DISCORSO PER IL GIORNO DI NATALE
Sopra il mistero dì questo giorno.
[Billot: “Discorsi parrocchiali” – 2a Ed. Presso Simone Cioffi, in Napoli, 1840]
Invenietis infantem pannis involutum, et positura in præsepio. Luc. 1.
Strana cosa forse non è che non ci si diano altri segni che una stalla, una mangiatoia e dei pannolini per riconoscer Colui che hanno predetto i profeti, figurato i patriarchi, e le nazioni desiderato di vedere? É possibile che Colui che esser deve il liberatore del suo popolo comparisca legato come uno schiavo; Colui che esser deve la gioia dell’universo nasca in mezzo alle lacrime e al dolore; Colui finalmente che ricolmar ci deve d’ogni sorta di beni prenda la povertà per sua porzione? Non conveniva forse meglio alla sua grandezza comparire fra lo splendore e l’opulenza? Era sotto un’apparenza di possanza e di maestà che il popolo giudeo aspettava il suo Messia. Perciò questa nazione cieca ed incredula fu scandalizzata della povertà e delle umiliazioni di Gesù nascente. Ma quanto diversi sono i disegni di Dio! Se lo stato di Gesù nascente sembrava poco convenire alla sua gloria e alla sua grandezza, era ciò necessario per i nostri propri interessi. L’uomo perduto per lo peccato aveva bisogno di un salvatore: né bastava il riscattar l’uomo, conveniva ancora che 1’uomo imparasse a salvarsi da se stesso, applicandosi i meriti di un Dio salvatore colla pratica delle sue virtù. Il che viene ad insegnarci Gesù Cristo, servendoci di modello sin dalla sua nascita. Or quali esempi ci dà Egli? Esempio di povertà, esempio di patimento e di umiltà. Tali sono i tre rimedi che Gesù nascente oppone alle tre malattie che infetto avevano il genere umano, cioè alle tre cupidigie di cui parla s. Giovanni; la prima, che egli chiama cupidigia degli occhi o amor delle ricchezze -, 1’altra cupidigia della carne o amore dei piaceri; la terza superbia della vita. Gesù Cristo con la sua povertà apprende all’uomo a combattere l’amore delle ricchezze, primo punto; nei suoi patimenti Egli dà un rimedio contro 1’amor dei piaceri, secondo punto; nelle sue umiliazioni Egli insegna a preservarsi dalla superbia della vita, terzo punto.
l° Punto. Il peccato, che perduto aveva il primo uomo, aveva talmente corrotta la natura umana che con l’andar del tempo il mondo si ritrovò quasi interamente inondato di scelleratezze. L’ignoranza e la concupiscenza, tristi effetti del peccato originale, gettate avevano radici sì profonde che lo spirito dell’uomo, involto da dense tenebre, non seguiva che l’orrore e la menzogna; la volontà, trascinata dalle sue passioni, non cercava la felicità se non in ciò che poteva contentarla. Quindi la gran premura che egli aveva per i beni, i piaceri, gli onori della terra,cui attaccava tutto il suo cuore in pregiudizio dell’amore che doveva al suo Dio. Ma, cercando quei falsi beni, quei vani piaceri e quegli onori caduchi, egli s’allontanava dal bene supremo, che solo poteva renderlo felice. Aveva ei dunque bisogno di una guida che lo disingannasse dei suoi errori e che lo rimettesse nelle vie della giustizia. Or si è ciò che fa Gesù Cristo. Nasce Egli nella povertà per riformar le idee dell’uomo sopra le ricchezze della terra ed indurlo col suo esempio a disprezzarle e a meritare con questo disprezzo i beni eterni che gli sono destinati nel cielo. Ella è una povertà volontaria, una povertà estrema ed universale. No, fratelli miei, la povertà di Gesù Cristo non è 1’effetto del caso o della necessità, ma ella è di sua elezione. Siccome non è stato offerto! In sacrifizio a Dio suo Padre, se non perché l’ha voluto: Oblatus est quia ipse voluti (Imi. 58); così ancora, perché l’ha voluto, è nato in uno stato povero. Signore del cielo e della terra, non era Egli padrone di scegliere un luogo convenevole alla sua grandezza, di nascere in un palazzo magnifico ed in seno dell’opulenza? Colui che dispensa i tesori della terra, che provvede ai bisogni di tutte le creature, non poteva forse sovvenire a quelli