GREGORIO XVII: IL MAGISTERO IMPEDITO: COME ORIENTARSI? -1-

GREGORIO XVII:

– IL MAGISTERO IMPEDITO –

COME ORIENTARSI? -1-

  1. — Ortodossia

[lettera pastorale scritta l’11 febbraio 1968; «Rivista Diocesana Genovese», 1968, pag. 175-212.]

 Qualche sacerdote nostro ci ha confidato di non sapere orientarsi tra tante opinioni, novità e perfino contraddizioni. Ci ha detto: qui si pensa in un modo, là si pensa in un altro. Qui si fanno affermazioni e là si dice tutto il contrario. Su pubblicazioni, che porterebbero suggelli autorevoli, si leggono affermazioni sconcertanti. Persone di chiara fama non sembrano concordi tra loro su problemi di fondo. Noi abbiamo studiato teologia e tutte le materie che vi si collegano; siamo usciti dal seminario con idee chiare e definite: dobbiamo ora metterle in discussione? La nostra fede è intatta e piena; noi sappiamo che la Chiesa ci guida e dispone del carisma della infallibilità. E l’ancora alla quale restiamo attaccati. Ma è possibile darci un indirizzo, che ci tolga da questa situazione sconcertante? Noi sappiamo che tale domanda se la pongono altri, che non l’hanno presentata direttamente a Noi. Sappiamo, non fosse altro che per le molte lettere a noi indirizzate, che a porsi tale domanda sono legione1. [E’ quanto ancora oggi pochi prelati, si chiedono, quei pochi cioè che credono di essere ancora nella Chiesa Cattolica, non avendo ancora compreso di far parte di una “sinagoga gnostica” che si è infiltrata, eclissando la vera Chiesa di Cristo – ndr. -]. Fa parte del nostro più stretto dovere rasserenare in questioni poste con tanta ragionevolezza l’animo dei nostri sacerdoti. Pertanto, cari confratelli, abbiamo sentito l’obbligo di indirizzarvi questa lettera. Ci auguriamo che essa possa servire anche ai laici, ai quali insicuri indirizzi, mancanza di fondamenti istituzionali, deplorevoli influssi subiti, hanno suggerito le stesse sconcertanti domande [senza aver mai avuto risposte chiare! –ndr. – ] I fatti non si possono negare: bisogna lealmente ammetterli. Da alcuni anni proposizioni, che fino a dieci anni or sono avrebbero fatto rabbrividire tutti, circolano, assumono stile togato e asseverante, vengono bandite anche da centri editoriali importanti, da cattedre rispettate, da uomini di rilievo. Basta leggersi il volume di Maltha (che è impresso da qualche anno e pertanto non porta molte delle più recenti elucubrazioni) per rendersi conto del quanto la verità rivelata e la verità strettamente connessa con quella rivelata subiscano oltraggi anche sostanziali e come ormai l’infezione si sia estesa al campo morale. Ci dispensiamo dal fare riferimenti più precisi perché è sempre nostro principio astenerci assolutamente dalla polemica [anche verrebbero censurate subito – ndr, – ]. – Ci si può chiedere il perché del fatto. È giusto dare una risposta, anche perché il fatto in se stesso costituisce, per molte anime giuste, motivo di dolore, di perplessità, di ansia. La risposta sostanziale ci pare la seguente. Il concilio ebbe opportunissimamente dal romano pontefice piena libertà di parole, quella libertà era riservata ai soli padri del concilio. Accadde che, senza alcun diritto, se la presero altri

