GNOSI TEOLOGIA DI sATANA – 20 – : GNOSI ED ISLAM (4)

Gnosi, teologia di satana

“omnes dii gentium dæmonia

GNOSI ED ISLAM (4)

[da E. Couvert: “La gnose universelle”, cap. II]

Islam, veicolo della gnosi:

A. – Mediante la FILOSOFIA

Non c’è una filosofia araba e, non se ne dispiaccia Henry Corbin, non ci sono neppure filosofi islamici o musulmani. Gli scrittori musulmani che hanno compilato i commentari dei filosofi greci erano sia iraniani, come al-Ghazzali, al-Kindi, sia berberi, come ibn Tofail, ibn Badja, sia spagnoli come ibn Roschild, che gli occidentali hanno chiamato Averroè. Essi infatti non esprimono un pensiero personale, un pensiero autoctono elaborato secondo concetti originali. Essi si contentano di tradurre e commentare semplicemente i filosofi anteriori. Ora noi vedremo che essi sono in realtà prigionieri del pensiero neo-platonico, sprofondati nella gnosi manichea, quella che si era già diffusa in oriente attraverso il Buddhismo. – Gli arabi avevano stabilito dall’VIII al X secolo una scuola di traduttori ad Harran, a sud di Edessa, al confine tra Siria e Mesopotamia. Essi pretesero di risalire ad Ermete Trismegisto e ad Agathodaimon (il demonio buono?!?). Ora noi sappiamo che nei manoscritti dell’Asia centrale, Ermete è un avatar di Mani, che di la è passato presso gli Arabi ove è stato identificato come Idris o Hénoch. Il loro dottore più celebre, Thabit ibn Qorra (morto nel 901) aveva scritto e tradotto in siriaco, poi in arabo, un libro delle “Istituzioni di Ermete”, parafrasi della rivelazione do Ermete Trismegisto, già ben conosciuto. Egli aveva pure ugualmente tradotto in arabo delle opere di matematica ed astronomia. I Sabei avevano da parte loro inondato il mondo musulmano con molte opere dette “pseudoepigrafi”,  degli pseudo-Platone, pseudo-Plutarco, pseudo-Tolomeo, pseudo-Pitagora, etc., che furono la fonte di una vasta letteratura neo-platonica in Asia. Si deve a loro pure uno pseudo-Dionigi, attribuito a S. Dionigi l’Aeropagita. – Citiamo due pseudoepigrafi che ebbero un’incidenza considerevole in Occidente, e che hanno avvelenato le università cristiane. Il primo è una “Teologia detta di Aristotele”, tradotta in arabo da una versione siriaca del IV secolo. È questa una parafrasi delle tre ultime enneadi di Plotino, e cerca di dimostrare un accordo tra Platone ed Aristotele ponendosi alla base del neo-platonismo in Islam. Il secondo è il “libro sul bene puro”, tradotto in latino nel XII secolo da Gerardo da Cremona, con il titolo  “Liber de causis” o “liber Aristotelis de expositione bonitatis puræ”, ed è infatti un estratto dell’ “Elementatio théologica” del neo-platonico Proclo. Si è fatto credere a tutto il Medio-Evo che Aristotele fosse platoniano. I Sabei hanno ripreso cioè il metodo degli gnostici che consisteva nell’attribuire dei testi fittizi agli autori antichi celebri, per dar loro così una forte pubblicità. – Bisogna notare egualmente due opere ermetiche che furono molto lette in terra islamica: Il “Libro del Segreto della Creazione e tecnica della natura” attribuito dall’autore anonimo ad Apollonio di Tiane (Ma certamente, ritroviamo qui in fondo sempre gli stessi nomi visti nella gnosi). Esso contiene la celebre “Tavola di Esmeralda (Tabula smaragdina), e lo “Scopo del Saggio” (Ghâyat al Hakim), che offre informazioni sulla liturgia dei Sabei e tutto un insegnamento sul tema della “Natura perfetta”. La Natura perfetta è l’entità spirituale (Rûha-nîyar), l’Angelo del filosofo. Sohrawardi commenta questa visione di Hermés: è alla sua quiete che se ne va il pellegrino delle epopee mistiche persiane d’Attar. – Tutti questi testi insegnano null’altro che il panteismo della gnosi. Ascoltiamo Abû  Yasid … Bastamî: « io contemplavo il mio Signore con l’occhio della certezza dopo che mi ebbe allontanato da tutto ciò che è altro da lui ed illuminato della Luce. Egli mi fece allora conoscere le meraviglie del suo segreto, rivelandomi la sua ipseità (il suo Sé). Io contemplavo il mio “me” con la sua ipseità. La mia luce impallidì sotto la sua Luce, la mia forza svanì sotto la sua forza, la mia potenza cessò sotto la sua Potenza. Così io vedevo il mio “me” attraverso il suo Sé. La grandezza che io mi attribuivo, era in realtà la sua grandezza, la mia progressione era la sua progressione, etc. ». Si potrebbe continuare a lungo su questo tema dell’identificazione con il mondo divino. – Sohrawardi è vissuto nel XII secolo. Egli era nato nel 1155 a Soharaward, una città del nordovest dell’Iran nell’antica Media. Egli è discepolo di Hermès, di Platone, di Zoroastro. « C’era presso gli antichi Persi, scrive, una comunità che era diretta da Dio. È da lui che furono condotti degli eminenti saggi, a differenza dei Maguse. È la loro alta dottrina della Luce, dottrina che testimonia dell’esperienza di Platone e dei suoi predecessori, e che io ho resuscitato nel mio libro intitolato la “Teosofia orientale” (Himkat al Iskrak) ed io non ho avuto predecessori per un progetto tale ». Egli resuscitò dunque le dottrine dei Saggi della Persia concernenti i Principi della Luce e delle Tenebre ». Questa comunità della Luce, perseguitata dai Magi, adoratori del Fuoco, che avevano aizzato contro di essa il re sassanide, non è altro che la Chiesa manichea. – Sohrawardi aveva dapprima seguito la dottrina di Aristotele, ma ebbe una visione estatica. Anche egli fu “illuminato”. Gli viene mostrato la moltitudine di « questi esseri di luce che contemplavano Hermés e Platone e queste irradiazioni celesti, fonti della luce della gnosi e della sovranità della Luce di cui Zoroastro fu l’annunciatore ». Egli riprese la formula modificata di Socrate: « Svegliati a te stesso! » Egli insegnava una iniziazione progressiva per mezzo della conoscenza, una illuminazione con la quale l’anima conosce se stessa e conosce ogni cosa con la sua luce interiore. Così tutto è perfettamente gnostico. – Nel VI secolo l’imperatore Giustiniano aveva chiuso le scuole filosofiche di Atene. Il pensiero greco era emigrato in Siria, ad Edessa. I filosofi siriani l’avevano trasmessa agli arabi che ne pubblicarono i commentari a Bagdad: Al Farabi nel X secolo, Avicenna nel XI  secolo, Averroè nel XII secolo a Toledo in Spagna. – Ora il pensiero di Aristotele era stato rivoltato e falsato dalla pubblicazione di opere neo-platoniche che gli avevano attribuito i Sabei, di modo tale che la coesione del suo sistema metafisico era frantumata ed il miscelaggio mal fuso di tesi inconciliabili andava a sconvolgere l’insegnamento delle università cristiane. – Nel 1085, i cavalieri cristiani di Spagna, aiutati dai Crociati franchi in vista della “reconquista”, si impadronirono di Toledo e ne fecero la capitale del regno cristiano in modo tale che mai più i saraceni poterono riconquistarla. Fu allora che il vescovo francese Raymond de Sauvetat (1126-1151 circa) stabilì a Toledo un collegio di traduttori per riprendere nelle università d’Occidente il pensiero e la scienza degli arabi. Il giudeo Ibn Daoud traduce dall’arabo in “romanzo” (la lingua spagnola popolare) i libri arrivati da Bagdad. Eli ignorava il latino: è Gondisalvi che è un buon latinista, ma ignora l’arabo, a continuare l’operato e trascrivere il “romanzo” di Ibn Daoud in latino. – A partire dal XIII secolo, la filosofia di Aristotele, rivista e corretta dagli Arabi, si intrufola nelle università. Aristotele, come dice bene il p. Gabriel Théry, arriva a noi “non vestita con peplo o con toga, ma ricoperto da un mantello incappucciato e come copricapo un fez arabo”. Fu una vera conquista spirituale dell’Islam egli precisa. Ci fu così una vera rivoluzione nelle università. Il Medio-Evo viveva fino ad allora sulla filosofia di Platone: questi non vede nella natura se non dei segni il cui significato si trova nel mondo ideale, che sarebbe il solo reale, il mondo delle idee pure. Essa conduce dunque ad un simbolismo sistematico e delirante. Tutto è simbolismo, niente di questo mondo quaggiù è reale. È “il mito della caverna”, ben conosciuto. Si resta stupefatti davanti al successo di un pensiero sì assurdo e sì contrario al buon senso naturale. Ma Aristotele, al contrario, naturalista, considera che la natura è veramente reale e contiene in essa la sua intellegibilità. Si scopriva infine la natura che il XII secolo si contentava di interpretare simbolicamente. Aristotele usava la dimostrazione, processo proprio della ragione. La superiorità di questa metafisica razionale sui miti platonici era così grande che essa doveva necessariamente averne la meglio. Aristotele diviene infatti “il filosofo” per eccellenza. – Orbene, Aristotele era stato “rivisto e corretto” da Averroè; quest’ultimo aveva attribuito l’idea di un intelletto-agente unico per tutti gli uomini: « C’è, scrive Etienne Gilson, nella sua “Filosofia del Medio-Evo”, un solo ed unico intelletto-agente per tutta la specie umana, ed è per la sua azione in noi che pensiamo … l’immortalità non appartiene che a questo intelletto-agente comune a tutta la specie umana, cioè l’immortalità sparisce, e l’individuo in quanto tale svanisce al momento della morte ». Questo intelletto-agente unico non è altro che, in linguaggio scolastico, l’ “anima universale del mondo” insegnata dai nostri gnostici, “ … io non penso da me stesso, bensì mediante un’anima divina alloggiata in me. Le mie idee non sono l’opera elaborata da una facoltà intellettuale, esse sono ricevute da intelligenza divina che agisce in me. Esse sono dunque necessariamente vere. L’errore è impossibile. La nostra anima è una Spirito-Santo. Il nostro corpo non è che un carapace di materia unita temporaneamente ad un’anima universale. Al momento della morte, la nostra individualità scompare. È il ritorno al “niente”, il “Nirvana” dei buddhisti, seguito dal ripiombare nel Gran tutto. Non si potrebbe essere più gnostici di così! – ne seguiranno le conseguenze: se l’uomo non pensa da se stesso, non è padrone dei suoi atti. È l’anima universale o intelletto-agente che è il solo responsabile … non c’è il libero arbitrio. Applichiamo questo all’Islam. È Allah che interviene costantemente nella vita umana, secondo il suo beneplacito: « Noi abbiamo attaccato, dice il profeta, al collo di ogni uomo il suo uccello (il suo destino) ». « Allah, ci spiega Louis Gardet, è il solo essere ed il solo agente. Il creato non saprebbe avere un reale valore ontologico. Il bene ed il male non esistono nelle cose ma per il comando del Signore. E Allah guida nel bene che gli piace ed abbandona nel male chi a lui piace. » – Poiché non c’è attività spirituale propria a ciascuno, è la comunità, l’«umma» che pensa, che ha ricevuto il Libro. Non c’è magistero dogmatico nell’Islam, perché tutti pensano con lo stesso testo perpetuamente recitato. Per di più, non c’è una conoscenza “naturale” de mondo. Allah non ha dato agli uomini una natura intellegibile delle cose che ognuno deve “decifrare”, che deve “leggere” nelle creature (è questo il senso della parola “intellegere”). Non c’è una realtà permanente, coerente e significativa nel mondo creato. Dio solo può insegnare. Tutta la scienza della natura si riduce ad una fede ed è accettata senza un atto di comprensione naturale. – Allora ben si comprende che le autorità ecclesiastiche si siano inquietate per una tale invasione, sì contraria alle verità naturali ed alla fede cristiana. Averroé, il panteista! Averroé l’anticristo! Le condanne si sono moltiplicate contro la filosofia di Aristotele. Il vescovo di Parigi ha pubblicato delle sentenze di condanna, anche contro San Tommaso d’Aquino, all’inizio del suo insegnamento. Resta a gloria di San Tommaso l’aver compreso che bisognava innanzitutto ristabilire il vero pensiero di Aristotele e per far questo, era necessario ritrovare il testo iniziale. Egli ignorava il greco, ma ottenne la traduzione diretta dal greco in latino operata  da Guglielmo de Moerbeke. Ne sottomise il testo ad una esegesi rigorosa, letterale. Che differenza con quello di Averroé! Quest’ultimo apparve allora non come il commentatore eletto di Aristotele, bensì come il suo “depravatore”, il suo sovvertitore. Ci volle così un genio e Santo per “esorcizzare” in senso proprio Aristotele e “liberare” così l’Occidente da questa invasione gnostica sotto l’etichetta musulmana!