della sua santa umanità? Non poteva Egli comandare ai suoi Angeli di servirlo? Sì, senza dubbio; ciò tutto poteva; ma dà la preferenza ad una povera stalla. Scelse la circostanza in cui Maria sul punto di sgravarsi deve trasferirsi a Betlemme in conseguenza degli ordini dell’imperatore, affinché costretta a ritirarsi in un presepio abbandonato vi metta al mondo il Salvatore degli uomini, e noi vedendolo esposto sin dalla sua nascita a tutti i rigori di un’estrema in digenza, imparassimo quale stima egli fece della povertà e quanto dobbiamo noi medesimi stimarla. Così è, o sapienza del mio Dio! ciò che gli uomini riguardano come effetto del caso è stato regolato nei vostri eterni decreti. Così voi censacrate lo stato di povertà con la preferenza che gli date a quello delle ricchezze, e dello splendore, in cui non dipendeva che da voi di nascere; ma, vi ripeto, qual povertà! dissi povertà estrema ed universale. Non uscite, fratelli miei, da Betlemme senza aver esaminate tutte le circostanze del mistero che fa l’ammirazione del cielo e lo stupor della terra. Che cosa vi vedete voi? una vile ed abbietta capanna, ricovero d’animali, esposta alle ingiurie dell’aria, agl’incomodi della stagione. Ecco nulladimeno il palazzo del padrone dei re; l’arbitro dei sovrani vi abita. Si è il soggiorno di colui cui serve la terra di sgabello e che abita nel più alto dei cieli. Una mangiatoia, ecco il trono, ecco la culla dove riposa Colui che prima di tutti i secoli è stato generato nel seno dell’eterno Padre ed assiso sta sopra i cherubini. Un poco di paglia, ecco il letto ove è coricato: una madre povera, che non ha se non alcuni panni per involgerlo, che manca di tutto il restante, che è abbandonata da tutto il mondo, e che non ha che lacrime a dargli per compatire la sua miseria. Qual indigenza! I principi della terra nascono in mezzo dell’opulenza, le loro culle ornate sono di tutto ciò che la natura ha di più magnifico e di più prezioso: sono attorniati da una folla di cortigiani, solleciti di rilevare con elogi pomposi lo splendor della loro nascita; ed il Re del cielo manca di tutto, vien rigettato da ognuno, fuorché da alcuni poveri pastori, che vengono a fargli la corte, non ha neppure i soccorsi che si danno ai fanciulli più poveri degli uomini. Che dico? Gli animali della terra hanno le loro tane, gli uccelli del cielo il lor nido per riposarsi e difendersi dagli incomodi delle stagioni; ed il Figliuol dell’uomo non ha dove riposar il suo capo: Filius hominis non habet ubi caput reclinet (Luc. 9). Che cosa ne pensate, cristiani miei? Non è questo forse un oggetto più che capace di recarci stupore grandissimo? Ma non è altresì una eloquentissima istruzione che vi dà Gesù Cristo nel distacco dai beni del mondo, e dell’amore che aver dovete per le povertà? Imperciocché se Gesù Cristo si è ridotto in questo stato d’indigenza, lo fece non solo per nostra salute, ma ancora per nostra istruzione, dice l’apostolo, affinché rinunciando ai desideri sregolati del secolo, viviamo secondo le regole della temperanza della giustizia e della pietà: Apparuit, gratia Dei salvatoris erudiens nos ut, abnegantes desiderici, saecularia, sorbrie et iuste et pie vivamus in hoc saeculo
( Tit. 2). – Si è questa cupidigia, questo attaccamento ai beni ch’Egli ha voluto sradicare dai nostri cuori: sapeva che le ricchezze erano di grande ostacolo alla salute e che l’uomo il quale erasi già perduto per la ricerca dei beni del mondo, si perderebbe ancora, se non insegnavagli a disprezzarli; e perciò li ha Egli stesso disprezzati, ha abbracciata la povertà, per apprendere all’uomo a stimarla, come la strada più sicura per andare al cielo. Questo Dio salvatore doveva un giorno annunziare un Vangelo tutto ripieno di massime di povertà, doveva dire agli uomini che non v’era beatitudine che per i poveri: Beati pauperes (Matth.V). Ma sapeva ancora che, se insegnava la sua dottrina senza metterla in pratica non 1’avrebbero gli uomini seguita, ben