IL SILLABARIO DELLA MORALE CRISTIANA (18)

IL SILLABARIO DELLA MORALE CRISTIANA (18)

FRANCESCO OLGIATI,

IL SILLABARIO DELLA MORALE CRISTIANA.

Soc. ed. Vita e Pensiero, XIV ed., Milano – 1956.

Imprim. In curia Arch. Med. Dic. 1956- + J. Schiavini Vic. Gen.

Capitolo settimo

LA MORALE CRISTIANA E LA MORTE.

Celebre tra i fautori del teatro d’eccezione è la tragedia di Leonida Andreieff: La vita dell’uomo. I suoi cinque quadri ci presentano i momenti più significanti della vita: non della vita di uno speciale uomo, che porti sul volto il tormento di passioni sue proprie, ma della vita dell’uomo in genere, che nasce, spera, raggiunge, perde ciò che ha conquistato, e muore..Noi udiamo il grido che manda la sua madre straziata, quando l’uomo nasce. E dall’oscurità emerge allora una figura grigia. Essa regge una torcia, che in quel punto si accende. Dalla notte del non essere è sgorgata una luce: arde la brief candle di Shakespeare. E per tutta la tragedia questa torcia lentamente si consuma. Sfavilla, dapprima, chiara, fra le danze della giovinezza; brilla ancora, in seguito, fulgida, tra le speranze, le disillusioni, i contrasti, la fortuna che giunge, la ricchezza che sfuma, la fama che avvizzisce, l’ingegno che isterilisce, la scomparsa dei parenti. La cera frattanto va consumandosi sempre più. Viene il giorno in cui la torcia dà un guizzo e si spegne: « Silenzio! — grida la figura grigia — l’uomo è morto ». È proprio questa la realtà? Sì e no. – Se il granellino di frumento non cade a terra e non muore, non darà frutto — ha detto Gesù nel Vangelo; — se invece morrà, porterà molto frutto. La morte cristiana non solo insegna a vivere, ma c’insegna anche a morire. E la morte ce la fa contemplare non solo alla luce d’una torcia che si consuma, alla fiammella tenue d’una candela benedetta che proietta il suo pallido raggio sul granello di frumento che marcisce, ma alla luce altresì del sole radioso dell’Amore, che lascia la spiga matura, destinata ad essere transustanziata in Cristo. – Dinanzi alla figura di Socrate, eroicamente bella e dignitosa, che muore in carcere, Platone sussurrava: « La filosofia è la meditazione della morte. Dinanzi alla croce di Cristo, divinamente grande, la morale nostra ripete ancora una volta che bisogna morire per vivere, bisogna saper cristianamente morire per passare ad una vita nuova, beata ed eterna.

