci per sempre. Perché nascondi il tuo volto diméntico della nostra tribolazione? Giace a terra il nostro corpo: sorgi in nostro aiuto, o Signore, e líberaci.]
Ps XLIII:2 – Deus, áuribus nostris audívimus: patres nostri annuntiavérunt nobis. [O Dio, lo udimmo coi nostri orecchi: ce lo hanno raccontato i nostri padri.]
Oratio
Orémus.
Deus, qui cónspicis, quia ex nulla nostra actióne confídimus: concéde propítius; ut, contra advérsa ómnia, Doctóris géntium protectióne muniámur. – Per Dominum nostrum Jesum Christum, Filium tuum: qui tecum vivit et regnat in unitate Spiritus Sancti Deus, per omnia sæcula sæculorum.
[O Dio, che vedi come noi non confidiamo in alcuna òpera nostra, concédici propizio d’esser difesi da ogni avversità, per intercessione del Dottore delle genti. – Per il nostro Signore Gesù Cristo, tuo Figlio, che è Dio, e vive e regna con te, in unità con lo Spirito Santo, per tutti i secoli dei secoli. R. – Amen.]
Lectio
Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Corínthios.
2 Cor XI:19-33; XII:1-9.
“Fratres: Libénter suffértis insipiéntens: cum sitis ipsi sapiéntes. Sustinétis enim, si quis vos in servitútem rédigit, si quis dévorat, si quis áccipit, si quis extóllitur, si quis in fáciem vos cædit. Secúndum ignobilitátem dico, quasi nos infírmi fuérimus in hac parte. In quo quis audet, – in insipiéntia dico – áudeo et ego: Hebraei sunt, et ego: Israelítæ sunt, et ego: Semen Abrahæ sunt, et ego: Minístri Christi sunt, – ut minus sápiens dico – plus ego: in labóribus plúrimis, in carcéribus abundántius, in plagis supra modum, in mórtibus frequénter. A Judaeis quínquies quadragénas, una minus, accépi. Ter virgis cæsus sum, semel lapidátus sum, ter naufrágium feci, nocte et die in profúndo maris fui: in itinéribus sæpe, perículis fluminum, perículis latrónum, perículis ex génere, perículis ex géntibus, perículis in civitáte, perículis in solitúdine, perículis in mari, perículis in falsis frátribus: in labóre et ærúmna, in vigíliis multis, in fame et siti, in jejúniis multis, in frigóre et nuditáte: præter illa, quæ extrínsecus sunt, instántia mea cotidiána, sollicitúdo ómnium Ecclesiárum. Quis infirmátur, et ego non infírmor? quis scandalizátur, et ego non uror? Si gloriári opórtet: quæ infirmitátis meæ sunt, gloriábor. Deus et Pater Dómini nostri Jesu Christi, qui est benedíctus in saecula, scit quod non méntior. Damásci præpósitus gentis Arétæ regis, custodiébat civitátem Damascenórum, ut me comprehénderet: et per fenéstram in sporta dimíssus sum per murum, et sic effúgi manus ejus. Si gloriári opórtet – non éxpedit quidem, – véniam autem ad visiónes et revelatiónes Dómini. Scio hóminem in Christo ante annos quatuórdecim, – sive in córpore néscio, sive extra corpus néscio, Deus scit – raptum hujúsmodi usque ad tértium coelum. Et scio hujúsmodi hóminem, – sive in córpore, sive extra corpus néscio, Deus scit:- quóniam raptus est in paradisum: et audivit arcána verba, quæ non licet homini loqui. Pro hujúsmodi gloriábor: pro me autem nihil gloriábor nisi in infirmitátibus meis. Nam, et si volúero gloriári, non ero insípiens: veritátem enim dicam: parco autem, ne quis me exístimet supra id, quod videt in me, aut áliquid audit ex me. Et ne magnitúdo revelatiónem extóllat me, datus est mihi stímulus carnis meæ ángelus sátanæ, qui me colaphízet. Propter quod ter Dóminum rogávi, ut discéderet a me: et dixit mihi: Súfficit tibi grátia mea: nam virtus in infirmitáte perfícitur. Libénter ígitur gloriábor in infirmitátibus meis, ut inhábitet in me virtus Christi.”
Deo gratias.
Omelia I
[Mons. Bonomelli, Nuovo saggio di Omelie, Marietti ed. – Torino, 1899, vol. I, om. XXIII – imprim.]