pochi avrebbero voluto mettersi nel numero dei suoi discepoli: la corruzione del cuore avrebbe fatto dare false interpetrazioni alle sue massime, e forse sarebbero state interamente disprezzate. Cosi pratica Egli il primo ciò che insegnar doveva agli uomini: Coepit Jesus facere et docere ( Act. 1). Ora, da che Gesù Cristo ci ha dato l’esempio, possiamo noi ricusare di seguirlo? E non è un volersi smarrire e perdersi il prendere una strada diversa da quella che ci ha Egli indicata? – Avvicinatevi dunque al presepio di Gesù Cristo, voi tutti che mi ascoltate, poveri e ricchi, grandi e piccoli, venite a udir questo divin Signore, che vi predica da quella cattedra di verità; voi v’imparerete da Lui ciò che dovete pensare sopra i beni del mondo, che con tanta ansietà ricercate; voi vi troverete, o ricchi del secolo, di che istruirvi e nello stesso tempo confondervi, e voi, o poveri, vi troverete onde aiutarvi a soffrire lo stato di povertà a cui vi ha la Provvidenza ridotti, – Il bambino coricato in quella mangiatoia è la Sapienza eterna, il Figliuolo di Dio. Egli è incapace d’ingannarsi e d’indurvi in errore; convien dunque ascoltarlo e profittare delle istruzioni che vi dà: Ipsum audite (Matth. XVII), Or che vi dice e quali istruzioni vi dà Egli? Già vi predica quanto vi predicherà un giorno, che non vi è vera felicità se non per i poveri di spirito, che a questi poveri appartiene il regno dei cieli: Beati pauperes spiritu , quoniam ipsorum est regnimi coelorum (Matth. V). Se voi non gli udite pronunziare parola alcuna, tutto ciò che lo circonda vi esprime i suoi sentimenti in un modo molto eloquente; la stalla, il presepio, i panni tengono un linguaggio che assai chiaramente condanna il desiderio insaziabile che avete per le ricchezze: Clamat stabulum, clamat praesepe, clamant panni (S. Bern.). – Ah! potrete voi, ricchi del secolo, resistere a questo linguaggio? Potete non temere, non tremare per la vostra salute, paragonando lo stato di opulenza in cui vivete, all’indigenza estrema cui è ridotto il vostro Dio? Non vi sembra già udire la fulminante sentenza che deve pronunziare nel suo Vangelo: Guai a voi ricchi: Vae vobis divitibus (Luc. VI)! Guai a voi che di nulla mancate, che avete tutti i vostri comodi in questo mondo: Vae vobis! E perchè? perché siete in uno stato tutto opposto a quello che ha scelto Gesù Cristo e che ci ha segnato come la strada sicura per arrivare al porto della salute. Che dovete dunque fare per preservarvi dalle sue minacce e per aver parte alle grazie che ci ha meritate conla sua nascita? Convien forse rinunziare a tutti i vostri beni ed abbandonare tutto ciò che possedete per ridurvi allo stato della miseria! No, cristiani miei, questo da voi non pretende Gesù Cristo. Chiama Egli al suo presepio i ricchi e i poveri, perché viene a salvare gli uomini tutti: vi chiama poveri pastori che custodivano le loro greggi nei contorni di Betlemme; vi chiama altresì dei re, che vennero sin dall’Oriente rendergli i loro omaggi. Ma in quali disposizioni comparvero quei re innanzi a Gesù Cristo? Lasciarono il loro paese e vennero ad offerirgli i loro beni con il loro cuore. Ecco ciò che da voi richiede; si è un distacco di spirito e di cuore dai beni che possedete, è un omaggio che voi far gli dovete pel superfluo di questi beni, soccorrendo i poveri che lo rappresentano, dovendo essere voi persuasi ch’Egli terrà come fatto a sé stesso tutto il bene che voi loro fate. Se Gesù Cristo venendo al mondo vi avesse richiesto qualche soccorso, chi di voi non si sarebbe recato a gran fortuna l’alloggiarlo, il sovvenirgli? Ora voi lo ricevete, il sovvenite, quando ricevete i poveri, quando date loro da mangiare nella loro fame, da bere nella loro sete: quando ignudi li rivestite, quando nelle loro malattie li soccorrete. A questa sola condizione potete voi sperare la beatitudine promessa alla povertà: Beati pauperes (Matth. V). Sì, fratelli miei, nell’opulenza voi potete esser poveri. Staccatevi dai