DOMENICA DI SESSAGESIMA [2018]

Incipit 
In nómine Patris,  et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Ps XLIII:23-26

Exsúrge, quare obdórmis, Dómine? exsúrge, et ne repéllas in finem: quare fáciem tuam avértis, oblivísceris tribulatiónem nostram? adhaesit in terra venter noster: exsúrge, Dómine, ádjuva nos, et líbera nos. [Risvégliati, perché dormi, o Signore? Déstati, e non rigettarci per sempre. Perché nascondi il tuo volto diméntico della nostra tribolazione? Giace a terra il nostro corpo: sorgi in nostro aiuto, o Signore, e líberaci.]

Ps XLIII:2 – Deus, áuribus nostris audívimus: patres nostri annuntiavérunt nobis. [O Dio, lo udimmo coi nostri orecchi: ce lo hanno raccontato i nostri padri.]

Oratio

Orémus.

Deus, qui cónspicis, quia ex nulla nostra actióne confídimus: concéde propítius; ut, contra advérsa ómnia, Doctóris géntium protectióne muniámur. – Per Dominum nostrum Jesum Christum, Filium tuum: qui tecum vivit et regnat in unitate Spiritus Sancti Deus, per omnia sæcula sæculorum.

[O Dio, che vedi come noi non confidiamo in alcuna òpera nostra, concédici propizio d’esser difesi da ogni avversità, per intercessione del Dottore delle genti. – Per il nostro Signore Gesù Cristo, tuo Figlio, che è Dio, e vive e regna con te, in unità con lo Spirito Santo, per tutti i secoli dei secoli. R. – Amen.]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Corínthios.

2 Cor XI:19-33; XII:1-9.

“Fratres: Libénter suffértis insipiéntens: cum sitis ipsi sapiéntes. Sustinétis enim, si quis vos in servitútem rédigit, si quis dévorat, si quis áccipit, si quis extóllitur, si quis in fáciem vos cædit. Secúndum ignobilitátem dico, quasi nos infírmi fuérimus in hac parte. In quo quis audet, – in insipiéntia dico – áudeo et ego: Hebraei sunt, et ego: Israelítæ sunt, et ego: Semen Abrahæ sunt, et ego: Minístri Christi sunt, – ut minus sápiens dico – plus ego: in labóribus plúrimis, in carcéribus abundántius, in plagis supra modum, in mórtibus frequénter. A Judaeis quínquies quadragénas, una minus, accépi. Ter virgis cæsus sum, semel lapidátus sum, ter naufrágium feci, nocte et die in profúndo maris fui: in itinéribus sæpe, perículis fluminum, perículis latrónum, perículis ex génere, perículis ex géntibus, perículis in civitáte, perículis in solitúdine, perículis in mari, perículis in falsis frátribus: in labóre et ærúmna, in vigíliis multis, in fame et siti, in jejúniis multis, in frigóre et nuditáte: præter illa, quæ extrínsecus sunt, instántia mea cotidiána, sollicitúdo ómnium Ecclesiárum. Quis infirmátur, et ego non infírmor? quis scandalizátur, et ego non uror? Si gloriári opórtet: quæ infirmitátis meæ sunt, gloriábor. Deus et Pater Dómini nostri Jesu Christi, qui est benedíctus in saecula, scit quod non méntior. Damásci præpósitus gentis Arétæ regis, custodiébat civitátem Damascenórum, ut me comprehénderet: et per fenéstram in sporta dimíssus sum per murum, et sic effúgi manus ejus. Si gloriári opórtet – non éxpedit quidem, – véniam autem ad visiónes et revelatiónes Dómini. Scio hóminem in Christo ante annos quatuórdecim, – sive in córpore néscio, sive extra corpus néscio, Deus scit – raptum hujúsmodi usque ad tértium coelum. Et scio hujúsmodi hóminem, – sive in córpore, sive extra corpus néscio, Deus scit:- quóniam raptus est in paradisum: et audivit arcána verba, quæ non licet homini loqui. Pro hujúsmodi gloriábor: pro me autem nihil gloriábor nisi in infirmitátibus meis. Nam, et si volúero gloriári, non ero insípiens: veritátem enim dicam: parco autem, ne quis me exístimet supra id, quod videt in me, aut áliquid audit ex me. Et ne magnitúdo revelatiónem extóllat me, datus est mihi stímulus carnis meæ ángelus sátanæ, qui me colaphízet. Propter quod ter Dóminum rogávi, ut discéderet a me: et dixit mihi: Súfficit tibi grátia mea: nam virtus in infirmitáte perfícitur. Libénter ígitur gloriábor in infirmitátibus meis, ut inhábitet in me virtus Christi.”

Deo gratias.

Omelia I

[Mons. Bonomelli, Nuovo saggio di Omelie, Marietti ed. – Torino, 1899, vol. I, om. XXIII – imprim.]

“Essendo voi savi, volentieri sopportate gli insipienti. E invero, se alcuno vi tratta da schiavi, se alcuno vi divora, se alcuno vi raggira, se alcuno si innalza, se alcuno vi schiaffeggia, voi lo sopportate. Lo dico a vergogna, come se noi da questo lato fossimo deboli: eppure in ciò, onde altri si vanta (lo dico da pazzo), anch’io me ne vanto. Sono essi Ebrei? Io ancora. Son essi Israeliti? Io ancora. Sono progenie di Abramo? Io ancora. Sono essi ministri di Cristo? Parlo da pazzo: io lo sono più di loro: nei travagli più sbattuto, nelle carceri più macerato di loro, nelle battiture oltre ogni misura, spesso nelle fauci della morte. Dai Giudei cinque volte ricevetti quaranta colpi, meno uno; tre volte fui vergheggiato, una volta lapidato, tre volte naufragai, restando un dì ed una notte in balia del mare. Spesse volte in viaggi, in pericoli di fiumi, in pericoli di ladroni, in pericoli da quelli della mia nazione, in pericoli dai gentili, in pericoli in città, in pericoli in luoghi deserti, in pericoli in mare, in pericoli tra falsi fratelli: tra fatiche e calamità, in veglie, in fame e sete, in prolungati digiuni, in freddo e nudità: oltre alle cose esterne, l’ansia che porto di tutte le Chiese, mi stringe. Chi mai è debole, ch’io non sia debole con lui? Chi è scandalizzato, ch’io non ne bruci? Se conviene vantarsi, io vanterò gli effetti della mia debolezza. Dio e Padre del Signor nostro Gesù Cristo, che sia benedetto in eterno, sa ch’io non mentisco. In Damasco, il capo della mia nazione, governatore del re Areta, aveva poste guardie nella città dei Damasceni per pigliarmi. Ma io fui calato dal muro per una finestra, in una sporta e così scampai dalle sue mani. Se mette conto gloriarmi (non è certo spediente), verrò alle visioni e alle rivelazioni del Signore. Conosco un cristiano, il quale quattordici anni or sono, fu rapito (se nel corpo o fuori del corpo, io non lo so, lo sa Iddio) fino al terzo cielo; so che quest’uomo (se nel corpo o fuori del corpo, io non lo so, lo sa Iddio) fu rapito in paradiso e vi udì parole ineffabili, che a nessun uomo è lecito profferire. Io mi glorierò di quel tale, ma non mi glorierò di me stesso, se non nelle mie debolezze. Perocché s’io volessi gloriarmi, non sarei stolto, perché direi il vero; tuttavia me ne rimango, affinché altri non mi stimi da più di ciò, che vede in me, od ode cosa di me. E perché l’altezza delle rivelazioni non mi faccia salire in orgoglio, mi fu dato un pungolo nella mia carne, un ministro di satana che mi tormenti. Onde tre volte ho pregato il Signore perché quello si partisse da me, e mi disse: Ti basti la mia grazia, perché la potenza si compie nella debolezza. Di gran cuore adunque mi glorierò delle mie debolezze, affinché la potenza di Cristo alberghi in me „ (II. Cor. XI, 19-33; XII, 1-9).