B. MEDIANTE LA LETTERATURA

I critici letterari che si sono dedicati seriamente al problema delle origini della letteratura medioevale, hanno notato con grande precisione l’apparizione improvvisa nel XII secolo di una epopea cortese e di romanzi cavallereschi, di cui non hanno potuto trovare le fonti nelle canzoni delle gesta e nelle epopee carolingie del secolo precedente. Essi hanno notato in tal soggetto, delle importanti strane novità nella scelta dei temi e nei modi di ispirazione tra le epopee franche ed i romanzi bretoni della Tavola Rotonda. – Louis Clédat, nella sua “Epopée courtoise” definisce così i due generi: « L’epopea cortese, leggera, brillante, piacevole ritratto delle feste di corte, dei tornei, delle spedizioni avventurose, che amavano moltiplicare le sorprese di un meraviglioso racconto delle fate, danno all’amore un posto preponderante; l’epopea nazionale, al contrario, grave, grandiosa, consacrata alle lotte nazionali, feudali o religiose, prende dalla religione le risorse della sua meravigliosa austerità, profondamente sprezzante delle passioni e delle delicatezze del cuore ». Si notano in questi romanzi del ciclo bretone, dei riquadri vivi, molto liberi in situazioni rischiose, con una compiacenza per il vizio. In Tristano, ad esempio, nessuna colpa per Isotta ed il suo complice, al contrario, entrambi sono vantati per la loro bellezza ed il loro spirito. Solo il re Marco è ridicolizzato. Si trova in questo romanzo una sorta di naturalismo tutto pagano, una finezza ed una cortesia ricercata nel disprezzo più odioso delle leggi morali e dell’insegnamento della Chiesa. Si è ugualmente sottolineato che non si ritrova in questi romanzi l’entusiasmo che suscitavano allora nei cavalieri franchi le lotte contro i saraceni, elemento che costituiva l’anima dei poemi carolingi; la cosa doveva far “drizzare le orecchie”. È nell’epoca in cui la cavalleria d’Occidente ingaggia i più energici combattimenti contro i saraceni, che una nuova letteratura si sforza di allontanare gli spiriti di nobiltà franca verso la vita raffinata ed effeminata delle corti d’amore. Si tratta dunque di un’operazione disarmante per gli spiriti, ben condotta secondo l’Oriente musulmano e che coincideva con l’invasione della nuova filosofia nelle nostre università cristiane. – Ora lo studio minuzioso delle fonti ci mostra che questa letteratura cortese è tutta estrapolata dagli scrittori musulmani del X e del XI secolo, ed è penetrata in Occidente dalla Spagna, così come la filosofia della stessa epoca. Si è notato ad esempio che il tipo del cavaliere errante, che raddrizza i torti, è tratto dal poema di Antar, raccolta di leggende risalente ad Haroun-al-Raschid, riunito sotto forma di romanzo da Erous Moyyed, medico e poeta, dedicato al visir di Zangui nel 1145. Autar, montato su di un cavallo [Abjer], è sempre pronto a sguainare la sua spada Dhamy gridando. “Io sono colui che ama Ibla”. Come ricompensa delle sue prodezze, il re Zoheir gli da il soprannome di Aboul-fauris, il padre dei cavalieri. Vi si trovano pure temi cortesi nel libro dei Re (Shah-nameh) di Firdousi, pubblicato nel 1010 e dunque anteriore alle prime epopee cavalleresche.

1°) L’amore cortese o “l’Eterno femminile”.

Nella storia degli gnostici, si vedono apparire, fin dalle origini, delle donne deificate: Simon mago viveva ad esempio con la famosa Elena di Tiro che personificava, egli diceva, l’Ennoia, cioè l’emanazione diretta di Dio; la fede in Elena ed in lui era la prima condizione per ottenere la salvezza. – Montano aveva le profetesse Priscilla e Massimiliana, porta voci dello Spirito-Santo. I catari ammiravano la loro dea, Esclarmonda de Foix. Petrarca vide apparire nel tempio di Santa Chiara, ad Avignone, la sua amica Laura; Boccaccio riceve la sua diletta Fiammetta (piccola fiamma!) nel tempio di Santa Chiara a Napoli; Dante trova anche la sua Beatrice in « un luogo in cui si cantano le lodi della regina della gloria ». Questa Beatrice è una sorta di dea che conduce il poeta attraverso il mondo della notte e degli eletti. Una certa Guglielmina era considerata all’epoca di Dante come un’incarnazione dello Spirito-Santo. Fra Dolcino si era aggregato una donna chiamata Margherita che egli chiamava sua “sorella spirituale”. Si potrebbe proseguire ancora per molto con il culto della donna divinizzata in tutta la tradizione gnostica attraverso i secoli. – Questo mito gnostico ci è tornato attraverso l’Islam, sotto forma di amor cortese cantato nella lingua d’oc dai trovatori. Si è cercato per lungo tempo donde venisse questo tema nel contempo erotico e religioso, sconosciuto prima del XII secolo nella nostra letteratura feudale. Due eruditi si sono dedicati al problema, Eugène Aroux, nel secolo scorso, e A. R. Nykl, più recentemente. Entrambi hanno riconosciuto in questa nuova moda letteraria una invasione del pensiero musulmano. – Nei poeti sufi, si trova dappertutto una mescolanza straordinaria, una singolare amalgama tra l’amore spirituale e l’esaltazione erotica. Gli annali di questa poesia che invoca sotto il nome di una donna la divinità stessa, di cui questa donna è il simbolo visibile, si aprono in Occidente con Platone che ha spiegato nel suo “Banchetto” che l’amore fisico degli esseri creati è il simbolo ed il primo grado dell’amore di Dio. – Si risale, in questa ricerca dell’amor cortese, a Ibn Dawoud che scriveva a Bagdad nel 910 un trattato sull’amore, il « Kitab-as-Zahra ». L’amore umano, egli dice è un male che bisogna dominare. È una fatalità fisica, una forza naturale, ineluttabile e cieca, senza ragione e senza scopo. È possibile ridurne i misfatti. L’atto carnale è reprensibile, il desiderio dominato è atto meritorio: « Quando anche la castità degli amanti, la loro lontananza dalla corruzione e la cura della loro purezza non fossero protetti dai precetti delle leggi religiose ed dal pregiudizio dei costumi, certo questo sarebbe ancora dovere di ciascuno, restare casto, alfine di eternizzare il desiderio che lo possiede con il desiderio che lo ispira ». Si riporta ugualmente un dialogo sull’amore tratto dai “Prati d’oro” di Mas’oudi, scritto nel VIII secolo. « L’amore emana dalla bellezza divina, dal principio sottile della sostanza. Colui che ama è illuminato da una fiamma interiore, tutto il suo essere risplende, le sue qualità lo pongono al di sopra degli altri uomini. L’amore non è vivificante se non per la sua sconfitta, non si compie che nella morte ». – A partire dal secolo XI, questa letteratura amorosa passa in Spagna. Ibn Hazm (994-1065) pubblica a Cordova il “Libro delle religioni e delle sette”. Nel 1022, a ventotto anni, egli redige “la collana della colomba”, ove si scopre tutto il linguaggio dei “fedeli d’Amore” della Linguadoca: lo zerbino, la sottomissione alla dama, il “lauzengier”, lodatore, la fedeltà, la malattia e la morte dell’amante. Questa sottomissione dell’amante alla sua dama è un omaggio platonico alla Bellezza, una esaltazione della dama divinizzata. « L’amante deve sottomettersi ai desideri della sua amata, come lo schiavo ed il domestico al suo padrone ». Il suo contemporaneo, Ibn Zaïdoun compone unicamente dei poemi alla poetessa Wallanda, figlia di un califfo, che era la prima “donna del suo tempo”. Nel secolo XII Abou Bekr Mohammed ibn Guzman celebra l’amor cortese in lingua araba popolare, il “zadjal” in cui mescola molte parole ed espressioni in linguadoca, cosa che suppone un pubblico mezzo arabo e mezzo cristiano. –  Questa letteratura appare infine in Francia, a Poitiers dapprima, portata dai cavalieri del conte Guglielmo.  Nel 1120 egli aveva condotto 600 cavalieri ad Alfonso il Battagliero, che aveva percorso con fulmineo percorso tutta la Spagna fino a Valenza e Grenada. Il conte Guglielmo aveva sposato una aragonese, la vedova di Sancio d’Aragona. Alla presa di Barbastro, gli autori arabi raccontano che i signori francesi si erano mostrati molto sensibili ai canti ed alle danze dei giovani moreschi e si erano comportati in maniera scandalosa. Nel corso di queste continue guerre, la due civiltà, l’araba e la cristiana, si sono compenetrate, soprattutto con i prigionieri ed i transfughi, anche attraverso i giudei. –  Per il platonismo dei sufi, come per i “fedeli d’amore”, si produce una vera trasmutazione dell’amore umano, che appare come un’emergenza divina. – Ascoltiamo questo testo significativo di Ahmed Ghazzali (morto nel 1126 in Iran) : « Quando l’amore esiste realmente, l’amante diviene il nutrimento dell’amato; non è l’amato il nutrimento dell’amante, ma l’amato non può essere contenuto nella capacità dell’amante … la farfalla che è diventata l’amante della fiamma, ha come nutrimento, benché ne sia distante, la luce di questa aurora. È il segno precursore dell’illuminazione mattutina che la chiama e l’accoglie. Ma essa deve continuare a volare finché non la raggiunge. Quando è arrivato non è più lui a progredire verso la fiamma, è la fiamma che progredisce verso di lui. . non è la fiamma che gli è nutrimento, è lui che è il nutrimento della fiamma. E la vi è un gran mistero. Un istante fuggitivo, diviene il proprio amato (poiché è la fiamma). E la sua perfezione è questa ». – Praticare l’amore è divinizzarsi. Non si tratta di un amore puramente spirituale, ma ben carnale. I testi dei poeti sufi e dei trovatori sono formali, le descrizioni sensuali ed erotiche vi abbondano. L’abbraccio amoroso provoca in tutto il corpo una esaltazione della sensibilità generale che dà l’impressione all’amante di oltrepassare la sua condizione semplicemente umana e di partecipare ad un atto divino. Ecco anche perché egli cerca anche di trovare la morte nell’atto stesso dell’amore per eternizzare questa intuizione divinizzante. Ma di fatto, contrariamente a quanto affermano i “Fedeli d’amore” l’unione carnale ha una finalità naturale che è la procreazione, cioè la partecipazione all’azione creatrice di Dio. In un certo senso questo atto è divino, in ogni caso è sacro. La Chiesa l’ha santificato con il Sacramento del Matrimonio, ma non lo divinizza. – Ora i “fedeli d’amore”, come i poeti sufi, vogliono togliere all’amore la sua finalità. Essi lo dicono puro e casto, cioè sterile. Essi parlano di un amore “da lontano”, diremmo oggi di “un abbraccio riservato”. È la forma di contraccezione dell’epoca. Unitevi nell’atto carnale, ma non date la vita, cercate piuttosto la morte! In più questo amore è sempre adultero e praticato fuori dal matrimonio. Esso né l’esatto inverso. Non ci si può opporre più efficacemente al piano di Dio che rifiutando di trasmettere la vita che si è ricevuta dai genitori. Solo lucifero, “omicida e menzognero” fin dall’inizio, può interessarsi ad un tale scimmiottare del vero amore così come lo ha voluto Dio.

