DOMENICA DI QUINQUAGESIMA [2018]

Introitus Ps XXX: 3-4

Esto mihi in Deum protectórem, et in locum refúgii, ut salvum me fácias: quóniam firmaméntum meum et refúgium meum es tu: et propter nomen tuum dux mihi eris, et enútries me. – [Sii mio protettore, o Dio, e mio luogo di rifugio per salvarmi: poiché tu sei la mia fortezza e il mio riparo: per il tuo nome guidami e assistimi.]

Ps XXX:2

In te, Dómine, sperávi, non confúndar in ætérnum: in justítia tua líbera me et éripe me. – [In Te, o Signore, ho sperato, ch’io non resti confuso in eterno: nella tua giustizia líberami e sàlvami.]

 

Esto mihi in Deum protectórem, et in locum refúgii, ut salvum me fácias: quóniam firmaméntum meum et refúgium meum es tu: et propter nomen tuum dux mihi eris, et enútries me. – [Sii mio protettore, o Dio, e mio luogo di rifugio per salvarmi: poiché tu sei la mia fortezza e il mio riparo: per il tuo nome guídami e assistimi.]

Orémus. Preces nostras, quaesumus, Dómine, cleménter exáudi: atque, a peccatórum vínculis absolútos, ab omni nos adversitáte custódi. [O Signore, Te ne preghiamo, esaudisci clemente le nostre preghiere: e liberati dai ceppi del peccato, preservaci da ogni avversità.]

Per Dominum nostrum Jesum Christum, Filium tuum: qui tecum vivit et regnat in unitate Spiritus Sancti Deus, per omnia sæcula sæculorum.

Amen.

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Corinthios.

1 Cor XIII:1-13

“Fratres: Si linguis hóminum loquar et Angelórum, caritátem autem non hábeam, factus sum velut æs sonans aut cýmbalum tínniens. Et si habúero prophétiam, et nóverim mystéria ómnia et omnem sciéntiam: et si habúero omnem fidem, ita ut montes tránsferam, caritátem autem non habúero, nihil sum. Et si distribúero in cibos páuperum omnes facultátes meas, et si tradídero corpus meum, ita ut árdeam, caritátem autem non habuero, nihil mihi prodest. Cáritas patiens est, benígna est: cáritas non æmulátur, non agit pérperam, non inflátur, non est ambitiósa, non quærit quæ sua sunt, non irritátur, non cógitat malum, non gaudet super iniquitáte, congáudet autem veritáti: ómnia suffert, ómnia credit, ómnia sperat, ómnia sústinet. Cáritas numquam éxcidit: sive prophétiæ evacuabúntur, sive linguæ cessábunt, sive sciéntia destruétur. Ex parte enim cognóscimus, et ex parte prophetámus. Cum autem vénerit quod perféctum est, evacuábitur quod ex parte est. Cum essem párvulus, loquébar ut párvulus, sapiébam ut párvulus, cogitábam ut párvulus. Quando autem factus sum vir, evacuávi quæ erant párvuli. Vidémus nunc per spéculum in ænígmate: tunc autem fácie ad fáciem. Nunc cognósco ex parte: tunc autem cognóscam, sicut et cógnitus sum. Nunc autem manent fides, spes, cáritas, tria hæc: major autem horum est cáritas.” –

Omelia I

[Mons. Bonomelli, Nuovo Saggio di Omelie, vol. I, Marietti ed. Torino, 1899 – Om. XXV]

“Quand’io parlassi lingue di uomini e di angeli, se non ho carità, divento un rame sonoro e un cembalo tintinnante. Avessi anche profezia e intendessi tutti i misteri e tutta la scienza; e avessi anche tutta la fede fino a trasportare i monti, se non ho carità, sono un bel nulla. Spendessi pure tutte le mie facoltà in nutrire i poveri, e dessi alle fiamme il mio corpo, se non ho carità, tutto questo non mi giova nulla. La carità è longanime, è benigna; la carità non invidia, non è insolente, non si gonfia, non è scomposta, non cerca le cose proprie, non si inasprisce, non pensa male, non si rallegra della ingiustizia, ma della verità. Tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto sostiene. La carità non vien meno mai: le profezie avran fine, le lingue cesseranno e la scienza svanirà: perché ora conosciamo in parte e in parte profetiamo; ma quando tutto sarà perfetto, allora il parziale finirà. Allorché io era fanciullo, parlava da fanciullo, ragionava da fanciullo; ma allorché divenni uomo, ho smesse le cose da fanciullo. Finora vediamo le cose come in uno specchio, in enigma; ma allora vedremo faccia a faccia; finora conosco in parte, ma allora conoscerò come sono conosciuto. Queste tre cose durano al presente, fede, speranza e carità, ma la massima di queste è la carità „ (I. Cor. XIII, 1-13).