Non ho potuto dispensarmi dal riportare tutto intero questo tratto abbastanza lungo della epistola odierna per attenermi alla consuetudine universalmente stabilita. D’altra parte in questo tratto dell’epistola, che avete udito, vi è tanta forza, tanto calore, tanto nerbo di eloquenza popolare e serrata da gareggiare con i sommi oratori, ed era mio dovere farvelo gustare nella nativa sua semplicità e robustezza. Si direbbe che in queste in due pagine il grande Apostolo volle versare tutta l’anima sua, anima di fuoco. – Voi comprendete che la strettezza del tempo non mi permette di commentare ad uno ad uno questi ventiquattro versetti, come siam soliti fare: in quella vece, assommando insieme le cose dette dall’Apostolo, mi studierò di cavarne alcuni punti, che ne sono come la sostanza e il succo, e li verremo meditando insieme. S. Paolo aveva fondato la Chiesa di Corinto, composta di gentili e in parte di Ebrei ivi stabiliti. Quella Chiesa era fiorente, come apparisce dalle lettere dell’Apostolo; ma ben presto vi nacquero dei partiti, per sopire i quali S. Paolo scrisse la sua prima lettera. Poco appresso vi si recò Tito e ne recò ottime notizie all’Apostolo; ma dovette pure riferirgli che a Corinto non erano interamente cessati i dissidi e che colà v’erano ancor molti, massime Ebrei convertiti, i quali combattevano lo stesso Apostolo, lo gridavano nemico di Mosè e delle istituzioni nazionali ed osavano mettere in dubbio la sua missione e dignità di Apostolo. – Scopo della lettera, particolarmente nella parte recitàtavi, è di mostrare con le opere la sua dignità di Apostolo e che non ha fatto meno degli altri, anzi più degli altri, e tesse a rapidi tocchi le incredibili fatiche e i patimenti senza numero e senza nome, che sostenne per la causa di Gesù Cristo e per la salvezza delle anime. Si direbbe che l’Apostolo volesse fare il più splendido panegirico delle proprie imprese e gloriose conquiste. Da tutto questo noi apprendiamo in primo luogo, che i maggiori santi, lo stesso Apostolo per eccellenza, permettendolo Iddio, quaggiù non vanno immuni dalle contraddizioni e dalle prove più dure. S. Paolo, quest’uomo meraviglioso per l’ingegno e per la tempra d’acciaio della sua volontà, in un istante si decide di lasciare il mosaismo, di cui era campione fanatico e si fa discepolo di Gesù Cristo: chiamato da Lui stesso all’apostolato, affronta ogni sorta di nemici, Giudei e gentili; soffre esili e carceri, è vergheggiato e lapidato: la sua è la vita più travagliosa che si possa immaginare: va da Damasco ad Antiochia, a Tarso, a Gerusalemme, in Arabia, ritorna a Gerusalemme; poi ripiglia i suoi viaggi nell’Asia Minore, a Cipro, in Grecia, in Macedonia, e poi rifà il viaggio per Gerusalemme, poi rivede le Chiese fondate e carico di catene è condotto a Roma. È quasi impossibile narrare tutte le fatiche e le opere apostoliche di quest’uomo straordinario. Eppure questo apostolo, questo vaso di elezione, non sfugge alle censure, alle accuse, alle calunnie dei Cristiani, forse da lui stesso convertiti: si vede caduto in sospetto di nemico di Mosè e della legge, di falso apostolo, è obbligato a difendersi e ricordare i titoli della divina sua missione. Quali conseguenze dobbiamo dedurre, o cari? Parecchie, e questa in primo luogo: che gli uomini stessi più virtuosi, più fedeli ai loro doveri, attese le debolezze, l’ignoranza e le passioni comuni, devono rassegnarsi a vedere bene spesso travisate le loro intenzioni, anche più rette, e non meravigliarsi d’essere fatti segno essi medesimi di calunnie e persecuzioni. Basti loro la testimonianza della coscienza retta dinanzi a Dio, e da Lui aspettino pazientemente la giustizia, che tardi o tosto deve pur venire. Tengano dinanzi agli occhi della fede l’esempio luminoso dell’Apostolo, che ebbe feroci avversari tra gli stessi Cristiani. In secondo luogo consideriamo qual fu la condotta dell’Apostolo accusato e calunniato. – Si danno casi, nei quali chi è accusato e calunniato può tacere e rimetter a Dio la sua causa; ma vi sono casi, nei quali l’accusato e il calunniato non solo può, ma deve difendersi e smascherare i suoi avversari e calunniatori. Allorché l’accusato o calunniato tiene un ufficio e ha bisogno della stima pubblica per adempirlo debitamente, e questa gli è tolta o scemata e ne deriva danno altrui, egli può e deve mettere a nudo le arti inique dei tristi, vendicare il suo buon nome e se occorre può tradurli anche dinanzi ai tribunali. S. Paolo, negli Atti apostolici, nelle sue lettere e segnatamente in questo luogo ce ne porge uno splendido esempio. Egli nella sua difesa non ebbe certamente di mira di confondere e svergognare i suoi avversari per il vile piacere di umiliarli, per un basso sentimento di vendetta: in quell’anima sublime siffatti sentimenti non potevano entrare: egli si propose soltanto di conservare al suo apostolato quell’onore e quella fiducia, che si richiedevano perché l’opera sua fosse fruttuosa: suo fine principale e santo era il bene e la salvezza delle anime: del resto non si curava punto. – Si dice, e meritamente, che la lode in bocca propria non istà bene: Laus in ore proprio sordescit. Nulla di più vero. Il sentimento della propria debolezza, il dubbio troppo ragionevole d’essere cattivi giudici in causa propria, la modestia più elementare, che si fa sentire e si impone anche ai più orgogliosi ci vietano di far le lodi di noi stessi sotto pena di cadere sotto il biasimo e le risa del pubblico. Ma talora può accadere che altri per difendersi e per mettere in luce la propria innocenza e procurare il bene altrui possa e debba anche ricordar quelle opere, che fruttano lode, e ciò senz’ombra di vanità o di arroganza; e in questa congiuntura si trovò S. Paolo allorché scrisse la seconda lettera ai Corinti! Egli non esitò punto a fare la storia del suo apostolato, che era la storia della sua conversione miracolosa, delle sue rivelazioni prodigiose, dei suoi dolori, delle persecuzioni sostenute, delle sue opere e del suo zelo instancabile. Tutto questo narra l’Apostolo, non per farsene un vanto, per menarne pompa innanzi ai Corinti, ma solamente per fiaccare la baldanza di coloro che si camuffavano da Apostoli di Cristo che mettevano in dubbio la sua missione e per tal modo fuorviavano i fedeli. Ed è sì vero che l’Apostolo non parlava di sé e delle cose sue per averne vana lode, che due volte protesta di far ciò a malincuore, e dichiara di parlare da stolto, quasi in insipientia, da pazzo; ma voi, dice altrove, voi a ciò mi avete costretto. Non è dunque cosa biasimevole, nè da persone vane parlare di sé e delle opere proprie meritevoli di lode quando sia necessario per difendere se stessi, salvare il proprio onore o procurare il bene delle anime. – Né S. Paolo si fermò a ricordare le sole opere del suo apostolato, delle quali quasi tutti erano testimonio: stringendo più davvicino i suoi avversari, non stette in forse di appellare ad altre e più gagliarde prove del suo apostolato, prove che a lui solo erano note e che i Corinti dovevano ammettere sulla sua parola, perché “Iddio sa ch’io non mentisco Scit quod non mentior. „ E qui S. Paolo parla del suo rapimento al più alto dei cieli e di cose là vedute ed udite, che a nessun uomo è dato di dire; afferma che è certissimo di questo fatto, avvenuto quattordici anni prima, ma che non saprebbe dire se sia stato rapito colassù con lo spirito, od anche con il corpo. Era questo, per sentenza di S. Paolo, il suggello supremo del suo apostolato e la prova massima della sua autorità. Ma pervenuto a questa prova massima della sua missione divina, a questo argomento sommo della sua gloria, S. Paolo ritorna sopra di sé, ricorda il proprio nulla e non vuole che altri lo stimi da più ch’egli non è. Si direbbe che l’Apostolo ad un tratto dalle altezze dei cieli precipita sulla terra e alle grandezze dei doni celesti ricevuti contrappone le debolezze e le miserie della sua natura. Egli parla di un pungolo della carne, di un ministro di satana, che lo schiaffeggia e tormenta: questo pungolo della carne e ministro di satana S. Paolo non disse che cosa fosse. Alcuni pensarono che fosse la concupiscenza, che lo travagliava; ma non sembra probabile che l’Apostolo parlasse di questa miseria umana e molto meno che potesse poi gloriarsene, come fa subito dopo. Si può dunque credere che accennasse a qualche grande tribolazione o dolore acuto che lo tormentava stranamente che noi ignoriamo e doveva essere noto ai Corinti. Era sì pungente questo dolore, che l’Apostolo dichiara d’aver pregato tre volte, cioè molte volte Iddio, affinché ne lo liberasse, ma gli fu risposto, probabilmente per ispirazione interna, che dovesse accontentarsi della grazia necessaria per sopportarlo, perché la potenza o la forza si compie e si affina nella debolezza. In un impeto di fede, di amore e di umiltà l’Apostolo esclama: “Di gran cuore adunque io mi glorierò nelle mie debolezze, affinché la potenza di Cristo dimori in me. „ Condannati a soffrire nel corpo e nello spirito; messi continuamente alle prove più amare dai nemici esterni ed interni; travagliati da noie e timori d’ogni maniera, noi pure bene spesso gridiamo a Dio che ne liberi, e Dio sembra sordo alle nostre preghiere, e le nostre pene, le nostre amarezze continuano e forse crescono ogni dì. E perché? Perché per noi è bene il soffrire: ci tiene umili, ci fa sentire e conoscere il nostro nulla, ingenera in noi un santo timore, ci obbliga di ricorrere a Dio ed abbandonarci in Lui, ci stacca dalle cose della terra, ci porge occasione di meriti sempre maggiori. In mezzo pertanto alle nostre pene ed agli aspri combattimenti della vita, pieni di fiducia e di santa gioia esclamiamo con S. Paolo: “Di gran cuore mi glorierò nelle mie debolezze, affinché la forza di Cristo dimori in me! „

Graduale Ps LXXXII:19; 82:14

Sciant gentes, quóniam nomen tibi Deus: tu solus Altíssimus super omnem terram, [Riconòscano le genti, o Dio, che tu solo sei l’Altissimo, sovrano di tutta la terra.]

