Gnosi, teologia di satana
“omnes dii gentium dæmonia“
GNOSI ED ISLAM (4)
[da E. Couvert: “La gnose universelle”, cap. II]
Islam, veicolo della gnosi:
A. – Mediante la FILOSOFIA
Non c’è una filosofia araba e, non se ne dispiaccia Henry Corbin, non ci sono neppure filosofi islamici o musulmani. Gli scrittori musulmani che hanno compilato i commentari dei filosofi greci erano sia iraniani, come al-Ghazzali, al-Kindi, sia berberi, come ibn Tofail, ibn Badja, sia spagnoli come ibn Roschild, che gli occidentali hanno chiamato Averroè. Essi infatti non esprimono un pensiero personale, un pensiero autoctono elaborato secondo concetti originali. Essi si contentano di tradurre e commentare semplicemente i filosofi anteriori. Ora noi vedremo che essi sono in realtà prigionieri del pensiero neo-platonico, sprofondati nella gnosi manichea, quella che si era già diffusa in oriente attraverso il Buddhismo. – Gli arabi avevano stabilito dall’VIII al X secolo una scuola di traduttori ad Harran, a sud di Edessa, al confine tra Siria e Mesopotamia. Essi pretesero di risalire ad Ermete Trismegisto e ad Agathodaimon (il demonio buono?!?). Ora noi sappiamo che nei manoscritti dell’Asia centrale, Ermete è un avatar di Mani, che di la è passato presso gli Arabi ove è stato identificato come Idris o Hénoch. Il loro dottore più celebre, Thabit ibn Qorra (morto nel 901) aveva scritto e tradotto in siriaco, poi in arabo, un libro delle “Istituzioni di Ermete”, parafrasi della rivelazione do Ermete Trismegisto, già ben conosciuto. Egli aveva pure ugualmente tradotto in arabo delle opere di matematica ed astronomia. I Sabei avevano da parte loro inondato il mondo musulmano con molte opere dette “pseudoepigrafi”, degli pseudo-Platone, pseudo-Plutarco, pseudo-Tolomeo, pseudo-Pitagora, etc., che furono la fonte di una vasta letteratura neo-platonica in Asia. Si deve a loro pure uno pseudo-Dionigi, attribuito a S. Dionigi l’Aeropagita. – Citiamo due pseudoepigrafi che ebbero un’incidenza considerevole in Occidente, e che hanno avvelenato le università cristiane. Il primo è una “Teologia detta di Aristotele”, tradotta in arabo da una versione siriaca del IV secolo. È questa una parafrasi delle tre ultime enneadi di Plotino, e cerca di dimostrare un accordo tra Platone ed Aristotele ponendosi alla base del neo-platonismo in Islam. Il secondo è il “libro sul bene puro”, tradotto in latino nel XII secolo da Gerardo da Cremona, con il titolo “Liber de causis” o “liber Aristotelis de expositione bonitatis puræ”, ed è infatti un estratto dell’ “Elementatio théologica” del neo-platonico Proclo. Si è fatto credere a tutto il Medio-Evo che Aristotele fosse platoniano. I Sabei hanno ripreso cioè il metodo degli gnostici che consisteva nell’attribuire dei testi fittizi agli autori antichi celebri, per dar loro così una forte pubblicità. – Bisogna notare egualmente due opere ermetiche che furono molto lette in terra islamica: Il “Libro del Segreto della Creazione e tecnica della natura” attribuito dall’autore anonimo ad Apollonio di Tiane (Ma certamente, ritroviamo qui in fondo sempre gli stessi nomi visti nella gnosi). Esso contiene la celebre “Tavola di Esmeralda (Tabula smaragdina), e lo “Scopo del Saggio” (Ghâyat al Hakim), che offre informazioni sulla liturgia dei Sabei e tutto un insegnamento sul tema della “Natura perfetta”. La Natura perfetta è l’entità spirituale (Rûha-nîyar), l’Angelo del filosofo. Sohrawardi commenta questa visione di Hermés: è alla sua quiete che se ne va il pellegrino delle epopee mistiche persiane d’Attar. – Tutti questi testi insegnano null’altro che il panteismo della gnosi. Ascoltiamo Abû Yasid … Bastamî: « io contemplavo il mio Signore con l’occhio della certezza dopo che mi ebbe allontanato da tutto ciò che è altro da lui ed illuminato della Luce. Egli mi fece allora conoscere le meraviglie del suo segreto, rivelandomi la sua ipseità (il suo Sé). Io contemplavo il mio “me” con la sua ipseità. La mia luce impallidì sotto la sua Luce, la mia forza svanì sotto la sua forza, la mia potenza cessò sotto la sua