In questo tratto che vi ho recitato, voi avete l’intero capo decimoterzo della prima lettera di S. Paolo ai fedeli di Corinto. Voi stessi udendo queste sentenze, avrete compreso che in esse si racchiude un tesoro di sapienza pratica, un capolavoro di dottrina celeste. Mi duole che la strettezza del tempo mi tolga di sviluppare con qualche ampiezza questa sì sublime pagina dell’Apostolo: dovrò sfiorarla appena; ma la vostra attenzione supplisca alla brevità forzata del commento e approfondisca ciò ch’io avrò toccato di volo. – Nei primi tempi della Chiesa erano frequentissimi i doni straordinari tra i fedeli; doni di profezia, di diverse lingue, di conoscimenti dell’interno degli spiriti, di guarigioni miracolose; Dio ne era largo allora perché trattavasi di stabilire la fede: più tardi, scemando il bisogno, perché la fede era già stabilita, scemarono anche quei doni straordinari. Questi abbondavano nella Chiesa di Corinto, e san Paolo ne parla più volte, e dopo aver dato sapienti norme intorno all’uso di questi doni passa a dimostrare, che vi sono doni ben più eccellenti e desiderabili che quelli, dei quali i Corinti facevano tanto rumore, perché quei doni straordinari, anche sommi, sono nulla senza la carità, virtù regina e radice di tutte le altre, e qui comincia 1’insegnamento dell’Apostolo. Ascoltiamolo. – “Quand’io parlassi lingue di uomini e di Angeli, se non ho carità divento un rame sonoro e un cembalo tintinnante. Avessi anche profezia e intendessi tutti i misteri e tutta la scienza e avessi anche tutta la fede fino a trasportare i monti, se non ho carità, sono un bel nulla. „ Qui l’Apostolo vuol dimostrare che la carità, s’intende verso Dio e per conseguenza anche verso il prossimo, è la massima tra le virtù a talché senza di essa tutto il resto è inutile. Non occorre che vi dica, come questa carità, di cui parla l’Apostolo, stia riposta nel cuore e si traduca poi nelle opere. E gran cosa, così S. Paolo, parlare le lingue degli uomini, più gran cosa ancora sarebbe parlare la lingua degli Angeli e possedere il dono della profezia e penetrare tutti i misteri della terra e del cielo, grandissima cosa poi sarebbe aver tal fede da trasportare i monti. Chi non ammirerebbe l’uomo che tutto questo possedesse? chi non lo saluterebbe come un miracolo vivente? Ebbene, esclama l’Apostolo: vi dico che quest’uomo, se fosse privo di carità, non sarebbe altro che un rame, il quale percosso, dà un po’ di suono; sarebbe meno ancora, un nulla. Né qui si ferma l’Apostolo; ma, incalzando l’argomento, continua e dice: “Se spendessi tutte le mie facoltà in nutrire i poveri e dessi alle fiamme il mio corpo, se non ho carità tutto questo non mi giova nulla. „ Si direbbe che questa è una esagerazione, eppure è una verità indubitata. Come! direte voi: un uomo può dar tutte le sue sostanze ai poverelli, anzi dare la vita stessa e darla in mezzo alle fiamme e non avere carità e perdersi eternamente? Gesù Cristo non dice Egli nel Vangelo, che nessuno ha maggior carità di colui che dà la sua vita per il prossimo? Dare adunque la vita per il prossimo è avere la carità in grado sommo. Come dunque qui l’Apostolo suppone che altri si immoli per il prossimo e non abbia la carità e nulla gli giovi il sacrificio stesso della vita? come ciò può essere? Sì; quando un uomo facesse tutto questo, non per amore di Dio, per ubbidire a Lui, ma per ambizione, per orgoglio, per capriccio, per ostinazione e per altre cause somiglianti, certamente peccherebbe e anziché premio meriterebbe castigo, e qualche raro esempio di tanta follia non manca nella storia. I sacrifici che si fanno, anche i massimi, come quello delle sostanze e della vita, ricevono il valore e merito dal fine, dal motivo, per il quale si fanno; se non si fanno per Iddio, per la carità, che a Lui ci lega, che valgono? Nulla. Del resto S. Paolo in questo luogo non parla del fatto, ma fa un’ipotesi, come se dicesse: Posto pure che un uomo versasse tutti i suoi beni in seno agli indigenti fino a ridursi all’estrema miseria e che immolasse la sua vita istessa (cosa umanamente impossibile, se non ha la carità), tutto è gettato inutilmente. — Comprendete, o cari, qual sia il pregio della carità: con essa, tutto giova; senza di essa, nulla giova pel cielo. Qui S. Paolo, con uno di quei rapidi passaggi, che s’incontrano non raramente nelle sue lettere, prende a tratteggiare con mano maestra le qualità della carità cristiana. Consideriamole ad una ad una e non lo faremo senza frutto. – ” La carità è longanime. „ Chi ha il cuore ripieno di carità non solo possiede la pazienza, che è fortezza e grandezza d’animo, ma è longanime, cioè è temperato per modo che i dolori e le tribolazioni, per quanto siano lunghe ed aspre, non lo turbano e lo trovano sempre eguale. “La carità è benigna. „ La carità paziente, dice S. Bernardo, basta; ma la carità benigna colma la misura: la carità paziente ama quelli che tollera; la carità benigna, li ama ardentemente. La carità compone costantemente il viso a benevolenza inalterabile e mette sulle labbra parole di pace e d’amore. “La carità non invidia. „ Chi ama il prossimo per amore di Dio, lo ama come se stesso non conosce il tuo ed il mio e gode tanto del proprio come dell’altrui bene, e perciò non sa che cosa sia invidia. – “La carità non è insolente. La carità è sempre delicata e mette ogni studio in non recare offesa o dispiacere a chicchessia con atti, o parole, o in qualsiasi modo, perché il dispiacere altrui è dispiacere proprio; perciò serba la giusta misura in ogni cosa, sempre tranquilla e modesta. – “La carità non si gonfia. „ La vanità, l’orgoglio, l’arroganza sono frutti della mala pianta dell’amor proprio sregolato; questo domato e ridotto alla obbedienza, regna la carità, che è sempre umile, mansueta, dolce con tutti. – “La carità non è scomposta. „ La virtù che tutte le altre contiene e avviva, la carità, è madre dell’ ordine e dell’armonia in ogni cosa, e perciò elimina dolcemente ogni durezza, ogni scabrosità, tutto ciò che sia o sembri meno decente; essa, come dice graziosamente il Crisostomo, con le sue ali d’oro, copre i difetti di tutti quelli che abbraccia. – “La carità non cerca il suo interesse. Se noi volgiamo intorno gli occhi, vediamo che pur troppo gli uomini cercano le cose loro, quærunt quæ sua sunt. Per sé gli onori, per sé le ricchezze, per sé i piaceri, per sé ogni cosa: il loro io è il centro a cui convergono tutti i loro pensieri, desideri! e sforzi: la carità inverte le parti: dimentica sé per gli altri, ama dare più che ricevere, simile a Dio che dà a tutti sempre e largamente. – “La carità non si inasprisce, non pensa male. „ Certamente chi ama, fa opera di rimuovere dalla persona amata qualunque male e si ingegna di procurarle ogni bene: per far ciò non è raro che sia necessario usare modi fermi ed austeri e ricorrere a mezzi spiacevoli e dolorosi: il medico che vuole la guarigione dell’infermo, lo tormenta col ferro e col fuoco; il padre che vuole 1’emenda del figlio riottoso, lo rimprovera e punisce. Forseché diremo che qui la carità si inasprisce? No, mai, carissimi. Essa, anche quando castiga e ferisce e flagella è sempre dolce e amabile e trova mille vie per far sentire e toccare, che ama e fa tutto per amore. L’occhio, l’accento, l’atteggiamento, il tutto della persona vi dice che è sempre l’amore che opera, tanto più caro e ardente in quanto che soffre e fa soffrire suo malgrado, onde è vero il detto del poeta: “Né per sferza è però madre men pia”. – La carità non tradisce mai la verità, e se altri apertamente fa male, non dirà, né penserà che faccia bene, no, per fermo. Ma se nel fratello che fa male può supporre l’inavvertenza, la buona fede, un fine lodevole, un errore involontario, ella sarà ben lieta di pensarlo e dirlo, perché non pensa male se non forzata dalla verità e sempre a malincuore. – “La carità non si rallegra della ingiustizia, ma della verità. „ Sante parole! L’anima è fatta per la virtù, per la giustizia e per la verità, come l’occhio per la luce e l’orecchio per l’armonia, e per ciò essa gode e si letizia di tutto ciò che è conforme a virtù, a giustizia e a verità: è la sua musica, è la sua gioia più pura. Figliuoli, amate sempre la verità e la giustizia, fuggite e abbominate la menzogna e l’ingiustizia dovunque appariscano. . “La carità tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto sostiene. „ L’uomo informato alla vera carità tutto copre, cioè dissimula fin dove è possibile gli altrui difetti e pietosamente nasconde i loro falli, è inchinevole a credere alle altrui parole, perché tutti reputa buoni, spera sempre bene di tutti e tutti amorevolmente tollera senza lagnarsi e tollera perché spera. Non è poi mestieri l’osservare, che tutto si deve credere e tutto sperare secondo ragione e verità, perché dove la ragione e la verità non permettono il credere e lo sperare, sarebbe debolezza e stoltezza il credere e lo sperare, giacché non è mai virtù quella che si scompagna dalla verità. La Scrittura santa ci insegna che è leggero chi crede tosto senza motivi sufficienti. Ricordatelo bene, o dilettissimi. La religione non ci obbliga mai ad operare contro ragione, perché anche questa, come la religione, viene da Dio, e se noi prestassimo fede a tutto ciò che si dice, senza assicurarci della verità delle cose, meritamente cadremmo in disprezzo e offenderemmo la religione stessa. – L’Apostolo prosegue ancora enumerando altri pregi della carità in confronto degli altri doni sopra accennati della profezia, delle lingue e della scienza, e dice: “La carità non viene mai meno; le profezie avranno termine, le lingue cesseranno, e la scienza svanirà. „ Tutti questi doni, benché eccellenti, sono ristretti alla vita presente: sono mezzi più o meno efficaci per condurci a Dio, e alla morte cesseranno, ma non cesserà la carità. L’amore verso Dio e le sue immagini vive, acceso nelle anime qui in terra, allorché entreremo in cielo, si purificherà, crescerà a dismisura e durerà per tutti i secoli. – “Ora conosciamo in parte e in parte profetiamo, ma quando tutto sarà perfetto, allora finirà ciò che è parziale. „ Che cosa è la scienza nostra qui in terra? E una favilla, tenue favilla in confronto del sole: la nostra scienza quaggiù in terra, sia quanto vi piace grande e acuta, è sempre circoscritta a poche cose, mista a dubbi ed errori e mutevole: la profezia poi, che è parte della scienza infusa, non dà il conoscimento che di alcuni punti del futuro. Ebbene: quando porremo piede in cielo, spariranno tutti questi limiti e queste imperfezioni: alla scienza incerta e limitata, alla profezia sottentrerà la scienza piena e perfetta, perché tutto vedremo senza velo in Dio. — Qui l’Apostolo rischiara la cosa con una immagine graziosa e semplicissima. ” Quand’io ero fanciullo, parlavo da fanciullo, giudicavo da fanciullo, ragionavo da fanciullo; ma come divenni uomo, smisi ciò che era da fanciullo. „ È cosa che ciascuno di noi ha sperimentato. Il nodo di pensare, di operare, di ragionare varia secondo gli anni: a sei, a sette, a dieci, a dodici anni quali erano i nostri pensieri, discorsi e giudizi? Ditelo voi. Crescemmo e toccammo i quindici, i venti, i trent’anni; senza accorgerci, li mutammo in altri e certamente migliori e degni d’uomini fatti; passammo dall’imperfetto al perfetto relativo, dal fanciullesco al virile; così, dice S. Paolo, e in nodo ben più perfetto, ci muteremo, passando dalla terra al cielo. – Alcuni talvolta rinfacciano ad altri d’aver mutato, come se il mutarsi per se stesso fosse cosa biasimevole. Conviene distinguere: se si muta il vero in falso, il bene in male, è certo cosa altamente biasimevole; ma se si muta il falso in vero, il male in bene, l’imperfetto in perfetto, il bene in meglio, il meglio in ottimo, chi vorrà farne biasimo? Ogni cognizione che acquisto è un mutamento nell’anima mia, e in questo senso tutti ci mutiamo e sarebbe da stolti muoverne lamento o farne le meraviglie. – “Finora vediamo per ispecchio. in enigma. „ Nell’ordine presente del tempo vediamo le cose per riflesso, quasi in nube, come 1’immagine nello specchio; ma in cielo “vedremo faccia a faccia, cioè direttamente, senza mezzo, come sono in se medesime. Ora conosco in parte, ma allora conoscerò come sono conosciuto, ., non già con la perfezione infinita, con cui Dio conosce me (cosa impossibile), ma sì per modo diretto, senz’ombra di mezzo creato, e in Lui e per Lui conoscerò tutto quello che mi sarà possibile di conoscere. – “Queste tre cose, conchiude l’Apostolo, durano al presente, fede, speranza e carità, ma di queste la carità è la maggiore: „ la maggiore per le cose sopra dette. Carissimi! Dio è carità, come insegna san Giovanni; figli di Dio, figli della carità, mostriamoci tali costantemente nelle parole e nelle opere, che questo è il compimento della legge.