“Essendo voi savi, volentieri sopportate gli insipienti. E invero, se alcuno vi tratta da schiavi, se alcuno vi divora, se alcuno vi raggira, se alcuno si innalza, se alcuno vi schiaffeggia, voi lo sopportate. Lo dico a vergogna, come se noi da questo lato fossimo deboli: eppure in ciò, onde altri si vanta (lo dico da pazzo), anch’io me ne vanto. Sono essi Ebrei? Io ancora. Son essi Israeliti? Io ancora. Sono progenie di Abramo? Io ancora. Sono essi ministri di Cristo? Parlo da pazzo: io lo sono più di loro: nei travagli più sbattuto, nelle carceri più macerato di loro, nelle battiture oltre ogni misura, spesso nelle fauci della morte. Dai Giudei cinque volte ricevetti quaranta colpi, meno uno; tre volte fui vergheggiato, una volta lapidato, tre volte naufragai, restando un dì ed una notte in balia del mare. Spesse volte in viaggi, in pericoli di fiumi, in pericoli di ladroni, in pericoli da quelli della mia nazione, in pericoli dai gentili, in pericoli in città, in pericoli in luoghi deserti, in pericoli in mare, in pericoli tra falsi fratelli: tra fatiche e calamità, in veglie, in fame e sete, in prolungati digiuni, in freddo e nudità: oltre alle cose esterne, l’ansia che porto di tutte le Chiese, mi stringe. Chi mai è debole, ch’io non sia debole con lui? Chi è scandalizzato, ch’io non ne bruci? Se conviene vantarsi, io vanterò gli effetti della mia debolezza. Dio e Padre del Signor nostro Gesù Cristo, che sia benedetto in eterno, sa ch’io non mentisco. In Damasco, il capo della mia nazione, governatore del re Areta, aveva poste guardie nella città dei Damasceni per pigliarmi. Ma io fui calato dal muro per una finestra, in una sporta e così scampai dalle sue mani. Se mette conto gloriarmi (non è certo spediente), verrò alle visioni e alle rivelazioni del Signore. Conosco un cristiano, il quale quattordici anni or sono, fu rapito (se nel corpo o fuori del corpo, io non lo so, lo sa Iddio) fino al terzo cielo; so che quest’uomo (se nel corpo o fuori del corpo, io non lo so, lo sa Iddio) fu rapito in paradiso e vi udì parole ineffabili, che a nessun uomo è lecito profferire. Io mi glorierò di quel tale, ma non mi glorierò di me stesso, se non nelle mie debolezze. Perocché s’io volessi gloriarmi, non sarei stolto, perché direi il vero; tuttavia me ne rimango, affinché altri non mi stimi da più di ciò, che vede in me, od ode cosa di me. E perché l’altezza delle rivelazioni non mi faccia salire in orgoglio, mi fu dato un pungolo nella mia carne, un ministro di satana che mi tormenti. Onde tre volte ho pregato il Signore perché quello si partisse da me, e mi disse: Ti basti la mia grazia, perché la potenza si compie nella debolezza. Di gran cuore adunque mi glorierò delle mie debolezze, affinché la potenza di Cristo alberghi in me „ (II. Cor. XI, 19-33; XII, 1-9).
Non ho potuto dispensarmi dal riportare tutto intero questo tratto abbastanza lungo della epistola odierna per attenermi alla consuetudine universalmente stabilita. D’altra parte in questo tratto dell’epistola, che avete udito, vi è tanta forza, tanto calore, tanto nerbo di eloquenza popolare e serrata da gareggiare con i sommi oratori, ed era mio dovere farvelo gustare nella nativa sua semplicità e robustezza. Si direbbe che in queste in due pagine il grande Apostolo volle versare tutta l’anima sua, anima di fuoco. – Voi comprendete che la strettezza del tempo non mi permette di commentare ad uno ad uno questi ventiquattro versetti, come siam soliti fare: in quella vece, assommando insieme le cose dette dall’Apostolo, mi studierò di cavarne alcuni punti, che ne sono come la sostanza e il succo, e li verremo meditando insieme. S. Paolo aveva fondato la Chiesa di Corinto, composta di gentili e in parte di Ebrei ivi stabiliti. Quella Chiesa era fiorente, come apparisce dalle lettere dell’Apostolo; ma ben presto vi nacquero dei partiti, per sopire i quali S. Paolo scrisse la sua prima lettera. Poco appresso vi si recò Tito e ne recò ottime notizie all’Apostolo; ma dovette pure riferirgli che a Corinto non erano interamente cessati i dissidi e che colà v’erano ancor molti, massime Ebrei convertiti, i quali combattevano lo stesso Apostolo, lo gridavano nemico di Mosè e delle istituzioni nazionali ed osavano mettere in dubbio la sua