Potenza. Così io vedevo il mio “me” attraverso il suo Sé. La grandezza che io mi attribuivo, era in realtà la sua grandezza, la mia progressione era la sua progressione, etc. ». Si potrebbe continuare a lungo su questo tema dell’identificazione con il mondo divino. – Sohrawardi è vissuto nel XII secolo. Egli era nato nel 1155 a Soharaward, una città del nordovest dell’Iran nell’antica Media. Egli è discepolo di Hermès, di Platone, di Zoroastro. « C’era presso gli antichi Persi, scrive, una comunità che era diretta da Dio. È da lui che furono condotti degli eminenti saggi, a differenza dei Maguse. È la loro alta dottrina della Luce, dottrina che testimonia dell’esperienza di Platone e dei suoi predecessori, e che io ho resuscitato nel mio libro intitolato la “Teosofia orientale” (Himkat al Iskrak) ed io non ho avuto predecessori per un progetto tale ». Egli resuscitò dunque le dottrine dei Saggi della Persia concernenti i Principi della Luce e delle Tenebre ». Questa comunità della Luce, perseguitata dai Magi, adoratori del Fuoco, che avevano aizzato contro di essa il re sassanide, non è altro che la Chiesa manichea. – Sohrawardi aveva dapprima seguito la dottrina di Aristotele, ma ebbe una visione estatica. Anche egli fu “illuminato”. Gli viene mostrato la moltitudine di « questi esseri di luce che contemplavano Hermés e Platone e queste irradiazioni celesti, fonti della luce della gnosi e della sovranità della Luce di cui Zoroastro fu l’annunciatore ». Egli riprese la formula modificata di Socrate: « Svegliati a te stesso! » Egli insegnava una iniziazione progressiva per mezzo della conoscenza, una illuminazione con la quale l’anima conosce se stessa e conosce ogni cosa con la sua luce interiore. Così tutto è perfettamente gnostico. – Nel VI secolo l’imperatore Giustiniano aveva chiuso le scuole filosofiche di Atene. Il pensiero greco era emigrato in Siria, ad Edessa. I filosofi siriani l’avevano trasmessa agli arabi che ne pubblicarono i commentari a Bagdad: Al Farabi nel X secolo, Avicenna nel XI secolo, Averroè nel XII secolo a Toledo in Spagna. – Ora il pensiero di Aristotele era stato rivoltato e falsato dalla pubblicazione di opere neo-platoniche che gli avevano attribuito i Sabei, di modo tale che la coesione del suo sistema metafisico era frantumata ed il miscelaggio mal fuso di tesi inconciliabili andava a sconvolgere l’insegnamento delle università cristiane. – Nel 1085, i cavalieri cristiani di Spagna, aiutati dai Crociati franchi in vista della “reconquista”, si impadronirono di Toledo e ne fecero la capitale del regno cristiano in modo tale che mai più i saraceni poterono riconquistarla. Fu allora che il vescovo francese Raymond de Sauvetat (1126-1151 circa) stabilì a Toledo un collegio di traduttori per riprendere nelle università d’Occidente il pensiero e la scienza degli arabi. Il giudeo Ibn Daoud traduce dall’arabo in “romanzo” (la lingua spagnola popolare) i libri arrivati da Bagdad. Eli ignorava il latino: è Gondisalvi che è un buon latinista, ma ignora l’arabo, a continuare l’operato e trascrivere il “romanzo” di Ibn Daoud in latino. – A partire dal XIII secolo, la filosofia di Aristotele, rivista e corretta dagli Arabi, si intrufola nelle università. Aristotele, come dice bene il p. Gabriel Théry, arriva a noi “non vestita con peplo o con toga, ma ricoperto da un mantello incappucciato e come copricapo un fez arabo”. Fu una vera conquista spirituale dell’Islam egli precisa. Ci fu così una vera rivoluzione nelle università. Il Medio-Evo viveva fino ad allora sulla filosofia di Platone: questi non vede nella natura se non dei segni il cui significato si trova nel mondo ideale, che sarebbe il solo reale, il mondo delle idee pure. Essa conduce dunque ad un simbolismo sistematico e delirante. Tutto è simbolismo, niente di questo mondo quaggiù è reale. È “il mito della caverna”, ben conosciuto. Si resta stupefatti davanti al successo di un pensiero sì assurdo e sì contrario al buon senso naturale. Ma Aristotele, al contrario, naturalista, considera che la natura è veramente reale