 Graduale : Ps LXXVI:15; LXXVI:16

Tu es Deus qui facis mirabília solus: notam fecísti in géntibus virtútem tuam. . [Tu sei Dio, il solo che operi meraviglie: hai fatto conoscere tra le genti la tua potenza.]

Liberásti in bráchio tuo pópulum tuum, fílios Israel et Joseph

[Liberasti con la tua forza il tuo popolo, i figli di Israele e di Giuseppe.]

Tratto: Ps XCIX:1-2

Jubiláte Deo, omnis terra: servíte Dómino in lætítia, V. Intráte in conspéctu ejus in exsultatióne: scitóte, quod Dóminus ipse est Deus. V. Ipse fecit nos, et non ipsi nos: nos autem pópulus ejus, et oves páscuæ ejus.

[Acclama a Dio, o terra tutta: servite il Signore in letizia. V. Entrate alla sua presenza con esultanza: sappiate che il Signore è Dio. V. Egli stesso ci ha fatti, e non noi stessi: noi siamo il suo popolo e il suo gregge.]

Evangelium

Luc XVIII:31-43

“In illo témpore: Assúmpsit Jesus duódecim, et ait illis: Ecce, ascéndimus Jerosólymam, et consummabúntur ómnia, quæ scripta sunt per Prophétas de Fílio hominis. Tradátur enim Géntibus, et illudétur, et flagellábitur, et conspuétur: et postquam flagelláverint, occídent eum, et tértia die resúrget. Et ipsi nihil horum intellexérunt, et erat verbum istud abscónditum ab eis, et non intellegébant quæ dicebántur. Factum est autem, cum appropinquáret Jéricho, cæcus quidam sedébat secus viam, mendícans. Et cum audíret turbam prætereúntem, interrogábat, quid hoc esset. Dixérunt autem ei, quod Jesus Nazarénus transíret. Et clamávit, dicens: Jesu, fili David, miserére mei. Et qui præíbant, increpábant eum, ut tacéret. Ipse vero multo magis clamábat: Fili David, miserére mei. Stans autem Jesus, jussit illum addúci ad se. Et cum appropinquásset, interrogávit illum, dicens: Quid tibi vis fáciam? At ille dixit: Dómine, ut vídeam. Et Jesus dixit illi: Réspice, fides tua te salvum fecit. Et conféstim vidit, et sequebátur illum, magníficans Deum. Et omnis plebs ut vidit, dedit laudem Deo.” –

Omelia II

[Mons. Bonomelli, Nuovo Saggio di Omelie, vol. I, Marietti ed. Torino, 1899 – Om. XXVI]

“Presi seco i dodici, Gesù disse loro: Ecco noi andiamo a Gerusalemme e tutte le cose scritte dai profeti intorno al Figliuol dell’uomo, saranno compiute. Perocché egli sarà dato in mano ai gentili, vilipeso, flagellato e sputacchiato. E poiché l’avranno flagellato, l’uccideranno e il terzo dì risorgerà. Ma essi non compresero nulla di queste cose, perché questo ragionamento era loro occulto e non intendevano le cose dette loro. Avvicinandosi a Gerico, avvenne, che un certo cieco stava lungo la via, chiedendo la limosina. Ora, questi, udito il rumore della folla che passava, domandò che cosa fosse, e gli risposero che passava Gesù di Nazaret. Allora egli si pose a gridare: Gesù, figliuolo di Davide, abbi pietà di me. E quelli che andavano innanzi lo sgridavano affinché tacesse. E Gesù, fermatosi, comandò che gli fosse menato, e come gli fu presso, lo interrogò, dicendo: Che vuoi ch’io ti faccia? e quegli: Signore, ch’io riabbia la vista. E Gesù gli disse: Vedi; la tua fede ti ha fatto salvo. E incontanente riebbe la vista e lo seguitava, glorificando Iddio; e tutto il popolo, veduto ciò, diede lode a Dio.„