I. – Il Cristianesimo e la morte.

Il Cristianesimo considera anche la morte in funzione del concetto di amore. A prima vista, questo pare impossibile ed assurdo. La morte è spaventosa, orribile, terribile, diceva già Aristotele. La distruzione del nostro organismo, la separazione dell’anima dal suo corpo; l’abbandono di quanto ci è caro, delle persone alle quali ci legano vincoli di sangue e d’affetto, della terra che ci ha visti nascere, delle cose tutte che ci circondano; l’incertezza buia dell’al di là; tutto ciò non può a meno di suscitare in noi un fremito di raccapriccio e di repulsione. Come mai si potrà quindi parlare di morte in rapporto all’Amore? Eppure basta riflettere un istante, perché la scena si cambi. Noi non avremmo dovuto morire. L’Amore infinito di Dio non ci aveva destinati agli orrori della morte. Fu la colpa del primo uomo, fu la ribellione all’Amore, che introdusse la morte nel mondo. E se la morte è brutta e orribile, lo è in quanto si ricollega alla negazione dell’Amore. – Ogni volta — anche nell’ordine naturale — che la morte non calpesta l’amore, ma lo afferma in qualsiasi dose, in qualsiasi grado, in qualsiasi modo, essa si trasfigura, assume un nuovo aspetto, diventa spesso « la bella morte ». Se una madre si sacrifica e muore per il figlio; se un soldato cade sul campo dell’onore per la patria; se uno scienziato trova un sepolcro nel laboratorio delle sue ricerche, noi ci accorgiamo che un raggio di amore, sia pure umanamente buono, muta la faccia della triste megèra in un fulgente e luminoso volto di gloria. – Ma è specialmente nell’ordine soprannaturale che ciò si verifica, e dovrebbe verificarsi per ogni credente. È qui che Francesco d’Assisi esprime la verità dell’etica cristiana con una frase sublime: « Sorella Morte », dando alla morte un appellativo di amore. La morale cristiana vissuta e praticata dai santi e dai suoi fedeli seguaci subito ci convince coi fatti della trasformazione che l’Amore infinito di Dio compie della morte. « Erano gli ultimi giorni di santa Teresa — narra il biografo, P. De Riberia. — Quando vide entrare il santo Sacramento nella sua cella, tutto in lei si trasformò. Sebbene già da tempo profondamente abbattuta ed una prostrazione mortale le impedisse di fare il più piccolo movimento, pure si alzò a sedere sul letto senza essere sorretta da alcuno. Parve che volesse slanciarsi incontro all’Ostia che veniva, e fu necessario tenerla. Il viso le divenne bellissimo ed acceso come il viso d’un Angelo; le erano scomparse perfino le rughe e tutti i segni della vecchiaia e della malattia. Uscì allora dal suo cuore quel grido di fede, di speranza, d’amore, uno dei più commossi che siano stati emessi sopra la terra: « Signore! era tempo di vederci ». Poi chiuse gli occhi; spirò e vide il Signore ». – Una figlia della grande mistica santa Teresa, sul letto delle sue agonie esclamava: « O dolce morte, chi ha osato dire che tu sei amara e triste? Non vi è gioia da paragonare a quella che tu porti. O mio Gesù! quale ingiusta calunnia trattare la morte come amara! Essa è la porta per la quale si entra e si viene a godere Voi! Come si capisce, mio caro Maestro, che Voi siete passato per essa e le avete tolto, tutta l’amarezza ». – Santa Gertrude cadde da un’altezza pericolosa ed esultante gridò: « O mio dolce Signore, quale ventura sarebbe stata per me, se questa caduta mi avesse abbreviata la strada per giungere a Voi ». San Giovanni della Croce, prima di morire, fece chiamare nella povera cella del convento ospitale alcuni suonatori, perchè festeggiassero con armonie di giubilo il suo volo a Dio. – Padre Ravignan, al medico che gli parlava di guarigione, rispose: « Oh, perchè non mi discorrete della morte? È così bello morire, per andare a vedere Dio! ». Lacordaire si spense mormorando: « Mio Dio, apritemi, apritemi! ». Camillo Féron-Vrau, prima di chiudere gli occhi alla vita, guardò il Confessore, gli sorrise e gli sussurrò: « Al Cielo! Al Cielo! ».