2°) Il linguaggio degli Uccelli.

Nel suo desiderio di divinizzarsi, l’uomo cerca dei mezzi per salire verso l’azzurro e per confondersi con la Luce per raggiungere il suo soggiorno originale, il cielo, dal quale è ricaduto con una catastrofica caduta. Ecco un tema gnostico ben conosciuto. L’uomo vorrebbe essere un uccello: il suo volo nell’aria sembra sottrarlo alla gravità, nell’azzurro ed ai raggi del sole appare rivestito da un alone d’oro e di luce. Egli finisce per confondersi con il cielo stesso. Ecco un simbolo dell’anima che, chiusa nel suo carapace corporeo, ma ricoperto di piume alla maniera di Icaro, cerca di raggiungere il mondo divino dal quale è stato rigettato. – Si conosce il celebre testo di Chateaubriand, in René: « Spesso ho seguito con gli occhi gli uccelli di passaggio che volavano al di sopra della mia testa. Immaginavo i confini ignorati, i climi lontani, ove essi si recano. Avrei voluto essere sulle loro ali. Un istinto segreto mi tormentava. Mi sentivo io stesso un viaggiatore, ma una voce dal cielo sembrava dirmi: Uomo, la stagione della tua migrazione non è ancora giunta; aspetta che il vento della morte si alzi; allora tu deplorerai il tuo volo verso queste regioni sconosciute che il tuo cuore domanda. Levatevi presto, tempeste desiderate, ché dovete trasportare René negli spazi di un’altra vita. » Questo testo illustra bene quello di Al Gazzali, citato in alto, che ci mostra la farfalla, che con il suo volo si congiunge alla luce del mattino per confondersi con la fiamma che l’accoglie e nella quale si perde. – Ora i poeti musulmani hanno giocato in questo registro con molto virtuosismo. Il poeta persiano Farid al Din Attar ha scritto un poema intitolato “Il colloquio degli uccelli” (Mantic al Tayr). Sotto la guida dell’upupa, gli uccelli si mettono alla ricerca di Simurgh che essi hanno scelto per re. Tutti periscono nel corso di questa ricerca, salvo trenta di essi (“si” in persiano vuol dire trenta e “murgh” significa uccelli). Questi sopravvissuti finiscono per riconoscere la divinità in se stessi e vengono assorbiti nel Simurgh divino per annientamento (fanâ) della loro individualità materiale. – Questo poema ha delle grandi analogie con un’altra opera persiana: « La Rosa di Bakawali ». La rosa misteriosa proposta alla conquista dell’uomo, è Dio stesso. Vi si ritrova la dottrina dei Sufi: « Dio esisteva da solo all’inizio dei secoli, vi è detto. Egli era concentrato su se stesso. Il sole della sua sostanza era rimasto nascosto dietro il velo del mistero. Egli si compiaceva nel suo amore ma provò il desiderio di manifestarsi all’esterno. Volle mostrare la sua bellezza, far conoscere il vino del suo amore e mettere in evidenza il tesoro sacro della sua natura. A questo scopo creò l’universo. Fu così che l’unità di Dio andò a riflettersi nello specchio del niente ». Il mondo non è che lo specchio di Dio; esso è un puro niente, è Dio che si riflette su se stesso. Non si può essere più panteista! – Orbene, questa “Rosa di Bakawali” è l’ispiratore del celebre “ Romanzo della Rosa”. Questa rosa divina è posta al centro di un bel giardino che percorre Déduit, che “dalla terra dei saraceni, fece trasportare là questi alberi”. Precisiamo che gli uccelli, cantori dell’amore, vi gorgogliavano per invidia cercando di sperarsi l’un l’altro; « essi cantavano un canto tale come se fossero degli spiritelli”. Comprendere il linguaggio degli uccelli, è dunque prepararsi a raggiungere il “regno della luce”, il “Wonderland” che Michel Carrouges ci ha descritto con tanta minuziosa precisione nella sua “Mistica del superuomo”. – La religione musulmana è stata marcata, fin dalla sua apparizione, da una importante serie di deficienze fondamentali. Enumeriamole: – Nell’Islam non c’è culto sacrificale, dunque, non c’è sacerdozio, non sacrificio, non sacramenti, diciamo che non c’è niente di specificamente “sacro”. – Nell’Islam non c’è una dottrina, dunque non c’è magistero, non c’è insegnamento. – La recita cadenzata e bilanciata del Corano, i commentari sulle “Hadith” del profeta non possono certamente definirsi un insegnamento. – Nell’Islam non c’è la distinzione fondamentale tra l’ambito temporale e l’ambito spirituale. L’uno si riconduce all’altro e constatiamo che lo spirituale è dominato e schiacciato dal temporale. Di conseguenza non esiste affatto nell’Islam distinzione tra “foro” esterno degli atti umani e “foro” interno delle coscienze. – La moralità si riduce all’osservanza delle regole giuridiche e siccome vi è negato il libero arbitrio, l’ambito della coscienza personale è ridotto a niente. Ecco un handicap prodigioso per l’educazione della rettitudine di intenzione nella vita morale. – In tal modo, l’Islam non può essere definita una religione che in senso ristretto ed usurpato. Infatti esso “occupa il posto” di una religione per milioni di uomini da svariati secoli. Si comprende che con una tale deficienza di quasi tutto ciò che potrebbe costituire in “senso proprio” una religione, i popoli sottomessi all’Islam siano regrediti verso una semi-barbarie, in un abbrutimento generale degli spiriti ed una lunga sclerosi della civilizzazione. – In queste condizioni, l’Islam non poteva espandersi sui cristiani d’Europa che lo rigettano con orrore. – Gli scrittori musulmani hanno dovuto cercare altrove il loro nutrimento intellettuale, mentre i filosofi sono andati a trovare nel pensiero greco di che nutrire le loro meditazioni. Essi le hanno ritrasmesso all’Occidente la filosofia neo-platonica che le era stata data in pasto dai Sabei. I poeti ed i mistici sono andati a trovare nel Buddhismo di che alimentare i loro sogni o allucinazioni. Essi hanno trasmesso all’Occidente il panteismo insufflato dai Sufi. E dietro a loro, l’Occidente cristiano ha assorbito in parte questi due veleni. La filosofia realista di Aristotele e di San Tommaso non ha potuto imporsi definitivamente e, dopo Cartesio, viviamo nella più completa confusione di dottrine. La letteratura resta ancora oggi avvelenata da una nozione radicalmente contraria all’ordine naturale, come ha dimostrato Denis de Rougemont nella sua notevole opera: “L’Amore e l’Occidente”. – Infine, quando l’Occidente ha potuto riprendere il dominio politico e militare sul mondo arabo, l’Islam è stato capace di assimilare i progressi tecnologici, la potenza materiale, il lusso ed il confort delle sue classi dirigenti, ma ha rigettato con infallibile istinto, il Cristianesimo che gli era stato simultaneamente presentato. La “religione” musulmana resterà sempre l’ostacolo più radicale all’espansione della fede cristiana. –  L’Islam ha assorbito immediatamente il pensiero e le attitudini della massoneria, avendone in comune la profonda radice gnostico-giudaica, così come oggi assistiamo pure alla sua fusione con il “modernismo ecumenista del Vaticano II”, supportato dal finto tradizionalismo di facciata lefebvriano o sedevacantista [basti pensare ad esempio all’ignoranza in mala fede che fa passare, per gli allocchi inebetiti, il Corano nientemeno che … come libro di pace!!!], il c.d. “novus ordo”, con cui condivide il pensiero gnostico-talmudico base della nuova falsa religione universale noachide, fondata sul monoteismo luciferino, denominatore comune pure delle sette protestanti, delle pseudo-religioni orientali, e della ideologia massonica dominante, camuffata di volta in volta sotto l’abito comunista, liberista, radicale o finto-democratico, mondialista … pare proprio che tutte le vie portino all’inferno, ma … Illa conteret caput tuum!

[Continua… ]

GNOSI TEOLOGIA DI sATANA -19- : GNOSI ED ISLAM (3)

Gnosi, teologia di satana

“omnes dii gentium dæmonia”

GNOSI ED ISLAM (3)

[da E. Couvert: “La gnose universelle”, cap. II]

Il panteismo dei sufi

Si pensa che la parola “sufi” venga da “suf” che vuol dire  “lana”, perché i sufi portavano il costume dei filosofi neoplatonici, dei gran mantelli di lana bianca, la khirka, un bastone e la lunga barba. Tuttavia è più logico vedervi la trascrizione del greco σοφος [sofos], saggio, che si ritrova in “faylasôf” dal greco φιλοσοφος [filosofos]. I dervisci ed i fachiri sono anch’essi dei sufi popolari. Essi si ritengono filosofi; infatti, essi sono mistici e contemplativi. Si pretendono musulmani; in effetti essi sono buddhisti. Tutti loro, come gli gnostici, ammettono una doppia dottrina, l’esoterica o interiore (batn), riservata agli iniziati, e l’essoterica o esteriore (zahar) per il volgare. Essi impiegano tutti i loro sforzi nel far concordare uno ad uno i loro principi con i dogmi maomettani, in maniera da stabilirne l’ortodossia agli occhi delle autorità musulmane. Ma è un concordismo artificiale che non inganna nessuno. – Un erudito del secolo scorso, specialista in letteratura sanscrita ed induista, M. Garcin de Tassy, ha riassunto in 9 proposizioni tutto l’insegnamento dei sufi:

1°) Dio solo esiste, Egli è in tutto e tutto è in lui e tutto è lui-stesso.

2°) Tutti gli esseri, visibili ed invisibili, ne sono una emanazione, « divinæ particula aureæ » e non ne sono realmente distinte.

3°) I sufi non sono soggetti alle leggi esteriori. Il paradiso e l’inferno, tutti i dogmi infine delle religioni positive non sono per i sufi, che delle allegorie delle quali essi solo conoscono lo spirito.

4°) Così le religioni sono indifferenti. Esse servono tuttavia come mezzo per giungere alla realtà. Alcune possono essere più vantaggiose di altre per raggiungere questo scopo, tra le altre la religione musulmana, della quale la dottrina dei sufi è la filosofia.

5°) Non esiste realmente differenza tra il bene ed il male, poiché tutto si riduce all’unità e così Dio in realtà è l’autore delle azioni dell’uomo.

6°) È Dio che determina la volontà dell’uomo e così quest’ultimo non è libero nelle proprie azioni.

7°) L’anima preesiste al corpo e vi è racchiusa come in una gabbia o in una prigione. La morte deve dunque essere l’oggetto degli auguri dei sufi, perché è allora che essi rientrano nel seno della divinità ed ottengono ciò che il buddhismo chiama il “nirvana”, cioè l’annientamento in Dio.

8°) È con la metempsicosi che le anime che non hanno raggiunto la loro destinazione quaggiù, sono purificate e diventano degne di essere riunite a Dio.