È questo, o carissimi, l’odierno Vangelo, che la Chiesa ci propone a meditare in questa Domenica detta di Quinquagesima. Esso si divide in due parti ben distinte tra di loro: nella prima si contiene l’annunzio chiarissimo che Gesù Cristo fa della prossima sua passione, morte e risurrezione: nella seconda si narra il miracolo operato da Gesù Cristo presso a Gerico nella persona d’un cieco. Tutto questo avvenne nell’ultimo viaggio di Gesù Cristo dalla Galilea a Gerusalemme, poco prima della sua entrata trionfale in quella città. — Veniamo alla spiegazione. – “Presi seco i dodici, Gesù disse loro: Ecco noi entriamo a Gerusalemme e tutte le cose scritte dai profeti intorno al Figliuol dell’uomo saranno compiute. „ Gesù aveva settantadue discepoli e dodici Apostoli, che più o meno lo seguivano dovunque, massime verso la fine di sua vita; i dodici Apostoli poi erano ammessi a speciali confidenze, come tre fra i dodici erano ammessi a specialissime; è cosa manifesta dai Vangeli. Gesù adunque dalla Galilea movendo verso Gerusalemme per l’ultima volta, ebbe a sé i dodici Apostoli e disse loro chiaramente che i vaticini dei profeti intorno alla sua Persona erano prossimi a compirsi, e venendo più al particolare intorno a questi vaticini, soggiunse: “Il Figliuol dell’uomo, cioè l’uomo che vi parla, sarà consegnato ai gentili, e vilipeso, e flagellato, e sputacchiato, e poiché l’avranno flagellato, l’uccideranno e il terzo dì risorgerà. „ Ecco, o dilettissimi, una profezia sovra ogni altra splendidissima. Che cosa si domanda per avere una profezia nel senso rigoroso della parola e una prova divina della verità? Si domanda che si annunzi in termini chiari una cosa futura; una cosa futura affatto impossibile a prevedersi con la ragione umana, e che la cosa annunziata avvenga nel tempo, luogo e modo determinati. Ora queste parole di Gesù Cristo contengono esse una profezia, che abbia tutti questi caratteri? Indubitatamente. Gesù Cristo annunzia la vicina sua morte accompagnata da circostanze particolarissime: doveva avvenire in Gerusalemme, fra breve, per opera degli Ebrei e dei gentili, dopo essere stato vilipeso, flagellato, sputacchiato. Più: predice nettamente la risurrezione e ne fissa il giorno. Tutto questo poteva Egli predire, umanamente ragionando? No: perché tutto questo dipendeva dalla volontà altrui, volontà libera, che poteva fare e non fare a quel modo, e nessuno aveva manifestato e forse allora non ci pensava nemmeno. I termini, coi quali Gesù Cristo  annunzia tutto questo, non hanno ombra di incertezza, di ambiguità: la chiarezza non potrebbe essere maggiore. Dodici persone ascoltano quel vaticinio, lo riferiscono e ne sono testimoni oculari, e tanta è la certezza loro quanto all’adempimento, che tutti, a loro tempo morranno per Lui, che lo predisse. E il fatto della passione, della morte e della risurrezione, sì complesso e sì determinato, avvenne come fu predetto? Il mondo intero lo attesta. Noi dunque abbiamo in queste parole di Gesù una magnifica profezia adempiuta letteralmente e per conseguenza una prova luminosissima della sua divinità, perché Dio solo poteva conoscere tutto questo cumulo di fatti. Direte: Questa profezia prova che Gesù Cristo poteva essere ed era profeta, non mai che fosse Dio. Moltissimi furono i profeti, ma nessuno dalle loro profezie argomentò che essi fossero Dio. Obbiezione facilissima a sciogliersi: Molti, moltissimi furono i profeti, ma nessuno di loro disse: Io sono il Figliuolo di Dio e Dio. Solo l’affermò chiaramente e ripetutamente Gesù Cristo: le profezie pertanto fatte e perfettamente adempiute mostrano la sua divinità, se non vogliamo dire che Dio concorre col miracolo a provare 1′ errore e la bestemmia, e massimo errore, massima bestemmia sarebbe l’affermazione di Gesù: Io sono Dio! E perché Gesù Cristo volle fare agli Apostoli questa profezia? Evidentemente per prepararli a quella prova terribile, per togliere o almeno scemare l’effetto dello scandalo che la loro debolezza doveva risentire alla vista della sua morte obbrobriosa e per dar loro in mano un argomento perentorio della sua divina missione. “Voi vedete, così S. Giovanni Crisostomo fa parlare Gesù Cristo, voi vedete che volontariamente io vo alla morte. Allorché mi vedrete confitto in croce, badate di non considerarmi come un semplice uomo, perché se il poter morire è da uomo, il voler morire non è da uomo. „ Questa profezia pertanto era un atto di bontà e di misericordia coi suoi Apostoli, era un temperare la ferita acerbissima che avrebbero provato alla vista dello scempio e della morte crudelissima del divino Maestro. E perché Gesù Cristo disse tutto ai soli Apostoli e non a tutti i suoi discepoli e alle turbe che lo seguivano? Altre volte ciò aveva fatto, sebbene in modo men chiaro: poi, dicendolo ai dodici Apostoli, in qualche modo lo faceva conoscere anche agli altri, e forse con ciò volle dar loro un segno peculiare del suo amore. – Che dissero e fecero gli Apostoli, udendo quelle parole di Gesù Cristo? Non lo crederemmo se non lo leggessimo registrato nel Vangelo. “Essi non compresero nulla di queste cose, perché questo ragionamento era loro occulto e non intendevano le cose dette loro. „ Come ciò, o dilettissimi ? Forseché non capivano il senso materiale delle parole e non sapevano che cosa fosse l’essere dato in mano ai gentili, essere vilipeso, flagellato, sputacchiato, morire e risorgere? Certo che sì: essi comprendevano troppo bene il significato naturale delle parole, ma non comprendevano, non sapevano persuadersi che tutto questo avesse a compirsi nella persona del divino Maestro. Lo amavano, lo adoravano: attendevano da Lui la ristorazione del regno temporale d’Israele, aspettavano il suo trionfo tutto alla foggia ebraica, cioè materiale: come dunque comprendere tante umiliazioni, la morte, la risurrezione di Gesù Cristo? Non ricusavano fede alle parole di Lui, credevano anche, ma non potevano comporre tutte queste cose che a loro sembravano ripugnanti: confusi, sbigottiti, afflitti ascoltavano e tacevano: solamente i fatti avrebbero potuto snodare 1e loro difficoltà e illuminarli, e così avvenne. – Intanto ammiriamo la schiettezza veramente meravigliosa degli Evangelisti, che non esitarono a narrare tanta ignoranza degli Apostoli e a farla conoscere a tutto il mondo, e da loro apprendiamo noi pure ad amare la sincerità, ancorché ci costi assai, e a confessare, quando occorra, i nostri falli senza arrossire. Questo fatto della ignoranza degli Apostoli è anche una grande lezione per noi tutti. Gli Apostoli, formati alla scuola stessa di Gesù Cristo, non avevano ancora compreso la sostanza del suo insegnamento, che si riduce pressoché tutto alla scienza della croce: qual meraviglia pertanto che anche al giorno d’oggi molti cristiani si mostrino ripugnanti alla dottrina e alla pratica della croce, che è il succo del Vangelo? È dunque ben giusto che siam pieni di compatimento verso tanti cristiani ignoranti, pensando che lo erano anche gli Apostoli istruiti da Gesù Cristo istesso. S. Luca passa alla narrazione del miracolo del cieco, avvenuto presso Gerico (S. Matteo [XX, 29] e S. Marco [X, 46] parlano di due ciechi guariti da Gesù Cristo, e qui S. Luca d’un solo. Sembra certo che siano stati guariti l’uno nell’entrare, l’altro nell’uscire da Gerico; quei due Evangelisti li mettono insieme, S. Luca parla solamente del primo.). “Nell’accostarsi a Gerico, avvenne che un certo cieco stava lungo la via, domandando la limosina.„ Il Vangelista qui non dice il suo nome, ma è forse quel figliuolo di Timeo, del quale scrive S. Luca: come sogliono fare i ciechi poveri sedeva lungo la via, tendendo la mano e chiedendo la limosima a quanti passavano. – Il povero cieco udì l’insolito rumore della turba che precedeva e seguitava Gesù Cristo: tese l’orecchio, s’accorse di qualche cosa di straordinaria che avveniva e stimolato dalla naturale curiosità, a quelli che erano più presso, domandò che cosa fosse. E tosto gli fu risposto: “Che passava Gesù di Nazaret. „ Appena ebbe udito quel nome, che più volte era risuonato ai suoi orecchi come quello di un gran profeta, d’un taumaturgo, del Messia aspettato, nella sua mente balenò un lampo di speranza, anzi la certezza di riacquistare la vista. Levandosi, agitando le mani e muovendosi come poteva alla volta di Gesù, con quanta voce aveva in petto, gridava: “Gesù, figliuolo di Davide, abbi pietà di me. „ Semplicissima e sublime preghiera, che la fede e la speranza della guarigione mettono sulle labbra del poverello, che riconosce in Gesù il Figliuolo di Davide, ossia l’aspettato Salvatore del mondo. Egli gridava per modo, che i vicini stimarono bene dargli sulla voce e imporgli silenzio, parendo loro che turbasse tutti e particolarmente Gesù Cristo. Ma più gli si intimava di tacere e più alta egli levava la voce, ripetendo sempre il suo grido: “Figliuol di Davide, abbi pietà di me. „ Figliuoli amatissimi! questo cieco, che non fa che ripetere la stessa preghiera sì bella e sì eloquente, è un perfetto modello del modo con cui dobbiamo innalzare a Dio le nostre preci, con fede viva, con perseveranza, senza rispetti umani. Allora Gesù, udendo quelle grida e forse pregatone dai vicini, si fermò e con lui si fermò quella turba che lo accompagnava. Il cieco brancolando, condotto a mano da alcuni pietosi, commosso, anelante, fu ai piedi di Gesù, ripetendo sempre il suo grido: ” O Gesù, abbi pietà di me. „ Avutolo a sé vicino, Gesù, con voce amorevole, gli disse: “Che vuoi tu che ti faccia? „ Senza dubbio Gesù Cristo conosceva ciò che tutti conoscevano, la cecità del meschinello: Egli leggeva nel cuore di lui il desiderio, la domanda che voleva fare; ma volle che la facesse, sia perché apparisse meglio il miracolo, sia perché voleva che con la domanda i n qualche modo meritasse la guarigione. Il cieco, non appena ebbe udita la domanda di Gesù, con quell’ardore dell’anima, che potete immaginare e che tutto gli traspariva sul volto, rispose con tre sole parole: “Domine, ut videam — Signore, la vista. „ Quanta semplicità, quanta fede e quanta forza in queste parole: Signore, la vista! — Il momento era sublime: la turba si accalcava intorno a Gesù ed al cieco: i lontani si premevano per avvicinarsi, si levavano in punta di piedi per vedere: il silenzio assoluto e mille occhi erano fissi sopra il Salvatore e sopra il cieco, che, levando il viso, aspettava ansante una parola, la parola del miracolo. E Gesù la disse: “Vedi. „ Quella parola fu come un lampo, aperse gli occhi del cieco, che furono inondati di luce: attonito, fuor di sé per la gioia, gettò un grido di gratitudine, di amore, a cui si unirono le acclamazioni e gli applausi della folla, che glorificava Dio. Il miracolo è operato sulla pubblica via, alla presenza, sotto gli occhi di numerosissimo popolo, con una sola parola: “Respice — Vedi. „ È narrato da testimoni di veduta, che credono essi stessi in Gesù fino a morire per Lui. Chi potrà mai dubitare della virtù divina dell’operatore? Gesù Cristo attribuì il miracolo alla fede del cieco: “La tua fede ti ha salvato, „ cioè risanato; e in un senso è vero, perché se il cieco non avesse avuto fede in Lui, non avrebbe domandato il miracolo e Gesù non l’avrebbe operato. Carissimi! se non sono molti i ciechi degli occhi corporei, pur troppo moltissimi sono i ciechi degli occhi della mente: son ciechi tanti fratelli nostri, che hanno perduto la fede o che ne dubitano: son ciechi tanti, che, pure avendola, non si curano di operare secondo i suoi dettati: son ciechi tanti, che, dimentichi dei veraci beni del cielo, corrono dietro ai fallaci della terra, schiavi dell’orgoglio e della vanità, della gola e della lussuria e di tante altre passioni. – Deh! che tutti questi ciechi si alzino, si accostino a Gesù e, col cieco di Gerico, gridino a Lui: “Signore, la vista della mente, della fede, „ e Gesù che non rimandò mai un solo inesaudito e sconsolato, dirà loro: “Vedete; la vostra fede vi ha salvati. „