Il 7 ottobre 1928 moriva a Roma Giulio Salvadori, poeta della bellezza di Dio e professore dell’Università Cattolica del sacro Cuore. Alla vigilia della sua morte disse al fratello che l’assisteva: « Domani mi vestirai con gli abiti più belli, perché incomincia la mia festa». Mille e mille Santi ripetono col Suarez morente: « Non avrei mai pensato che fosse cosa così dolce il morire ». – San Carlo Borromeo passò un giorno davanti ad un quadro, che rappresentava la morte armata d’una falce. La fece cancellare ed ordinò al pittore di dipingerla con una chiave d’oro in mano. Al buon Cristiano la morte non apre forse il Paradiso? « Introibo ad altare Dei », disse salendo i gradini del patibolo una vittima del Terrore, il beato Natale Pinot. Ed in quel 21 febbraio 1794, rivestito degli indumenti sacerdotali, la ghigliottina era il suo altare ed il sacrificio cominciava con le stesse parole della Messa. Non a torto il Curato d’Ars si lamentava spesso: « Perché non si scrive un libro sulle consolazioni della morte? ». – Ecco un voto, che sorge spontaneo leggendo il tramonto placido e sereno dei Santi. Se qualcuno prendesse le loro biografie e ne stralciasse la descrizione della loro morte, comporrebbe un volume che sarebbe per molti una rivelazione. Limitiamoci a due quadri: la morte di San Francesco e quella di santa Teresa di Lisieux. – « All’alba del due ottobre, un venerdì — scrive Maria Sticco in una delle migliori vite moderne che abbiamo del Santo d’Assisi — san Francesco, dopo aver passato una notte di spasimi, sedette sul saccone, si fece portare del pane, lo benedisse, ordinò che lo spezzassero in tante parti quanti erano i presenti e poi ne distribuì con le sue mani un pezzetto a ciascuno, per ricordo dell’ultima cena di Cristo e per significare che anch’egli, come il Maestro, amava i suoi fino alla fine e sarebbe stato pronto a morire per loro e quasi voleva trasmettere qualche cosa di sé, sensibilmente, a loro. Ormai davvero tutto era compiuto. Il sabato peggiorò, e verso sera, sentendosi morire, intonò il salmo che comincia: « Voce mea ad Dominum clamavi… Alzo la mia voce al Signore… » e lo proseguì cantando, finché Sorella Morte non gli spense la voce ». – La piccola santa di Lisieux aveva compreso che la sua « vocazione » era « l’Amore ». Si era offerta vittima d’amore a Dio, invocando « il martirio del cuore e del corpo » ed era stata esaudita. « Non contenta di coprir di rose le piaghe del suo Crocifisso, — disse bene padre Mathéo — essa riuscì perfettamente a nascondere gli strazi della sua anima, le pene torturanti del suo spirito, i lunghi e vivi dolori della sua ultima malattia, sotto il velo grazioso dei suoi sorrisi, della sua dolcezza, della sua gaiezza. Ebbe, cioè, il divino pudore della bellezza del suo martirio di amore ». « Soffre molto?… » le chiedevano le buone Suore. « Sì, ma l’ho tanto desiderato!… Ogni sofferenza m’è dolce ». I mesi passavano e il martirio diveniva sempre più torturante. « La marea del dolore — racconta una Suora del suo Monastero — si sollevava ognor più; la debolezza divenne così eccessiva, che la santa malata si ridusse a non poter far da sè il minimo movimento. L’udire parlare anche a voce bassa le diveniva insopportabile sofferenza; la febbre e l’oppressione non le permettevano di proferire una sola parola senza estrema fatica. Ma anche in quello stato il sorriso non abbandonò le sue labbra. Se una nube le sfiorava la fronte, era il timore di crescere alle nostre sorelle il disagio. Fino all’antivigilia della sua morte, volle star sola di notte; ma l’infermiera che si levava più volte, nonostante le sue istanze di non farlo, in una delle visite la trovò con le mani giunte e con gli occhi sollevati al cielo. — Ma che fa ella mai così? — le domandò. — Dovrebbe provarsi piuttosto a dormire. — Non posso, sorella mia; soffro troppo. Ed allora prego. — E che cosa dice a Gesù? — Non gli dico nulla: io l’amo! Nel luglio 1897 sembrò che la morte fosse imminente. Un giovane sacerdote, recatosi a Lisieux nel Monastero, per celebrarvi piamente la sua prima Messa, ebbe la fortuna di portare il Viatico alla piccola grande Santa. Le buone suore coprirono il pavimento del chiostro, dove doveva passare Gesù, con fiori di campi e con rose sfogliate. Il cuore dell’ammalata ricevette il suo Diletto e volle che Suor Maria dell’Eucaristia — una Suora la cui voce melodiosa aveva delle vibrazioni celesti — cantasse: Deh! compi il sogno mio, dolce Signore: Morir d’amore! Qualche giorno dopo, la piccola vittima di Gesù Si sentì peggio e le venne amministrata l’Estrema Unzione. Ma la morte tardò due mesi ancora. Solo il 30 settembre 1897 doveva spuntare l’aurora del giorno eterno. La mattina, Suor Teresa guardò la statua di Maria, sussurrando: L’aria della terra mi manca; quando mi sarà dato di respirare quella del Cielo? ». Alle quattro e mezzo si manifestarono i sintomi dell’estrema agonia. Come si usa presso le Carmelitane, la comunità si raccolse intorno alla morente. Essa la vide entrare nella cella; e l’accolse e la ringraziò col suo angelico, amabile sorriso. Poi, tutt’assorta nell’Amore e tutta immersa nel suo dolore, intraprese il combattimento supremo, stringendo, come poteva, fra le mani, il Crocefisso. Tremava tutta. Il volto era asperso di sudore copioso. E l’occhio, quando la campana del Monastero sonò l’Ave Maria della sera, si posò sulla Vergine Immacolata. La morte non giungeva ancora. Alle sette e qualche minuto, con voce soave, mormorò: « Ah, no, non vorrei soffrir meno! ». Poi, fissando il tenero sguardo sul suo Crocifisso, esclamò: « Oh, io l’amo!… O mio Signore, io… vi… amo! ». « Furono queste le sue ultime parole. Aveva appena finito di pronunciarle, che, con nostra grande sorpresa, ella si abbandonò d’un tratto, con la testa piegata sulla dritta, nell’attitudine di quelle vergini martiri che si offrivano da se stesse al taglio della spada, o meglio come una vittima d’amore, che aspetta dall’Arciere divino il dardo infiammato di cui essa vuole morire. Improvvisamente si sollevò, come se una voce misteriosa l’avesse chiamata; aprì gli occhi, e il suo sguardo, irradiato di pace celeste e di indicibile felicità, si fissò un poco al di sopra dell’immagine di Maria. Questo sguardo si protrasse per lo spazio d’un Credo, poi la sua anima beata, fatta preda dell’Aquila divina, volò nei cieli..