9°) La principale occupazione dei sufi deve essere la meditazione sull’unità con l’avanzare progressivamente attraverso i vari gradi della perfezione spirituale alfine di morire in Dio e raggiungere fin da questo mondo l’unificazione in Dio. »

È sufficiente comparare queste nove proposizioni con quelle sviluppate nello studio di base sulla « Gnosi, tumore in seno alla Chiesa » [vedi al n. 7 di “Gnosi, teologia di satana”/Exsurgatdeus.org.], per constatarne la sostanziale identità. I sufi sono semplicemente degli gnostici formati dal buddismo. Essi insegnano a disprezzare tutto ciò che è terreno, a dirigere la propria anima solamente verso ciò che esiste: l’Essere divino, a spogliarsi, a sganciarsi dall’apparenza dell’esistenza personale per associarsi all’esistenza divina, la sola reale, ad inebriarsi della bevanda stupefacente della bellezza della luce divina. » Il sufi deve assorbirsi in Dio. I poeti arabi sufi scrivono: « Purificati da ogni attributo di “me”, alfine di percepire la tua essenza brillante. » – « Lasciatemi diventare inesistente, perché la non-esistenza mi grida con gli accenti di un organo: è a lui che noi torniamo. » – « Realizza nel tuo cuore la conoscenza del Profeta, senza libro, senza maestro, senza istruttore. » Si potrebbero moltiplicare le formule di questo genere … ci troviamo in una terra pienamente conosciuta: la gnosi buddhista!  – Questa dottrina “esoterica” dell’Islam non è altro che il panteismo indiano. Vi si ritrovano gli errori del Vedanta che insegna, secondo Vyaçadavera, l’unità di tutti gli esseri, quelle del Sankia che insegna secondo Kapila il “niente delle cose visibili”. – Si è costituito ai limiti del mondo musulmano e del mondo buddhista una zona intermedia, una sorta di marchio, o delle sette miste, semi-buddhiste, semi-musulmane, che hanno avvicinato gli elementi opposti delle due religioni, ad esempio i Kabir-panthis ed i Sikh. I musulmani dell’India rendono un culto uguale ai loro santi Muin-uddin e Marçud Gazi, ed ai santi indù, Kabir e Ramanand. Un sufi indiano, Sabjani, faceva con tanto ardore sia il pouja (adorazione) ed il dandawai (prosternazione) nella pagoda, sia le preghiere musulmane nelle moschee. I sufi hanno ripreso la posizione raccolta dei monaci buddisti per meditare: « Resta raccolto come il bambino nel seno di sua madre », dice l’autore del « Mantie Uthar », un persiano. È la posizione che vi prepara al ritorno nella “terra-matrice” originale della vita, la γἤ μἡτηρ [ghe meter] degli gnostici. – Per i sufi musulmani, tutti gli esseri sono della stessa natura, la metempsicosi permette di passare da un corpo umano ad un corpo animale, ad una pianta, etc. … – Ci piace citare, in questa occasione, una seduta di dervisci urlanti e girovaghi che Teofilo Gautier ci ha descritto al suo ritorno da un viaggio in Oriente. Egli era andato, come molti romantici, alla ricerca della “religione primitiva”. Il suo viaggio era una sorta di “pellegrinaggio alle fonti”. La scena si svolge a Costantinopoli. Egli ci mostra dapprima i dervisci riuniti intorno all’imam, che scuotono la testa in avanti ed indietro e vice-versa, poi accelerando i movimenti e traendo dal petto urla rauche e prolungate che non sembrano appartenere alla voce umana: «L’ispirazione arriva poco a poco, gli occhi brillano come pupille di bestie feroci in fondo ad una caverna,  ed una schiuma da epilettico compare alle commessure della labbra, i volti si decompongono e rilucono di livore sotto il sudore; tutta la fila si piega e si alza sotto un soffio invisibile come delle spighe sotto un vento di tempesta e sempre, ad ogni slancio, il terribile grido: « Allah! Hou! », si ripete con energia crescente … »  Questa passionalità, che si pretende mistica, infatti, è evidentemente bestiale, un ritorno all’animalesco prima di divenire un niente ed imputridire sotto terra. – In questo momento, Gautier nota, tra gli spettatori, due religiosi cappuccini che ridono sotto la barba. Allora la sua collera scoppia « oh! Ridete! Essi non pensano di essere, egli dice, dei dervisci cattolici, che si mortificano in diverso modo per avvicinarsi ad un dio diverso … Io comprendo i preti di Athis, il fachiro indù, il trappista ed il derviscio che si torce sotto l’immensa pressione dell’eternità e dell’infinito cercando di placare il dio sconosciuto con l’immolazione della propria carne e le libazioni del proprio sangue. Questo derviscio che faceva ridere i cappuccini, mi sembravano belli con la loro figura allucinata, come il monaco di Zurbarano, livido per l’estasi, e che lascia brillare sulla sua ombra una bocca che prega e due mani eternamente giunte ». Teofilo dunque è incapace di distinguere un ritorno all’animalità più grossolana e violenta da una spiritualizzazione del corpo mediante la preghiera e la meditazione … c’è una confusione assurda tra la verità mistica che eleva a Dio, e la sua contraffazione diabolica che abbassa e riduce al livello della bestia. Ci vuole una forte miopia intellettuale e spirituale per non capirne la differenza!

Le sette gnostiche nell’islam

Oltre ai sufi, che sono i veri gnostici dell’Islam, si deve notare ancora la presenza in terra musulmana di comunità gnostiche antiche, già fiorenti prima della nascita e l’espansione del Maomettismo e che sono sopravvissute penosamente ripiegandosi su se stesse: questi sono i Druzi, gli Ansariati, gli Yezidi. Oggi queste comunità hanno perso il senso della loro antica dottrina. Il maggior numero di questi settari, vivono miseramente, spacciandosi e cercando di passare per musulmani agli occhi delle autorità, prendendo dall’Islam qualche pratica esteriore che non li turbi. Ma essi sono in realtà pieni di disprezzo per i musulmani, si odiano a vicenda e non si uniscono che nell’odio comune verso i Cristiani. – Gli Yezidi sono gli ultimi eredi dei Mandei; essi erano numerosi un tempo in Babilonia, se ne trovano in Siria. La loro dottrina è quella di Mani. Essi dichiarano di seguire l’insegnamento di Addo, che fu il loro fondatore ed il discepolo preferito di Mani. Essi praticano un battesimo per immersione, tolgono le scarpe e baciano il sole quando entrano in una chiesa cristiana, fanno il segno della croce. Nella loro liturgia hanno conservato la cena eucaristica, credono che il vino contenga il sangue di Cristo, adorano un Dio supremo e rispettano Gesù-Cristo come un Salvatore. Si prostrano davanti al sole al suo sorgere come simbolo di Gesù. Li si accusa di rendere un culto al diavolo: essi rispondono che hanno un gran rispetto per satana che essi chiamano “il serpente della sera”, o il “principe delle tenebre”, talvolta pure Sheik Maazen. Essi affermano che il serpente è un angelo decaduto, contro il quale è scoppiata la collera di Dio; ma che, alla fine dei tempi, sarà ristabilito nel favore divino. La loro mozione del male è derivata dall’Arimane degli antichi maghi e dalla divinità secondaria dei Manichei. Essi parlano tra di loro il curdo: sono infine degli gnostici Manichei, rimasti molto vicini al Cristianesimo con il loro culto e le tradizioni liturgiche. Potrebbero essere considerati come gli ultimi cristiani ofiti o naasseni. – I Druzi pure hanno conservato una tradizione gnostica, si dicono discepoli di un califfo dell’Egitto, Hakem (996-1020), mostro di crudeltà che essi considerano come una divinità e che tornare alla fine dei tempi. Essi professano la metempsicosi, adorano il vitello, si dividono tra iniziati, gli “akkals”, coloro che sanno, e coloro che ignorano, i “djahels”. Essi sono pieni di odio verso i cristiani. Sono sempre stati all’origine dei massacri dei cristiani in Siria nel corso dei secoli. Gérard de Nerval, che voleva sposare la figlia di uno sceicco druizo, nel corso del suo viaggio in Oriente, non potette ottenere la mano della figlia, se non mostrando al padre che egli affiliato alla granco-massoneria e questa affiliazione cancellava dunque in lui la ricezione del battesimo cristiano. – Gli Ansariati, chiamati anche Nosaïri o piccoli cristiani, abitano la Siria del nord, nelle montagne intorno al golfo di Alessandretta. Essi sono biondi con occhi azzurri, sembrano venuti dalle Indie. Essi sono indo-europei e non semiti; si sottomettono in apparenza alle pratiche esteriori dell’Islam, ma il loro vero culto è una iniziazione “gnostica”, che comincia con la rivelazione del “mistero dei due”; adorano una divinità in cinque persone e si prostrano anche davanti agli alberi, al sole, alla luna, riveriscono gli animali, particolarmente il cane. Professano la metempsicosi; sono un residuo delle comunità manichee e buddhiste in ambito musulmano.

Islam, veicolo della gnosi

In un libro che ebbe il suo momento di celebrità, intitolato « Carlo Magno e Maometto », Henri Pirenne, storico belga, ha dimostrato che l’espansione dell’Islam intorno al bacino mediterraneo aveva provocato, sul piano economico, una frattura radicale tra il mondo cristiano d’Europa e l’Oriente. In precedenza i due mondi erano in relazioni costanti e numerose, il commercio nel Mediterraneo era fiorente, la navigazione era facile e senza rischi poiché la flotta bizantina assicurava la sicurezza e faceva da polizia, sull’insieme di questo mare chiuso. Successivamente Henri Pirenne sviluppa nella sua opera le conseguenze di questa rottura in Occidente: la sparizione dei grandi assi commerciali, l’assembramento delle popolazioni intorno alle roccaforti in una stretta autarchia, la decadenza dell’autorità politica malgrado i tentativi di Carlo Magno per ristabilire un grande Impero dell’Occidente che rifiorirà dopo la sua morte. – Se Henri Pirenne non si fosse limitato al solo piano economico, nella sua ricerca nuova e suggestiva, egli avrebbe scoperto un’altra causa ben più fondamentale in questa frattura tra Occidente cristiano ed mondo musulmano.  – Prima dell’Islam, tutti i popoli insediati intorno al Mediterraneo, federati con Roma, partecipavano ad una medesima civilizzazione greco-latina. Essi furono tutti cristianizzati nella stessa epoca, e se questa civilizzazione romano-cristiana poteva assumere degli aspetti diversificati secondo i caratteri peculiari a popolazioni di razza ed origine così variate, restava non meno fondamentale che l’essenziale dei costumi e delle credenze comuni erano un cimento di unità notevole, malgrado le dispute teologiche e le dispute per la successione sul trono imperiale. – Ora, all’arrivo dell’Islam, in Oriente ed in Africa si produssero due fenomeni simultanei e complementari. All’inizio una decadenza dell’autorità politica: i capi arabi musulmani furono incapaci di creare un grande impero unificato. Dopo aver distrutto la rimarchevole amministrazione romana, essi si costituirono dei principati feudali, un po’ come in Occidente, in perpetue guerre intestine. I califfi di Damasco, poi di Bagdad erano incapaci di mantenere un potere politico stabile; essi stessi si massacrarono e si avvelenarono reciprocamente e la storia di questi principi musulmani non è che una lunga serie di orrori. Poi una unità culturale, dovuta al fatto che l’Islam si è diffuso in tutto il mondo musulmano mediante la lingua araba, imposta talvolta con la forza, ma spesso accettata con la nuova religione. Questa lingua araba si è sostituita al latino, al greco, all’aramaico, all’egiziano, ai dialetti berberi. Essa è stata il legame necessario tra le popolazioni disperse intorno al Mediterraneo e separate dai dissensi e dalle guerre perpetue che opponevano i califfi e le signorie arabe costantemente in rivolta. – Ma tanto vale una lingua, quanto una cultura che essa veicola. Ora il ruolo dell’arabo fu quello di tagliare questo mondo musulmano dalla cultura greco-latina e cristiana. Le popolazioni  già cristiane, floride e felici, regredirono rovinosamente verso una pseudo-cultura araba, caratterizzata dall’analfabetismo, dall’abbrutimento degli spiriti, dal disprezzo per tutte le attività intellettuali, dall’inattitudine congenita al progresso morale e spirituale. Da ciò derivava una civilizzazione sclerotizzata, rappresa nella massa delle popolazioni convertite ed il ricorso costante agli schiavi cristiani ogni qual volta un principe musulmano voleva sviluppare intorno a sé un po’ di lusso e di arte. Che l’Islam abbia tenuto incessantemente un ruolo distruttivo, questo è ben risaputo. – Ma la conseguenza fondamentale di questi due fenomeni è non solo una rottura tra l’Occidente cristiano ed il mondo musulmano, ma pure la formazioni di una barriera infrangibile tra i due mondi. La diversità di lingua ha provocato una ignoranza, poi una incomprensione, infine una ostilità dichiarata e definitiva. La guerra religiosa ininterrotta ne fu la manifestazione più suggestiva. Il mondo cristiano si armò contri i Saraceni che, essi stessi, massacrarono con furia e crudeltà i resti delle antiche comunità cristiane che non avevano potuto islamizzare. E dopo di loro non è stato mai possibile colmare il fossato fra questi due mondi antagonisti. Al momento delle crociate, i signori franchi costituirono in terra islamica dei principati cristiani che poterono sopravvivere per circa un secolo in un ambiente così ostile. Se hanno potuto istaurare una sorta di “modus vivendi” con le popolazioni che vi si erano sottomesse, se hanno potuto proteggere le comunità cristiane non ancora completamente massacrate, come gli Armeni, essi si sono scontrati con un ostacolo insormontabile, l’impossibilità quasi assoluta di convertire un musulmano al Cristianesimo: è questa la ragione principale per la quale non hanno potuto “resistere” in Oriente e sono finiti per essere rigettati in mare, “vomitati”, per così dire, dall’Islam. Tutto questo per arrivare al nostro proposito fondamentale. Fino alla colonizzazione europea del XIX secolo, il mondo musulmano è totalmente sfuggito ad una influenza occidentale e cristiana. Non c’è mai stato il benché minimo inizio di osmosi nel senso dell’Occidente verso l’Oriente. Ma curiosamente, lo vedremo, è l’Oriente musulmano che è penetrato nella nostra Europa cristiana. I contatti ripresi nel corso delle crociate, non hanno provocato che un movimento in senso contrario sul piano della cultura. Le crociate sono partite ferocemente come anti-musulmane, per combattere i saraceni. Nello stesso tempo, tutta una letteratura in lingua araba è stata tradotta in latino ed ha diffuso nell’Occidente cristiano dei temi letterari e religiosi venuti dall’Oriente. Noi ora costatiamo che queste traduzioni contengono essenzialmente la gnosi d’Asia e sono penetrate fino a noi attraverso due vie privilegiate, la Sicilia e la Spagna, Spesso queste traduzioni sono state eseguite da giudei che hanno “trasportato” così le opere dei filosofi e poeti persiani o siri, e ne hanno diffuso il contenuto in Europa. È quanto andremo a dimostrare.