e contiene in essa la sua intellegibilità. Si scopriva infine la natura che il XII secolo si contentava di interpretare simbolicamente. Aristotele usava la dimostrazione, processo proprio della ragione. La superiorità di questa metafisica razionale sui miti platonici era così grande che essa doveva necessariamente averne la meglio. Aristotele diviene infatti “il filosofo” per eccellenza. – Orbene, Aristotele era stato “rivisto e corretto” da Averroè; quest’ultimo aveva attribuito l’idea di un intelletto-agente unico per tutti gli uomini: « C’è, scrive Etienne Gilson, nella sua “Filosofia del Medio-Evo”, un solo ed unico intelletto-agente per tutta la specie umana, ed è per la sua azione in noi che pensiamo … l’immortalità non appartiene che a questo intelletto-agente comune a tutta la specie umana, cioè l’immortalità sparisce, e l’individuo in quanto tale svanisce al momento della morte ». Questo intelletto-agente unico non è altro che, in linguaggio scolastico, l’ “anima universale del mondo” insegnata dai nostri gnostici, “ … io non penso da me stesso, bensì mediante un’anima divina alloggiata in me. Le mie idee non sono l’opera elaborata da una facoltà intellettuale, esse sono ricevute da intelligenza divina che agisce in me. Esse sono dunque necessariamente vere. L’errore è impossibile. La nostra anima è una Spirito-Santo. Il nostro corpo non è che un carapace di materia unita temporaneamente ad un’anima universale. Al momento della morte, la nostra individualità scompare. È il ritorno al “niente”, il “Nirvana” dei buddhisti, seguito dal ripiombare nel Gran tutto. Non si potrebbe essere più gnostici di così! – ne seguiranno le conseguenze: se l’uomo non pensa da se stesso, non è padrone dei suoi atti. È l’anima universale o intelletto-agente che è il solo responsabile … non c’è il libero arbitrio. Applichiamo questo all’Islam. È Allah che interviene costantemente nella vita umana, secondo il suo beneplacito: « Noi abbiamo attaccato, dice il profeta, al collo di ogni uomo il suo uccello (il suo destino) ». « Allah, ci spiega Louis Gardet, è il solo essere ed il solo agente. Il creato non saprebbe avere un reale valore ontologico. Il bene ed il male non esistono nelle cose ma per il comando del Signore. E Allah guida nel bene che gli piace ed abbandona nel male chi a lui piace. » – Poiché non c’è attività spirituale propria a ciascuno, è la comunità, l’«umma» che pensa, che ha ricevuto il Libro. Non c’è magistero dogmatico nell’Islam, perché tutti pensano con lo stesso testo perpetuamente recitato. Per di più, non c’è una conoscenza “naturale” de mondo. Allah non ha dato agli uomini una natura intellegibile delle cose che ognuno deve “decifrare”, che deve “leggere” nelle creature (è questo il senso della parola “intellegere”). Non c’è una realtà permanente, coerente e significativa nel mondo creato. Dio solo può insegnare. Tutta la scienza della natura si riduce ad una fede ed è accettata senza un atto di comprensione naturale. – Allora ben si comprende che le autorità ecclesiastiche si siano inquietate per una tale invasione, sì contraria alle verità naturali ed alla fede cristiana. Averroé, il panteista! Averroé l’anticristo! Le condanne si sono moltiplicate contro la filosofia di Aristotele. Il vescovo di Parigi ha pubblicato delle sentenze di condanna, anche contro San Tommaso d’Aquino, all’inizio del suo insegnamento. Resta a gloria di San Tommaso l’aver compreso che bisognava innanzitutto ristabilire il vero pensiero di Aristotele e per far questo, era necessario ritrovare il testo iniziale. Egli ignorava il greco, ma ottenne la traduzione diretta dal greco in latino operata da Guglielmo de Moerbeke. Ne sottomise il testo ad una esegesi rigorosa, letterale. Che differenza con quello di Averroé! Quest’ultimo apparve allora non come il commentatore eletto di Aristotele, bensì come il suo “depravatore”, il suo sovvertitore. Ci volle così un genio e Santo per “esorcizzare” in senso proprio Aristotele e “liberare” così l’Occidente da questa invasione gnostica sotto l’etichetta musulmana!