e se la presero in materie circa le quali gli stessi Padri non avrebbero potuto prendersela, senza smentire la professione di fede da essi fatta. Il concilio finì e per molti quella libertà indebita continuò. Fu essa a creare la confusione. [Il Santo Padre non poteva ovviamente dire, nella sua condizione di “recluso” e “sorvegliato speciale” e sotto costante pericolo di morte, che il Concilio era falso, che il “pontefice romano” era un infiltrato marrano agente degli “illuminati”, anzi egli stesso il patriarca della massoneria mondiale, come il suo amico don Villa gli aveva confidato, etc. etc. –ndr.-].  Accadde un altro fatto: molti che nella Chiesa non hanno facoltà di Magistero autentico, perché non sono vescovi, lasciando da parte i Vescovi (che col Romano Pontefice e sotto di esso sono maestri nella fede – il Romano Pontefice era appunto Gregorio XVII, G. Siri – ndr. – aventi autorità da Cristo) hanno ampiamente parlato, discusso, messo in dubbio ed in sostanza usurpato un potere che non avevano, dato che altra cosa è la ricerca aperta a tutti, altra cosa è l’errore proibito a chiunque. Ci fu insomma troppa e spigliata abbondanza di maestri per nulla autentici, qualche volta burbanzosi, asseveranti e critici degli stessi vescovi. Le lettere in materia dottrinale, che da due anni vengono collegialmente edite da importanti conferenze episcopali nazionali, rappresentano una reazione autorevole e veneranda a questo indebito trasferimento (per non dire usurpazione) di poteri. L’episcopato, dopo la debita paziente attesa che si addice a tutti i ministeri paterni, ha ormai preso la iniziativa che arriverà senza dubbio a eliminare il fatto dal quale trae origine questa nostra lettera [finora purtroppo non ci è dato confermare l’asserzione del Santo Padre – ndr. – ]. Che poi ci sia stata una libertà in concilio, nessuno vorrà ritenerlo elemento deteriore: gli basti pensare che per muovere anche un solo necessario passo in avanti bisogna pure slacciare qualcosa. – La libertà, qualche volta non legittima, ha recitato la sua parte e i suoi danni si vedono e non pochi li piangono; la autorità costituita da Cristo per ammaestrare gli uomini sulle vie della salvezza recita pure la sua onesta e legittima parte e certamente prevarrà. Noi, che come successori degli apostoli facciamo parte del collegio episcopale con e sotto Pietro, compiamo il nostro semplice dovere scrivendo la presente lettera. Le perplessità che abbiamo sentito da sacerdoti e da laici sono le seguenti, attenendoci a quelle che hanno un valore di fondo e non fono semplicemente facili lamentele di dettagli.

1) Ma la Chiesa cambia?

2) La religione cambia?

3) Abbiamo sbagliato tutto fin qui?

4) Se cade la colleganza e la coerenza tra un punto e l’altro del dogma, cade tutta la fede?

5) La morale è dunque diventata relativa, se oggi taluni affermano lecite azioni che fino a ieri abbiamo ritenuto peccaminose?

6) Noi sacerdoti in quanto mandatari della sacra gerarchia, abbiamo incora il potere di essere guida dei fedeli?