missione e dignità di Apostolo. – Scopo della lettera, particolarmente nella parte recitàtavi, è di mostrare con le opere la sua dignità di Apostolo e che non ha fatto meno degli altri, anzi più degli altri, e tesse a rapidi tocchi le incredibili fatiche e i patimenti senza numero e senza nome, che sostenne per la causa di Gesù Cristo e per la salvezza delle anime. Si direbbe che l’Apostolo volesse fare il più splendido panegirico delle proprie imprese e gloriose conquiste. Da tutto questo noi apprendiamo in primo luogo, che i maggiori santi, lo stesso Apostolo per eccellenza, permettendolo Iddio, quaggiù non vanno immuni dalle contraddizioni e dalle prove più dure. S. Paolo, quest’uomo meraviglioso per l’ingegno e per la tempra d’acciaio della sua volontà, in un istante si decide di lasciare il mosaismo, di cui era campione fanatico e si fa discepolo di Gesù Cristo: chiamato da Lui stesso all’apostolato, affronta ogni sorta di nemici, Giudei e gentili; soffre esili e carceri, è vergheggiato e lapidato: la sua è la vita più travagliosa che si possa immaginare: va da Damasco ad Antiochia, a Tarso, a Gerusalemme, in Arabia, ritorna a Gerusalemme; poi ripiglia i suoi viaggi nell’Asia Minore, a Cipro, in Grecia, in Macedonia, e poi rifà il viaggio per Gerusalemme, poi rivede le Chiese fondate e carico di catene è condotto a Roma. È quasi impossibile narrare tutte le fatiche e le opere apostoliche di quest’uomo straordinario. Eppure questo apostolo, questo vaso di elezione, non sfugge alle censure, alle accuse, alle calunnie dei Cristiani, forse da lui stesso convertiti: si vede caduto in sospetto di nemico di Mosè e della legge, di falso apostolo, è obbligato a difendersi e ricordare i titoli della divina sua missione. Quali conseguenze dobbiamo dedurre, o cari? Parecchie, e questa in primo luogo: che gli uomini stessi più virtuosi, più fedeli ai loro doveri, attese le debolezze, l’ignoranza e le passioni comuni, devono rassegnarsi a vedere bene spesso travisate le loro intenzioni, anche più rette, e non meravigliarsi d’essere fatti segno essi medesimi di calunnie e persecuzioni. Basti loro la testimonianza della coscienza retta dinanzi a Dio, e da Lui aspettino pazientemente la giustizia, che tardi o tosto deve pur venire. Tengano dinanzi agli occhi della fede l’esempio luminoso dell’Apostolo, che ebbe feroci avversari tra gli stessi Cristiani. In secondo luogo consideriamo qual fu la condotta dell’Apostolo accusato e calunniato. – Si danno casi, nei quali chi è accusato e calunniato può tacere e rimetter a Dio la sua causa; ma vi sono casi, nei quali l’accusato e il calunniato non solo può, ma deve difendersi e smascherare i suoi avversari e calunniatori. Allorché l’accusato o calunniato tiene un ufficio e ha bisogno della stima pubblica per adempirlo debitamente, e questa gli è tolta o scemata e ne deriva danno altrui, egli può e deve mettere a nudo le arti inique dei tristi, vendicare il suo buon nome e se occorre può tradurli anche dinanzi ai tribunali. S. Paolo, negli Atti apostolici, nelle sue lettere e segnatamente in questo luogo ce ne porge uno splendido esempio. Egli nella sua difesa non ebbe certamente di mira di confondere e svergognare i suoi avversari per il vile piacere di umiliarli, per un basso sentimento di vendetta: in quell’anima sublime siffatti sentimenti non potevano entrare: egli si propose soltanto di conservare al suo apostolato quell’onore e quella fiducia, che si richiedevano perché l’opera sua fosse fruttuosa: suo fine principale e santo era il bene e la salvezza delle anime: del resto non si curava punto. – Si dice, e meritamente, che la lode in bocca propria non istà bene: Laus in ore proprio sordescit. Nulla di più vero. Il sentimento della propria debolezza, il dubbio troppo ragionevole d’essere cattivi giudici in causa propria, la modestia più elementare, che si fa sentire e si impone anche ai più orgogliosi ci vietano di far le lodi di noi stessi sotto pena di cadere sotto il biasimo e le risa del pubblico. Ma talora può accadere che altri per difendersi e per mettere in luce la propria innocenza e procurare il bene altrui possa e debba anche ricordar quelle opere, che fruttano lode, e ciò senz’ombra di vanità o di arroganza; e in questa congiuntura si trovò