Credo

Offertorium

Orémus Ps CXVIII: 12-13

Benedíctus es, Dómine, doce me justificatiónes tuas: in lábiis meis pronuntiávi ómnia judícia oris tui. [Benedetto sei Tu, o Signore, insegnami i tuoi comandamenti: le mie labbra pronunciarono tutti i decreti della tua bocca.]

Secreta

Hæc hóstia, Dómine, quaesumus, emúndet nostra delícta: et, ad sacrifícium celebrándum, subditórum tibi córpora mentésque sanctíficet. [O Signore, Te ne preghiamo, quest’ostia ci purifichi dai nostri peccati: e, santificando i corpi e le ànime dei tuoi servi, li disponga alla celebrazione del sacrificio.]

Communio Ps LXXVII:29-30

Manducavérunt, et saturári sunt nimis, et desidérium eórum áttulit eis Dóminus: non sunt fraudáti a desidério suo. [Mangiarono e si saziarono, e il Signore appagò i loro desiderii: non furono delusi nelle loro speranze.]

Postcommunio

Orémus. Quaesumus, omnípotens Deus: ut, qui coeléstia aliménta percépimus, per hæc contra ómnia adversa muniámur. Per eundem … [Ti preghiamo, o Dio onnipotente, affinché, ricevuti i celesti alimenti, siamo muniti da questi contro ogni avversità.]

LO SCUDO DELLA FEDE: I. LA FEDE

I.

L A FEDE.

Il dovere di credere. — La fede in accordo con la ragione. — Con la libertà. — Con la scienza. — Perché taluni non credono. — Ciò che bisogna fare per credere.

 [A. Carmignola: Lo scudo della Fede, S.E.I. Ed. Torino, 1927]

 [Avviso il lettore che i dubbi, le difficoltà, le obbiezioni, le parole tutte dell’avversario saranno segnate con una lineetta, che serve pure ad indicare il meno, il difetto, il mancamento; e le risposte si indicheranno con una stelletta, simbolo della luce e della verità.]

– E quali cose ho io il dovere di credere?

Hai il dovere di credere a molte cose, ma qui annunziandoti il dovere di credere intendo di dire che devi credere alle verità, che insegna la Chiesa Cattolica.

— Io penso di compiere benissimo questo dovere, perché io suppongo che la più parte delle cose che la Chiesa Cattolica insegna, siano verità, e talune di esse non ho nessuna difficoltà a crederle tali.

Ed io debbo dirti invece che se tu fai così, adempì malissimo, anzi non adempì affatto il dovere di credere.

— E perché?

Primieramente perché tu pensi che in quanto alle verità della fede cristiana si possa prendere la parola credere nel senso del linguaggio ordinario, in cui tale parola per lo più non vuol dir altro se non supporre, immaginare, ritenere come possibile, non escludendo per tal guisa il dubbio e il timore dell’inganno. E poi perché tu ritieni che basti credere solamente alcune delle verità, che la Chiesa insegna.

— Che cosa vuol dunque dire in quanto alle verità che insegna la Chiesa la parola Credere?

Vuol dire confessare e tenere una cosa senza esitazione di sorta, senza assecondare il minimo dubbio, senza concepire il fin piccolo timore di non essere con la mente abbracciati alla verità.