B. MEDIANTE LA LETTERATURA
I critici letterari che si sono dedicati seriamente al problema delle origini della letteratura medioevale, hanno notato con grande precisione l’apparizione improvvisa nel XII secolo di una epopea cortese e di romanzi cavallereschi, di cui non hanno potuto trovare le fonti nelle canzoni delle gesta e nelle epopee carolingie del secolo precedente. Essi hanno notato in tal soggetto, delle importanti strane novità nella scelta dei temi e nei modi di ispirazione tra le epopee franche ed i romanzi bretoni della Tavola Rotonda. – Louis Clédat, nella sua “Epopée courtoise” definisce così i due generi: « L’epopea cortese, leggera, brillante, piacevole ritratto delle feste di corte, dei tornei, delle spedizioni avventurose, che amavano moltiplicare le sorprese di un meraviglioso racconto delle fate, danno all’amore un posto preponderante; l’epopea nazionale, al contrario, grave, grandiosa, consacrata alle lotte nazionali, feudali o religiose, prende dalla religione le risorse della sua meravigliosa austerità, profondamente sprezzante delle passioni e delle delicatezze del cuore ». Si notano in questi romanzi del ciclo bretone, dei riquadri vivi, molto liberi in situazioni rischiose, con una compiacenza per il vizio. In Tristano, ad esempio, nessuna colpa per Isotta ed il suo complice, al contrario, entrambi sono vantati per la loro bellezza ed il loro spirito. Solo il re Marco è ridicolizzato. Si trova in questo romanzo una sorta di naturalismo tutto pagano, una finezza ed una cortesia ricercata nel disprezzo più odioso delle leggi morali e dell’insegnamento della Chiesa. Si è ugualmente sottolineato che non si ritrova in questi romanzi l’entusiasmo che suscitavano allora nei cavalieri franchi le lotte contro i saraceni, elemento che costituiva l’anima dei poemi carolingi; la cosa doveva far “drizzare le orecchie”. È nell’epoca in cui la cavalleria d’Occidente ingaggia i più energici combattimenti contro i saraceni, che una nuova letteratura si sforza di allontanare gli spiriti di nobiltà franca verso la vita raffinata ed effeminata delle corti d’amore. Si tratta dunque di un’operazione disarmante per gli spiriti, ben condotta secondo l’Oriente musulmano e che coincideva con l’invasione della nuova filosofia nelle nostre università cristiane. – Ora lo studio minuzioso delle fonti ci mostra che questa letteratura cortese è tutta estrapolata dagli scrittori musulmani del X e del XI secolo, ed è penetrata in Occidente dalla Spagna, così come la filosofia della stessa epoca. Si è notato ad esempio che il tipo del cavaliere errante, che raddrizza i torti, è tratto dal poema di Antar, raccolta di leggende risalente ad Haroun-al-Raschid, riunito sotto forma di romanzo da Erous Moyyed, medico e poeta, dedicato al visir di Zangui nel 1145. Autar, montato su di un cavallo [Abjer], è sempre pronto a sguainare la sua spada Dhamy gridando. “Io sono colui che ama Ibla”. Come ricompensa delle sue prodezze, il re Zoheir gli da il soprannome di Aboul-fauris, il padre dei cavalieri. Vi si trovano pure temi cortesi nel libro dei Re (Shah-nameh) di Firdousi, pubblicato nel 1010 e dunque anteriore alle prime epopee cavalleresche.