S. Paolo allorché scrisse la seconda lettera ai Corinti! Egli non esitò punto a fare la storia del suo apostolato, che era la storia della sua conversione miracolosa, delle sue rivelazioni prodigiose, dei suoi dolori, delle persecuzioni sostenute, delle sue opere e del suo zelo instancabile. Tutto questo narra l’Apostolo, non per farsene un vanto, per menarne pompa innanzi ai Corinti, ma solamente per fiaccare la baldanza di coloro che si camuffavano da Apostoli di Cristo che mettevano in dubbio la sua missione e per tal modo fuorviavano i fedeli. Ed è sì vero che l’Apostolo non parlava di sé e delle cose sue per averne vana lode, che due volte protesta di far ciò a malincuore, e dichiara di parlare da stolto, quasi in insipientia, da pazzo; ma voi, dice altrove, voi a ciò mi avete costretto. Non è dunque cosa biasimevole, nè da persone vane parlare di sé e delle opere proprie meritevoli di lode quando sia necessario per difendere se stessi, salvare il proprio onore o procurare il bene delle anime. – Né S. Paolo si fermò a ricordare le sole opere del suo apostolato, delle quali quasi tutti erano testimonio: stringendo più davvicino i suoi avversari, non stette in forse di appellare ad altre e più gagliarde prove del suo apostolato, prove che a lui solo erano note e che i Corinti dovevano ammettere sulla sua parola, perché “Iddio sa ch’io non mentisco — Scit quod non mentior. „ E qui S. Paolo parla del suo rapimento al più alto dei cieli e di cose là vedute ed udite, che a nessun uomo è dato di dire; afferma che è certissimo di questo fatto, avvenuto quattordici anni prima, ma che non saprebbe dire se sia stato rapito colassù con lo spirito, od anche con il corpo. Era questo, per sentenza di S. Paolo, il suggello supremo del suo apostolato e la prova massima della sua autorità. Ma pervenuto a questa prova massima della sua missione divina, a questo argomento sommo della sua gloria, S. Paolo ritorna sopra di sé, ricorda il proprio nulla e non vuole che altri lo stimi da più ch’egli non è. Si direbbe che l’Apostolo ad un tratto dalle altezze dei cieli precipita sulla terra e alle grandezze dei doni celesti ricevuti contrappone le debolezze e le miserie della sua natura. Egli parla di un pungolo della carne, di un ministro di satana, che lo schiaffeggia e tormenta: questo pungolo della carne e ministro di satana S. Paolo non disse che cosa fosse. Alcuni pensarono che fosse la concupiscenza, che lo travagliava; ma non sembra probabile che l’Apostolo parlasse di questa miseria umana e molto meno che potesse poi gloriarsene, come fa subito dopo. Si può dunque credere che accennasse a qualche grande tribolazione o dolore acuto che lo tormentava stranamente che noi ignoriamo e doveva essere noto ai Corinti. Era sì pungente questo dolore, che l’Apostolo dichiara d’aver pregato tre volte, cioè molte volte Iddio, affinché ne lo liberasse, ma gli fu risposto, probabilmente per ispirazione interna, che dovesse accontentarsi della grazia necessaria per sopportarlo, perché la potenza o la forza si compie e si affina nella debolezza. In un impeto di fede, di amore e di umiltà l’Apostolo esclama: “Di gran cuore adunque io mi glorierò nelle mie debolezze, affinché la potenza di Cristo dimori in me. „ Condannati a soffrire nel corpo e nello spirito; messi continuamente alle prove più amare dai nemici esterni ed interni; travagliati da noie e timori d’ogni maniera, noi pure bene spesso gridiamo a Dio che ne liberi, e Dio sembra sordo alle nostre preghiere, e le nostre pene, le nostre amarezze continuano e forse crescono ogni dì. E perché? Perché per noi è bene il soffrire: ci tiene umili, ci fa sentire e conoscere il nostro nulla, ingenera in noi un santo timore, ci obbliga di ricorrere a Dio ed abbandonarci in Lui, ci stacca dalle cose della terra, ci porge occasione di meriti sempre maggiori. In mezzo pertanto alle nostre pene ed agli aspri combattimenti della vita, pieni di fiducia e di santa gioia esclamiamo con S. Paolo: “Di gran cuore mi glorierò nelle mie debolezze, affinché la forza di Cristo dimori in me! „
Graduale Ps LXXXII:19; 82:14
Sciant gentes, quóniam nomen tibi Deus: tu solus Altíssimus super omnem terram, [Riconòscano le genti, o Dio, che tu solo sei l’Altissimo, sovrano di tutta la terra.]