I sacerdoti, che ci hanno parlato o scritto sull’argomento, non hanno chiesto tanto delle elecubrazioni, ma, sicuri come sono di potersi fidare della Chiesa, ci hanno chiesto solo di dare loro orientamenti certi sui vari argomenti che li assillano. Scriviamo per dare questi orientamenti; ma sarà impossibile darli senza delinearne anche brevemente una ragione. [Qui il Santo Padre cerca di recuperare come può, e come gli è stato concesso dai censori, quanto può della dottrina cattolica. Lo fa come vedremo in modo esemplare, lasciando confusi i suoi “correttori”, sgomenti, ma ammirati dalla sana dottrina e pertanto annichiliti nella loro azione di “cancellazione” delle verità cattoliche! – ndr. -] – II fascicolo del gennaio c. a. dell’Acta Apostolicæ Sedis reca la nuova formula della «Professione di Fede». Tutti coloro che assumeranno qualche ufficio di personale responsabilità nella Chiesa dovranno prima dar prova di essere nella vera fede accettando, pronunciando e giurando questa formula. Non c’è alcun dubbio che essa, per il suo stesso uso esprime il pensiero magistrale al quale è legata la nostra salvezza. Orbene ecco l’ultima parte di tale professione di fede. Omettiamo la parte precedente, che è costituita dal Simbolo niceno-costantinopolitano, e trascriviamo integralmente la parte che segue: «Firmiter quoque amplector et retineo omnia et singula quae circa doctrinam de fide et moribus ab Ecclesia, sive sollemni judicio definita, sive ordinario magisterio adserta ac declarata sunt, prout ab ipsa proponuntur praesertim ea quae respiciunt mysterium sanctæ Ecclesiæ Christi, eiusque sacramenta et Missæ Sacrificium, atque Primatum Romani Pontificis» (A.A.S. n. 16 – 20 decembris 1967). – Dunque tutti gli atti valevoli del Magistero sono imposti: è imposta la condanna del «modernismo», anche se non la si legge più in occasioni del genere, è imposto il Catechismo del concilio di Trento, quello di Pio X etc. Non è possibile fare una selezione di comodo: o si accetta tutto quello cui accenna la professione di fede, o si è certamente fuori della retta via. Abbiamo voluto ricordare questo documento, perché esso farà testo per tutta la nostra età e renderà legittimo e valevole qualunque impegno responsabile assunto nella Chiesa. – Altro punto di partenza è il testo completo dei documenti del sacrosanto concilio Vaticano secondo, che si richiama e fa suoi molti documenti passati della Chiesa [solo quelli sono validi, fa capire il Santo Padre tra le righe – ndr. – ]. Anche e soprattutto il concilio Vaticano II è un punto fermo e indiscutibile nell’ambito della Chiesa [Non si dice però se in senso positivo, o più verosimilmente NEGATIVO – ndr. -]]. Qualcuno ha osato dire che il concilio Vaticano II è sorpassato. Pensiamo che l’affermazione sia falsa e condannabile in qualunque senso venga presa; ma ove la si usasse nel significato che qualcosa del detto concilio è decaduto, è travolto, ha cessato di essere guida di tutti i fedeli presenti e futuri, si sarebbe certamente fuori della dottrina cattolica e probabilmente fuori della Chiesa [Il testo qui è stato “appesantito” dalla mano del censore e lo si capisce subito dopo, al punto terzo, quando il Santo Padre in realtà dice esattamente il contrario – ndr. -] Un terzo punto fondamentale è che quanto fu veramente certo nella Chiesa fino al concilio Vaticano II – ed intendiamo in tutta la Chiesa sotto il Romano Pontefice – è certo tuttavia e sarà sempre certo perché fruisce di un criterio certissimo di verità. La Chiesa che autenticamente custodisce la Tradizione ed il cui consenso ha i noti caratteri fruisce anche nel magistero ordinario del carisma della infallibilità, quando è veramente universale. Tutti i nostri cari sacerdoti vogliano sempre volgere lo sguardo a questi dati fondamentali ed avranno di che superare tutte le questioni che si pongono, tutte le discussioni che si accendono, tutte le opinioni leggermente e pericolosamente formulate. Essi vedranno sempre chiaro innanzi a sé e potranno continuare a servire Dio in perfetta tranquillità di spirito. Tuttavia non li lasciamo ai soli fondamenti: intendiamo accompagnare la ricerca del loro spirito su tutti i punti, nei quali la incauta editoria moderna, cattolica e non cattolica, li spinge a penose e dannose perplessità.