PURIFICAZIONE DELLA VERGINE

PURIFICAZIONE DELLA VERGINE

Tre misteri. — Saviezza della legge della Purificazione. — Umiltà e obbedienza di Maria. — Esempio per le madri cristiane. — Cerimonie dell’andare in Santo. — Presentazione. — Umiltà e sacrificio del bambino Gesù. — Sacrificio di Maria. — Incontro del santo vecchio Simeone. — Sue predizioni. — Suo cantico di morte. — Origine della festa della Purificazione. — Sapienza della Chiesa. — Disposizioni alla festa.

Da Natale fino alla Purificazione la Chiesa si ritiene in adorazione davantial Bambino di Betlemme, poiché vuole che siano profondamente penetrati delle lezioni che Egli ci dà, e perché il suo presepio è una cattedra espressiva, dall’alto della quale ei ci istruisce. Quaranta giorni dopo la nascita del Salvatore ella ci convoca solennemente; ma non è più dentro il presepio che offre il Dio bambino alle nostre adorazioni. – Il tempio di Gerusalemme è per ricevere per la prima volta una vittima degna del Dio che vi si adora. Partiamo per la città santa, ove Maria ci precede portando tra le braccia il suo Figlio, sorretta nelle fatiche del viaggio da un vecchio che l’accompagnava, vale a dire da san Giuseppe, il virtuoso discendente della reale stirpe di David. – Il due febbraio, tre misteri sono presentati alle nostre meditazioni : La Purificazione della santa Vergine; la presentazione di Gesù al tempio: l’incontro dei santi vecchi Anna e Simeone.

I. Purificazione. — Figlio di padre colpevole, l’uomo è macchiato fino dal suo concepimento; e il parto d’un ente macchiato fa contrarre una specie d’immondezza alla madre. Domma profondo e terribile, sorgente d’umiltà, di purità, di santo timore per i genitori, la cui memoria volle Dio che fosse perpetuata di generazione in generazione. Poiché ecco quello che disse il Dio della santità nel dettare le sue leggi a Mose. Parla ai figliuoli d’Israele, e dirai loro: La donna la quale rimasta incinta partorirà un figliuolo maschio, sarà immonda per quaranta giorni. Non toccherà nulla di santo e non entrerà nel santuario fino a tanto che siano compiuti i giorni di sua purificazione. Che se avrà partorito una bambina, ella sarà immonda per ottanta giorni. E compiuti che siano i giorni della sua purificazione pel figliuolo ovver per la figlia, porterà all’ingresso del tabernacolo del testimonio un agnello dell’anno per l’olocausto, e un colombino o una tortora per il peccato, e darà queste cose al sacerdote (Levit. XII, 2-6). Il sacerdote offriva l’agnello in olocausto, affine di confessare il sovrano dominio del Signore, e insieme ringraziarlo pel felice parto della madre; e quanto alla colomba o alla tortorella, queste venivano offerte per il peccato. Compiuto il doppio sacrificio la donna rimaneva purificata dalla sua immondezza, o peccato legale, ed era ristabilita nei suoi antecedenti diritti. Continuando poi il Signore a parlare a Mose aggiunge: Che se ella non ha il modo di poter offrire l’agnello, prenderà due tortore, ovvero due colombini, uno per l’olocausto e l’altro per il peccato: e il sacerdote farà orazione per lei, e così sarà purificata (Levit. XII, 8). – Maria, resa dal suo parto divino più pura e più vergine, era sicuramente esente dalla cerimonia della purificazione, Ella tuttavia si sottomise e stando alla lettere della legge si presentò al tempio quaranta giorni dopo la nascita del Salvatore. Discepola del proprio Figlio, che occultava la divinità sotto la debolezza dell’infanzia, Maria volle celare la sua augusta prerogativa di Madre di Dio, regolandosi quanto all’apparenza come le donne comuni. Chi potrà a tanto esempio astenersi dallo esclamare: Vive forse in noi quello spirito di Gesù e di Maria? Ahimè! l’orgoglioso è sollecito di pubblicare i suoi meriti, e spesso se ne vanta senza possederli: è egli forse questo il nostro ritratto? L’umile, pago degli sguardi di Dio, si delizia nella sua oscurità: siamo noi tali? Maria, perché povera e Madre d’un Figlio che secondo le profezie doveva nascere e vivere povero, si presentò al tempio con due tortorine, come la legge esigeva. La figlia di David, la Madre del Messia, non poté presentare che l’offerta dei poveri! Ripensando a ciò, allorché veggo disprezzata la povertà mi offendo e mi adiro, perché quanto spesso sotto i cenci del povero si rifugia ed alberga la dignità e la nobiltà! E chi assicura che sotto misera veste non si asconda un figlio di re, o che un logoro velo non celi una pronipote di regina? Forse qualche orgoglioso ricco di Gerusalemme avrà guardato con insolente disdegno la coppia, che non recava al tempio fuorché le due colombe del povero; forse nell’atrio del tempio, presso l’altare dei sacrifici, l’uomo dal mantello di porpora e con i sandali a borchie d’oro avrà contrastato il passo a Giuseppe e a Maria ….! Eppure, sappi, o dissennato favorito della cieca fortuna, che quell’uomo, che porta le due colombe, è un discendente degli antichi tuoi re! Quella donna si timida, sì bella e sì umile è una figlia di David! Quel fanciullo…. è il padrone del mondo! S’ei volesse, con la sua piccola mano rovescerebbe le colonne dei tuoi palazzi, spezzerebbe i cedri delle tue colline, farebbe perire le messi delle tue campagne. Quella offerta, per quanto ti sembri meschina, è mille volte più accetta delle tue. Il cuore che la presenta è il più perfetto di tutti, e Iddio considera il cuore come l’anima dei sacrifici. Non dimentichiamo questa dottrina, ed una carità viva, sincera, dia pregio anche alle nostre minime azioni.La purificazione di Maria è dunque il primo mistero che la festa del due febbraio presenta alle nostre meditazioni. Quantunque i riti giudaici restassero abrogati dall’istante della promulgazione del Vangelo, si è mantenuto il costume nelle madri cristiane d’imitare, la prima volta che escono, l’esempio della santa Vergine, la quale sommettevasi volontariamente ad una legge che non la comprendeva. Esse vanno alla chiesa a ricevere la benedizione del sacerdote e a dimostrare a Dio la loro gratitudine. Per altro le madri cristiane non recansi alla messa con lo scopo che si proponevano le donne Giudee nell’andare al tempio; ma bensì per offrire al Signore un giusto tributo di lodi e di azioni di grazie. Ecco in qual modo circa tale argomento il pontefice Innocenzo III si esprime: « Se le donne desiderano entrare nella chiesa subito dopo il loro parto, esse non peccano entrandovi, né debbono esserne impedite; ma se per rispetto, piace loro piuttosto di starne per qualche tempo lontane, non crediamo sia da biasimare la loro divozione ». Né solamente la Chiesa non disapprova una tale usanza, ella anzi la incoraggia. Alcune diocesi hanno stabilito il numero dei giorni, dopo i quali si fa la cerimonia d’andare in santo, e bisogna uniformarvisi. Nei luoghi ove non è cosa alcuna di stabilito, una madre cristiana deve adempiere questo dovere appena può uscire senza rischio della salute; ed infatti non è egli anzi un debito di giustizia che la sua prima visita sia fatta alla Chiesa?Quivi ella deve primieramente ringraziare il Signore della sua felice liberazione, e pregarlo di spargere le sue benedizioni tanto sopra di lei, quanto sopra la sua prole. Deve in secondo luogo chiedere gli aiuti di cui abbisogna per educare alla virtù il fanciullo che ha messo al mondo, e adottare una stabile risoluzione di preservarne l’anima dai pericoli del peccato. Che cosa infatti le gioverebbe esser divenuta madre, se il frutto delle sue viscere dovesse cadere in potestà del demonio, ed esser poi condannato ai supplizi dell’inferno? Consacri ella dunque il proprio figlio al Signore, che questo suo sacrificio non può non essergli gradito, s’ella nutre le disposizioni in cui era la santa Vergine nel giorno della sua purificazione. Mezzo certamente idoneo ad inspirarle tali disposizioni sono le preghiere della Chiesa nella cerimonia dell’andare in santo. La madre cristiana che va a ricevere la benedizione dopo il suo parto, si ferma all’ingresso della chiesa, vi sta in ginocchio tenendo in mano una candela accesa, per dimostrare che si crede indegna di comparire davanti a Dio, il suo ardente desiderio di partecipare alle divine misericordie.Il sacerdote in cotta e stola bianca le si avvicina e recita il salmo ventitré: salmo che più d’ogni altro è opportuno alla circostanza. Egli ripete alla madre cristiana le virtù che procureranno a lei ed al figlio la somma ventura di abitare la santa montagna di Sion; le rammenta il dominio assoluto del Signore sopra le creature tutte, e poscia le ricorda la gratitudine e la sottomissione illimitata che a Lui sono dovute. Dopo aver dato alla donna tutte queste utilissime lezioni, il sacerdote le presenta il lembo della sua stola e le dice: « Entra nel tempio di Dio, e adora il figlio della beata Vergine Maria che ti ha concesso la fecondità. Il rito di presentare il lembo della stola è cerimonia che racchiude un’alta significazione, poiché, essendo la stola emblema della potestà sacerdotale, il prete nel porgerla alla donna le dice in misterioso linguaggio: « In nome di Dio, ch’io qui rappresento, sii purificata dall’immondezza che avresti potuto contrarre; il Signore ti permette di entrare nel suo tempio ed aggradisce l’omaggio di gratitudine che tu vieni ad offrirgli ». – Giunta la madre cristiana a pie’ dell’altare, il sacerdote le dice, essere il Signore soltanto che dà la virtù di ben educare i figliuoli e concede prosperità alle famiglie; dover ella mettere in lui tutta la sua fiducia per adempire il difficile uffizio di madre cristiana; in fine invoca sul capo della nuova Eva tutte le benedizioni del cielo. – Or dite, per fede vostra, se possa darsi altra circostanza in cui la donna ne abbia maggior bisogno? Non è ella forse, fragile creatura, incaricata di formare un cittadino utile alla società temporale, un figlio alla Chiesa, un fratello a Gesù Cristo, un santo al cielo? E non è forse in grembo alla madre che si decide l’avvenire dell’uomo, la pace delle famiglie, la felicità del mondo? Penetrati da tutti questi gravi pensieri, il sacerdote e la madre cristiana incominciano a pie’ dell’altare, in presenza di Dio e degli Angeli, uno di quei dialoghi inimitabili, che niuna favella può esprimere tranne quella del culto cattolico. Il sacerdote dice alla donna: «Non ti scoraggiare; il nostro soccorso è riposto nel nome del Signore ». E la donna risponde, per bocca del chierico: « Che ha fatto il cielo e la terra ».