Deus meus, pone illos ut rotam, et sicut stípulam ante fáciem venti.
[V. Dio mio, ridúcili come grumolo rotante e paglia travolta dal vento.]
Ps LIX:4; LIX:6
Commovísti, Dómine, terram, et conturbásti eam.
Sana contritiónes ejus, quia mota est.
Ut fúgiant a fácie arcus: ut liberéntur elécti tui.
[Hai scosso la terra, o Signore, l’hai sconquassata.
Risana le sue ferite, perché minaccia rovina.
Affinché sfuggano al tiro dell’arco e siano liberati i tuoi eletti.]
Evangelium
Sequéntia ✠ sancti Evangélii secúndum Lucam.
Gloria tibi, Domine!
Luc VIII:4-15
“In illo témpore: Cum turba plúrima convenírent, et de civitátibus properárent ad Jesum, dixit per similitúdinem: Exiit, qui séminat, semináre semen suum: et dum séminat, áliud cécidit secus viam, et conculcátum est, et vólucres coeli comedérunt illud. Et áliud cécidit supra petram: et natum áruit, quia non habébat humórem. Et áliud cécidit inter spinas, et simul exórtæ spinæ suffocavérunt illud. Et áliud cécidit in terram bonam: et ortum fecit fructum céntuplum. Hæc dicens, clamábat: Qui habet aures audiéndi, audiat. Interrogábant autem eum discípuli ejus, quæ esset hæc parábola. Quibus ipse dixit: Vobis datum est nosse mystérium regni Dei, céteris autem in parábolis: ut vidéntes non videant, et audientes non intéllegant. Est autem hæc parábola: Semen est verbum Dei. Qui autem secus viam, hi sunt qui áudiunt: déinde venit diábolus, et tollit verbum de corde eórum, ne credéntes salvi fiant. Nam qui supra petram: qui cum audierint, cum gáudio suscipiunt verbum: et hi radíces non habent: qui ad tempus credunt, et in témpore tentatiónis recédunt. Quod autem in spinas cécidit: hi sunt, qui audiérunt, et a sollicitudínibus et divítiis et voluptátibus vitæ eúntes, suffocántur, et non réferunt fructum. Quod autem in bonam terram: hi sunt, qui in corde bono et óptimo audiéntes verbum rétinent, et fructum áfferunt in patiéntia.”
[“In quel tempo: radunandosi grandissima turba di popolo, e accorrendo gente a Gesù da tutte le città. Egli disse questa parabola: Andò il seminatore a seminare la sua semenza: e nel seminarla parte cadde lungo la strada e fu calpestata, e gli uccelli dell’aria la divorarono; parte cadde sopra le pietre, e, nata che fu, seccò, perché non aveva umore; parte cadde fra le spine, e le spine che nacquero insieme la soffocarono; parte cadde in terra buona, e, nata, fruttò cento per uno. Detto questo esclamò: Chi ha orecchie per intendere, intenda. E i suoi discepoli gli domandavano che significasse questa parabola. Egli disse: A voi è concesso di intendere il mistero del regno di Dio, ma a tutti gli altri solo per via di parabola: onde, pur vedendo non vedano, e udendo non intendano. La parabola dunque significa questo: La semenza è la parola di Dio. Ora, quelli che sono lungo la strada, sono coloro che ascoltano: e poi viene il diavolo e porta via la parola dal loro cuore, perché non si salvino col credere. Quelli caduti sopra la pietra, sono quelli che udita la parola l’accolgono con allegrezza, ma questi non hanno radice: essi credono per un tempo, ma nell’ora della tentazione si tirano indietro. Semenza caduta tra le spine sono coloro che hanno ascoltato, ma a lungo andare restano soffocati dalle sollecitudini, dalle ricchezze e dai piaceri della vita, e non portano il frutto a maturità. La semenza caduta in buona terra indica coloro che in un cuore buono e perfetto ritengono la parola ascoltata, e portano frutto mediante la pazienza.”]
Lode a Te, o Cristo.