1°) L’amore cortese o “l’Eterno femminile”.
Nella storia degli gnostici, si vedono apparire, fin dalle origini, delle donne deificate: Simon mago viveva ad esempio con la famosa Elena di Tiro che personificava, egli diceva, l’Ennoia, cioè l’emanazione diretta di Dio; la fede in Elena ed in lui era la prima condizione per ottenere la salvezza. – Montano aveva le profetesse Priscilla e Massimiliana, porta voci dello Spirito-Santo. I catari ammiravano la loro dea, Esclarmonda de Foix. Petrarca vide apparire nel tempio di Santa Chiara, ad Avignone, la sua amica Laura; Boccaccio riceve la sua diletta Fiammetta (piccola fiamma!) nel tempio di Santa Chiara a Napoli; Dante trova anche la sua Beatrice in « un luogo in cui si cantano le lodi della regina della gloria ». Questa Beatrice è una sorta di dea che conduce il poeta attraverso il mondo della notte e degli eletti. Una certa Guglielmina era considerata all’epoca di Dante come un’incarnazione dello Spirito-Santo. Fra Dolcino si era aggregato una donna chiamata Margherita che egli chiamava sua “sorella spirituale”. Si potrebbe proseguire ancora per molto con il culto della donna divinizzata in tutta la tradizione gnostica attraverso i secoli. – Questo mito gnostico ci è tornato attraverso l’Islam, sotto forma di amor cortese cantato nella lingua d’oc dai trovatori. Si è cercato per lungo tempo donde venisse questo tema nel contempo erotico e religioso, sconosciuto prima del XII secolo nella nostra letteratura feudale. Due eruditi si sono dedicati al problema, Eugène Aroux, nel secolo scorso, e A. R. Nykl, più recentemente. Entrambi hanno riconosciuto in questa nuova moda letteraria una invasione del pensiero musulmano. – Nei poeti sufi, si trova dappertutto una mescolanza straordinaria, una singolare amalgama tra l’amore spirituale e l’esaltazione erotica. Gli annali di questa poesia che invoca sotto il nome di una donna la divinità stessa, di cui questa donna è il simbolo visibile, si aprono in Occidente con Platone che ha spiegato nel suo “Banchetto” che l’amore fisico degli esseri creati è il simbolo ed il primo grado dell’amore di Dio. – Si risale, in questa ricerca dell’amor cortese, a Ibn Dawoud che scriveva a Bagdad nel 910 un trattato sull’amore, il « Kitab-as-Zahra ». L’amore umano, egli dice è un male che bisogna dominare. È una fatalità fisica, una forza naturale, ineluttabile e cieca, senza ragione e senza scopo. È possibile ridurne i misfatti. L’atto carnale è reprensibile, il desiderio dominato è atto meritorio: « Quando anche la castità degli amanti, la loro lontananza dalla corruzione e la cura della loro purezza non fossero protetti dai precetti delle leggi religiose ed dal pregiudizio dei costumi, certo questo sarebbe ancora dovere di ciascuno, restare casto, alfine di eternizzare il desiderio che lo possiede con il desiderio che lo ispira ». Si riporta ugualmente un dialogo sull’amore tratto dai “Prati d’oro” di Mas’oudi, scritto nel VIII secolo. « L’amore emana dalla bellezza divina, dal principio sottile della sostanza. Colui che ama è illuminato da una fiamma interiore, tutto il suo essere risplende, le sue qualità lo pongono al di sopra degli altri uomini. L’amore non è vivificante se non per la sua sconfitta, non si compie che nella morte ». – A partire dal secolo XI, questa letteratura amorosa passa in Spagna. Ibn Hazm (994-1065) pubblica a Cordova il “Libro delle religioni e delle sette”. Nel 1022, a ventotto anni, egli redige “la collana della colomba”, ove si scopre tutto il linguaggio dei “fedeli d’Amore” della Linguadoca: lo zerbino, la sottomissione alla dama, il “lauzengier”, lodatore, la fedeltà, la malattia e la morte dell’amante. Questa sottomissione dell’amante alla sua dama è un omaggio platonico alla Bellezza, una esaltazione