Deus meus, pone illos ut rotam, et sicut stípulam ante fáciem venti.

[V. Dio mio, ridúcili come grumolo rotante e paglia travolta dal vento.]

 Ps LIX:4; LIX:6

Commovísti, Dómine, terram, et conturbásti eam.

Sana contritiónes ejus, quia mota est.

Ut fúgiant a fácie arcus: ut liberéntur elécti tui.

[Hai scosso la terra, o Signore, l’hai sconquassata.

Risana le sue ferite, perché minaccia rovina.

Affinché sfuggano al tiro dell’arco e siano liberati i tuoi eletti.]

Evangelium

Sequéntia sancti Evangélii secúndum Lucam.

Gloria tibi, Domine!

Luc VIII:4-15

“In illo témpore: Cum turba plúrima convenírent, et de civitátibus properárent ad Jesum, dixit per similitúdinem: Exiit, qui séminat, semináre semen suum: et dum séminat, áliud cécidit secus viam, et conculcátum est, et vólucres coeli comedérunt illud. Et áliud cécidit supra petram: et natum áruit, quia non habébat humórem. Et áliud cécidit inter spinas, et simul exórtæ spinæ suffocavérunt illud. Et áliud cécidit in terram bonam: et ortum fecit fructum céntuplum. Hæc dicens, clamábat: Qui habet aures audiéndi, audiat. Interrogábant autem eum discípuli ejus, quæ esset hæc parábola. Quibus ipse dixit: Vobis datum est nosse mystérium regni Dei, céteris autem in parábolis: ut vidéntes non videant, et audientes non intéllegant. Est autem hæc parábola: Semen est verbum Dei. Qui autem secus viam, hi sunt qui áudiunt: déinde venit diábolus, et tollit verbum de corde eórum, ne credéntes salvi fiant. Nam qui supra petram: qui cum audierint, cum gáudio suscipiunt verbum: et hi radíces non habent: qui ad tempus credunt, et in témpore tentatiónis recédunt. Quod autem in spinas cécidit: hi sunt, qui audiérunt, et a sollicitudínibus et divítiis et voluptátibus vitæ eúntes, suffocántur, et non réferunt fructum. Quod autem in bonam terram: hi sunt, qui in corde bono et óptimo audiéntes verbum rétinent, et fructum áfferunt in patiéntia.”

[“In quel tempo: radunandosi grandissima turba di popolo, e accorrendo gente a Gesù da tutte le città. Egli disse questa parabola: Andò il seminatore a seminare la sua semenza: e nel seminarla parte cadde lungo la strada e fu calpestata, e gli uccelli dell’aria la divorarono; parte cadde sopra le pietre, e, nata che fu, seccò, perché non aveva umore; parte cadde fra le spine, e le spine che nacquero insieme la soffocarono; parte cadde in terra buona, e, nata, fruttò cento per uno. Detto questo esclamò: Chi ha orecchie per intendere, intenda. E i suoi discepoli gli domandavano che significasse questa parabola. Egli disse: A voi è concesso di intendere il mistero del regno di Dio, ma a tutti gli altri solo per via di parabola: onde, pur vedendo non vedano, e udendo non intendano. La parabola dunque significa questo: La semenza è la parola di Dio. Ora, quelli che sono lungo la strada, sono coloro che ascoltano: e poi viene il diavolo e porta via la parola dal loro cuore, perché non si salvino col credere. Quelli caduti sopra la pietra, sono quelli che udita la parola l’accolgono con allegrezza, ma questi non hanno radice: essi credono per un tempo, ma nell’ora della tentazione si tirano indietro. Semenza caduta tra le spine sono coloro che hanno ascoltato, ma a lungo andare restano soffocati dalle sollecitudini, dalle ricchezze e dai piaceri della vita, e non portano il frutto a maturità. La semenza caduta in buona terra indica coloro che in un cuore buono e perfetto ritengono la parola ascoltata, e portano frutto mediante la pazienza.”]

Lode a Te, o Cristo.

OMELIA II

[Mons. Bonomelli; op. cit. Omelia XXIV]