vostri beni, possedeteli come se non li possedeste; fatene un uso santo: meriterete con ciò gli elogi di Gesù Cristo: Beati pauperes. Quanto a voi, o poveri di Gesù Cristo, misero scherno della fortuna, solo consolanti parole ho da dirvi, vedendovi in uno stato che Gesù Cristo ha consacrato con la sua scelta: la vostra povertà è un tesoro più stimabile che tutte le ricchezze della terra, se voi ne sapete far buon uso, cioè se voi pazientemente per Dio la sopportate, se voi con quella 1’unite che Gesù Cristo ha per voi sopportata. Ora che cosa evvi di più capace ad indurvi a questa perfetta rassegnazione che il considerare che Gesù Cristo ha preferito il vostro stato a quello dei ricchi; che Egli ha chiamato al suo presepio poveri pastori prima di chiamarvi dei re; in una parola, ch’Egli è nato povero, ha vissuto ed è morto nella povertà? Ma affinché la vostra povertà sia per voi una sorgente di salute, bisogna che sia volontaria come quella di Gesù Cristo. Imperciocché invano sareste voi ridotti all’ultima miseria, se mormorate contro la provvidenza, se siete ricchi di affetto per l’invidia che portate ai ricchi: voi non avrete giammai parte nel regno dei cieli, perché la vostra povertà, non essendo volontaria, è senza merito. Voi dovete all’opposto aspettarvi una povertà eterna che succederà all’indigenza che quaggiù soffrite. Ah! se siete miseri in questo mondo, fate almeno ogni sforzo per essere più felici nell’altro. Gesù Cristo nascendo povero v’insegna col suo esempio la stima che far dovete della povertà; vediamo come anche v’insegna a soffrire.
1° Punto. Gesù, nascendo, soffre nella sua anima e nel suo corpo: nell’anima per la vista degli oggetti che l’affliggono, nel corpo per i rigori cui egli si sottopone. Patimenti interiori, patimenti esteriori di Gesù Cristo; ecco, o cristiani, il nuovo esempio che vi dà il Salvatore ed il rimedio che vi presenta per guarire quest’amor del piacere che vi perde. Non giudichiamo, fratelli miei, di questo bambino appena nato come degli altri fanciulli, la cui anima, involta, per così dire, nella materia, è incapace di conoscenza e di riflessione. – Gesù Cristo viene al mondo con tutte le cognizioni d’un uomo perfetto; dell’infanzia non ha che la piccolezza del corpo, ma la sua anima unita alla divinità è illuminata da una estensione di cognizioni, la quale gli scopre ciò che è, ciò che sarà, il presente, il passato e l’avvenire. Egli sa che è il padrone del cielo e della terra, il Signore di tutti i re, e ridotto si vede all’ultima indigenza, negletto e rigettato dagli uomini; sa che è la santità stessa e si vede rivestito della figura umiliante di un peccatore; quale impressione fare non doveva un tale stato sopra l’anima di Gesù Cristo? Eppure questa non era la maggiore delle sue pene, poiché questo stato di indigenza e di umiliazione era di sua scelta, ed essendo la volontà umana di Gesù Cristo sommessa a quella di Dio, Egli l’accettava volentieri, come un rimedio necessario per guarirci dalle nostre debolezze e dalle nostre infermità; si credeva anzi in qualche modo compensato della sua povertà, delle sue umiliazioni e dei suoi patimenti, se apprendervi poteva la pratica delle virtù,, di cui dava l’esempio. – Ciò che affliggeva dunque il cuore di Gesù Cristo e che faceva l’oggetto del suo dolore, era il peccato degli uomini, che veniva ad espiare; era l’abuso di tante grazie che veniva loro meritare. Imperciocché non c’immaginiamo, osserva qui s. Bernardo, che le lacrime che Gesù Cristo sparge nel suo presepio siano prodotte dalla medesima cagione che quelle degli altri fanciulli. Questi piangono sopra le loro miserie senza conoscerle; Gesù Cristo piange sopra le nostre, e con le sue lacrime vuol lavare i nostri peccati, dice s. Ambrogio: Meæ lacrymae Meæ debita lavarunt. – Le offre a Dio suo Padre, aspettando che il suo sangue siasi formato nelle sue vene per essere sparso per la redenzione degli uomini. Sebbene bambino, penetra all’avvenire il più