– Il sacerdote: « Signore, salvate la vostra ancella ».

– La madre: « Mio Dio, voi sapete ch’egli spera in voi ».

– Il sacerdote: « Inviatele il vostro aiuto dall’alto del vostro santuario».

– La madre: « Proteggetela dal sommo della santa Sionne ».

– Il sacerdote: « Che il nemico nulla possa contro di lei ».

– La madre: « E il Figlio dell’iniquità non arrivi a nuocerle ».

– Il sacerdote: « Signore, esaudite la mia preghiera ».

– La madre: « E le mie voci giungano fino a voi ».

– Il sacerdote: « Preghiamo. — Dio eterno ed onnipotente, che pel felice parto della Vergine Maria avete cangiato in gioia gli acerbi dolori delle madri, rimirate con bontà la vostra ancella, e concedete, per l’intercessione di quell’augusta Regina, a costei, che viene oggi nel vostro tempio a rendervi solenni grazie, di pervenire insieme col suo figlio all’eterna beatitudine: per i meriti del Nostro Signore Gesù Cristo ».

.- La madre: « Così sia! » – Il sacerdote le indirizza qualche pia esortazione per assodare in lei quei sentimenti di riconoscenza e di devozione che l’hanno condotta ai piedi dell’altare, e per animarla a consacrare al Signore la propria vita e quella del figlio; ovvero le porge parole di consolazione, se, a guisa di Rachele, ella pianga il figlio suo, già divenuto preda di morte, e rialza il suo coraggio rammentandole la sua felicità per essere madre di un angelo. Quale sarà quella madre cristiana, quella madre che comprenda i suoi doveri e la sua dignità che possa dispensarsi da questa nobile cerimonia? Ah! lasciate che se ne esimano soltanto quelle che non hanno rendimenti di grazie da fare al Signore per la conservazione dei propri giorni e di quelli del figlio, né consigli, né conforti da ricevere, né lumi, né aiuti, né benedizioni celesti da impetrare per l’educazione dei fanciullo confidato loro dal cielo. – Il sacerdote benedice il pane che la madre gli presenta; il qual uso rammenta le due colombe di Maria, e la parte che la madre cristiana desidera prendere al sacrificio che viene offerto alla Chiesa. – Il sacerdote, facendole baciar la croce ingressa sopra la stola, la benedice dicendo: « La pace e la benedizione di Dio Onnipotente, Padre, Figliuolo e Spirito Santo, discendano sopra te e sopra il tuo figlio, e vi rimangano in perpetuo». – La madre risponde: « Così sia » Amen! – Ei finisce con aspergerla leggermente di acqua benedetta, affine di renderla più santa, più fedele ai suoi nobili doveri e più degna de’ benefizi del Signore.

II. Presentazione. — Il secondo mistero che la Chiesa venera nel due febbraio è la presentazione del bambino Gesù al Tempio. Voi ben rammenterete che l’Angelo sterminatore il quale aveva ucciso tutti i primogeniti degli Egiziani aveva risparmiato quelli degli Ebrei. In memoria pertanto di tale avvenimento, e per mostrare il suo supremo dominio su tutte le creature, Dio aveva dettata a Mosè la legge seguente: Consacra a me tutti i primogeniti, tanto degli uomini che dei giumenti, giacché sono mie tutte le cose. E quando in appresso domanderà a te il tuo figliuolo: Che è questo? gli risponderai: con braccio forte ci trasse il Signore dalla terra di Egitto, dalla casa di schiavitù. Imperocché, essendosi il Faraone ostinato a non voler lasciarci partire, uccise il Signore tutti i primogeniti dalla terra di Egitto, dal primogenito dell’uomo, fino al primogenito dei giumenti: per questo io offerisco al Signore tutti i primi parti maschi, e riscatto tutti i primogeniti dei miei figliuoli (Es. XIII, 3-14-15). – Si riscattavano i figli primogeniti con una modica somma, cioè mediante cinque sicli di d’argento. Maria portò dunque il suo Figlio al tempio onde offrirlo al Signore per mano del sacerdote, poi diede i cinque sicli per riscattarlo, e lo ricevé tra le braccia come un deposito affidato alla sua cura fino al momento in cui il Padre Eterno lo avrebbe ridomandato per compier l’opera della Redenzione del genere umano. – Egli è fuori di dubbio che Gesù non era compreso nella legge; perché, dice sant’Ilario, se un figlio di monarca erede della corona è esente dalla servitù, a quanto più forte ragione Gesù Cristo, che era il Redentore delle nostre anime e dei nostri corpi, era dispensato da riscattare se stesso! Ma questo divino Salvatore voleva darci un esempio d’umiltà, d’obbedienza e di devozione; Egli voleva rinnovare nel tempio, e ben anco in modo solenne, l’offerta ch’Egli aveva fatta al Padre suo fino dal momento della sua incarnazione. In questo giorno Gesù accettò solennemente la croce, i supplizi, la corona di spine, la canna dell’ignominia, la veste di derisione, il fiele, l’aceto e la morte. In questo stesso giorno il Padre Eterno ricevé un sacrificio valevole a disarmare la sua collera accesa dai nostri peccati, e a strappare le anime nostre a quel fuoco divoratore che non si estinguerà giammai (Matt. XVII, 11). – Desideriamo noi di entrare nello spirito di questo mistero? E chi di noi non lo vorrebbe? Ebbene, dall’interno del tabernacolo come pure dal fondo del presepio e dall’alto della croce non ci grida Egli forse: « Io vi ho dato l’esempio, affinché come ho fatto io facciate voi pure? » Offriamo dunque a Dio in questo giorno noi stessi con la grande vittima del mondo; offriamo i nostri due oboli, il nostro corpo e l’anima nostra. Per quanto meschino sia questo, il nostro sacrificio, unito a quello del divino Redentore, non sarà rigettato. Guardiamoci solamente dal renderci colpevoli di rapina nell’olocausto, vale a dire dal riserbare una parte delle nostre affezioni per il peccato e per le creature. – Esaminiamo con tutta schiettezza e interroghiamo noi stessi: ci siamo noi mai offerti a Dio senza riserva e senza divisione? O mio cuore, a chi appartieni tu oggidì, in quest’ora, in questo momento in cui io leggo queste linee? Povero cuore! tu hai forse a vicenda servito di vittima a tutti gli Dei stranieri: tutto forse fino ad oggi è stato Iddio per te, tranne Dio! Su dunque a Dio solo da quest’istante e per sempre, non è vero? Non paventare, tu sarai bene accolto; il tuo Dio non guarda a quello che tu sei stato, ma a quello che sei, e a quello che vuoi essere. – Il divino Fanciullo, nostro specchio e maestro, volle essere presentato al tempio per mano della sua santa Madre. Preghiamo anche Maria, che si assuma la cura di presentarci a Dio; è dessa la tesoriera delle grazie. Qual mezzo è più idoneo ad eccitare in noi un’intera fiducia fuori della potente di Lei mediazione? Ciò posto io domando che cosa potrebbe Dio ricusare a Maria in questo giorno, in cui Ella fa il più eroico sacrificio che possa immaginarsi? Propongasi ad una madre: Una città è condannata a perire se non si trova una vittima; per salvarla, vi si domanda l’amato vostro figlio, l’unico oggetto della vostra tenerezza; Egli sarà insultato, vilipeso, percosso, straziato, posto a morte sulla croce; vi acconsentite voi? Chiamo in testimonianza tutte le madri: non ve ne avrebbe pur una che non preferisse morire in luogo del figlio suo; non una che non rigettasse con tutta l’energia della sua tenerezza una simile proposizione. E frattanto Maria, la tenera Maria, la Madre la più affettuosa del più amato Figlio, accetta la richiesta del Padre Eterno, e acconsente; ecco qual è il sacrificio ch’Ella fa in questo giorno! Come dunque pensare che il giusto e buon Dio, che ricompensò sì magnificamente il sacrificio figurativo d’Abramo, sarà poi scortese per Maria, e potrà chiudere l’orecchio ed il cuore quando Ella si presenterà per chiedergli qualche cosa in nostro favore? È empietà pensarlo, bestemmia il dirlo.

III. Incontro dei santi vecchi. — Il terzo mistero, che il due febbraio ci richiama alla memoria, è l’incontro che accadde nel tempio fra il vecchio Simeone e la profetessa Anna con Gesù e i suoi genitori. Maria aveva fatto il suo sacrificio; Ella aveva detto a Dio: Io vi offro il vostro Figlio ch’è anche il mio. E già stava per discendere i gradini del tempio e per ripigliare il sentiero di Nazaret, allorché le mosse innanzi un vecchio. Simeone il Giusto, che affrettava con tutti i suoi voti il Redentore d’Israele, Simeone a cui Dio aveva promesso di non richiamarlo dal mondo prima di avergli mostrato il Desiderato delle nazioni, fermò quei santi personaggi, li benedisse, prese tra le braccia il divino Fanciullo, poscia restituendolo alla Madre intuonò questo splendido inno: Adesso lascerai, o Signore , che se ne vada in pace il tuo servo, secondo la tua parola; perché gli occhi miei, hanno veduto il Salvatore dato da te, il quale è stato esposto da te al cospetto di tutti i popoli, luce a illuminare le nazioni, e a gloria del popolo tuo Israele!-  Deh! quali furono, o Maria, gli affetti del tuo cuore materno, allorché ascoltasti le benedizioni e le profezie del santo vegliardo! Ma le gioie stanno per mutarsi in affanno: ascolta di nuovo Simeone: Ecco che questi è posto per mina e per risurrezione di molti in Israele, e per bersaglio alla contraddizione; e anche l’anima tua stessa, o Maria, sarà trapassata dal coltello, affinché di molti cuori restino disvelati ì pensieri s .[Luc. II, 29-34-35].  – E quali saranno questi pensieri? Li conoscerai un giorno, o Madre amorosissima al giardino degli Olivi, a Gerusalemme, lungo la via della Passione, sul Calvario! Maria, piena di rassegnazione, aveva ricevuto fra le braccia il divino suo Figlio ed era per ritirarsi, ma ecco che una santa femmina sorge a proclamare alla sua volta le grandezze di Gesù. Eravi allora in Gerusalemme una profetessa chiamata Anna, figlia di Fanuele, e che era avanzata in età e vedova da lungo tempo, non avendo vissuto col marito suo che sette anni. Quella vera Israelita passava la vita nel tempio, pregando e digiunando e facendo opere pie; era in lei lo Spirito di Dio. E quando ella ebbe udito il cantico di Simeone, anch’ella incominciò a lodare il Signore e a parlare di Gesù a tutti quelli che aspettavano la salute e la redenzione d’israele. Fortunati vegliardi! Chi mai non avrebbe ambito la vostra sorte! Voi trovaste il Salvatore del mondo, voi lo vedeste, voi ne proclamaste le lodi! Vogliamo noi ora gustare la stessa felicità? Rechiamoci al tempio guidati dallo Spirito di Dio, dove troveremo Gesù e Maria, dove ci sarà concesso godere della loro presenza e del loro colloquio, sicché potremo parlarne a tutte le anime fedeli che aspettano gemendo la salute d’Israele, la consolazione delle loro pene e la gloria della Religione.