È questo, o figliuoli miei, il Vangelo, che la Chiesa ci fa leggere in questa Domenica e che io tolgo a commentarvi. Il significato della parabola, che avete udita, è certissimo, perché Gesù Cristo medesimo si compiacque porgerlo agli Apostoli, che gliene fecero domanda. Nulla di più semplice e di più istruttivo di questa parabola in ciascuna delle sue parti, e voi medesimi siatene giudici. – “Raccoltasi una grande moltitudine, e accorrendosi da tutte le città a Gesù, Egli disse in parabola. „ Gesù si trovava nelle parti di Galilea, sulle rive del lago di Tiberiade o Genesaret, presso alla cittadella o borgata di Cafarnao: da poco tempo aveva cominciato la sua predicazione. La fama dei suoi miracoli, la semplicità e la sublimità della sua dottrina, l’unzione della sua parola, che andava dritta al cuore, il tutto insieme della sua persona, da cui traluceva un raggio della nascosta divinità, commuovevano i popoli, che pieni d’un sacro entusiasmo lo seguivano dovunque e pendevano estatici dalle sue labbra. Quelle turbe, sì avide di udire la parola di Dio, ci danno un grande esempio e ci insegnano come dobbiamo accorrere noi pure ad udirla con amore e rispetto, allorché si annunzia nelle nostre chiese. È sempre la stessa dottrina che si annunzia, ancorché diverse siano le persone che ve la porgono. – Gesù prese a dire in parabola: “Uscì un seminatore a seminare il suo seme, e nel seminare una parte cadde lungo la via e fu calpestato e gli uccelli dell’aria lo mangiarono: ed altro ne cadde sopra dei sassi, e nato appena, disseccò per difetto di umore. Altro cadde in mezzo alle spine, e le spine, germogliate insieme, lo soffocarono. Altro poi cadde nella terra buona, e nato fruttò il centuplo. Dicendo queste cose, esclamava: Chi ha orecchi da udire, oda. „ Certamente questa parabola non era difficile ad intendersi, e perciò Gesù Cristo conchiuse, dicendo, chi ha orecchi da udire, oda; il che voleva dire, chi ha fior di mente, la mediti e la comprenderà. Ma crederei di non errare, affermando, che buon numero di quelli che ascoltavano Gesù Cristo, non compresero il senso della parabola, giacché, come tosto vedremo, gli stessi Apostoli confessarono di non averlo compreso. Che dovevano fare quelle turbe? Ciò che poco appresso fecero gli Apostoli, domandarne a Gesù stesso la spiegazione, che senza dubbio l’avrebbe data, come la diede agli Apostoli. Ma le turbe, per trascuratezza, o per orgoglio, o per altra cagione, non la chiesero e rimasero nella loro ignoranza. Dilettissimi! In ciò non imitiamole. Allorché alla mente nostra si affacciano difficoltà, che non possiamo da noi stessi sciogliere, dubbi che ci angustiano, che forse mettono a pericolo la nostra fede, chiediamo lume a chi può darcelo, e l’acquisto della verità sarà il premio della nostra umiltà. Dov’è l’uomo che conosca tutto? che non abbia bisogno di lume? che sdegni di ricorrere ad altri allorché n’abbia bisogno? Nessuna meraviglia adunque, che anche persone dotte ed alto locate abbiano bisogno d’essere ammaestrate in certe verità della fede, che ignorano o non conoscono chiaramente. Saranno dottissime nelle scienze umane, ma non di rado accade che nella scienza della religione siano meno istruite e bisognose d’essere meglio illuminate. Non arrossiscano di chiedere questo lume a chi può darlo. Ma quanto raramente ciò avviene! – I discepoli poi, trovatisi soli con Gesù, come narra S. Marco, gli chiesero che volesse dire quella parabola. „ Vedete umiltà e confidenza filiale dei discepoli! Non hanno capito il senso della parabola: non si vergognano di confessarsi ignoranti e pregano il divino Maestro ad illuminarli; ed Egli con paterna amorevolezza risponde: “A voi è dato conoscere il mistero del regno di Dio, „ cioè a voi spiegherò le cose occulte della mia dottrina, ossia il senso della parabola. “Agli altri parlo in parabole, sicché vedendo non vedano e ascoltando non intendano. „ Ma, come, o Signore? voi siete il maestro per eccellenza: voi siete venuto per istruire i poverelli e parlate in parabole, affinché vedendo non vedano, ascoltando non intendano? Voi dunque volete che rimangano nelle tenebre dell’ignoranza e che per essi sia inutile la vostra venuta, la vostra parola? Perché dunque predicate se non volete che vi intendano? — Voi comprendete che sarebbe bestemmia orribile il solo sospettare che Gesù parlasse in parabole per non essere inteso. Egli anzi parlava in parabole per acconciarsi alla loro debolezza: se avesse annunziata più chiaramente la verità, anche meno l’avrebbero intesa: la nascondeva sotto il velo della parabola per temperarne la luce, perché non li offendesse troppo vivamente e li allontanasse e così accrescesse la loro colpa. Parlava in parabole, perché chi le intendeva, ne traeva alimento di vita; chi non le intendeva, poteva domandarne la spiegazione e l’avrebbe avuta, e chi non la domandava, non si rendeva reo di maggior colpa, né correva il rischio di calpestare le perle. Dette queste parole ai suoi cari Apostoli, Gesù spiega la parabola. Udiamolo. “Il seme è la parola di Dio, „ cioè rappresenta la parola di Dio. Vediamo come il seme raffiguri la parola di Dio. Il seme si affida alla terra: posto sotto terra, riscaldato dal sole e irrigato dalla pioggia, mette le sue radici, si assimila la terra, cresce, germoglia il fiore e poi dà moltiplicato il frutto, che è sempre in ragione della fecondità del suolo che lo riceve, del calore del sole, dell’umido della pioggia e dell’opera che l’agricoltore vi spende intorno. – La parola di Dio, ossia la verità chiusa entro la parola di Dio, come il seme entro la sua corteccia, per l’orecchio discende al cuore: esso l’accoglie in sé, l’ama, la fa propria. Che avvien allora? Tra l’anima e la verità avviene un connubio misterioso sotto l’azione della grazia divina, che è luce e acqua fecondatrice. L’anima pensa, vuole, opera secondo la verità ricevuta; dirò meglio, la verità germoglia nell’anima, cresce, si ammanta di fiori, si copre di frutti, e i fiori e i frutti sono i pensieri, i desideri buoni, le opere sante. Un solo seme ci dà venti, cinquanta, mille frutti: una sola verità praticata dall’uomo, quanti pensieri ed affetti buoni e quante opere sante ci può dare! – La moltiplicazione del seme è opera del seme istesso e della terra, del sole e dell’acqua e del lavoro dell’industre agricoltore: le opere buone e sante sono il frutto della verità, della libertà umana, della grazia divina e della cooperazione dell’uomo. Senza il seme, senza la verità, nessun frutto: il seme senza la cooperazione dell’uomo rimane sterile ed infruttuoso. Voi vedete, o cari, come sapientissimamente Gesù Cristo sotto l’immagine del seme adombrasse la parola di Dio, o la verità, e sotto l’immagine del terreno raffigurasse il cuore umano. – Gesù prosegue e dice: “Quelli che sono lungo la via, sono quelli che ascoltano; ma dopo viene il diavolo e porta via dai loro cuori la parola, affinché col credere non si salvino. „ Il seme fu gettato e cadde in parte lungo la via, cioè sull’estremo lembo del terreno, dove passano gli uomini, e quello fu calpestato o mangiato dagli uccelli. Vi sono raffigurati quegli uomini, che ascoltano la parola di Dio, che ricevono la verità, ma non vi può mettere radice. Quanti, o cari, vengono in chiesa, ascoltano la parola di Dio, conoscono la verità e, uscendo di qui, più non se ne rammentano! E il seme calpestato sulla via o rapito dagli uccelli e dal demonio. Nostra prima cura pertanto sia quella di ricevere nel nostro cuore la parola di Dio e con essa la verità, di imprimervela fortemente, affinché il nemico non ce la involi e noi restiamo come la pubblica via, su cui non spunta mai il germoglio d’un granello. “Quelli poi di sopra i sassi, son coloro, ì quali, udita la parola, la ricevono con gioia; ma questi, non avendo radice, credono per poco e al tempo della prova si ritraggono. „ Fate che il seme cada in mezzo ai sassi, cioè in terreno petroso, con pochissimo fondo. Il seme, riscaldato dal sole, mette le prime barbe, spunta dal suolo, comincia a distendere le sue foglioline; ma, poi, riarso dal sole e non potendo ficcare le radici in terreno che lo alimenti, imbianca, intristisce e muore senza dare ombra di frutto. – Eccovi un’immagine della parola di Dio sparsa in certe anime, che l’ascoltano e la ricevono volentieri, ma senza energia, senza saldezza di volontà. La parola di Dio, ossia la verità, non può mettervi radici profonde; queste rimangono a fior di terra, senza umore, e prima di gettare il frutto, la povera pianticella inaridisce e muore. È necessario, o cari, che le verità della fede penetrino ben addentro nel terreno del nostro cuore, vi si abbarbichino fortemente mercé della volontà, che le abbracci, le ami e le faccia proprie: allora potranno soffiare i venti delle tentazioni e il nemico muoverci più aspra battaglia; ma reggeremo saldi alla prova. – “Il seme caduto nelle spine significa coloro che ascoltarono, ma dalle cure, dalle ricchezze e dai piaceri della vita restano soffocati e non portano frutto. „ Avrete rilevato certamente la gradazione della parabola: il primo seme cade lungo la via e non nasce nemmeno; il secondo cade un terreno petroso, nasce, ma muore tosto; il terzo cade in terreno, ma le spine lo soffocano. Non rare volte avrete visto sparso il buon seme in terra ferace: ma appena il buon seme spunta rigoglioso, ecco i cardi, le ortiche, le spine ed altre male erbe germogliare d’ogni parte e coprire e soffocare il buon seme, se la mano dell’agricoltore non le sbarbica prontamente. Le verità divine sono piantate nel nostro cuore mercé dell’istruzione: vi crescono vigorose e ben presto darebbero frutto abbondante; ma le cure delle cose terrene, la fame delle ricchezze, la sete dei piaceri, la febbre dell’ambizione, l’amore sregolato di noi stessi, in una parola, le passioni scomposte ci fanno perdere di vista le verità, non ce ne diamo più pensiero alcuno e rimangono nel nostro cuore come se non ci fossero. Come le male erbe rubano al buon seme il succo vitale e lo fanno miseramente perire, cosi le passioni, le cure mondane, i piaceri sensuali rapiscono all’anima le sue forze e condannano alla infecondità od alla morte il seme celeste della verità. Che fare? Ciò che fa il contadino, che taglia e svelle senza pietà le male erbe: tagliamo e, se è possibile, svelliamo i rei germogli delle nostre passioni, particolarmente dell’avarizia, della gola e della lussuria. “Il seme che cade in terra buona, significa coloro i quali, udita la parola, la conservano in un cuor retto e buono, e danno frutto con la pazienza. „ S. Matteo (XIII, 3, seg.) e S. Marco (IV, 3, seguenti) riferiscono più ampiamente questa parte della parabola e dicono che il seme caduto in buona terra fruttò dove il trenta, dove il sessanta e dove il cento per uno: qui san Luca dice in generale che diede frutto con la pazienza. Notate bene, o dilettissimi, le singole parole del Vangelo, perché non ve n’è una sola inutile. Gesù Cristo parla di coloro che ascoltano la parola di Dio e ricevono le verità, e sono come terra buona rispetto al seme si sparge. Chi sono costoro? Quelli che hanno un cuor retto e buono. Intendete, o fratelli miei? Cuor retto e buono hanno coloro che accorrono ad udire la parola di Dio per amore della verità, col desiderio vivo di abbracciarla e di farne tesoro, attuandola nelle opere; che non secondano una curiosità mondana, che non appuntano il ministro sacro che la annunzia, per alcuni difetti di forma, che guardano più ai modi che alla sostanza: cuor retto e buono hanno coloro che ascoltano docilmente, come gli Apostoli ascoltavano Gesù, e cercano solo di piacere a Lui e fare la sua volontà. Questi danno il frutto copioso, purché (ponete mente a quest’ultima condizione) abbiano pazienza: In patientia. – Il mettere in pratica le verità conosciute, massime in certi casi, è cosa ardua e domanda saldezza di propositi, costanza incrollabile e spirito di sacrificio a tutta prova. Per non venir meno in mezzo alle tante traversie della vita cristiana, non occorre il dirlo, si esige la pazienza: In patientìa; quella pazienza, alla quale sola, dice san Paolo, “è legato il conseguimento delle divine promesse.„

Offertorium

Orémus Ps XVI:5; XVI:6-7

Pérfice gressus meos in sémitis tuis, ut non moveántur vestígia mea: inclína aurem tuam, et exáudi verba mea: mirífica misericórdias tuas, qui salvos facis sperántes in te, Dómine. [Rendi fermi i miei passi nei tuoi sentieri, affinché i miei piedi non vacillino. Inclina l’orecchio verso di me, e ascolta le mie parole. Fa risplendere la tua misericordia, tu che salvi chi spera in Te, o Signore.]