Un primo motivo di turbamento: il relativismo

Si tratta di un orientamento generale, che ha manifestazioni diverse e che magari in dosi omeopatiche viene assorbito in atteggiamenti più leni e meno negativi. Si dice «dobbiamo accettare la Parola di Dio. ma la interpretazione di questa può cambiare secondo le età, prima per adattarsi alle contingenze storiche, poi per interpretare meglio il sentimento religioso corrente». – Analizziamo bene questo discorso, che sentite in attenuate e felpate forme e che tanto più vi conturba quanto più è felpato e sottinteso, dato che la vostra cultura è forte tanto da difendervi benissimo dagli errori netti ed aperti, mentre può lasciarvi incerti davanti a proposizioni contorte, velate e sfuggenti. La proposizione presentata e le sue felpate derivazioni non intendono affatto alludere ad una interpretazione che cambi soltanto «approfondendo» e rivelando più intime ricchezze. Se fosse per dir questo, tacerebbero. La proposizione intende certamente dire che, con le età e ad esse adeguandosi, cambia la «sostanza del dogma». Che lo si dica forte, che lo si dica piano, questo è quello che si intende dire. E questo è il relativismo. Perché si parla di «reinterpretazione del dogma?». Evidentemente per negare la cattolica interpretazione data fin qui, ossia per «concretarla» in una «sostanza diversa». Non ha importanza per noi che questa «sostanza diversa» sia quella acquiescente alle tesi di Barth, di Brunner, di Tillich e dei loro colportori; ha importanza solo che è «diversa». – Vediamo che significherebbe questo, se fosse vero: l’assurdo! Significherebbe che «la Parola di Dio non ha alcun contenuto»: infatti il contenuto ce lo metteremmo noi a seconda dei casi. – Significherebbe che Dio non esiste. Infatti un Dio che affidasse formule vuote, lasciando agli uomini di riempirle a piacimento ed accettando che ciononostante la parola fosse «sua», non sarebbe né immutabile, né serio, cioè non sarebbe Dio! Significherebbe che Gesù Cristo e gli Apostoli hanno avuto torto. Infatti hanno creduto alla immutabilità della sostanza nella dottrina rivelata. Eccovene la prova. Gesù disse: «I Cieli e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno» (Mt. XXIV, 35). E che delle sue parole non sarebbe passato neppure il significato, lo dimostrava subito appresso (cfr. Mt. XXV,31 sgg.) dando già il testo della contestazione profetizzata per il giudizio finale, in cui la sentenza sarebbe venuta sulla massima delle leggi, intesa a quel punto esattamente come la proponeva allora. Nello stesso testo il Salvatore dimostra che al momento del giudizio sarebbe stato egualmente costante e inalterato il senso della vita eterna e dello eterno supplizio. Del resto la fede nella Trinità e tutte le cose che Egli, Gesù, ha insegnato ad osservare sono valevoli fino alla fine del mondo per tutti i popoli (cfr. Mt. XXVIII, 19-20), il che esige la inalterabilità nel tempo. Questa inalterabilità del significato domina tutti gli Evangeli. – La grande preoccupazione di Paolo è la inalterabilità della dottrina e del suo significato. Ci si provi a leggere tutta la lettera ai Galati (ad esempio) e si osservi come egli si comporta verso quelli che avrebbero voluto alterare qualcosa. «Quand’anche noi stessi o un Angelo disceso dal cielo vi annunciasse un Vangelo diverso da quello che noi vi abbiamo predicato, sia scomunicato» (Gal. 1,8). – Nella prima lettera a Timoteo, subito dopo l’indirizzo, l’Apostolo dà avvertimenti contro i falsi dottori (I, 3-11); poco dopo esorta a mantenere intatta la «vera» dottrina della fede (I, 18-20). Riprende una seconda volta l’argomento al capitolo IV (1-11); una terza al capitolo VI (3-10) e nella finale, quasi a raccogliere la preoccupazione più grande della stessa lettera, finisce così: «O Timoteo, custodisci il deposito (delle verità rivelate). Evita i discorsi inutili e profani e le dispute di una falsa scienza. Poiché alcuni che di quella han voluto fare professione, hanno poi prevaricato dalla fede» (VI, 20-21). Il tutto ritorna, per l’interiore peso dell’argomento, nella seconda lettera a Timoteo, vero testamento del dottore delle genti. Si preoccupa degli eretici dell’avvenire (III, 1-9) [… e quelli del Vaticano II il Santo Padre non poteva nominarli espressamente – ndr. -], incita il discepolo diletto a perseverare nella «difesa» della fede (ivi 10-13), avvertendolo di restare «fedele» a quello che ha imparato (Tradizione) apprendendolo da altri o leggendo le sacre Scritture. Nella lettera a Tito, Paolo ritorna sul dovere di «evitare gli eretici» (III, 8-11). E forse compossibile questa richiesta fedeltà