IV. Origine della festa. — La festa della Purificazione vien detta comunemente Candelora, per motivo de’ cerei che in tal giorno si accendono; festa e cerimonia che ne forniscono una prova novella della divina sapienza della Chiesa. Nel mese di febbraio Roma pagana celebrava le feste denominate Lupercali, instituite ad onore di Pane, deità dei pastori, il culto del quale era stato recato in Italia da Evandro. Questo principe gli aveva consacrato la celebre caverna detta Lupercal, situata alle radici del Palatino, entro cui Romolo e Remo ebbero il latte dalla lupa, e dove in oggi sorge una chiesa dedicata alla Regina degli Angeli. Di buon mattino i sacerdoti di Pane, chiamati Luprici, si recavano al tempio di tale Deità, a cui immolavano in sacrificio un cane e alcune capre di color candido; in seguito si spogliavano delle loro vesti e armati di staffili formati di pelle di capra correvano come furibondi per le strade della città percuotendo tutti coloro in cui si abbattevano, e le donne specialmente, le quali per parte loro si esponevano a gara a tale stranissima cerimonia, che per avviso dei Pagani aveva a scopo la purificazione della città. Da ciò appunto ebbe nome il mese di febbraio (februarius), poiché februa presso i Romani denotava sacrifìci di purificazione. Tali erano le feste di quella Roma che era a capo dell’antico incivilimento. – Alla fine del quinto secolo continuavano a sussistere numerosi vestigi di quel culto bizzarro, né il sacerdozio del Dio Pane venne completamente abolito fuorché nel 512 per decreto dell’imperatore Anastasio, sebbene fin dall’anno 496 il Pontefice Gelasio avesse posto in opera ogni mezzo per distruggere le nefande cerimonie Lupercali. A tale effetto egli aveva appunto instituito la festa della Purificazione della santa Vergine, contrapponendo con ciò una reale purificazione ed espiazioni veramente sante alle impure espiazioni dei Pagani. – Da Roma passò, dopo qualche anno, a Costantinopoli, dove fu celebrata con magnificenza e fervore straordinario per impetrare la cessazione della spaventevole pestilenza che divorava in quella città fino a cinque mila persone per giorno. Ciò non ostante è facile arguire da molti monumenti che la festa della Purificazione era anche prima d’allora osservata in molte chiese particolari, sicché la sua primitiva istituzione si perde nell’oscurità dei tempi. – Perciò che spetta alla processione di tal giorno con cerei accesi, è mestieri stabilirne l’origine innanzi al sesto secolo. Venne questa instituita col disegno di opporre un rito edificante e utile in pari tempo ad una cerimonia pagana che fondavano nella superstizione, ed era accompagnato da disordini; vale a dire quelli che celebravasi dai Romani sotto il nome di Feste Amburvali. Feste ridicole, che accadevano ad ogni quinquennio e nelle quali il popolo percorreva le strade di Roma con torce accese. Pervenuti i Romani a sottomettere al loro impero tutte le nazioni della terra, avevano perciò imposto ad esse un tributo che pagavasi ogni cinque anni nella circostanza del censo quinquennale. Allorché il denaro era giunto nel tesoro della Repubblica, un mese intero, e quello precisamente di febbraio, era impiegato nel correre le vie e le piazza con fiaccole ardenti, in onore degli Dei Infernali, ai quali Roma si credeva debitrice della conquista della terra. – I sommi Pontefici distrussero questa festa mediante un’altra festa: e perciò il giorno di febbraio, il popolo ed il clero adunati si recano in processione con gran solennità con accese in mano per le strade della città eterna, celebrando e cantando altamente le laudi del vero vincitor del mondo e dell’augusta sua Madre; di quel Dio del Calvario che aveva impartito a Roma, in luogo dello scettro di forza, un dominio ben più glorioso, più esteso e più potente vale a dire quello della fede. Il popolo tutto, partendo dalla chiesa di S. Adriano, si recava a quella di santa Maria Maggiore faendo ardere migliaia di cerei, in omaggio delle splendide vittorie riportate da Maria e da Gesù suo figlio. – Tutte le torce, che splendono durante la processione o in tempo della Messa, e che alla sera illuminano con tanta maestà i templi cristiani, sono inoltre una rimembranza di quelle parole del cantico di Simeone: «Questo Fanciullo sarà la luce di Israele». Ogni fedele col suo cereo acceso è simbolo espressivo di quelle disposizioni di fede viva e di carità ardente con le quali si deve andare incontro l’Agnello divino: simbolo affettuoso, che sarebbe sì fecondo di religiose meditazioni! Chi fra voi in passato ha volto i pensieri a tali meraviglie? Potreste mai dopo il presente avvertimento ricusare di farne talvolta un aggetto di riflessioni?

V. Disposizioni alla festa. — Chi desidera di celebrare degnamente la festa di questo giorno procuri di ben comprendere i tre misteri che ci rammemora. Ammiriamo, chiediamo, e sforziamoci particolarmente d’imitare la profonda umiltà della santa Vergine. Questa nobile virtù divenga per l’avvenire il fondamento e la difesa di tutte le altre; sia esso l’obbietto continuo delle nostre meditazioni e delle nostre preghiere, oggi specialmente in cui il mondo corre a rovina, spinto da orgoglio e da amore di indipendenza. Non dimentichiamo lo zelo e l’esempio di Gesù bambino; procuriamo che metta radice profonda nel cuor nostro, deploriamo di averne fatto sì poco conto in passato, non ostante le mille occasioni e i mille motivi di doverla esercitare. Uniamoci finalmente a Simeone ed Anna nel loro santo entusiasmo; impariamo a mettere, com’essi, Iddio e la sua grazia al di sopra di tutte le cose, e preghiamolo ad infonderci in cuore un sincero disgusto verso tutto ciò che non è Dio.

Preghiera.

O mio Dio, che siete tutto amore, io vi ringrazio che abbiate inspirato alla vostra Chiesa di stabilire la festa della Purificazione; fateci la grazia che possiamo imitare gli splendidi esempi di umiltà e di obbedienza che ci hanno lasciati Gesù e Maria. – Mi propongo di amar Dio sopra tutte le cose, e il prossimo come me stesso, per amor di Dio, e in prova di questo amore mi purificherò con ogni diligenza dalle prave intenzioni nel venire alla chiesa.

GNOSI TEOLOGIA DI sATANA -18-: GNOSI ED ISLAM (2)

Gnosi, teologia di satana

“omnes dii gentium dæmonia”

GNOSI ED ISLAM (2)

[da E. Couvert: “La gnose universelle”, cap. II]