Secreta

Oblátum tibi, Dómine, sacrifícium, vivíficet nos semper et múniat.

[Il sacrificio a Te offerto, o Signore, sempre ci vivifichi e custodisca.]

Communio

Ps XLII:4

Introíbo ad altáre Dei, ad Deum, qui lætíficat juventútem meam. [Mi accosterò all’altare di Dio, a Dio che allieta la mia giovinezza.]

Postcommunio

Orémus.

Súpplices te rogámus, omnípotens Deus: ut, quos tuis réficis sacraméntis, tibi étiam plácitis móribus dignánter deservíre concédas. [Ti supplichiamo, o Dio onnipotente, affinché quelli che nutri coi tuoi sacramenti, Ti servano degnamente con una condotta a Te gradita.]

 

GNOSI TEOLOGIA DI sATANA – 20 – : GNOSI ED ISLAM (4)

Gnosi, teologia di satana

“omnes dii gentium dæmonia

GNOSI ED ISLAM (4)

[da E. Couvert: “La gnose universelle”, cap. II]

Islam, veicolo della gnosi:

A. – Mediante la FILOSOFIA

Non c’è una filosofia araba e, non se ne dispiaccia Henry Corbin, non ci sono neppure filosofi islamici o musulmani. Gli scrittori musulmani che hanno compilato i commentari dei filosofi greci erano sia iraniani, come al-Ghazzali, al-Kindi, sia berberi, come ibn Tofail, ibn Badja, sia spagnoli come ibn Roschild, che gli occidentali hanno chiamato Averroè. Essi infatti non esprimono un pensiero personale, un pensiero autoctono elaborato secondo concetti originali. Essi si contentano di tradurre e commentare semplicemente i filosofi anteriori. Ora noi vedremo che essi sono in realtà prigionieri del pensiero neo-platonico, sprofondati nella gnosi manichea, quella che si era già diffusa in oriente attraverso il Buddhismo. – Gli arabi avevano stabilito dall’VIII al X secolo una scuola di traduttori ad Harran, a sud di Edessa, al confine tra Siria e Mesopotamia. Essi pretesero di risalire ad Ermete Trismegisto e ad Agathodaimon (il demonio buono?!?). Ora noi sappiamo che nei manoscritti dell’Asia centrale, Ermete è un avatar di Mani, che di la è passato presso gli Arabi ove è stato identificato come Idris o Hénoch. Il loro dottore più celebre, Thabit ibn Qorra (morto nel 901) aveva scritto e tradotto in siriaco, poi in arabo, un libro delle “Istituzioni di Ermete”, parafrasi della rivelazione do Ermete Trismegisto, già ben conosciuto. Egli aveva pure ugualmente tradotto in arabo delle opere di matematica ed astronomia. I Sabei avevano da parte loro inondato il mondo musulmano con molte opere dette “pseudoepigrafi”,  degli pseudo-Platone, pseudo-Plutarco, pseudo-Tolomeo, pseudo-Pitagora, etc., che furono la fonte di una vasta letteratura neo-platonica in Asia. Si deve a loro pure uno pseudo-Dionigi, attribuito a S. Dionigi l’Aeropagita. – Citiamo due pseudoepigrafi che ebbero un’incidenza considerevole in Occidente, e che hanno avvelenato le università cristiane. Il primo è una “Teologia detta di Aristotele”, tradotta in arabo da una versione siriaca del IV secolo. È questa una parafrasi delle tre ultime enneadi di Plotino, e cerca di dimostrare un accordo tra Platone ed Aristotele ponendosi alla base del neo-platonismo in Islam. Il secondo è il “libro sul bene puro”, tradotto in latino nel XII secolo da Gerardo da Cremona, con il titolo  “Liber de causis” o “liber Aristotelis de expositione bonitatis puræ”, ed è infatti un estratto dell’ “Elementatio théologica” del neo-platonico Proclo. Si è fatto credere a tutto il Medio-Evo che Aristotele fosse platoniano. I Sabei hanno ripreso cioè il metodo degli gnostici che consisteva nell’attribuire dei testi fittizi agli autori antichi celebri, per dar loro così una forte pubblicità. – Bisogna notare egualmente due opere ermetiche che furono molto lette in terra islamica: Il “Libro del Segreto della Creazione e tecnica della natura” attribuito dall’autore anonimo ad Apollonio di Tiane (Ma certamente, ritroviamo qui in fondo sempre gli stessi nomi visti nella gnosi). Esso contiene la celebre “Tavola di Esmeralda (Tabula smaragdina), e lo “Scopo del Saggio” (Ghâyat al Hakim), che offre informazioni sulla liturgia dei Sabei e tutto un insegnamento sul tema della “Natura perfetta”. La Natura perfetta è l’entità spirituale (Rûha-nîyar), l’Angelo del filosofo. Sohrawardi commenta questa visione di Hermés: è alla sua quiete che se ne va il pellegrino delle epopee mistiche persiane d’Attar. – Tutti questi testi insegnano null’altro che il panteismo della gnosi. Ascoltiamo Abû  Yasid … Bastamî: « io contemplavo il mio Signore con l’occhio della certezza dopo che mi ebbe allontanato da tutto ciò che è altro da lui ed illuminato della Luce. Egli mi fece allora conoscere le meraviglie del suo segreto, rivelandomi la sua ipseità (il suo Sé). Io contemplavo il mio “me” con la sua ipseità. La mia luce impallidì sotto la sua Luce, la mia forza svanì sotto la sua forza, la mia potenza cessò sotto la sua Potenza. Così io vedevo il mio “me” attraverso il suo Sé. La grandezza che io mi attribuivo, era in realtà la sua grandezza, la mia progressione era la sua progressione, etc. ». Si potrebbe continuare a lungo su questo tema dell’identificazione con il mondo divino. – Sohrawardi è vissuto nel XII secolo. Egli era nato nel 1155 a Soharaward, una città del nordovest dell’Iran nell’antica Media. Egli è discepolo di Hermès, di Platone, di Zoroastro. « C’era presso gli antichi Persi, scrive, una comunità che era diretta da Dio. È da lui che furono condotti degli eminenti saggi, a differenza dei Maguse. È la loro alta dottrina della Luce, dottrina che testimonia dell’esperienza di Platone e dei suoi predecessori, e che io ho resuscitato nel mio libro intitolato la “Teosofia orientale” (Himkat al Iskrak) ed io non ho avuto predecessori per un progetto tale ». Egli resuscitò dunque le dottrine dei Saggi della Persia concernenti i Principi della Luce e delle Tenebre ». Questa comunità della Luce, perseguitata dai Magi, adoratori del Fuoco, che avevano aizzato contro di essa il re sassanide, non è altro che la Chiesa manichea. – Sohrawardi aveva dapprima seguito la dottrina di Aristotele, ma ebbe una visione estatica. Anche egli fu “illuminato”. Gli viene mostrato la moltitudine di « questi esseri di luce che contemplavano Hermés e Platone e queste irradiazioni celesti, fonti della luce della gnosi e della sovranità della Luce di cui Zoroastro fu l’annunciatore ». Egli riprese la formula modificata di Socrate: « Svegliati a te stesso! » Egli insegnava una iniziazione progressiva per mezzo della conoscenza, una illuminazione con la quale l’anima conosce se stessa e conosce ogni cosa con la sua luce interiore. Così tutto è perfettamente gnostico. – Nel VI secolo l’imperatore Giustiniano aveva chiuso le scuole filosofiche di Atene. Il pensiero greco era emigrato in Siria, ad Edessa. I filosofi siriani l’avevano trasmessa agli arabi che ne pubblicarono i commentari a Bagdad: Al Farabi nel X secolo, Avicenna nel XI  secolo, Averroè nel XII secolo a Toledo in Spagna. – Ora il pensiero di Aristotele era stato rivoltato e falsato dalla pubblicazione di opere neo-platoniche che gli avevano attribuito i Sabei, di modo tale che la coesione del suo sistema metafisico era frantumata ed il miscelaggio mal fuso di tesi inconciliabili andava a sconvolgere l’insegnamento delle università cristiane. – Nel 1085, i cavalieri cristiani di Spagna, aiutati dai Crociati franchi in vista della “reconquista”, si impadronirono di Toledo e ne fecero la capitale del regno cristiano in modo tale che mai più i saraceni poterono riconquistarla. Fu allora che il vescovo francese Raymond de Sauvetat (1126-1151 circa) stabilì a Toledo un collegio di traduttori per riprendere nelle università d’Occidente il pensiero e la scienza degli arabi. Il giudeo Ibn Daoud traduce dall’arabo in “romanzo” (la lingua spagnola popolare) i libri arrivati da Bagdad. Eli ignorava il latino: è Gondisalvi che è un buon latinista, ma ignora l’arabo, a continuare l’operato e trascrivere il “romanzo” di Ibn Daoud in latino. – A partire dal XIII secolo, la filosofia di Aristotele, rivista e corretta dagli Arabi, si intrufola nelle università. Aristotele, come dice bene il p. Gabriel Théry, arriva a noi “non vestita con peplo o con toga, ma ricoperto da un mantello incappucciato e come copricapo un fez arabo”. Fu una vera conquista spirituale dell’Islam egli precisa. Ci fu così una vera rivoluzione nelle università. Il Medio-Evo viveva fino ad allora sulla filosofia di Platone: questi non vede nella natura se non dei segni il cui significato si trova nel mondo ideale, che sarebbe il solo reale, il mondo delle idee pure. Essa conduce dunque ad un simbolismo sistematico e delirante. Tutto è simbolismo, niente di questo mondo quaggiù è reale. È “il mito della caverna”, ben conosciuto. Si resta stupefatti davanti al successo di un pensiero sì assurdo e sì contrario al buon senso naturale. Ma Aristotele, al contrario, naturalista, considera che la natura è veramente reale e contiene in essa la sua intellegibilità. Si scopriva infine la natura che il XII secolo si contentava di interpretare simbolicamente. Aristotele usava la dimostrazione, processo proprio della ragione. La superiorità di questa metafisica razionale sui miti platonici era così grande che essa doveva necessariamente averne la meglio. Aristotele diviene infatti “il filosofo” per eccellenza. – Orbene, Aristotele era stato “rivisto e corretto” da Averroè; quest’ultimo aveva attribuito l’idea di un intelletto-agente unico per tutti gli uomini: « C’è, scrive Etienne Gilson, nella sua “Filosofia del Medio-Evo”, un solo ed unico intelletto-agente per tutta la specie umana, ed è per la sua azione in noi che pensiamo … l’immortalità non appartiene che a questo intelletto-agente comune a tutta la specie umana, cioè l’immortalità sparisce, e l’individuo in quanto tale svanisce al momento della morte ». Questo intelletto-agente unico non è altro che, in linguaggio scolastico, l’ “anima universale del mondo” insegnata dai nostri gnostici, “ … io non penso da me stesso, bensì mediante un’anima divina alloggiata in me. Le mie idee non sono l’opera elaborata da una facoltà intellettuale, esse sono ricevute da intelligenza divina che agisce in me. Esse sono dunque necessariamente vere. L’errore è impossibile. La nostra anima è una Spirito-Santo. Il nostro corpo non è che un carapace di materia unita temporaneamente ad un’anima universale. Al momento della morte, la nostra individualità scompare. È il ritorno al “niente”, il “Nirvana” dei buddhisti, seguito dal ripiombare nel Gran tutto. Non si potrebbe essere più gnostici di così! – ne seguiranno le conseguenze: se l’uomo non pensa da se stesso, non è padrone dei suoi atti. È l’anima universale o intelletto-agente che è il solo responsabile … non c’è il libero arbitrio. Applichiamo questo all’Islam. È Allah che interviene costantemente nella vita umana, secondo il suo beneplacito: « Noi abbiamo attaccato, dice il profeta, al collo di ogni uomo il suo uccello (il suo destino) ». « Allah, ci spiega Louis Gardet, è il solo essere ed il solo agente. Il creato non saprebbe avere un reale valore ontologico. Il bene ed il male non esistono nelle cose ma per il comando del Signore. E Allah guida nel bene che gli piace ed abbandona nel male chi a lui piace. » – Poiché non c’è attività spirituale propria a ciascuno, è la comunità, l’«umma» che pensa, che ha ricevuto il Libro. Non c’è magistero dogmatico nell’Islam, perché tutti pensano con lo stesso testo perpetuamente recitato. Per di più, non c’è una conoscenza “naturale” de mondo. Allah non ha dato agli uomini una natura intellegibile delle cose che ognuno deve “decifrare”, che deve “leggere” nelle creature (è questo il senso della parola “intellegere”). Non c’è una realtà permanente, coerente e significativa nel mondo creato. Dio solo può insegnare. Tutta la scienza della natura si riduce ad una fede ed è accettata senza un atto di comprensione naturale. – Allora ben si comprende che le autorità ecclesiastiche si siano inquietate per una tale invasione, sì contraria alle verità naturali ed alla fede cristiana. Averroé, il panteista! Averroé l’anticristo! Le condanne si sono moltiplicate contro la filosofia di Aristotele. Il vescovo di Parigi ha pubblicato delle sentenze di condanna, anche contro San Tommaso d’Aquino, all’inizio del suo insegnamento. Resta a gloria di San Tommaso l’aver compreso che bisognava innanzitutto ristabilire il vero pensiero di Aristotele e per far questo, era necessario ritrovare il testo iniziale. Egli ignorava il greco, ma ottenne la traduzione diretta dal greco in latino operata  da Guglielmo de Moerbeke. Ne sottomise il testo ad una esegesi rigorosa, letterale. Che differenza con quello di Averroé! Quest’ultimo apparve allora non come il commentatore eletto di Aristotele, bensì come il suo “depravatore”, il suo sovvertitore. Ci volle così un genio e Santo per “esorcizzare” in senso proprio Aristotele e “liberare” così l’Occidente da questa invasione gnostica sotto l’etichetta musulmana!

B. MEDIANTE LA LETTERATURA

I critici letterari che si sono dedicati seriamente al problema delle origini della letteratura medioevale, hanno notato con grande precisione l’apparizione improvvisa nel XII secolo di una epopea cortese e di romanzi cavallereschi, di cui non hanno potuto trovare le fonti nelle canzoni delle gesta e nelle epopee carolingie del secolo precedente. Essi hanno notato in tal soggetto, delle importanti strane novità nella scelta dei temi e nei modi di ispirazione tra le epopee franche ed i romanzi bretoni della Tavola Rotonda. – Louis Clédat, nella sua “Epopée courtoise” definisce così i due generi: « L’epopea cortese, leggera, brillante, piacevole ritratto delle feste di corte, dei tornei, delle spedizioni avventurose, che amavano moltiplicare le sorprese di un meraviglioso racconto delle fate, danno all’amore un posto preponderante; l’epopea nazionale, al contrario, grave, grandiosa, consacrata alle lotte nazionali, feudali o religiose, prende dalla religione le risorse della sua meravigliosa austerità, profondamente sprezzante delle passioni e delle delicatezze del cuore ». Si notano in questi romanzi del ciclo bretone, dei riquadri vivi, molto liberi in situazioni rischiose, con una compiacenza per il vizio. In Tristano, ad esempio, nessuna colpa per Isotta ed il suo complice, al contrario, entrambi sono vantati per la loro bellezza ed il loro spirito. Solo il re Marco è ridicolizzato. Si trova in questo romanzo una sorta di naturalismo tutto pagano, una finezza ed una cortesia ricercata nel disprezzo più odioso delle leggi morali e dell’insegnamento della Chiesa. Si è ugualmente sottolineato che non si ritrova in questi romanzi l’entusiasmo che suscitavano allora nei cavalieri franchi le lotte contro i saraceni, elemento che costituiva l’anima dei poemi carolingi; la cosa doveva far “drizzare le orecchie”. È nell’epoca in cui la cavalleria d’Occidente ingaggia i più energici combattimenti contro i saraceni, che una nuova letteratura si sforza di allontanare gli spiriti di nobiltà franca verso la vita raffinata ed effeminata delle corti d’amore. Si tratta dunque di un’operazione disarmante per gli spiriti, ben condotta secondo l’Oriente musulmano e che coincideva con l’invasione della nuova filosofia nelle nostre università cristiane. – Ora lo studio minuzioso delle fonti ci mostra che questa letteratura cortese è tutta estrapolata dagli scrittori musulmani del X e del XI secolo, ed è penetrata in Occidente dalla Spagna, così come la filosofia della stessa epoca. Si è notato ad esempio che il tipo del cavaliere errante, che raddrizza i torti, è tratto dal poema di Antar, raccolta di leggende risalente ad Haroun-al-Raschid, riunito sotto forma di romanzo da Erous Moyyed, medico e poeta, dedicato al visir di Zangui nel 1145. Autar, montato su di un cavallo [Abjer], è sempre pronto a sguainare la sua spada Dhamy gridando. “Io sono colui che ama Ibla”. Come ricompensa delle sue prodezze, il re Zoheir gli da il soprannome di Aboul-fauris, il padre dei cavalieri. Vi si trovano pure temi cortesi nel libro dei Re (Shah-nameh) di Firdousi, pubblicato nel 1010 e dunque anteriore alle prime epopee cavalleresche.