della dama divinizzata. « L’amante deve sottomettersi ai desideri della sua amata, come lo schiavo ed il domestico al suo padrone ». Il suo contemporaneo, Ibn Zaïdoun compone unicamente dei poemi alla poetessa Wallanda, figlia di un califfo, che era la prima “donna del suo tempo”. Nel secolo XII Abou Bekr Mohammed ibn Guzman celebra l’amor cortese in lingua araba popolare, il “zadjal” in cui mescola molte parole ed espressioni in linguadoca, cosa che suppone un pubblico mezzo arabo e mezzo cristiano. – Questa letteratura appare infine in Francia, a Poitiers dapprima, portata dai cavalieri del conte Guglielmo. Nel 1120 egli aveva condotto 600 cavalieri ad Alfonso il Battagliero, che aveva percorso con fulmineo percorso tutta la Spagna fino a Valenza e Grenada. Il conte Guglielmo aveva sposato una aragonese, la vedova di Sancio d’Aragona. Alla presa di Barbastro, gli autori arabi raccontano che i signori francesi si erano mostrati molto sensibili ai canti ed alle danze dei giovani moreschi e si erano comportati in maniera scandalosa. Nel corso di queste continue guerre, la due civiltà, l’araba e la cristiana, si sono compenetrate, soprattutto con i prigionieri ed i transfughi, anche attraverso i giudei. – Per il platonismo dei sufi, come per i “fedeli d’amore”, si produce una vera trasmutazione dell’amore umano, che appare come un’emergenza divina. – Ascoltiamo questo testo significativo di Ahmed Ghazzali (morto nel 1126 in Iran) : « Quando l’amore esiste realmente, l’amante diviene il nutrimento dell’amato; non è l’amato il nutrimento dell’amante, ma l’amato non può essere contenuto nella capacità dell’amante … la farfalla che è diventata l’amante della fiamma, ha come nutrimento, benché ne sia distante, la luce di questa aurora. È il segno precursore dell’illuminazione mattutina che la chiama e l’accoglie. Ma essa deve continuare a volare finché non la raggiunge. Quando è arrivato non è più lui a progredire verso la fiamma, è la fiamma che progredisce verso di lui. . non è la fiamma che gli è nutrimento, è lui che è il nutrimento della fiamma. E la vi è un gran mistero. Un istante fuggitivo, diviene il proprio amato (poiché è la fiamma). E la sua perfezione è questa ». – Praticare l’amore è divinizzarsi. Non si tratta di un amore puramente spirituale, ma ben carnale. I testi dei poeti sufi e dei trovatori sono formali, le descrizioni sensuali ed erotiche vi abbondano. L’abbraccio amoroso provoca in tutto il corpo una esaltazione della sensibilità generale che dà l’impressione all’amante di oltrepassare la sua condizione semplicemente umana e di partecipare ad un atto divino. Ecco anche perché egli cerca anche di trovare la morte nell’atto stesso dell’amore per eternizzare questa intuizione divinizzante. Ma di fatto, contrariamente a quanto affermano i “Fedeli d’amore” l’unione carnale ha una finalità naturale che è la procreazione, cioè la partecipazione all’azione creatrice di Dio. In un certo senso questo atto è divino, in ogni caso è sacro. La Chiesa l’ha santificato con il Sacramento del Matrimonio, ma non lo divinizza. – Ora i “fedeli d’amore”, come i poeti sufi, vogliono togliere all’amore la sua finalità. Essi lo dicono puro e casto, cioè sterile. Essi parlano di un amore “da lontano”, diremmo oggi di “un abbraccio riservato”. È la forma di contraccezione dell’epoca. Unitevi nell’atto carnale, ma non date la vita, cercate piuttosto la morte! In più questo amore è sempre adultero e praticato fuori dal matrimonio. Esso né l’esatto inverso. Non ci si può opporre più efficacemente al piano di Dio che rifiutando di trasmettere la vita che si è ricevuta dai genitori. Solo lucifero, “omicida e menzognero” fin dall’inizio, può interessarsi ad un tale scimmiottare del vero amore così come lo ha voluto Dio.