— Ed è per tutte le cose insegnate dalla Chiesa cattolica che si deve credere cosi?

Per tutte le cose insegnate dalla Chiesa cattolica come verità di fede, cioè da doversi assolutamente credere, pena a non essere cristiano cattolico. Se tu negassi .anche una sola verità, o di una sola dubitassi, sarebbe lo stesso come se le negassi o ponessi in dubbio tutte.

— E perché mai?

Supponi un po’ che tornato tu da un viaggio mi raccontassi molte cose da te vedute con tutta certezza, e che io a talune di esse credessi e a tali altre ti dicessi di non voler credere, non ti darei più o meno gentilmente del bugiardo o dell’imbecille? e non ti recherei un’offesa come se non credessi a nulla di quanto tu narri?

— È… offesa durissima.

Allo stesso modo chi rigetta anche una sola delle verità della fede dà dell’ingannatore o dell’ingannato a Dio stesso, nega la sua sapienza ed infallibilità.

— A me pare però che sia difficile credere così a tutte le cose, che la Chiesa insegna come verità di fede.

Ti pare a primo aspetto, ma così non è. Dimmi, tu sei cristiano, non è vero?

— Sì perché ho ricevuto il Battesimo.

Dunque se sei cristiano, avendo ricevuto il Battesimo, sei anche atto a credere tatto ciò, che il cristiano deve credere. E quello che è di te, lo è di tutti gli altri cristiani.

— Non capisco.

Col diventar cristiani nel ricevere il Battesimo si riceve altresì da Dio in dono, senza alcun nostro merito, la virtù della fede, ossia una forza, una potenza, una capacità di credere a Dio e a tutte le verità, che Egli ci ha rivelate e che ci insegna per mezzo della Chiesa; virtù, forza, potenza, capacità, che l’uomo può e deve mettere in atto col concorso della sua volontà appena sia giunto all’uso di ragione col prestare il suo assenso alle verità suddette.

— Ed è questo un dovere assoluto?

Senza dubbio, perché sebbene tra le verità della fede ve ne siano di quelle, che noi con la stessa ragione possiamo riconoscere, come ad esempio che Dio esiste, che Egli è il Creatore dell’universo, che premia i buoni e castiga i cattivi, ed altre simili, non di meno ve ne sono molte altre, come ad esempio la Trinità e la reale presenza di Gesù Cristo nell’Eucaristia, che con la nostra ragione non potremmo riconoscere, se Dio non ce le avesse rivelate, e che quantunque rivelate non possiamo comprendere. – Ma tanto le une come le altre Iddio vuole assolutamente che le crediamo, e solo a questa condizione noi saremo salvi, avendo detto San Paolo a nome di Dio che « senza la fede è impossibile piacergli » (V. Lettera agli Ebrei, capo XI, versetto 6), ed essendo stato insegnato esplicitamente da Gesù Cristo che « colui il quale non avrà creduto sarà condannato » (V. Vangelo di S. Marco, capo XVI, versetto 10).

— Se è così, i bambini che muoiono prima dell’uso della ragione, andranno perduti?

Oh! no, caro mio, se essi hanno ricevuto il Battesimo. Perché essi, ancorché non arrivati all’uso della ragione, per il Battesimo posseggono la fede, di cui sono capaci. Già te l’ho detto che con questo sacramento riceviamo il dono della fede. È vero che fino all’uso della ragione rimane in noi mia virtù abituale, cioè un’attitudine a credere, senza che si sia ancora capaci di metterla in esercizio; è vero altresì che appena giunti all’uso di ragione dobbiamo renderla attuale col prestare l’assenso nostro alle verità cristiane, che impariamo a conoscere; ma precisamente perchè il bambino non ha l’uso della ragione per prestare tale assenso, può, morendo, salvarsi lo stesso e realmente si salva col dono della fede abituale.

— Ho inteso.

Ecco dunque come la fede ci è assolutamente necessaria e doverosa per salvarci.

— Ma la fede non è forse contraria alla ragione?

Così si dice, ma così non è. Non t’ho io appreso che la fede è dono di Dio? E la ragione non è data all’uomo dallo stesso Iddio, che ci ha creati ragionevoli?

— Così è senza dubbio.

E vuoi dunque che Iddio, il quale è l’autore sì della fede come della ragione, le metta in urto tra di loro? E poi non risiedono tutte e due nella stessa casa, che è l’intelletto? E non hanno forse per oggetto la stessa cosa, ossia la verità? La fede adunque e la ragione sono due sorelle nate dà un medesimo padre, abitanti nel medesimo luogo, aventi lo stesso oggetto, con questo solo divario che la ragione ha per oggetto le verità naturali, la fede quelle soprannaturali, la ragione ad un certo punto s’arresta e la fede invece si spinge più innanzi a contemplare un orizzonte più elevato e più vasto.

— Ma appunto perché la fede va assai più in là che non possa andare la ragione, non l’avvilisce forse?

Oseresti tu dire che i telescopio avvilisca l’occhio umano, perché lo aiuta a discoprire quegli astri, che sono invisibili ad occhio nudo?

— Eh! no. Tutt’altro!

Dunque non devesi neppur dire che la fede avvilisca la ragione, mentre invece l’aiuta a discoprire e conoscere tante verità, a cui di per sé non potrebbe giungere. « Non avete mai visto, dice a questo proposito un illustre apologista, in giorno di festa pubblica qualche buona e robusta figlia del popolo pigliare la sua piccola sorella tra le braccia e sollevarla al di sopra di una moltitudine di teste curiose, affinché potesse a suo agio contemplare una maestà che passava? Ecco la fede: allo stesso modo essa piglia tra le sue gagliarde braccia la sua piccola sorella, la ragione, e la solleva al disopra del mondo oscuro della natura, affinché possa contemplare il mondo luminoso del soprannaturale. » (Monsabrè). -E non solo la Fede aiuta la ragione a discoprire le verità soprannaturali, ma l’aiuta, eziandio a conoscere più presto e con tutta certezza le verità d’ordine naturale, le quali altrimenti non potrebbero conoscersi se non con grande difficoltà e dopo lungo studio, massime trattandosi di gente del popolo. – Ma anche la ragione rende dei servigi alla fede. È a lei che spetta di stabilire la verità della fede, cioè « è dessa che deve informarsi diligentemente del fatto della rivelazione, onde essa sia certa, che Dio ha parlato, e così possa offrirgli una sommissione ragionevole, come sapientemente insegna l’Apostolo » (Pio IX, Enciclica del 9 novembre 1846). Essa inoltre illustra e dilucida le parole oscure della fede, scioglie le difficoltà che si possono fare, trae le conseguenze da principii dalla fede stabiliti, coordina tra di loro tutte le verità rivelate, eccetera, eccetera. – Di modo che si deve dire, che quantunque la fede sia al di sopra della ragione, tuttavia non può esistere tra loro né dissenso, né separazione, essendo esse ordinate ad aiutarsi scambievolmente.

— Vuol dire adunque che ognuno affine di pervenire alla fede potrebbe e dovrebbe valersi della ragione.

Adagio, caro mio. Qui bisogna distinguere. Se si tratta di un pagano, di un buddista, di un mussulmano, di un razionalista, allora sì, affin di pervenire alla fede potrà e dovrà usare della ragione. È dessa che lo deve illuminare e disporre a ricevere la luce delle verità rivelate. Ma se si tratta di un cristiano cattolico, che crede, non gli è certamente lecito di sospendere l’assenso alle verità della fede o di mettere in dubbio la loro certezza per ricostruirne l’edificio con la sola ragione.

— Dunque se io, che son cristiano cattolico, le muovo difficoltà contro la fede unicamente per averne più che sia possibile le prove razionali faccio male?