1°) L’amore cortese o “l’Eterno femminile”.

Nella storia degli gnostici, si vedono apparire, fin dalle origini, delle donne deificate: Simon mago viveva ad esempio con la famosa Elena di Tiro che personificava, egli diceva, l’Ennoia, cioè l’emanazione diretta di Dio; la fede in Elena ed in lui era la prima condizione per ottenere la salvezza. – Montano aveva le profetesse Priscilla e Massimiliana, porta voci dello Spirito-Santo. I catari ammiravano la loro dea, Esclarmonda de Foix. Petrarca vide apparire nel tempio di Santa Chiara, ad Avignone, la sua amica Laura; Boccaccio riceve la sua diletta Fiammetta (piccola fiamma!) nel tempio di Santa Chiara a Napoli; Dante trova anche la sua Beatrice in « un luogo in cui si cantano le lodi della regina della gloria ». Questa Beatrice è una sorta di dea che conduce il poeta attraverso il mondo della notte e degli eletti. Una certa Guglielmina era considerata all’epoca di Dante come un’incarnazione dello Spirito-Santo. Fra Dolcino si era aggregato una donna chiamata Margherita che egli chiamava sua “sorella spirituale”. Si potrebbe proseguire ancora per molto con il culto della donna divinizzata in tutta la tradizione gnostica attraverso i secoli. – Questo mito gnostico ci è tornato attraverso l’Islam, sotto forma di amor cortese cantato nella lingua d’oc dai trovatori. Si è cercato per lungo tempo donde venisse questo tema nel contempo erotico e religioso, sconosciuto prima del XII secolo nella nostra letteratura feudale. Due eruditi si sono dedicati al problema, Eugène Aroux, nel secolo scorso, e A. R. Nykl, più recentemente. Entrambi hanno riconosciuto in questa nuova moda letteraria una invasione del pensiero musulmano. – Nei poeti sufi, si trova dappertutto una mescolanza straordinaria, una singolare amalgama tra l’amore spirituale e l’esaltazione erotica. Gli annali di questa poesia che invoca sotto il nome di una donna la divinità stessa, di cui questa donna è il simbolo visibile, si aprono in Occidente con Platone che ha spiegato nel suo “Banchetto” che l’amore fisico degli esseri creati è il simbolo ed il primo grado dell’amore di Dio. – Si risale, in questa ricerca dell’amor cortese, a Ibn Dawoud che scriveva a Bagdad nel 910 un trattato sull’amore, il « Kitab-as-Zahra ». L’amore umano, egli dice è un male che bisogna dominare. È una fatalità fisica, una forza naturale, ineluttabile e cieca, senza ragione e senza scopo. È possibile ridurne i misfatti. L’atto carnale è reprensibile, il desiderio dominato è atto meritorio: « Quando anche la castità degli amanti, la loro lontananza dalla corruzione e la cura della loro purezza non fossero protetti dai precetti delle leggi religiose ed dal pregiudizio dei costumi, certo questo sarebbe ancora dovere di ciascuno, restare casto, alfine di eternizzare il desiderio che lo possiede con il desiderio che lo ispira ». Si riporta ugualmente un dialogo sull’amore tratto dai “Prati d’oro” di Mas’oudi, scritto nel VIII secolo. « L’amore emana dalla bellezza divina, dal principio sottile della sostanza. Colui che ama è illuminato da una fiamma interiore, tutto il suo essere risplende, le sue qualità lo pongono al di sopra degli altri uomini. L’amore non è vivificante se non per la sua sconfitta, non si compie che nella morte ». – A partire dal secolo XI, questa letteratura amorosa passa in Spagna. Ibn Hazm (994-1065) pubblica a Cordova il “Libro delle religioni e delle sette”. Nel 1022, a ventotto anni, egli redige “la collana della colomba”, ove si scopre tutto il linguaggio dei “fedeli d’Amore” della Linguadoca: lo zerbino, la sottomissione alla dama, il “lauzengier”, lodatore, la fedeltà, la malattia e la morte dell’amante. Questa sottomissione dell’amante alla sua dama è un omaggio platonico alla Bellezza, una esaltazione della dama divinizzata. « L’amante deve sottomettersi ai desideri della sua amata, come lo schiavo ed il domestico al suo padrone ». Il suo contemporaneo, Ibn Zaïdoun compone unicamente dei poemi alla poetessa Wallanda, figlia di un califfo, che era la prima “donna del suo tempo”. Nel secolo XII Abou Bekr Mohammed ibn Guzman celebra l’amor cortese in lingua araba popolare, il “zadjal” in cui mescola molte parole ed espressioni in linguadoca, cosa che suppone un pubblico mezzo arabo e mezzo cristiano. –  Questa letteratura appare infine in Francia, a Poitiers dapprima, portata dai cavalieri del conte Guglielmo.  Nel 1120 egli aveva condotto 600 cavalieri ad Alfonso il Battagliero, che aveva percorso con fulmineo percorso tutta la Spagna fino a Valenza e Grenada. Il conte Guglielmo aveva sposato una aragonese, la vedova di Sancio d’Aragona. Alla presa di Barbastro, gli autori arabi raccontano che i signori francesi si erano mostrati molto sensibili ai canti ed alle danze dei giovani moreschi e si erano comportati in maniera scandalosa. Nel corso di queste continue guerre, la due civiltà, l’araba e la cristiana, si sono compenetrate, soprattutto con i prigionieri ed i transfughi, anche attraverso i giudei. –  Per il platonismo dei sufi, come per i “fedeli d’amore”, si produce una vera trasmutazione dell’amore umano, che appare come un’emergenza divina. – Ascoltiamo questo testo significativo di Ahmed Ghazzali (morto nel 1126 in Iran) : « Quando l’amore esiste realmente, l’amante diviene il nutrimento dell’amato; non è l’amato il nutrimento dell’amante, ma l’amato non può essere contenuto nella capacità dell’amante … la farfalla che è diventata l’amante della fiamma, ha come nutrimento, benché ne sia distante, la luce di questa aurora. È il segno precursore dell’illuminazione mattutina che la chiama e l’accoglie. Ma essa deve continuare a volare finché non la raggiunge. Quando è arrivato non è più lui a progredire verso la fiamma, è la fiamma che progredisce verso di lui. . non è la fiamma che gli è nutrimento, è lui che è il nutrimento della fiamma. E la vi è un gran mistero. Un istante fuggitivo, diviene il proprio amato (poiché è la fiamma). E la sua perfezione è questa ». – Praticare l’amore è divinizzarsi. Non si tratta di un amore puramente spirituale, ma ben carnale. I testi dei poeti sufi e dei trovatori sono formali, le descrizioni sensuali ed erotiche vi abbondano. L’abbraccio amoroso provoca in tutto il corpo una esaltazione della sensibilità generale che dà l’impressione all’amante di oltrepassare la sua condizione semplicemente umana e di partecipare ad un atto divino. Ecco anche perché egli cerca anche di trovare la morte nell’atto stesso dell’amore per eternizzare questa intuizione divinizzante. Ma di fatto, contrariamente a quanto affermano i “Fedeli d’amore” l’unione carnale ha una finalità naturale che è la procreazione, cioè la partecipazione all’azione creatrice di Dio. In un certo senso questo atto è divino, in ogni caso è sacro. La Chiesa l’ha santificato con il Sacramento del Matrimonio, ma non lo divinizza. – Ora i “fedeli d’amore”, come i poeti sufi, vogliono togliere all’amore la sua finalità. Essi lo dicono puro e casto, cioè sterile. Essi parlano di un amore “da lontano”, diremmo oggi di “un abbraccio riservato”. È la forma di contraccezione dell’epoca. Unitevi nell’atto carnale, ma non date la vita, cercate piuttosto la morte! In più questo amore è sempre adultero e praticato fuori dal matrimonio. Esso né l’esatto inverso. Non ci si può opporre più efficacemente al piano di Dio che rifiutando di trasmettere la vita che si è ricevuta dai genitori. Solo lucifero, “omicida e menzognero” fin dall’inizio, può interessarsi ad un tale scimmiottare del vero amore così come lo ha voluto Dio.