2. – L’importanza dell’ora suprema.

Questi pallidi e rapidi cenni intorno alla morte dei santi potranno ispirare a qualcuno un dubbio. — Ma come? La morale cristiana non accende forse accanto al letto del morente la face del terrore, degli ultimi giudizi, dell’inferno e del fuoco eterno? Noi non sapevamo che i sudori di morte dovessero essere illuminati dalla luce dell’Amore! Questo dubbio è una stoltezza. Può forse concepire l’etica nostra un terrore che sia scopo a se stesso? Il « timor Domini », che è il principio d’una sapienza spesso trascurata nell’attività giornaliera e fra le dissipazioni della vita, e solo inizialmente appresa al termine di questa, non ha altra aspirazione ed altra finalità, se non l’Amore. Perché il rimorso sul letto delle ultime agonie? Perché il sacro e severo dovere dei parenti e degli amici di non tradire l’anima che sta per presentarsi a Dio, ma di avvertirla del grave pericolo? Perchè il pentimento delle colpe commesse al chiudersi della vita?… Tutto questo è voluto dall’Amore — dall’amore per Dio e dall’amore per il fratello che ci abbandona. La morte è « il momento dal quale dipende l’eternità ». Stolto è chi lo profana e lo sciupa! È l’ora suprema, quella in cui il peccatore più ostinato può riparare un passato di miserie e di fango. È l’ora delle misericordie divine. È l’ora dell’Amore. – Il Crocefisso, che l’agonizzante bacia, gli sussurra: « Figliolo, guarda le mie braccia! Sono aperte per accoglierti, per stringerti al mio Cuore… Guarda questo mio Cuore trafitto: rifugiati nella sua ferita: vieni al bacio del perdono dell’Amore! Abbi pietà di te stesso! Salva l’anima tua! Ama Dio, almeno in questi ultimi istanti che ti sono concessi ». E non è questo il dolce appello dell’Amore? Ma non soffermiamoci alla pecorella smarrita, che il buon Pastore cerca ansiosamente, prima della morte. Vediamo, piuttosto, come la morale cattolica vuole che abbia a morire il buon Cristiano.