OMELIA II
[Mons. Bonomelli; op. cit. Omelia XXIV]
È questo, o figliuoli miei, il Vangelo, che la Chiesa ci fa leggere in questa Domenica e che io tolgo a commentarvi. Il significato della parabola, che avete udita, è certissimo, perché Gesù Cristo medesimo si compiacque porgerlo agli Apostoli, che gliene fecero domanda. Nulla di più semplice e di più istruttivo di questa parabola in ciascuna delle sue parti, e voi medesimi siatene giudici. – “Raccoltasi una grande moltitudine, e accorrendosi da tutte le città a Gesù, Egli disse in parabola. „ Gesù si trovava nelle parti di Galilea, sulle rive del lago di Tiberiade o Genesaret, presso alla cittadella o borgata di Cafarnao: da poco tempo aveva cominciato la sua predicazione. La fama dei suoi miracoli, la semplicità e la sublimità della sua dottrina, l’unzione della sua parola, che andava dritta al cuore, il tutto insieme della sua persona, da cui traluceva un raggio della nascosta divinità, commuovevano i popoli, che pieni d’un sacro entusiasmo lo seguivano dovunque e pendevano estatici dalle sue labbra. Quelle turbe, sì avide di udire la parola di Dio, ci danno un grande esempio e ci insegnano come dobbiamo accorrere noi pure ad udirla con amore e rispetto, allorché si annunzia nelle nostre chiese. È sempre la stessa dottrina che si annunzia, ancorché diverse siano le persone che ve la porgono. – Gesù prese a dire in parabola: “Uscì un seminatore a seminare il suo seme, e nel seminare una parte cadde lungo la via e fu calpestato e gli uccelli dell’aria lo mangiarono: ed altro ne cadde sopra dei sassi, e nato appena, disseccò per difetto di umore. Altro cadde in mezzo alle spine, e le spine, germogliate insieme, lo soffocarono. Altro poi cadde nella terra buona, e nato fruttò il centuplo. Dicendo queste cose, esclamava: Chi ha orecchi da udire, oda. „ Certamente questa parabola non era difficile ad intendersi, e perciò Gesù Cristo conchiuse, dicendo, chi ha orecchi da udire, oda; il che voleva dire, chi ha fior di mente, la mediti e la comprenderà. Ma crederei di non errare, affermando, che buon numero di quelli che ascoltavano Gesù Cristo, non compresero il senso della parabola, giacché, come tosto vedremo, gli stessi Apostoli confessarono di non averlo compreso. Che dovevano fare quelle turbe? Ciò che poco appresso fecero gli Apostoli, domandarne a Gesù stesso la spiegazione, che senza dubbio l’avrebbe data, come la diede agli Apostoli. Ma le turbe, per trascuratezza, o per orgoglio, o per altra cagione, non la chiesero e rimasero nella loro ignoranza. Dilettissimi! In ciò non imitiamole. Allorché alla mente nostra si affacciano difficoltà, che non possiamo da noi stessi sciogliere, dubbi che ci angustiano, che forse mettono a pericolo la nostra fede, chiediamo lume a chi può darcelo, e l’acquisto della verità sarà il premio della nostra umiltà. Dov’è l’uomo che conosca tutto? che non abbia bisogno di lume? che sdegni di ricorrere ad altri allorché n’abbia bisogno? Nessuna meraviglia adunque, che anche persone dotte ed alto locate abbiano bisogno d’essere ammaestrate in certe verità della fede, che ignorano o non conoscono chiaramente. Saranno dottissime nelle scienze umane, ma non di rado accade che nella scienza della religione siano meno istruite e bisognose d’essere meglio illuminate. Non arrossiscano di chiedere questo lume a chi può darlo. Ma quanto raramente ciò avviene! – I discepoli poi, trovatisi soli con Gesù, come narra S. Marco, gli chiesero che volesse dire quella parabola. „ Vedete umiltà e confidenza filiale dei discepoli! Non hanno capito il senso della parabola: non si vergognano di confessarsi ignoranti e pregano il divino Maestro ad illuminarli; ed Egli con paterna amorevolezza risponde: “A voi è dato conoscere il mistero del regno di Dio, „ cioè a voi spiegherò le cose occulte della mia dottrina, ossia il senso della parabola. “Agli altri parlo in parabole, sicché vedendo non vedano e ascoltando non intendano. „ Ma, come, o Signore? voi siete il maestro per eccellenza: voi siete venuto per istruire i poverelli e parlate in parabole, affinché vedendo non vedano, ascoltando non intendano? Voi dunque volete che rimangano nelle tenebre dell’ignoranza e che per essi sia inutile la vostra venuta, la vostra parola? Perché dunque predicate se non volete che vi intendano? — Voi comprendete che sarebbe bestemmia orribile il solo sospettare che Gesù parlasse in parabole per