2°) Il linguaggio degli Uccelli.

Nel suo desiderio di divinizzarsi, l’uomo cerca dei mezzi per salire verso l’azzurro e per confondersi con la Luce per raggiungere il suo soggiorno originale, il cielo, dal quale è ricaduto con una catastrofica caduta. Ecco un tema gnostico ben conosciuto. L’uomo vorrebbe essere un uccello: il suo volo nell’aria sembra sottrarlo alla gravità, nell’azzurro ed ai raggi del sole appare rivestito da un alone d’oro e di luce. Egli finisce per confondersi con il cielo stesso. Ecco un simbolo dell’anima che, chiusa nel suo carapace corporeo, ma ricoperto di piume alla maniera di Icaro, cerca di raggiungere il mondo divino dal quale è stato rigettato. – Si conosce il celebre testo di Chateaubriand, in René: « Spesso ho seguito con gli occhi gli uccelli di passaggio che volavano al di sopra della mia testa. Immaginavo i confini ignorati, i climi lontani, ove essi si recano. Avrei voluto essere sulle loro ali. Un istinto segreto mi tormentava. Mi sentivo io stesso un viaggiatore, ma una voce dal cielo sembrava dirmi: Uomo, la stagione della tua migrazione non è ancora giunta; aspetta che il vento della morte si alzi; allora tu deplorerai il tuo volo verso queste regioni sconosciute che il tuo cuore domanda. Levatevi presto, tempeste desiderate, ché dovete trasportare René negli spazi di un’altra vita. » Questo testo illustra bene quello di Al Gazzali, citato in alto, che ci mostra la farfalla, che con il suo volo si congiunge alla luce del mattino per confondersi con la fiamma che l’accoglie e nella quale si perde. – Ora i poeti musulmani hanno giocato in questo registro con molto virtuosismo. Il poeta persiano Farid al Din Attar ha scritto un poema intitolato “Il colloquio degli uccelli” (Mantic al Tayr). Sotto la guida dell’upupa, gli uccelli si mettono alla ricerca di Simurgh che essi hanno scelto per re. Tutti periscono nel corso di questa ricerca, salvo trenta di essi (“si” in persiano vuol dire trenta e “murgh” significa uccelli). Questi sopravvissuti finiscono per riconoscere la divinità in se stessi e vengono assorbiti nel Simurgh divino per annientamento (fanâ) della loro individualità materiale. – Questo poema ha delle grandi analogie con un’altra opera persiana: « La Rosa di Bakawali ». La rosa misteriosa proposta alla conquista dell’uomo, è Dio stesso. Vi si ritrova la dottrina dei Sufi: « Dio esisteva da solo all’inizio dei secoli, vi è detto. Egli era concentrato su se stesso. Il sole della sua sostanza era rimasto nascosto dietro il velo del mistero. Egli si compiaceva nel suo amore ma provò il desiderio di manifestarsi all’esterno. Volle mostrare la sua bellezza, far conoscere il vino del suo amore e mettere in evidenza il tesoro sacro della sua natura. A questo scopo creò l’universo. Fu così che l’unità di Dio andò a riflettersi nello specchio del niente ». Il mondo non è che lo specchio di Dio; esso è un puro niente, è Dio che si riflette su se stesso. Non si può essere più panteista! – Orbene, questa “Rosa di Bakawali” è l’ispiratore del celebre “ Romanzo della Rosa”. Questa rosa divina è posta al centro di un bel giardino che percorre Déduit, che “dalla terra dei saraceni, fece trasportare là questi alberi”. Precisiamo che gli uccelli, cantori dell’amore, vi gorgogliavano per invidia cercando di sperarsi l’un l’altro; « essi cantavano un canto tale come se fossero degli spiritelli”. Comprendere il linguaggio degli uccelli, è dunque prepararsi a raggiungere il “regno della luce”, il “Wonderland” che Michel Carrouges ci ha descritto con tanta minuziosa precisione nella sua “Mistica del superuomo”. – La religione musulmana è stata marcata, fin dalla sua apparizione, da una importante serie di deficienze fondamentali. Enumeriamole: – Nell’Islam non c’è culto sacrificale, dunque, non c’è sacerdozio, non sacrificio, non sacramenti, diciamo che non c’è niente di specificamente “sacro”. – Nell’Islam non c’è una dottrina, dunque non c’è magistero, non c’è insegnamento. – La recita cadenzata e bilanciata del Corano, i commentari sulle “Hadith” del profeta non possono certamente definirsi un insegnamento. – Nell’Islam non c’è la distinzione fondamentale tra l’ambito temporale e l’ambito spirituale. L’uno si riconduce all’altro e constatiamo che lo spirituale è dominato e schiacciato dal temporale. Di conseguenza non esiste affatto nell’Islam distinzione tra “foro” esterno degli atti umani e “foro” interno delle coscienze. – La moralità si riduce all’osservanza delle regole giuridiche e siccome vi è negato il libero arbitrio, l’ambito della coscienza personale è ridotto a niente. Ecco un handicap prodigioso per l’educazione della rettitudine di intenzione nella vita morale. – In tal modo, l’Islam non può essere definita una religione che in senso ristretto ed usurpato. Infatti esso “occupa il posto” di una religione per milioni di uomini da svariati secoli. Si comprende che con una tale deficienza di quasi tutto ciò che potrebbe costituire in “senso proprio” una religione, i popoli sottomessi all’Islam siano regrediti verso una semi-barbarie, in un abbrutimento generale degli spiriti ed una lunga sclerosi della civilizzazione. – In queste condizioni, l’Islam non poteva espandersi sui cristiani d’Europa che lo rigettano con orrore. – Gli scrittori musulmani hanno dovuto cercare altrove il loro nutrimento intellettuale, mentre i filosofi sono andati a trovare nel pensiero greco di che nutrire le loro meditazioni. Essi le hanno ritrasmesso all’Occidente la filosofia neo-platonica che le era stata data in pasto dai Sabei. I poeti ed i mistici sono andati a trovare nel Buddhismo di che alimentare i loro sogni o allucinazioni. Essi hanno trasmesso all’Occidente il panteismo insufflato dai Sufi. E dietro a loro, l’Occidente cristiano ha assorbito in parte questi due veleni. La filosofia realista di Aristotele e di San Tommaso non ha potuto imporsi definitivamente e, dopo Cartesio, viviamo nella più completa confusione di dottrine. La letteratura resta ancora oggi avvelenata da una nozione radicalmente contraria all’ordine naturale, come ha dimostrato Denis de Rougemont nella sua notevole opera: “L’Amore e l’Occidente”. – Infine, quando l’Occidente ha potuto riprendere il dominio politico e militare sul mondo arabo, l’Islam è stato capace di assimilare i progressi tecnologici, la potenza materiale, il lusso ed il confort delle sue classi dirigenti, ma ha rigettato con infallibile istinto, il Cristianesimo che gli era stato simultaneamente presentato. La “religione” musulmana resterà sempre l’ostacolo più radicale all’espansione della fede cristiana. –  L’Islam ha assorbito immediatamente il pensiero e le attitudini della massoneria, avendone in comune la profonda radice gnostico-giudaica, così come oggi assistiamo pure alla sua fusione con il “modernismo ecumenista del Vaticano II”, supportato dal finto tradizionalismo di facciata lefebvriano o sedevacantista [basti pensare ad esempio all’ignoranza in mala fede che fa passare, per gli allocchi inebetiti, il Corano nientemeno che … come libro di pace!!!], il c.d. “novus ordo”, con cui condivide il pensiero gnostico-talmudico base della nuova falsa religione universale noachide, fondata sul monoteismo luciferino, denominatore comune pure delle sette protestanti, delle pseudo-religioni orientali, e della ideologia massonica dominante, camuffata di volta in volta sotto l’abito comunista, liberista, radicale o finto-democratico, mondialista … pare proprio che tutte le vie portino all’inferno, ma … Illa conteret caput tuum!

[Continua… ]