2°) Il linguaggio degli Uccelli.
Nel suo desiderio di divinizzarsi, l’uomo cerca dei mezzi per salire verso l’azzurro e per confondersi con la Luce per raggiungere il suo soggiorno originale, il cielo, dal quale è ricaduto con una catastrofica caduta. Ecco un tema gnostico ben conosciuto. L’uomo vorrebbe essere un uccello: il suo volo nell’aria sembra sottrarlo alla gravità, nell’azzurro ed ai raggi del sole appare rivestito da un alone d’oro e di luce. Egli finisce per confondersi con il cielo stesso. Ecco un simbolo dell’anima che, chiusa nel suo carapace corporeo, ma ricoperto di piume alla maniera di Icaro, cerca di raggiungere il mondo divino dal quale è stato rigettato. – Si conosce il celebre testo di Chateaubriand, in René: « Spesso ho seguito con gli occhi gli uccelli di passaggio che volavano al di sopra della mia testa. Immaginavo i confini ignorati, i climi lontani, ove essi si recano. Avrei voluto essere sulle loro ali. Un istinto segreto mi tormentava. Mi sentivo io stesso un viaggiatore, ma una voce dal cielo sembrava dirmi: Uomo, la stagione della tua migrazione non è ancora giunta; aspetta che il vento della morte si alzi; allora tu deplorerai il tuo volo verso queste regioni sconosciute che il tuo cuore domanda. Levatevi presto, tempeste desiderate, ché dovete trasportare René negli spazi di un’altra vita. » Questo testo illustra bene quello di Al Gazzali, citato in alto, che ci mostra la farfalla, che con il suo volo si congiunge alla luce del mattino per confondersi con la fiamma che l’accoglie e nella quale si perde. – Ora i poeti musulmani hanno giocato in questo registro con molto virtuosismo. Il poeta persiano Farid al Din Attar ha scritto un poema intitolato “Il colloquio degli uccelli” (Mantic al Tayr). Sotto la guida dell’upupa, gli uccelli si mettono alla ricerca di Simurgh che essi hanno scelto per re. Tutti periscono nel corso di questa ricerca, salvo trenta di essi (“si” in persiano vuol dire trenta e “murgh” significa uccelli). Questi sopravvissuti finiscono per riconoscere la divinità in se stessi e vengono assorbiti nel Simurgh divino per annientamento (fanâ) della loro individualità materiale. – Questo poema ha delle grandi analogie con un’altra opera persiana: « La Rosa di Bakawali ». La rosa misteriosa proposta alla conquista dell’uomo, è Dio stesso. Vi si ritrova la dottrina dei Sufi: « Dio esisteva da solo all’inizio dei secoli, vi è detto. Egli era concentrato su se stesso. Il sole della sua sostanza era rimasto nascosto dietro il velo del mistero. Egli si compiaceva nel suo amore ma provò il desiderio di manifestarsi all’esterno. Volle mostrare la sua bellezza, far conoscere il vino del suo amore e mettere in evidenza il tesoro sacro della sua natura. A questo scopo creò l’universo. Fu così che l’unità di Dio andò a riflettersi nello specchio del niente ». Il mondo non è che lo specchio di Dio; esso è un puro niente, è Dio che si riflette su se stesso. Non si può essere più panteista! – Orbene, questa “Rosa di Bakawali” è l’ispiratore del celebre “ Romanzo della Rosa”. Questa rosa divina è posta al centro di un bel giardino che percorre Déduit, che “dalla terra dei saraceni, fece trasportare là questi alberi”. Precisiamo che gli uccelli, cantori dell’amore, vi gorgogliavano per invidia cercando di sperarsi l’un l’altro; « essi cantavano un canto tale come se fossero degli spiritelli”. Comprendere il linguaggio degli uccelli, è dunque prepararsi a raggiungere il “regno della luce”, il “Wonderland” che Michel Carrouges ci ha descritto con tanta minuziosa precisione nella sua “Mistica del superuomo”. – La religione musulmana è stata marcata, fin dalla sua apparizione, da una importante serie di deficienze fondamentali. Enumeriamole: – Nell’Islam non c’è culto