con un relativismo teologico? San Pietro dedica tutto il II capitolo della sua prima lettera agli eresiarchi, dai quali ci si deve guardare e dei quali descrive i costumi. San Giovanni nella sua prima lettera riprende lungamente l’argomento ora constatato in Pietro e in Paolo (II, 18-23), vi ritorna nella seconda lettera con accenti fermissimi (7-11); diventa in proposito addirittura terribile in taluna delle lettere indirizzate colla Apocalisse ai vescovi dell’Asia. Se Gesù loda l’angelo della Chiesa di Efeso «perché odia le opere dei Nicolaiti, che lui pure detesta» (II, 6), se loda quello della Chiesa di Pergamo «perché non ha rinnegata la sua fede» (II, 12), tuttavia rimprovera quest’ultimo aspramente «perché tollera colà persone, che seguono la dottrina Balaam (II, 14) e perché ha persone che sono attaccate alla dottrina dei Nicolaiti» (II, 15). Le minacce contro coloro che seguono le dottrine e le opere di Gezabele (lettera alla Chiesa di Tiatira II, 18 segg.) sono tremende. All’angelo della Chiesa di Sardi il Signore fa scrivere: «Ricordati dunque di ciò che hai ricevuto ed udito; osservalo e pentiti. Se tu non veglierai io verrò come un ladro e tu non saprai a che ora verrò sopra di te» (III, 3). – Insomma la principale preoccupazione degli apostoli è la fedeltà alla sacra dottrina, che va interpretata secondo ciò «che hanno udito» e non arbitrariamente. – Per gli Apostoli, chi interpreta relativisticamente si pone fuori della grazia di Dio. – La interpretazione relativistica della Rivelazione si può constatare in talune forme generali, le quali riducono a piacimento il «nucleo» della parola di Dio, lasciando alla mercé di chiunque il resto o addirittura presentandolo come discutibile e più mitico che storico. Accade così che taluni difendono il nucleo della «salvezza» e abbandonano il resto alla deriva. Altri danno una interpretazione sofisticata della Eucarestia, convinti che la dottrina sempre presentata non sia più secondo i gusti moderni e pertanto ne vada cambiata la sostanza. Quelli che non capiscono molto tutto questo hanno incominciato a dimostrare il più grande disinteresse verso il mistero della fede e verso i tabernacoli. Sono forme recettive del relativismo. Altri ancora si sforzano di snervare completamente il dogma del peccato originale, l’essenza stessa del peccato, decapitando la legge e dando di taluni atti peccaminosi giudizi così poco condemnatori da far credere che li lodino. Forse non sanno o non pensano al relativismo, ma obbediscono al sottile richiamo di dire e fare quello che «piace» agli altri. Questo sottile richiamo è semplicemente la forma meno scontrosa e meno paludata per recepire il relativismo. Altri per la stessa logica cominciano a gettare il piccone demolitore sul sacramento della Penitenza. In realtà il nostro mondo morde male le verità relative e al peccato e alla penitenza, perché è così debole da non aspirare ad altro che al proprio comodo. Forma concreta del relativismo. Se il relativismo dovesse presentarsi colla sua definita linea intellettuale non avrebbe tanta tracotanza. Avrebbe paura, perché è obbligato a distruggere troppe cose, siccome si è detto sopra: Dio, la Rivelazione, la sostanza e la certezza di ogni cosa, la piattaforma dell’intelletto. Il guaio è che presentandosi in forme concrete, le apparenze delle quali non sono affatto quelle di proposizioni ereticali, riesce ad insinuarsi ben oltre i limiti della cauta vigilanza teologica. – E proprio su questo punto che attiriamo la attenzione dei nostri cari sacerdoti. Abbiamo or ora enumerato alcune prassi, le quali non sono altro che manifestazioni in superficie di realtà ben più profonde, sfuggenti e celate come i fondamenti enormi dei pericolosissimi icebergs. Qui vogliamo presentarvi la più facilona, più insinuante e più pericolosa forma concreta del relativismo teologico. Essa è nella formula, cara a più d’uno almeno in pratica, «cambiare per cambiare». Infatti cambiare è un atto che per essere ragionevole al pari degli altri atti ragionevoli deve avere un motivo ragionevole. Se il motivo è solo se stesso, «cambiare, cambiare per cambiare», non solo non è ragionevole, ma è una petitio principii. Le petizioni di principio dimostrano nulla e a nulla danno un fondamento consistente. La smania di gettarsi su qualunque cosa, purché sia o nuova o diversa, senza alcuna preoccupazione di documentazioni fondate e ponderate è la forma più concreta, per quanto in genere sconosciuta e non avvertita, del «relativismo teologico». Ci chiedete gli orientamenti in proposito? eccoli, non saranno difficili dopo quello  che vi abbiamo detto:

1) Evitate ogni relativismo. Esso equivale almeno ad una certa apostasia.

2) Siate diffidenti e cauti quando chi parla non è il Romano Pontefice [che in questo caso è Egli stesso!] o i Vescovi, successori degli Apostoli in comunione con lui [cioè con Gregorio XVII –ndr.- ]. Vi ricordiamo che troppi si sono seduti su cattedre che loro non competono [tra i quali gli antipapi del conciliabolo Vaticano II, Roncalli e Montini – ndr. -], perché competono solo alla successione Apostolica [quella guidata dal Papa vero e canonicamente eletto –ndr.-]. – Non vi illuda il fatto che trovano denari per pubblicare ed editori che pubblicano. Da quella parte ci stanno gli affari e gli affari non sono criterio per la vostra fede.

3) Non fatevi prendere dalla patologia del «cambiare per cambiare». Accettate di cambiare tutto quello che la legge cambia od ha una ragione, non una petizione di principio, tutto quello che ha il suggello di una autorità valevole o di un consenso veramente ecclesiale.

4) La Chiesa e tutta la sacra dottrina non sono cambiate e non cambieranno.

Il relativismo ha alcune scuse o pretesti. Vediamone alcuni.

La pluralità delle culture

Nessuno la può negare. Ma questa pluralità né prova, né afferma che i principi universali cambiano col cambiar delle latitudini e dei fatti. In realtà nella maggior parte dei casi – ed alludiamo alle culture dei paesi arretrati – non hanno neppur avuto principi universali, metafisica, qualche volta neppure speculazione. Ed allora la cultura qualunque potrà avere simpatie, ma non affronta la questione dei principi, né contrappone a principi altri principi validi. La maggior parte delle espressioni, che noi chiamiamo «cultura», sta in quel margine più superficiale dove né si trattano, né si contestano i principi. La esperienza dice che i principi sommi sono recepiti da uomini di tutte le culture, quando c’è chi insegna bene e quando c’è ad esse una congrua e metodica propedeutica. Soprattutto qui si pone male una questione: la cultura è una cosa, la verità obbiettiva è un’altra cosa. La verità obbiettiva la si coglie da dati universalmente validi, purché studiati con metodo; gli elementi culturali, dominati come sono da istinti e da sentimenti, possono prendere molte vie anche contradditorie, senza né sfiorare, né scalfire la solidità della verità obbiettiva. Il problema sulla verità non è il problema di una cultura, è semplicemente il problema della cultura» e si pone su un piano talmente alto e intoccabile dalle variazioni sentimentali da restare identico, qualunque sia la esperienza e qualunque sia il punto dal quale parte la variazione emotiva od ambientale. – Le culture sono state addotte come testimoni di comodo per tentare di avvalorare il discorso sul relativismo della dottrina. E sempre lo stesso punto!

L’adattamento alle culture

L’argomento, diciamolo subito, non è conturbante perché insolubile, ma perché ammannito in una confusione quasi perenne. Qui occorrono molte distinzioni, semplici e acute.