In questo caso non fai male, purché tu tenga sempre salda la fede; giacche è pur certo che il cristiano cattolico, senza dubitare minimamente della sua fede, può con la ragione ricercare ed esaminare tutte le prove razionali, su cui le verità della fede si appoggiano, ossia pur tenendo fermissimamente tali verità cattoliche può, per confermarsi sempre più in esse e difendersi dagli assalti contro di esse, farne una specie di controprova.

— Ho inteso. Vuol dire adunque che possiamo continuare nei nostri ragionamenti.

Anzi faremo cosa utilissima.

— Non si potrà negare tuttavia che la fede sia contraria alla libertà dello spirito umano. Ho letto in un libro queste parole : « Bisogna serbar la mente integra. La integrità della mente ne richiede la libertà. È dovere trovarsi libero nel proprio pensiero. Pensiero violentato, tiranneggiato, è pensiero distrutto; il pensiero vuole la libertà come i nostri polmoni l’ossigeno, come la pianta la luce ». E dunque?

Senti, caro mio, le parole che tu hai lette, sono molto altisonanti. Ma se siano giuste è altra cosa. E qui facciamo bene ad intenderci. Se chi dice che lo spirito, il pensiero umano dev’essere libero, intende di dire che esso non può essere in alcun modo fisicamente forzato ad ammettere qualsiasi proposizione vera o falsa, dice cosa di tale evidenza, che non ha da farne poi tanto chiasso. Lo capisci questo?

— Lo capisco benissimo. È più che certo che nella mia mente posso fare i pensieri che voglio, e posso pensar bene e giusto o pensar male e falso senza che alcuno con la forza materiale, magari con la spada alla mano, possa impedirmelo.

Hai capito perfettamente. Ma se invece chi dice che il pensiero deve essere libero, che non deve essere violentato, tiranneggiato, intende di dire che la mente umana è in diritto di respingere qualsiasi proposizione, non solo le false, ma anche le vere, pare a te che dica giusto, o non piuttosto che abbia perduto il senno? Hai tu la libertà morale, vale a dire conforme a giustizia, di dire che una camera quadrata è rotonda? che il sole è buio pesto? che due più due fanno tre? che truffare il prossimo è cosa ottima? che ammazzare un innocente è l’azione più meritoria?

— Se io pretendessi d’avere tale libertà, temerei di essere mandato al manicomio.

  E perché?

— Perché se sono fisicamente libero di pensare quelle assurdità, non lo sono moralmente.

Benissimo. Ora ciò che è delle verità d’ordine naturale, lo ha da essere altresì di quelle religiose e d’ordine soprannaturale. Quando la ragione stessa ci ha fatto conoscere che si tratta propriamente di verità, perché rivelateci da Dio, che non s’inganna né può ingannarci, la mente non è più nella libertà morale di respingerle. Se non vuole infrangere la stessa legge di natura, che impone all’uomo di star soggetto a Dio in tutto il suo essere, non solo nella sua volontà, ma eziandio nel suo intelletto, nella sua mente, nel suo spirito deve assolutamente credere alle verità, che Dio gli ha rivelate come tali. E se non ci crede, ben sì capisce che fa male, malissimo. Del resto credendo alle verità, che Dio ci ha rivelate e che la Chiesa c’insegna, è vero che si faccia cosa contraria alla integrità, alla libertà dello spirito? è vero che si subisca una violenza, una tirannia? Di’ un po’: la strada è contraria al viandante, perché lo guida alla sua meta? le vene e le arterie sono tiranne al sangue, perché lo fanno convenevolmente circolare? e per servirmi dei paragoni del libro che hai letto, l’ossigeno è nemico ai polmoni, perché li fa ben respirare? e la luce è violenta contro la pianta, perché la disseta de’ suoi gaz e la incolora?

— Oh! tutt’altro

Così nessuno mai potrà dire, che la fede sia contraria alla integrità e libertà del pensiero, che lo violenti, che lo tiranneggi, perché lo conduce alla integrità del vero e lo fa vivere in esso. Sai che cosa è contrario allo spirito umano, che cosa lo violenta, e tiranneggia? È l’errore e l’ignoranza. Queste sì che sono catene che impediscono alla mente di levarsi su a spaziare liberamente nel campo della verità. Epperò coloro, che non vogliono saperne di credere, sono dessi propriamente, che nell’atto che si proclamano liberi pensatori, si rendono pensatori incatenati.

— Ciò è verissimo. Ma ho pur inteso varie volte a dire che la fede è contraria alla scienza.

E lo si dice e si scrive tanto, che questa insensataggine in certi libri, che pure passano per opere scientifiche, è diventato un luogo comune. Ma io ti dico invece che la fede è contraria all’ignoranza, perché ci fa conoscere le più grandi verità, che senza di essa non conosceremmo.

— Ma non è forse vero che la fede arresta la mente nelle cognizioni e impedisce il progresso scientifico?

La fede arresterà la mente, perché non cada negli errori e nelle falsità, ina non le impedirà mai di far acquisto della scienza e di progredire in essa.

— Dunque anche chi crede può studiare e diventare sapiente?

Perché no? Mancano forse i sapienti tra i credenti? Lo stesso D’Alembert, che fu miscredente, ha detto che la lista dei sapienti, che s’inchinarono alla fede, sarebbe interminabile. Non furono preti e frati, che nel medio evo oltre all’aver mantenuto in vita la classica letteratura scopersero la bussola, la polvere, la rotazione della terra, il movimento del cielo? E sempre, come anche oggidì, a far corona alla fede non si trovano un gran numero di filosofi, di poeti, di letterati, di scienziati d’ogni maniera? Potresti leggere a questo proposito una erudita conferenza del Padre Zham, che ha per titolo La Chiesa e la scienza, e vedresti come i più esimi cultori della scienza furono o ecclesiastici o fervidi credenti.

— E non c’è pericolo, che la scienza nel suo progredire arrivi a dimostrar falso qualche insegnamento della fede?

Quante volte si è pensato ciò dai nemici della fede! Ma poi… sempre furono scornati. Senti che cosa scrive in proposito il Canchy, uno dei più illuminati cultori della scienza: « Coltivate con ardore le scienze astratte e naturali; decomponete la materia, mettete in mostra le meraviglie della natura, esplorate se è possibile ogni angolo del creato; sfogliate in seguito gli annali delle nazioni, la storia degli antichi popoli, consultate dovunque gli antichi monumenti dei secoli passati. Ben lungi dallo spaventarmi per queste ricerche io provocherò di continuo gli scienziati, li spingerò a farlo con ogni sforzo; io non temerò che la verità, si levi a contraddire la verità o che i fatti e i documenti raccolti siano mai in urto coi nostri libri rivelati ». Ecco la bella sfida che un uomo di fede fa alla scienza. Credilo, amico mio, qui l’esito del passato è garante dell’avvenire, e in ogni passo che continuerà a dare la scienza la fede acquisterà una nuova e più solenne conferma della verità.

— Come mai adunque, per quel che sento a dire, vi sono tanti professori, tanti uomini d’ingegno, che disprezzano la fede nei libri che scrivono e dalle cattedre da cui insegnano?