non essere inteso. Egli anzi parlava in parabole per acconciarsi alla loro debolezza: se avesse annunziata più chiaramente la verità, anche meno l’avrebbero intesa: la nascondeva sotto il velo della parabola per temperarne la luce, perché non li offendesse troppo vivamente e li allontanasse e così accrescesse la loro colpa. Parlava in parabole, perché chi le intendeva, ne traeva alimento di vita; chi non le intendeva, poteva domandarne la spiegazione e l’avrebbe avuta, e chi non la domandava, non si rendeva reo di maggior colpa, né correva il rischio di calpestare le perle. Dette queste parole ai suoi cari Apostoli, Gesù spiega la parabola. Udiamolo. “Il seme è la parola di Dio, „ cioè rappresenta la parola di Dio. Vediamo come il seme raffiguri la parola di Dio. Il seme si affida alla terra: posto sotto terra, riscaldato dal sole e irrigato dalla pioggia, mette le sue radici, si assimila la terra, cresce, germoglia il fiore e poi dà moltiplicato il frutto, che è sempre in ragione della fecondità del suolo che lo riceve, del calore del sole, dell’umido della pioggia e dell’opera che l’agricoltore vi spende intorno. – La parola di Dio, ossia la verità chiusa entro la parola di Dio, come il seme entro la sua corteccia, per l’orecchio discende al cuore: esso l’accoglie in sé, l’ama, la fa propria. Che avvien allora? Tra l’anima e la verità avviene un connubio misterioso sotto l’azione della grazia divina, che è luce e acqua fecondatrice. L’anima pensa, vuole, opera secondo la verità ricevuta; dirò meglio, la verità germoglia nell’anima, cresce, si ammanta di fiori, si copre di frutti, e i fiori e i frutti sono i pensieri, i desideri buoni, le opere sante. Un solo seme ci dà venti, cinquanta, mille frutti: una sola verità praticata dall’uomo, quanti pensieri ed affetti buoni e quante opere sante ci può dare! – La moltiplicazione del seme è opera del seme istesso e della terra, del sole e dell’acqua e del lavoro dell’industre agricoltore: le opere buone e sante sono il frutto della verità, della libertà umana, della grazia divina e della cooperazione dell’uomo. Senza il seme, senza la verità, nessun frutto: il seme senza la cooperazione dell’uomo rimane sterile ed infruttuoso. Voi vedete, o cari, come sapientissimamente Gesù Cristo sotto l’immagine del seme adombrasse la parola di Dio, o la verità, e sotto l’immagine del terreno raffigurasse il cuore umano. – Gesù prosegue e dice: “Quelli che sono lungo la via, sono quelli che ascoltano; ma dopo viene il diavolo e porta via dai loro cuori la parola, affinché col credere non si salvino. „ Il seme fu gettato e cadde in parte lungo la via, cioè sull’estremo lembo del terreno, dove passano gli uomini, e quello fu calpestato o mangiato dagli uccelli. Vi sono raffigurati quegli uomini, che ascoltano la parola di Dio, che ricevono la verità, ma non vi può mettere radice. Quanti, o cari, vengono in chiesa, ascoltano la parola di Dio, conoscono la verità e, uscendo di qui, più non se ne rammentano! E il seme calpestato sulla via o rapito dagli uccelli e dal demonio. Nostra prima cura pertanto sia quella di ricevere nel nostro cuore la parola di Dio e con essa la verità, di imprimervela fortemente, affinché il nemico non ce la involi e noi restiamo come la pubblica via, su cui non spunta mai il germoglio d’un granello. “Quelli poi di sopra i sassi, son coloro, ì quali, udita la parola, la ricevono con gioia; ma questi, non avendo radice, credono per poco e al tempo della prova si ritraggono. „ Fate che il seme cada in mezzo ai sassi, cioè in terreno petroso, con pochissimo fondo. Il seme, riscaldato dal sole, mette le prime barbe, spunta dal suolo, comincia a distendere le sue foglioline; ma, poi, riarso dal sole e non potendo ficcare le radici in terreno che lo alimenti, imbianca, intristisce e muore senza dare ombra di frutto. – Eccovi un’immagine della parola di Dio sparsa in certe anime, che l’ascoltano e la ricevono volentieri, ma senza energia, senza saldezza di volontà. La parola di Dio, ossia la verità, non può mettervi radici profonde; queste rimangono a fior di terra, senza umore, e prima di gettare il frutto, la povera pianticella inaridisce e muore. È necessario, o cari, che le verità della fede penetrino ben addentro nel terreno del nostro cuore, vi si abbarbichino fortemente mercé della volontà, che le abbracci, le ami e le faccia proprie: allora potranno soffiare i venti delle tentazioni