 I temi gnostici nel Corano

Nel 1874, il professor Adolf von Harnak, nella sua tesi di laurea, dichiarava che il maomettanesimo non era che una lontana derivazione della gnosi giudaico-cristiana e non certo una nuova religione. Egli ha mantenuto costantemente questa visione fondamentale. È quanto andremo per l’appunto a dimostrare. L’autore del Corano è un religioso, un monaco giudeo-cristiano, appartenente ad una comunità derivata dagli antichi ebioniti, i cosiddetti “poveri di Gerusalemme”. San Ireneo ci aveva già spiegato, nel II secolo, che questi ebioniti negavano la divinità di Gesù-Cristo e restavano molto legati alla pratica del mosaismo, rimproverando ai Cristiani della Grande Chiesa il loro abbandono della legge di Mosè. L’autore del Corano possiede una conoscenza minuziosa ed approfondita di tutto l’Antico Testamento. Secondo lui, pure, non esiste il Nuovo Testamento: Gesù-Cristo non è che un profeta della linea di Mosè. Le sue fonti sul Messia sono tutte chiaramente estratte da opere apocrife, rigettate dalla Grande Chiesa Cristiana greca e latina. La sua biblioteca è composta da pseudo epigrafi di carattere gnostico: « il Vangelo dell’infanzia », redatto in siriaco, il « Protovangelo di Giacomo il minore », il « Vangelo di Tommaso », opera gnostica oggi ben conosciuta, il « Vangelo dello pseudo-Matteo », redatto inizialmente in lingua ebraica. La maggior parte di questi apocrifi erano già tradotti in arabo in questa epoca. Si trovano ancora nella biblioteca di questo monaco ebionita, degli apocrifi dell’Antico Testamento, il « Libro dei giubilei », dal quale è estratta l’astrusa storia di satana lapidato, e « le rimostranze di Abramo a suo padre Tharé », come spiega Siderski, nel suo « Origini delle leggende musulmane nel Corano ». Ora il « Libro dei Giubilei » apparteneva alla letteratura ebionita tanto che se ne sono ritrovati degli estratti a Qumran. – L’autore del Corano tenta con tutte le sue forze di distruggere il dogma fondamentale del Cristianesimo, la divinità del Salvatore. Egli ha considerato infatti Gesù come un eminente profeta, come il Verso e lo Spirito di Dio, ma nelle linea degli altri profeti e legandolo direttamente alla rivelazione di Mosè. Per questo egli ha affermato che Maria, Madre di Gesù, era la sorella di Aronne e di Mosè:  « … O sorella di Aronne, tuo padre non era un padre indegno, né tua madre una prostituta » (come affermano i giudei). Ella era vergine, poiché Isaia lo aveva annunziato ed i libri apocrifi, come lo « pseudo-Matteo » ed il « Protovangelo di Giacomo », pure affermano. Dunque il Cristo Gesù, secondo questa svista clamorosa, non è che il nipote di Mosè! Occorre una audacia singolare, praticamente idiozia pura, per urtarsi con i secoli e proporre nel VII secolo una leggenda sì contraria a tutta la storia religiosa conosciuta da tempo. Henna Zacharias ha sviluppato bene questo punto capitale. Di conseguenza, Gesù-Cristo non sarebbe Figlio di Dio. Come potrebbe verificarsi questo? « … egli che ha formato i cieli e la terra, come potrebbe avere un figlio, lui che non ha compagna! ». – « Essi [i Cristiani] dicono: Dio ha un figlio. Per la sua gloria, no. Dite piuttosto che tutto ciò che è nei cieli e sulla terra gli obbedisce ». – « … Gesù è agli occhi di Dio ciò che è Adamo. Dio lo formò dalla polvere, poi disse: Sia, ed egli fu ». Gesù è dunque creato, non generato. Non c’è che un solo Dio. Gli arabi Cristiani professavano il dogma trinitario, ed impiegavano la parola Tathlith per designarlo; inoltre essi sapevano distinguere le tre Persone con il termine uqnum, di origine siriaca. L’autore del Corano si leva con forza contro questo dogma: « … o voi che avete ricevuto le Scritture, nella vostra religione, non oltrepassate la giusta misura, non dite di Dio che ciò che è vero. Il Messia, Gesù, figlio di Maria è l’apostolo di Dio ed il suo verbo che egli ha gettato in Maria. Egli è uno spirito che viene da Dio. Credete dunque in Dio, ai suoi apostoli, e non dite: c’è la Trinità. Astenetevi dal farlo. Questo vi sarà di danno, perché Dio è unico, gloria a Lui … » – « … gloria a Dio che non ha preso figli per sé  e che non ha soci nel suo regno, magnificate l’Altissimo! … » – « … Coloro che sono empi hanno certamente detto: Dio è il Messia, il figlio di Maria. Ora il Messia ha detto: O figli di Israele! Adorate Dio, il mio Signore, e vostro! A chiunque attribuisce associati a Dio, Dio interdice il giardino; costui avrà il fuoco come rifugio … », etc. – Per il Corano, i Cristiani che adorano Gesù sono dei “mushri kun”, degli “associatori”, poiché associano Gesù a Dio; sono dei politeisti, perché adorano tre dei; degli idolatri, poiché fanno di Gesù un idolo; degli infedeli, perché si rifiutano di seguire la legge di Mosè. In tutte queste accuse, sono coinvolti sempre i Cristiani e mai i popoli pagani dell’Arabia. C’è una volontà deliberata di staccare gli Arabi Cristiani di Siria dall’adorazione dovuta a Gesù Nostro Signore. – Infine Gesù-Cristo non è stato crocifisso! Nel negare la sua morte sulla croce, l’autore del Corano ha tolto ogni motivo di credere al suo Sacrificio espiatorio per il genere umano. Gesù-Cristo non è il Salvatore. Ora questa tesi è tutta propriamente gnostica. Il Vangelo apocrifo di Barnabè (lo pseudo-Barnabè) dice che … Dio permise che Giuda ebbe l’apparenza del Salvatore e fu crocifisso al posto suo. Basilide, altro gnostico d.o.c., pretende che si sostituì a Gesù-Cristo nientemeno che Simone di Cirene. I manichei affermano egualmente che Gesù non è morto se non in apparenza. È questo il docetismo (dal greco δοκειν = sembrare, apparire). – « Essi [i giudei] dicono: Noi abbiamo messo a morte il Messia, Gesù, il figlio di Maria, l’inviato di Dio. No essi non lo hanno ucciso, non lo hanno crocifisso. Un uomo che gli somigliava fu messo al suo posto e coloro che disputavano lassù, sono stati essi stessi nel dubbio. Essi non sapevano di scienza certa, non facevano che seguire un’opinione. Essi non lo hanno ucciso realmente. Dio lo ha elevato a sé, e Dio è potente e saggio ». – Il farneticante autore del Corano vuol dimostrare con ciò l’errore dei Giudei, fieri di aver crocifisso un impostore, e le discussioni tra gli gnostici che disputavano su chi fosse stato sostituito al Cristo sulla croce. Questa elevazione del Cristo, di cui parla il testo citato non ha il senso di cui parlano i Cristiani. La Bibbia racconta che l’ascensione di Henoch e di Elia in un turbine di fuoco; gli apocrifi raccontano egualmente quelle di Mosè e di Isaia, anche se si tratta ancora di una leggenda gnostica passata nei miti religiosi dell’Oriente e nel Corano. Questa “Ascensione” presuppone l’esistenza dei sette cieli, insegnati dai rabbini … al limite del settimo cielo, secondo essi, c’è “l’orizzonte superiore”, ove si trova il “giuggiolo del limite”, l’albero che bisogna attraversare per raggiungere l’ottavo cielo, che costituisce il Pleroma degli gnostici. Questi ultimi parlano pure di una “crocifissione”, cioè di un passaggio attraverso lo  σταυρος [stauros], la croce-limite. Il Corano che rigetta ogni idea di croce, vi ha sostituito un albero, il giuggiolo, ma l’idea è la stessa: il Cristo ha varcato il limite, così come Mani e come tutti i suoi successori, i Buddhas. – L’autore del Corano è dunque ben ispirato da tutta una letteratura apocrifa di carattere gnostico, che compone l’essenziale della sua personale documentazione sul Cristo. Ma se egli è cristiano a suo modo, egli è pure essenzialmente giudeo: i doni di Dio sono senza pentimento. Il popolo giudeo resta il popolo eletto, anche dopo la distruzione del tempio. Egli è fiero di appartenere al popolo giudeo ed attende la ricostruzione del tempio, come tutti i confratelli di religione, i monaci ebioniti [… fino ai massoni attuali]. Non si tratta quindi di convertire i popoli dell’Oriente al giudaismo: essi infatti non costituiscono il popolo eletto, ma devono essere esattamente preparati a vivere “more judaico”, seguendo la legge di Mosè, ma senza che sia loro attribuito il vero culto sacrificale del tempio. Così il Corano non comporta dei riti propriamente giudaici, i fedeli di Allah si “accontentano” di adorare e pregare Dio. Le loro moschee sono vuote di ogni presenza della divinità, non c’è Santo dei Santi, né altare per il sacrificio. Il vero culto di Dio non potrà che essere ristabilito dopo la ricostruzione del tempio. Ciò che mostra che gli Ebioniti, i « Poveri di Yahvé » sono rimasti fedeli all’Antico Testamento. – L’autore del Corano ha approfittato della eclissi che ha conosciuto nel VII secolo la potenza dell’autorità romana per riportare questi arabi Cristiani, detentori del potere politico, alla pratica dei « Timorati di Dio », cioè dei proseliti giudei del passato. Questi, non essendo giudei, non potevano avvicinarsi al culto sacrificale del tempio; essi restavano perciò sul sagrato: erano i “gérim”, di cui la parola “proseliti” è la traduzione greca. I musulmani praticano l’islam, la sottomissione a Dio; essi lo pregano attendendo il loro ritorno a Gerusalemme. È una religione di attesa, provvisoria. I temi gnostici riconosciuti nel Corano non sono passati nella pratica religiosa dei musulmani, perché restano “esoterici”, riservati agli iniziati. Li ritroveremo pertanto nei sufi. L’autore del Corano è molto severo con i Giudei che hanno seguito i rabbini precursori aderenti all’insegnamento di Gesù, secondo lui essi hanno distrutto la successione delle profezie, hanno diviso il popolo eletto. Egli dice loro: « Essi – i Giudei – non hanno creduto a Gesù; essi hanno inventato contro Maria una menzogna atroce». Egli aggiunge « tu troverai certamente che i più ostili a coloro che credono sono i giudei e gli associatori, e tu troverai che le persone più vicine a quelli che credono per amicizia, sono coloro che dicono: noi siamo Cristiani. Tra essi si trovano dei preti e monaci e queste persone si gonfiano di orgoglio ». è un testo capitale da comprendere bene: i giudei rabbini ed i Cristiani “associatori”, hanno tagliato in due la tradizione di Mosè, quella del Sinai. Solo i giudei Cristiani hanno conservato intatto il deposito della tradizione, completamente, fino a Gesù-Cristo compreso. Essi hanno dei sacerdoti e dei monaci, “i poveri di Yahvé”, gli ebioniti dunque! Essi hanno conservato la legge di Mosè, alla quale hanno aggiunto i loro consigli evangelici, che completano la legge, ed hanno così dunque la pienezza della legge, senza alcuna frattura. Essi ne sono fieri, orgogliosi. Un islamologo attuale, Roger Arnaldez, nel suo libro intitolato – “Gesù, figlio di Maria, profeta dell’islam”, mette fianco a fianco i testi del Corano, che tanto magnificano i monaci cristiani, e a volte li denunciano: “ Lo storico, egli dice, dovrebbe fare a proposito della diversità di questi testi, alla lettera contraddittori, numerose riflessioni e ricerche sulle circostanze che servirono loro da fondo”. Egli non ha compreso che esistevano due tipi di Cristiani, gli “associatori” che adoravano Gesù, ed i Giudeo-cristiani” che lo veneravano come un grande profeta. Siccome l’autore del Corano si rivolgeva a degli arabi già Cristiani, bisognava metterli in guardia contro i primi e convertirli alla religione cristiana giudaizzata dei secondi. L’autore del Corano è necessariamente quindi un monaco ebionita. San Gerolamo aveva spiegato già che le comunità ebionite erano numerose in tutte le città dell’Oriente, che possedevano delle sinagoghe, che si dichiaravano essere i « veri cristiani », che erano denunciati dai rabbini come una setta di mineani (provenienti cioè dallo Yemen). È evidentemente, in questa prospettive, che bisogna cercare l’autore del Corano non presso i nestoriani, veri cristiani adoratori di Gesù-Cristo e dunque incapaci di aver scritto questo libro. Si sono citati dei nomi, Bahira, Sergius, Giorgi, Nestore … agli storici proseguire le loro ricerche. – Infine un altro testo capitale del Corano ci mostra in quale ambiente gnostico vivessero gli ebioniti: « coloro che credono, coloro che praticano il giudaismo, i Cristiani, i sabei (coloro che credono in Dio e nell’ultimo giorno e compiono opere pie) hanno la loro retribuzione dal Signore. Su di essi alcun paura, perché non sarebbero stati rattristati … nel giorno della resurrezione, Dio distinguerà tra loro coloro che avranno creduto (cioè coloro che avranno praticato il giudaismo, i sabei, i cristiani e gli zoroastriani) e coloro che saranno stati “associatori”. Dio è testimone di ogni cosa. – Dunque per l’autore del Corano, i Cristiani (cioè gli ebioniti), i Sabei, e gli zoroastriani che praticano il giudaismo, e sono fedeli all’Antico Testamento, si oppongono radicalmente agli “associatori”, i Cristiani della Grande Chiesa che adorano Gesù-Cristo ed hanno rigettato la legge di Mosè. – I Sabei si chiamano ancora caldei, talvolta nazareni o cristiani di San Giovanni, perché pretendono di ricollegarsi a Giovanni il Battista e praticano un battesimo quotidiano per immersione. Essi si dicono pure mandei, dalla parola “manda” che significa “conoscenza”, dunque “gnosi”. La loro entità divina si chiama “gnosi di vita”, Si trova nella loro liturgia il buon pastore e la vigna. I loro testi sono stati codificati nell’VIII secolo, per resistere alla penetrazione dell’islam. Essi chiamano il loro uomo-Dio: Enosch-Uthra. Ora nei manoscritti manichei o buddisti dell’Asia centrale, Enosch è presentato come un avatar di Mani, il Bouddha. Il loro insegnamento è uniforme a quello dei manichei. Nel XI secolo, lo storico musulmano El Firdousi designa i monaci buddisti sotto il nome di sabeeni. – I zoroastriani sono anch’essi degli gnostici. Noi non sappiamo granché sulle stesso Zoroastro, chiamato Zarust nei manoscritti manichei e buddhisti. Il suo insegnamento è contenuto nel Zend-Avesta, redatto nel III secolo della nostra era, all’epoca in cui Mani diffondeva la sua dottrina in Persia ed in India. Si chiamava un “libro di Abraham”. Esso conteneva una storia della creazione, del diluvio, la vita di Adamo, di Giuseppe, di Mosè, di Salomone, presentati conformemente all’insegnamento della Bibbia. Vi si annuncia il Messia promesso, e la sua “stella”. I nestoriani pretendono che Zoroastro fosse discepolo di Geremia e che inviò i Magi a Bethlem per la nascita del Cristo. Era senza dubbio un giudeo anch’egli, insegnava nella città dei Medi a Urmia, nei pressi di Urumia, nel nord del Kurdistan attuale. Il suo insegnamento, ripreso da Mani è puramente gnostico, con un culto del sole, il doppio principio del bene e del male in eterno conflitto, etc. – Infine, come tutti, anche l’autore del Corano finì un giorno con il morire. I suoi discepoli, i signori musulmani di Siria, sbarazzatisi del loro maestro, poco toccati dagli scrupoli religiosi, ma avidi di domini e potenza politica hanno dovuto utilizzare il Cosano come uno strumento di asservimento e stordimento di popolazioni appena islamizzate, per depistarli dalla velleità che avrebbero potuto avere, di tornare al Cristianesimo o peggio, di fare appello ai “Rumi” ed alle armate bizantine alfine di sbarazzarsi dei loro nuovi tiranni. Da qui, non sappiamo più nulla. Agli storici indagare …

[2 – Continua …]