lontano, vede tutti i peccati degli uomini, le ingiurie fatte al Padre suo, il disprezzo della legge, la perdita delle anime, la sfrenatezza delle passioni, in una parola, tutti i pensieri, le parole, le azioni malvagie di tutti gli uomini che vissuto avevano sin allora, e che vivere dovevano sino alla fine del mondo. Sa che il sangue che deve spargere è più che bastante per riparare tutti questi mali: vede nulladimeno che questo sangue sarà inutile a molti, che i suoi benefizi verranno pagati d’ingratitudine e che sarà costretto a condannare alle fiamme eterne un gran numero di quelli che viene a riscattare. Qual soggetto di dolore per un cuore sì sensibile e sì generoso come quello di Gesù Cristo! Ma qual istruzione cavare noi dobbiamo dalle lacrime di Gesù Cristo, e che cosa vuol Egli insegnarci col dolore cui s’abbandona sin dalla sua entrata in questo mondo? Piangendo sui nostri peccati, vuol insegnarci a piangerli noi medesimi e gemere a somiglianza di Lui e per la medesima cagione; senza questo le sue lacrime, benché efficaci siano per calmare lo sdegno del Padre suo, non ci sarebbero di alcun vantaggio; perché il suo dolore non può esserci salutevole se non con l’unione del nostro col suo. Comprendete, fratelli miei, questo mistero, e la vista di un Dio nascente nelle lacrime e patimenti ci distacchi per sempre dai vani piaceri del mondo; c’inspiri quella santa tristezza che opera la salute, come dice l’Apostolo. Di più Gesù Cristo ci dice: beati quelli che piangono, perché saranno consolati; guai all’opposto a voi che ridete, che avete tutte le vostre contentezze in questo mondo, perché i vostri piaceri si cangeranno in dolori amari, che non finiranno giammai. – Ah! fratelli miei, potremmo noi essere insensibili ad un linguaggio sì penetrante, come le lacrime di Gesù Cristo? Possiamo noi, sapendo di essere peccatori, rallegrarci, mentre vediamo piangere l’innocente? Possiamo noi ricercare le vane allegrezze del secolo , mentre Gesù Cristo le ha espressamente condannate? Imperciocché conviene così ragionare, dice s. Bernardo: o Gesù Cristo s’inganna, o il mondo la sbaglia: ora è impossibile che la divina sapienza s’inganni; dunque è il mondo che è nell’errore; dunque sono quelli che piangono che prendono il miglior partito. Ma, oh durezza del nostro cuore! esclama ancora qui s. Bernardo: ben lungi dal piangere i nostri peccati con Gesù Cristo, noi li richiamiamo con piacere alla memoria, dimoriamo tranquillamente nello stato di peccato, senza cercare di uscirne per mezzo di una sincera penitenza. Che dico? noi diamo a Gesù Cristo nuova materia di piangere aggiungendo nuovi peccati ai nostri antichi mancamenti; inutili rendiamo i patimenti di un Dio nascente, abbandonandoci alle vane allegrezze del mondo, ricercando piaceri da cui Egli ha voluto staccarci. No, mio Dio, non sarà così; io amo meglio gemere e piangere con Voi sopra la terra per aver parte alle delizie del vostro regno che rallegrarmi e godere col mondo per piangere eternamente coi reprobi nell’inferno; amo meglio fare una penitenza che non dura se non qualche tempo e che mi sarà utile, che fare una penitenza eterna, la quale a nulla mi servirà. Io aggiungerò a questa penitenza, a questo dolore interiore dei miei peccati le mortificazioni salutevoli di cui sin dal vostro nascere Voi mi avete dato l’esempio. – Benché il peccato sia perdonato all’uomo per i meriti e patimenti di un Dio Salvatore e per il dolore interiore che l’uomo concepirne deve, la giustizia di Dio esige nondimeno una soddisfazione per la pena che è dovuta al peccato; ed ancorché ciò non fosse, non sarebbe egli necessario all’uomo un preventivo che lo tenesse dal ricadere? Ora questo preventivo si è quella pena del peccato che Gesù Cristo porta sin dalla sua nascita e che vuole che noi portiamo con Lui. Quali pene infatti, quali rigori non sostiene Gesù Cristo nella stalla ove è nato? Un corpo sì delicato e sì tenero come il suo, esposto ai rigori della stagione, tremante