3. – Come muore un Cristiano. La morte, innanzi tutto, è in genere preceduta dal dolore. Sarà la malattia, saranno i sacrifici d’una vita di battaglie, saranno indisposizioni di salute, continue e aggravantisi, che annunciano l’avvicinarsi della fine. Il Cristiano, incorporato a Gesù, santifica tutti questi dolori. Non solo si confessa, per essere sicuro della grazia divina del suo cuore; non solo si unisce ripetutamente al Corpo adorabile di Cristo nel suo Sacramento; ma, per dirla col Bossuet, si unisce « anche allo spirito ed al Cuore di Gesù, entrando con umile sottomissione ed adesione in tutti i disegni di Dio, dispone del suo essere e della sua vita come fece il gran Sacerdote (sul Calvario), diviene Sacerdote con Lui nella sua morte, e compie negli ultimi momenti il sacrificio al quale era stato consacrato nel battesimo e che doveva continuare in tutti gli istanti della vita ». Se anche nella stessa esistenza, fra le tenaglie del dolore, talvolta non ha divinizzato le sue lagrime, sul letto di morte compie intero il suo dovere. Egli soffre con Gesù e per Gesù; accetta la volontà del Padre, pur pregando col Maestro: « Padre, se è possibile, passi da me questo calice; tuttavia si faccia non come voglio io, ma come vuoi Tu »; offre la sua vita e le sofferenze in unione ai dolori della Passione e della Croce. – « Quale offerta più completa? — esclama ancora il Bossuet. — L’uomo intero vi prende parte; il corpo e l’anima vi sono immolati dalla fede con un’immolazione penetrante, dolorosa, assolutamente simile a quella di Gesù. Il letto del morente è davvero un altare; e la morte è una Messa, dove il Cristiano offre la sua vita insieme con la Vittima immacolata ». Questo è il modo di soffrire cristianamente, il che è ben più grande della sofferenza subìta come la può subire un bruto, o sopportata come uno stoico. In povere parole:- la sofferenza cristiana deve diventare un atto di amore; per come si vede, questo atto d’amore presuppone la fede nel soprannaturale e nella rivelazione; esige la speranza del Cielo; implica il pentimento delle colpe commesse. La morte, allora, guardata alla luce dell’Amore, perde in parte i suoi rigori; lo sguardo non si posa tanto sulla tomba non lontana che aspetta l’involucro perituro, ma in Cristo che attende lo spirito immortale: l’ultimo respiro è il passaggio non alla regione che Dante chiama inconsolata, ma nell’Amore di Dio; e il giorno della morte, secondo la esatta espressione liturgica, diviene il dies natalis. Inoltre — soggiunge il Bauthier nel suo prezioso libro su “Il sacrificio nel dogma cattolico” — se l’infermo conosce bene le cose di Dio, « allarga le sue intenzioni; e, come Gesù dalla Croce, come il Sacerdote dall’altare, abbraccia col pensiero le anime riscattate, offre la vita per ciascuna di esse, per l’accrescimento e per l’avvento del regno de’ cieli, per l’estensione dei confini della Chiesa, per la glorificazione di Dio e del suo Cristo ». – Così Sorella Morte ci appare rivestita anche con la bellezza dell’amore per i fratelli. Se ogni padre ed ogni madre cristiana offrissero sul letto dell’agonia le loro sofferenze ed il loro olocausto per la famiglia; se ogni cittadino morente pregasse per la patria sua; se chi ha contemplato gli orizzonti dell’apostolato dicesse in segreto al Signore: « Tutto quello che soffro sia per le anime e per il trionfo del tuo Regno »; se ogni Cristiano, insomma, avesse inteso veramente il precetto della carità, anche la morte sarebbe un atto di amore di Dio e di amore del prossimo. E l’incontro con Gesù rappresenterebbe non già una spaventosa incognita, ma un volo fidente verso il Re dell’Amore.

4. – Conclusione.

« Per colui che ha amato per tutta la sua vita, la morte è il bacio e la perfezione della carità ». Sono parole di Severina De Maistre e riassumono tutti gli insegnamenti della morale a proposito della morte. Oggi, purtroppo, non si muore così, perchè non si è Cristiani, e perchè si preferisce meditare la morte di Socrate e non la morte di Cristo. Quella certamente fu la morte di un forte, ma — lo osservò lo stesso Rousseau — d’un uomo; questa è la morte d’un Dio. Il Cristiano nulla disprezza della forza d’animo, che la ragione suggerisce ed impone; solo la eleva e la soprannaturalizza con la grazia, in unione a Cristo; ed oggi anche il più umile contadino, anche la vecchierella analfabeta sa rendere la fine della sua vita divinamente bella.