  1. Cominciamo col determinare il punto di incontro tra il Cattolicesimo e le culture. Il Cristianesimo è un fatto, una interpretazione del mondo e della storia, una legge coerente e al fatto e alla interpretazione proposta. Come fatto è immutabile e di conseguenza restano nella sostanza immutabili e interpretazione e legge. Il principio fondamentale è proprio che il Cristianesimo è un «fatto». Il Vecchio e il Nuovo Testamento presentano un fatto. L’ammettere che un «fatto» non sia più «fatto» o diventi un altro fatto è cadere nel più crasso relativismo, che non può, se è logico, tollerare neppure un Dio esistente. Bisogna essere estremamente chiari e consequenziari a proposito di questo palmare rilievo. Per trovare il terreno di incontro veniamo alle culture. Anche le culture sono fatti, talvolta con una certa continuità e logica, ma sempre ed assolutamente mutevoli; si guardi alla storia della cultura greca, la più raffinata di tutte e non certo superata nell’epoca moderna, salvo che sul terreno scientifico. Anche le culture, non sempre, perché talvolta sono e muoiono bambine, portano ad interpretazioni della vita, del mondo e della storia. In qualche misura! Cerchiamo di non esagerare. Ma le interpretazioni avranno lo stesso grado di mutevolezza che hanno i fatti dai quali traggono origine. Quali sono le cause che più ordinariamente influiscono nel fluire e nel mutare delle culture? Parrebbe che la prima causa sia la mancanza della verità e la mancanza di profondità nelle verità prime ed universali. La ragione è che le civiltà di lunga durata e più completo sviluppo hanno in quelle storicamente le loro radici. Quando le variazioni letterarie, fantasiose e reattive predominano sulle concezioni profonde, le cose si fanno snervate e possono anche durare secoli in stato di tranquilla sonnolenza. – In verità tutti gli elementi che noi siamo soliti chiamare «di cultura» o coincidono con la verità obbiettiva, o sono prodotti da semplici stati d’animo dalle modulazioni anche ricche e affascinanti, fissati negli strumenti delle lettere e delle arti. La scienza, per una parte almeno notevole, dovrebbe coincidere con la verità obbiettiva, salvo il caso delle grandi ed audaci ipotesi rimaste sempre e solo ipotesi; tuttavia il campo scientifico ha un limite nella quantità dimensiva e se non è integrato da visioni universali d’insieme diventa paurosamente unilaterale. Per questo certi angoli della cultura meglio si assegnerebbero al folklore. – Ma tutti gli elementi della cultura umana sorgono da un’esperienza e in tutte le esperienze gli uomini sono soggetti a molti errori. La conclusione è che la cultura e le culture costituiscono un valore rispettabile, ma mai un valore assoluto, infallibile, inderogabile ed immutabile. Sono esperienze di uomini. Il punto discriminante tra il Cristianesimo e le culture è esattamente qui: esso è un fatto che ha origine ed una garanzia divina ed è nella sua sostanza e nelle sue affermazioni immutabile; queste sono umane, limitate dalla miopia e dall’errore, estremamente mutevoli e, soprattutto, relative. – La conclusione pare semplice. Le cose mutevoli si lasciano fluire, si comprendono nel loro fluire, si colgono i fiori che hanno strappato alle rive e portano sul filone della corrente; ma si rimane a riva, non ci si annega. I fiumi si ammirano, ce se ne serve, sono veicoli di comunicazione, sono anche sorgenti irrigatorie; ma la vita ordinaria si svolge sulla terraferma. Il Cristianesimo, fatto divino, è la terraferma. – Per capire bene questo forse occorre instare qualche poco su taluni punti. – Bisogna scegliere tra il relativismo ed il fatto che i principi veramente universali valgono per tutte le culture. Scartiamo dunque, per quanto detto sopra, la scelta del relativismo. Non rimane che ammettere principi universali, obbiettivamente veri, identici per tutte le culture. Difatti fino a che non venne una certa confusione tutti gli studenti delle università romane, provenienti da tutte le aree culturali, assorbivano benissimo gli stessi principi universali. C’era qualcuno che li spiegava loro, li spiegava bene e con pazienza, c’erano ripetitori esperti e nessuno ha mai creduto che l’effato: ens et verum convertuntur potesse valere per un latino, ma non per un cinese o uno dei mari del sud. In secondo luogo bisogna fare il calcolo delle culture che non hanno mai avuto metafisica. Sarebbe un discorso lungo e grave. È ovvio che per chi è impregnato di tali culture debbono riuscire difficili i principi universali (si hanno linguaggi che neppure esprimono una serie di concetti astratti), ma ciò non significa che col tempo e la buona volontà non possano arrivare a possederli, che non avendoli familiari si debbano cambiare obbiettivamente e neppure che non sia loro utile impararli. La diversità delle culture crea la difficoltà, ma chi oserebbe dire che cambia la natura universale delle cose? Se così fosse una cultura potrebbe ricreare il mondo, spostarne tutte le leggi, cambiarne tutto il corso. Il che non è. – Si rende dunque necessario stabilire per tutte le culture un confine. Al di là di questo dove giocano fantasia, sentimento, affinità, reminiscenze… esiste tutta la pluralità possibile. Al di qua di questo confine i principi e le idee fondamentali non mutano e sono identici per tutte le culture. Al di qua dello stesso confine la pluralità non può essere altro che nell’errore. Solo con queste distinzioni serie documentate è possibile avviare un discorso sulla pluralità delle culture, che non sia una cessione vergognosa al peggiore relativismo. Dopo di che si può ammettere che tutte le culture possono, teoricamente parlando, avere elementi accettabili da un umanesimo serio ed universale e che tutte le culture non abbiano da entrare nel discorso al quale ci avviamo. – Prima però bisogna concludere. La verità rivelata, la verità naturale certa, la verità di fatto acquisita rimane invariata sotto tutte le culture. Se queste le fossero ostiche sarebbero esse in difetto. – A proposito di Cristianesimo e pluralità delle culture il discorso è pienamente centrato quando si parla di «traduzione» della verità. La traduzione non è una alterazione, un accomodamento contingente e fluente; è soltanto la riespressione in termini equivalenti di altra lingua e di altra cultura. Ora la verità cristiana va tradotta non solo nei termini imposti dalle varie lingue, ma presentata in quelle forme e con quegli accorgimenti che la rendono accessibile a lingue diverse, a momenti storici diversi, a culture diverse. Su questo si deve essere pienamente d’accordo. Ma la traduzione non è la alterazione. Di una buona parte dì scritti dubbi si deve dire che fanno delle alterazioni e nessuna traduzione. Le traduzioni sono in genere difficili, quando specialmente devono trasportare qualcosa da una mentalità ad un’altra mentalità, da un genere letterario ad un altro genere letterario. Affermare necessità di traduzione equivale ad affermare immutabilità del testo tradotto e dovere di fedeltà al testo originale.