di freddo, al mezzo della notte, coricato sopra un poco di paglia, in una mangiatoia, appena coperto di pochi panni in cui sua Madre l’ha involto, e privo d’ogni altro soccorso; ecco come il Figliuolo di Dio ha voluto trattare il suo corpo innocente, perché è rivestito dall’apparenze del peccato. Che ne pensate voi, o cristiani sensuali e delicati, che procurate a vostri corpi tutto ciò che può lusingarli, che inventate ogni giorno mille mezzi per difendere questa carne di peccato da tutto ciò che può incomodarla? Si è dunque l’innocente che de solo soffrire nel mentre che il colpevole è risparmiato? Voi avete mille volte trasgredito la legge del vostro Dio: i vostri corpi sono stati imbrattati con piaceri brutali, con eccessi d’intemperanza, cui vi siete abbandonati; e invece di far loro espiare con la mortificazione i peccati di cui sono stati i complici e gli strumenti, voi li trattate con delicatezza, loro accordate mille superfluità, vi spaventate al solo nome di un digiuno, di un’astinenza che vi è comandata, cercate con vani pretesti di dispensarcene; ben lungi dal dare a Dio qualche soddisfazione volontaria, voi non volete neppur accettare quelle che vi vengono imposte; in una parola, tutto ciò che chiamasi incomodo, raffrenamento, mortificazione, vi fa orrore. – Ah! potete voi senza arrossire avvicinarvi al presepio del vostro Salvatore e sostenere il confronto della vostra morbidezza con i rigori che Egli patisce? Potete voi non conoscere l’estrema opposizione che si trova tra una stalla esposta ai rigori della stagione e quelle abitazioni che sì agiate vi rendete con tanta cura, inaccessibili a tutto ciò che può incomodarvi; tra i poveri panni onde Egli è coperto e il lusso dei vostri abbigliamenti; tra la paglia ov’è coricato e la morbidezza de’ vostri letti; tra la fame ch’Egli dura e la delicatezza ed abbondanza dei vostri banchetti? E se deve esservi conformità tra il discepolo ed il maestro, potete voi lusingarvi della qualità di discepoli di Gesù Cristo? Riconoscete dunque l’estremo bisogno che avete di portare nel vostro corpo la mortificazione di Gesù Cristo, non solamente per espiare i peccati da voi medesimi, ma ancora per preservarvi da nuove cadute; mentre voi ben sapete per una trista esperienza che una delle cagioni più ordinarie dei disordini che regnano nel mondo è la cura eccessiva che si ha del corpo, 1’attenzione a lusingar la carne ed accordarle tutto ciò ch’ella domanda. Ed ecco perché il Salvatore del mondo, che veniva a riscattarci ed istruirci, dichiarossi particolarmente sin dalla sua nascita e in tutto il corso della sua vita contro il viver effeminato e sensuale, che è la cagione della perdita degli uomini. Trattò il suo corpo con rigore per insegnarci a trattar il nostro nello stesso modo e a sottometterlo alla legge di Dio. Non ci chiede, è vero, di portar la mortificazione a quel grado di rigore cui la portò Egli; ma vuole che facciamo almeno quanto dipende da noi, avuto riguardo al nostro stato e alla nostra fiacchezza: che rinunciamo non solo ai piaceri vietati, ma che ci priviamo ancora di molti di quelli che ci crediamo permessi, per non esporci ad oltrepassare i limiti della temperanza cristiana : Ut, abnegantes sæcularia desideria, sobrie vivamus (Tit.2). – Vuole, in una parola, che noi facciamo penitenza; ma una penitenza severa e proporzionata al numero e all’enormità delle colpe da noi commesse; vuole che soffriamo in ispirito di penitenza le pene annesse al nostro stato, che ci umiliamo alla vista di quanto Egli ha fatto per noi e del poco che noi facciamo per Lui; vuole che noi gli facciamo il sacrificio delle nostre passioni e dei nostri cuori per supplire a ciò che la debolezza non ci permette di fare! Ah! possiamo noi ricusare questi cuori ad un Dio che li ha riscattati a sì caro prezzo, che ce li chiede con i suoi sospiri o con le sue lacrime? Finiamo d’istruirci coll’esempio dell’umiltà che Egli ci dà sin dalla sua nascita. Terzo ed ultimo punto.