Se questo Sillabario sarà letto da un Cristiano praticante, io lo invito a preparare l’ora futura della sua dipartita dalla terra. Che se questo piccolo libro dovesse capitare fra le mani di chi da tempo è lontano da Dio, ed ancora non ha ceduto all’invito dell’Amore divino, vorrei che con me meditasse una pagina del prevosto Adalberto Catena, il venerando sacerdote che potè assistere agli ultimi momenti di Alessandro Manzoni. In uno dei suoi memorabili discorsi tenuti nella chiesa di San Fedele a Milano, il Prevosto Catena, con accento commosso, insisteva: « Ricordatelo: non l’avete la libertà di morire come meglio vi piace. Quest’ingannevole libertà ve la siete preclusa, per tacere del resto, tante volte quante avete riconosciuto la società da cui pure vi nominate. Vi hanno veduti genuflessi all’altare di Cristo e sulle vostre palme conserte posare i lembi della stola sacerdotale in un giorno ben lieto per voi; presenziare nei giorni del Signore il Sacrificio; portare alla fronte la mano del vostro bambino, segnarlo col segno della croce… Erano un ripetere da parte vostra: è questa la madre a cui deporrò in grembo un giorno l’afflitto mio capo. Ed ella, appunto, la madre, li vuole per sè quei momenti; ella, che sa il prezzo di un’anima, vede venire tutto il presente davanti all’eterno, non guarda a qualche levità dell’oggi, a qualche stolta negazione, ma interpreta il voto primo, il desiderio vero, della nostra vita.., sia pure come soffocato di poi. Lo sapete: quell’obbligo esisteva sempre, ma si accentua quando scendono le ombre da’ monti, quando cala la notte senza mattino. E la Chiesa v’indica allora con voce ancor più solenne il ravviamento della vita, vi vuole rivestiti della veste nuziale, perché viene lo Sposo… Vuol dire: resta ancora il crepuscolo della giornata; vuol dire: si chiude il tempo del merito; vuol dire: la volontà sta per stabilirsi immutabilmente o nel bene o nel male; vuol dire: non vi sarà luogo che ad una purificazione maggiore; ma la meta sarà raggiunta per sempre. Eccolo il titolo della specialissima obbligazione: un immenso bisogno morale e un infinito da conseguire. – E dunque eccovelo il Cristo ora almeno: e dunque sia almeno l’estremo l’istante di quel dovere che era il dovere di tante occasioni parlanti, di una vita che fioriva un giorno e ora s’incurva e declina. È per questo che la Chiesa divampa della carità di Cristo; non si rassegna facilmente alla perdita de’ suoi, e, arbitra tra i due mondi, riversa in quella ora i suoi tesori, lacera le sue viscere, rimette delle sue pene, abilita, avviva del suo potere anche un indegno, purchè levi benedicente la sua destra: cumulo d’ogni indulgenza quell’effigie che si presenta al bacio del morente…

« Alla cime del Gianicolo donde lo sguardo si protende sulle due Rome, l’antica e l’odierna, alla soglia di un umile chiostro erano accorsi i religiosi alla vista di due che lenti guadagnavan la vetta. Uno era il cantore della Gerusalemme. Sono asceso, diceva, non solo in cerca di quest’aure purissime, ma per cominciare da queste alture e nei colloqui di quei Padri la mia conversazione nel cielo ». Che ne soffre la dignità del Poeta e dell’uomo? Quando il medico dichiara la sua impotenza davanti al male che avanza, Torquato l’abbraccia, leva le palme al cielo, chiama l’altro medico, quello dello spirito. « La vedete questa calma davanti alla morte, questa equabilità? Vi par che questo sia infemminire? Il domani il Tasso scende alla Chiesa del convento, leva lo scarno viso incontro al Cristo Eucaristico ed ivi, presso l’Agnello, che si immola ogni giorno, chiede il suo riposo col nome scolpito su d’una pietra disadorna, e s’immerge in quei pensieri che sono divini. Quando l’ampio perdono gli giunge dal Pontefice Sommo, esclama: « Ecco il carro trionfale ove credevi di essere coronato; non l’alloro di poeta in Campidoglio, ma quello della gloria tra i fortunati del cielo! ». È soverchio questo affidarsi nel tesoro di Cristo? « Il cadente aprile di quell’anno trova Torquato, tra un frate e il Crocefisso, la lentansalmodia dei due orienti: spirava alle parole: In manus tuas. Domine, che non compiva. Meditabile esempio! »,

Riepilogo.

La morale cristiana considera anche la morte in funzione del concetto di amore. Fu la ribellione all’Amore, ossia il peccato dei progenitori, che introdusse la morte nel mondo; con la luce dell’amore Cristo illumina il passaggio nostro all’eternità. La morte segna l’ultimo appello dell’Amore di Dio all’amore nostro; e di conseguenza il peccatore deve sentire più che mai in quei supremi momenti, dai quali dipende l’eternità, il dovere di convertirsi; ed il buon Cristiano santifica i suoi dolori in unione con Cristo, con rassegnazione ai divini voleri, amando così Iddio ed offrendo le sue sofferenze per il bene del prossimo.

IL SILLABARIO DELLA MORALE CRISTIANA (19)