Le esigenze della «ricerca»

Nessuno le nega. Ma c’è qualcosa di terribilmente semplice: si cerca quello che non si ha ancora. La ricerca è ragionevole quando mira ad arricchire, a dipanare, a completare, a documentare là dove non si hanno ancora documenti sufficienti, a illuminare parti lasciate in ombra, a rilevare aspetti nuovi per quanto obbiettivi. La ricerca concepita semplicemente come una assoluta libertà di negare e mutare quello che già è posseduto, per il gusto di cambiare o di affermare una attività personale o una posizione di parte, è cosa irragionevole ed invalida; è soprattutto adagiata in un vieto quanto negativo relativismo. – La vera ricerca consolida il dato assoluto; quando è contro il dato assoluto non è ricerca, ma pregiudizio. Ed è bene non confondere le cose. In pratica noi rileviamo che moltissime «ricerche» non sono affatto tali, perché sono soltanto delle affermazioni gratuite, destinare a mutare col mutare delle asserite mode. Chi cerca quello che ha davanti dimostra di avere solo una confusione mentale, perché è illogico cercare quanto è già reperito. – Ricordiamo benissimo alcune discussioni da noi udite al concilio Vaticano secondo e relative alla diversità tra teologia orientale e quella occidentale. La verità era solo questa, che la teologia orientale aveva avuto, per le enormi pressioni sociali e politiche, ben poco spazio di respirare e la teologia occidentale non aveva mai cessato di ricercare, dando per esempio non meno di cinque secoli ad una seria ricerca di filosofia scolastica. E quando diciamo «cinque secoli», è evidente che ci fermiamo a san Tommaso d’Aquino! – Quando i cicli naturali usano gli stessi mezzi arrivano sempre risultati in via di massima omogenei. E pertanto errato, e lo abbiano chiaramente in mente i nostri sacerdoti, credere che la dottrina della grazia debba essere una cosa; diversa per un italiano ed un giapponese, che la incarnazione debba variare dal modo con cui è creduta in Ispagna al modo con cui è creduta in India. L’incidenza delle culture è sulle forme e sulle tradizioni, è sulla scelta degli strumenti pedagogici e psicologici, non è sulla sostanza delle «cose sperate, argomento di quelle che non si vedono» (Eb. XI,1).

[Continua …]