III. Punto. Quantunque trovi l’uomo in se stesso il motivo della sua umiliazione, egli è nulladimeno sì gonfio di superbia che non pensa se non ad innalzarsi. Questa brama d’innalzamento che fece cader dal cielo l’angelo ribelle perdette altresì l’uomo nel paradiso terrestre. L’angelo fu precipitato dall’alto del cielo nel profondo dell’abisso perché volle uguagliarsi a Dio. L’uomo altresì fu scacciato dal paradiso terrestre e privato dei doni dell’innocenza perché si lasciò falsamente persuadere dal tentatore che, mangiando del frutto vietato, diverrebbe simile a Dio: Eritis sicut dìi. Questa superbia che impadronissi del cuor e del primo uomo nell’istante di sua caduta, si comunicò altresì ai suoi discendenti: fu per soddisfarla che veduti si sono uomini sì gonfi di sé stessi e sì avidi di gloria che portarono l’accecamento e l’insolenza sino al punto di farsi rendere onori divini. Tale fu l’origine dell’idolatrìa, che sparse sì lungi le sue tenebre nell’universo che il numero degli dei uguagliava quasi quello degli uomini. Fu dunque per riparar un sì gran disordine che Dio formò Egli stesso il disegno di rendersi simile all’uomo, il quale aveva preteso di rendersi simile a Dio, affine di apprendere all’uomo a tenersi nello stato di dipendenza e di abbassamento come gli conviene. – Tale è, fratelli miei, la grand’istruzióne che Gesù Cristo ci dà nel presepio. Ma qual umiltà in questo Salvator bambino! Oh quanto è ella opportuna confondere 1’orgoglio dell’uomo! Io non posso per esprimerla servirmi di parole più energiche di quelle di cui servesi s. Paolo per farci conoscere le umiliazioni del Verbo incarnato. Ascoltiamo parlare su questa materia quel grande apostolo che aveva meditato profondamente questo mistero, e pesiamo ben bene la forza delle sue espressioni. Gesù Cristo, dic’Egli, il quale, essendo l’immagine di Dio , non ha creduto che esser uguale a Dio fosse per Lui usurpazione, si è umiliato: non basta ciò dire, si è annientato sino a prendere la figura di uno schiavo, essendosi fatto simile agli uomini, ed essendosi ritrovato nella condizione dell’uomo: Exinanivit semetipsum, formam servì accìpiens, in similitudinem hominum factus et habitu inventus ut homo (Philip. 2). Il Figliuol di Dio annientato! qual espressione, fratelli miei! e può dirsi qualche cosa di più forte? Per comprendere questa profonda umiliazione, converrebbe comprendere la distanza infinita che v’era tra Dio e l’uomo; tra Dio, che è la stessa onnipotenza e l’uomo, che non è che fiacchezza; tra Dio , che è il Signore per eccellenza e il padrone dell’universo, e l’uomo, che non è che uno schiavo; tra Dio, che è la sapienza infinita, e1’uomo, che non è che tenebre; in una parola, tra Dio, che è tutto, e l’uomo, il quale è nulla. Venite adunque, uomini vani e superbi, venite a contemplare questo bambino che è nel presepio, venite ad ammirare il mistero che la fede in esso vi scopre: voi vi vedrete la maestà suprema ridotta ad uno stato di schiavo, l’immensità di un Dio rinchiuso nella piccolezza di un bambino, la santità stessa rivestita dell’apparenza di un peccatore, la Sapienza eterna, il Verbo di Dio, che osserva il silenzio Colui che comanda a tutta la natura, fatto ubbidiente ai voleri delle sue creature, che ubbidirà non solamente ad una Vergine Madre, ad un uomo giusto, ma ancora a peccatori, ad empi giudici, a carnefici scellerati. Quale abbassamento, quale umiliazione per un Dio! Evvi Egli niente di più capace per confondere la superbia di quegl’uomini che non cercano che d’innalzarsi su degli altri, ed occultano con tanto artifizio quello che sono per comparir quello che non sono? Come mai osate