e il nemico muoverci più aspra battaglia; ma reggeremo saldi alla prova. – “Il seme caduto nelle spine significa coloro che ascoltarono, ma dalle cure, dalle ricchezze e dai piaceri della vita restano soffocati e non portano frutto. „ Avrete rilevato certamente la gradazione della parabola: il primo seme cade lungo la via e non nasce nemmeno; il secondo cade un terreno petroso, nasce, ma muore tosto; il terzo cade in terreno, ma le spine lo soffocano. Non rare volte avrete visto sparso il buon seme in terra ferace: ma appena il buon seme spunta rigoglioso, ecco i cardi, le ortiche, le spine ed altre male erbe germogliare d’ogni parte e coprire e soffocare il buon seme, se la mano dell’agricoltore non le sbarbica prontamente. Le verità divine sono piantate nel nostro cuore mercé dell’istruzione: vi crescono vigorose e ben presto darebbero frutto abbondante; ma le cure delle cose terrene, la fame delle ricchezze, la sete dei piaceri, la febbre dell’ambizione, l’amore sregolato di noi stessi, in una parola, le passioni scomposte ci fanno perdere di vista le verità, non ce ne diamo più pensiero alcuno e rimangono nel nostro cuore come se non ci fossero. Come le male erbe rubano al buon seme il succo vitale e lo fanno miseramente perire, cosi le passioni, le cure mondane, i piaceri sensuali rapiscono all’anima le sue forze e condannano alla infecondità od alla morte il seme celeste della verità. Che fare? Ciò che fa il contadino, che taglia e svelle senza pietà le male erbe: tagliamo e, se è possibile, svelliamo i rei germogli delle nostre passioni, particolarmente dell’avarizia, della gola e della lussuria. “Il seme che cade in terra buona, significa coloro i quali, udita la parola, la conservano in un cuor retto e buono, e danno frutto con la pazienza. „ S. Matteo (XIII, 3, seg.) e S. Marco (IV, 3, seguenti) riferiscono più ampiamente questa parte della parabola e dicono che il seme caduto in buona terra fruttò dove il trenta, dove il sessanta e dove il cento per uno: qui san Luca dice in generale che diede frutto con la pazienza. Notate bene, o dilettissimi, le singole parole del Vangelo, perché non ve n’è una sola inutile. Gesù Cristo parla di coloro che ascoltano la parola di Dio e ricevono le verità, e sono come terra buona rispetto al seme si sparge. Chi sono costoro? Quelli che hanno un cuor retto e buono. Intendete, o fratelli miei? Cuor retto e buono hanno coloro che accorrono ad udire la parola di Dio per amore della verità, col desiderio vivo di abbracciarla e di farne tesoro, attuandola nelle opere; che non secondano una curiosità mondana, che non appuntano il ministro sacro che la annunzia, per alcuni difetti di forma, che guardano più ai modi che alla sostanza: cuor retto e buono hanno coloro che ascoltano docilmente, come gli Apostoli ascoltavano Gesù, e cercano solo di piacere a Lui e fare la sua volontà. Questi danno il frutto copioso, purché (ponete mente a quest’ultima condizione) abbiano pazienza: In patientia. – Il mettere in pratica le verità conosciute, massime in certi casi, è cosa ardua e domanda saldezza di propositi, costanza incrollabile e spirito di sacrificio a tutta prova. Per non venir meno in mezzo alle tante traversie della vita cristiana, non occorre il dirlo, si esige la pazienza: In patientìa; quella pazienza, alla quale sola, dice san Paolo, “è legato il conseguimento delle divine promesse.„
Offertorium
Orémus Ps XVI:5; XVI:6-7
Pérfice gressus meos in sémitis tuis, ut non moveántur vestígia mea: inclína aurem tuam, et exáudi verba mea: mirífica misericórdias tuas, qui salvos facis sperántes in te, Dómine. [Rendi fermi i miei passi nei tuoi sentieri, affinché i miei piedi non vacillino. Inclina l’orecchio verso di me, e ascolta le mie parole. Fa risplendere la tua misericordia, tu che salvi chi spera in Te, o Signore.]
Secreta
Oblátum tibi, Dómine, sacrifícium, vivíficet nos semper et múniat.
[Il sacrificio a Te offerto, o Signore, sempre ci vivifichi e custodisca.]
Communio
Ps XLII:4
Introíbo ad altáre Dei, ad Deum, qui lætíficat juventútem meam. [Mi accosterò all’altare di Dio, a Dio che allieta la mia giovinezza.]
Postcommunio
Orémus.
Súpplices te rogámus, omnípotens Deus: ut, quos tuis réficis sacraméntis, tibi étiam plácitis móribus dignánter deservíre concédas. [Ti supplichiamo, o Dio onnipotente, affinché quelli che nutri coi tuoi sacramenti, Ti servano degnamente con una condotta a Te gradita.]