sacrificale, dunque, non c’è sacerdozio, non sacrificio, non sacramenti, diciamo che non c’è niente di specificamente “sacro”. – Nell’Islam non c’è una dottrina, dunque non c’è magistero, non c’è insegnamento. – La recita cadenzata e bilanciata del Corano, i commentari sulle “Hadith” del profeta non possono certamente definirsi un insegnamento. – Nell’Islam non c’è la distinzione fondamentale tra l’ambito temporale e l’ambito spirituale. L’uno si riconduce all’altro e constatiamo che lo spirituale è dominato e schiacciato dal temporale. Di conseguenza non esiste affatto nell’Islam distinzione tra “foro” esterno degli atti umani e “foro” interno delle coscienze. – La moralità si riduce all’osservanza delle regole giuridiche e siccome vi è negato il libero arbitrio, l’ambito della coscienza personale è ridotto a niente. Ecco un handicap prodigioso per l’educazione della rettitudine di intenzione nella vita morale. – In tal modo, l’Islam non può essere definita una religione che in senso ristretto ed usurpato. Infatti esso “occupa il posto” di una religione per milioni di uomini da svariati secoli. Si comprende che con una tale deficienza di quasi tutto ciò che potrebbe costituire in “senso proprio” una religione, i popoli sottomessi all’Islam siano regrediti verso una semi-barbarie, in un abbrutimento generale degli spiriti ed una lunga sclerosi della civilizzazione. – In queste condizioni, l’Islam non poteva espandersi sui cristiani d’Europa che lo rigettano con orrore. – Gli scrittori musulmani hanno dovuto cercare altrove il loro nutrimento intellettuale, mentre i filosofi sono andati a trovare nel pensiero greco di che nutrire le loro meditazioni. Essi le hanno ritrasmesso all’Occidente la filosofia neo-platonica che le era stata data in pasto dai Sabei. I poeti ed i mistici sono andati a trovare nel Buddhismo di che alimentare i loro sogni o allucinazioni. Essi hanno trasmesso all’Occidente il panteismo insufflato dai Sufi. E dietro a loro, l’Occidente cristiano ha assorbito in parte questi due veleni. La filosofia realista di Aristotele e di San Tommaso non ha potuto imporsi definitivamente e, dopo Cartesio, viviamo nella più completa confusione di dottrine. La letteratura resta ancora oggi avvelenata da una nozione radicalmente contraria all’ordine naturale, come ha dimostrato Denis de Rougemont nella sua notevole opera: “L’Amore e l’Occidente”. – Infine, quando l’Occidente ha potuto riprendere il dominio politico e militare sul mondo arabo, l’Islam è stato capace di assimilare i progressi tecnologici, la potenza materiale, il lusso ed il confort delle sue classi dirigenti, ma ha rigettato con infallibile istinto, il Cristianesimo che gli era stato simultaneamente presentato. La “religione” musulmana resterà sempre l’ostacolo più radicale all’espansione della fede cristiana. – L’Islam ha assorbito immediatamente il pensiero e le attitudini della massoneria, avendone in comune la profonda radice gnostico-giudaica, così come oggi assistiamo pure alla sua fusione con il “modernismo ecumenista del Vaticano II”, supportato dal finto tradizionalismo di facciata lefebvriano o sedevacantista [basti pensare ad esempio all’ignoranza in mala fede che fa passare, per gli allocchi inebetiti, il Corano nientemeno che … come libro di pace!!!], il c.d. “novus ordo”, con cui condivide il pensiero gnostico-talmudico base della nuova falsa religione universale noachide, fondata sul monoteismo luciferino, denominatore comune pure delle sette protestanti, delle pseudo-religioni orientali, e della ideologia massonica dominante, camuffata di volta in volta sotto l’abito comunista, liberista, radicale o finto-democratico, mondialista … pare proprio che tutte le vie portino all’inferno, ma … Illa conteret caput tuum!
[Continua… ]