Anzi tutto non devi credere che costoro siano veramente tanti come si dice. Non di meno ve ne sono, e sommandoli insieme fanno un certo qual numero. Di essi ve n’hanno di coloro, che sembrano provare un gusto matto, se a proposito ed a sproposito nelle loro lezioni possono entrare a sparlare di preti, di Chiesa, di fede per lanciarvi contro qualche vieta calunnia o per coprire tutto ciò del loro ridicolo. Costoro pur troppo dimostrano di essere dominati dalla brutta superbia, che li fa credere uomini superiori anche ai più grandi geni del Cristianesimo, e che pensano di avvilirsi nel rispettare quella fede, che tali gemi hanno creduto e seguito. Ma taluni di essi, negli errori che insegnano contro la fede e nel disprezzo, a cui la fanno segno, non sono altro che povere vittime dell’ignoranza, in cui si trovano rispetto alle sue verità. Certamente, essi conosceranno molte cose, ma non conoscono quel che più importerebbe di conoscere, sicché per questo riguardo un bambino, che crede a Dio suo creatore, e sa perché Dio l’ha creato, è di gran lunga più sapiente di loro. Non conoscendo la fede la snaturano e la combattono.

— Forse però nel combatterla saranno convinti di far bene?

Non credo. Perché ordinariamente al punto di morte si mostrano convinti di aver fatto male e mutano sentimenti. Un professore della città di Parigi, non sono molti anni, il senatore Littré, dopo essere stato maestro di materialismo, dopo avere fatta esplicita professione di sfacciata incredulità, nei suoi ultimi giorni ritornò a Dio, ed abiurati i suoi errori, morì pieno di fede.

— E perché vi sono ancora al mondo tanti altri che non credono?

È sempre la stessa cosa. A superbia ed ignoranza, aggiungi indifferenza, rispetto umano, passioni e scostumatezza, ed avrai le cause principali e vere della incredulità.

— Dunque: superbia…

Sì, vi sono alcuni talmente dominati da sì detestabile vizio, che non vogliono saperne di credere, solo perché non vogliono fare ciò che i più fanno. Crederebbero di abbassarsi, di avvilirsi ad essere uomini di fede, epperò van predicando che la fede è buona per le donne, pei fanciulli e per il popolo, quasi che non avessero anche gli uomini, gli adulti e le persone colte un’anima da salvare e che non si può salvare senza la fede. Ma anche per costoro si avvera, che chi si esalta sarà umiliato. E non è una umiliazione il credere che essi fanno, per lo più, alle sonnambule, ai mediums, agli spiritisti, alle tavole parlanti, al diavolo? Non è un’umiliazione il mettersi alla fin fine a paro delle bestie? Ascolta: Un giovane reduce da Parigi, ov’era stato agli studi, trovandosi in conversazione in casa d’una buona e brava signora, faceva superba mostra di miscredenza. E siccome non lo si approvava, prese a dire: « Come? sareste voi di quegli imbecilli, che credono all’insegnamento del prete? » « Scusi, rispose prontamente la padrona di casa, se non siamo tutti del suo parere. Vi sono due individui però, che al pari di lei non credono a nulla, e senza che siano andati a Parigi. « Chi sono dessi? li voglio tosto abbracciare ». « Sono il mio cane ed il mio cavallo ». – È facile immaginare con quanti palmi di naso rimanesse quel giovane.

— E dopo la superbia, l’ignoranza.

Sì, altri vi sono, una specie di semisapienti, che di religione non sanno se non ciò che hanno letto su pei romanzi e nei giornali, che danno scherni invece di prove e con ciò solo in nome di quella tintura di scienza, si credono in diritto di impancarsi a dottori e giudicar favole le verità della fede. A ciascuno di costoro però si potrebbero rivolgere i versi di Dante:

Or tu chi se’ che vuoi sedere a scranna

Per giudicar da lungi mille miglia

Con la veduta corta d’una spanna?

(Paradiso, Canto XIX) .

Al qual proposito si racconta che un uomo trovandosi un giorno in ferrovia con una signora, uditala vantarsi della sua incredulità, le domandò: « Ma avete voi studiata la religione? » e che quella rispose: « Perfettamente! Ho letto l’enciclopedia, le opere tutte di Voltaire, Diderot, d’Alembert ». « E Bossuet, Fénelon, Wiseman li avete Letti? » « Le pare!… Leggere quelle cose! Non le ho neppur mai vedute ». « Allora, o signora, perdonate, ma non avendo letto il prò e il contro, non potete più essere un’incredula, ma un’ignorante ». Risposta dura, ma vera.

— E dopo la superbia e l’ignoranza anche l’indifferenza.

Precisamente. Taluni pur troppo della fede non si danno alcun pensiero. I comodi della vita, l’amore sfrenato ai guadagni, il godimento dei piaceri, gli affari, i viaggi, i negozi, gli studi, gli uffizi, le preoccupazioni soverchie dei materiali interessi, e cose simili li inchiodano in una massima indifferenza per le cose di Dio e dell’anima. E se loro ne spunta in mente un pensiero, lo scacciano tosto come importuno, dicendogli quel che dissero taluni degli Ateniesi a S. Paolo, quando nell’Areopago prese a predicare le verità della fede: « Ti ascolteremo sopra di ciò un’altra volta ». – Altri ancora respingono la fede per viltà, per paura del rispetto umano. Al vederla tanto schernita, al sentir chiamare sciocchi ed ipocriti quelli che la seguono, al riconoscere che l’empietà è considerata come diploma di capacità per ottenere impieghi, favori, eccetera, taluni si spaventano e benché in fondo al cuore sentano il dovere di credere, al di fuori mostrano tuttavia di non credere, e non di rado si atteggiano ad increduli peggiori degli altri.

— Questo è vero. Non capisco però come anche le passioni…

Le passioni anzi sono la sorgente precipua della incredulità. Chi ha corrotto il cuore avrà altresì guasta la mente. Volendo continuare nella sua mala vita fa ogni sforzo per non credere alle verità della fede affine di non averle a temere. Rousseau diceva: « Datemi un uomo, che viva in modo da desiderare che il Vangelo sia vero, ed egli crederà nel Vangelo ». Oh! se tra le verità della fede non ci fosse quel Decalogo,- specie con quei due comandamenti 6° e 7°, si crederebbe dalla più parte con la massima facilità! L’incredulità invece è un guanciale comodo per la disonestà e per l’ingiustizia.

— Dunque se tanti non credono, non è propriamente perché siano intimamente persuasi di non dover credere.

No, non è propriamente così. La realtà dolorosa è questa, che costoro sono divenuti

miseri schiavi di qualche turpe passione e ne sono crudelmente signoreggiati.

— E se io non potessi credere?

Ti risponderò che questa sarebbe una pura illusione, che non ti scuserebbe un dì al tribunale dell’inesorabile Giudice. So bene che c’è chi dice: Io vorrei credere, ma non posso. Ma io gli domando: Che mezzi hai tu usato per giungere alla fede? Chi vuole il fine vuol pure i mezzi, e chi non cura i mezzi mostra evidentemente, che poco gl’importa del fine. Or questo è il caso tuo, se non hai la fede. Hai tu studiato la religione con amore sincero della verità? – Ti rechi ad ascoltare umilmente la parola di Dio, dalla quale appunto, come insegua S. Paolo, viene la fede? (V. Lettera ai Romani, capo X, versetto 17). Hai consultato qualche bravo sacerdote per esporgli i tuoi dubbi, per sciogliere le tue difficoltà? Hai preso tra mano qualche libro di religione, di apologetica cristiana? Hai smessa la lettura di certi romanzi, di certi giornali, pieni zeppi di errori, di accuse, di calunnie contro la fede? Ti sei liberato da certe compagnie, da certi convegni, da certe conversazioni, ove la fede è posta in ludibrio? – Hai cominciato a mondare il tuo cuore da certi vizi, da certe passioni? – Ti sei rivolto a Dio a pregarlo che illumini la tua mente? Fino a che non avrai fatto nulla di ciò, se non puoi credere la causa non è che tua.

— Ho inteso. E in quanto a me, fra l’altro, desidero appunto che ella continui ad illuminarmi.