voi, cenere e polvere, disputare sopra vane precedenze alla vista d’un Dio coricato in un presepio, vestito della forma di schiavo? come osate voi, peccatori ipocriti, adornarvi del manto della virtù per attirarvi gli applausi degli uomini, mentre vedete un Dio, la santità stessa, rivestito delle sembianze di colpevole per venir esposto agli obbrobri e ai disprezzi dei peccatori? Ah! se la vostra superbia non si spezza contro il presepio di un Dio, è un prodigio in qualche modo si incomprensibile, come quegli abbassamenti di cui si stupiscono il cielo e la terra. Imparate a tenervi nel centro del vostro nulla, sappiate che se voi non divenite simili a questo bambino che adorate, non entrerete giammai nel regno dei cieli. Imparate da me, già vi dice, come lo dirà sempre, che sono mansueto ed umile di cuore: Discite a me quia mitis sum et humilis corde. Apprendete che colui che si umilia sarà innalzato , e colui che s’innalza sarà umiliato. Potete voi ricusare di arrendervi ad un esempio sì toccante come quello che egli vi dà ? Si è abbassato per innalzarvi. Non dovete voi altresì abbassarvi per innalzarvi a lui? Ed è in questo che Egli vi permette di diventare a Lui simiglianti; e se il delitto dell’angelo o del primo uomo fu di voler ugualiarsi a Dio, sarà in voi una virtù il diventare simili a Gesù Cristo umiliato. Ecco in che dobbiamo noi, fratelli miei, ammirare la sapienza e la bontà di Dio, il quale si è in tal modo abbassato sino a noi per esser nostro modello. Non è dato all’uomo di arrivare alle perfezioni di Dio, come sono la sua onnipotenza, la sua previdenza, le quali son piuttosto l’oggetto della nostra ammirazione che della nostra imitazione, dice s. Bernardo; ma Dio ha sposata la nostra natura per darci in essa esempi di virtù che fossero proporzionate alle nostre forze, come l’umiltà, la povertà e la pazienza. Entriamo dunque nei sentimenti di questo divin bambino, che è ad uno stesso tempo e nostro salvatore e nostro modello, Hoc sentite in vobis, quod est in Christo Jesu (Philip. 2).
Pratiche. Non contentiamoci di rendergli i nostri omaggi nel suo presepio e di ringraziarlo di esser venuto al mondo per la nostra salute; ma procuriamo di esprimere in noi i tratti di questo divin originale. Il Signore, che altre volte ci ha parlato per i suoi profeti, ci parla in quest’oggi per mezzo del suo proprio Figliuolo: ci mette innanzi agli occhi il Maestro che dobbiamo seguire; rendiamoci docili alle istruzioni che Egli ci dà e che fu il primo Egli stesso a praticare; imitiamo la sua povertà con il distacco dai beni del mondo e con la pazienza a soffrir quella cui ridotti ci ha la previdenza, ed uniamola a quella che Egli ha sofferto per noi. Se noi siamo nell’opulenza, onoriamo la povertà di Gesù Cristo con le nostre liberalità verso i poveri, soccorriamoli contro il rigore della stagione, portiamo su di noi la mortificazione di Gesù Cristo con la rinuncia ai piaceri sensuali e con le pratiche di penitenza che il nostro stato e la nostra fiacchezza permettere ci possono; umiliamoci finalmente ad esempio di Gesù Cristo, reprimendo la brama di comparire e innalzarci, e sopportando pazientemente le umiliazioni e i dispregi. Scacciamo sopra tutto il peccato dai nostri cuori dove chiede Egli di abitare e dove vuole di bel nuovo nascere. Guai a quelli che avranno, come i Giudei, la durezza di non aprirgli la porta; ma felici coloro i cui cuori servirangli di cuna con la santità della loro vita, con la purezza dei costumi e con la pratica delle virtù. Godranno in questo mondo della pace, ch’Egli ha apportato agli uomini di buona volontà e nell’altro della gloria che ha loro meritata. Così sia.