CORPUS DOMINI : Messa – LAUDA SION, Letture ed Omelia di S. S. GREGORIO XVII

Messa

Lectio

Léctio Epistolæ beáti Pauli Apóstoli ad Corinthios 1 Cor XI:23-29

Fratres: Ego enim accépi a Dómino quod et trádidi vobis, quóniam Dóminus Jesus, in qua nocte tradebátur, accépit panem, et grátias agens fregit, et dixit: Accípite, et manducáte: hoc est corpus meum, quod pro vobis tradétur: hoc fácite in meam commemoratiónem. Simíliter ei cálicem, postquam cenávit, dicens: Hic calix novum Testaméntum est in meo sánguine. Hoc fácite, quotiescúmque bibétis, in meam commemoratiónem. Quotiescúmque enim manducábitis panem hunc et cálicem bibétis, mortem Dómini annuntiábitis, donec véniat. Itaque quicúmque manducáverit panem hunc vel bíberit cálicem Dómini indígne, reus erit córporis et sánguinis Dómini. Probet autem seípsum homo: et sic de pane illo e dat et de calice bibat. Qui enim mánducat et bibit indígne, judícium sibi mánducat et bibit: non dijúdicans corpus Dómini.”

[Fratelli: Io stesso ho appreso dal Signore quello che ho insegnato a voi: il Signore Gesú, nella stessa notte nella quale veniva tradito: prese il pane, e rendendo grazie, lo spezzò e disse: Prendete e mangiate, questo è il mio corpo che sarà immolato per voi: fate questo in memoria di me. Similmente, dopo cena, prese il calice, dicendo: Questo calice è il nuovo patto nel mio sangue, tutte le volte che ne berrete, fate questo in memoria di me. Infatti, tutte le volte che mangerete questo pane e berrete questo calice, annunzierete la morte del Signore fino a quando Egli verrà. Chiunque perciò avrà mangiato questo pane e bevuto questo calice indegnamente, sarà reo del Corpo e del Sangue del Signore. Dunque, l’uomo esamini sé stesso e poi mangi di quel pane e beva di quel calice: chi infatti mangia e beve indegnamente, mangia e beve la sua condanna, non riconoscendo il corpo del Signore.]

Sequentia [Thomæ de Aquino]

Lauda, Sion, Salvatórem,

lauda ducem et pastórem

in hymnis et cánticis.

Quantum potes, tantum aude:

quia major omni laude,

nec laudáre súfficis.

Laudis thema speciális,

panis vivus et vitális

hódie propónitur.

Quem in sacræ mensa cenæ

turbæ fratrum duodénæ

datum non ambígitur.

Sit laus plena, sit sonóra,

sit jucúnda, sit decóra

mentis jubilátio.

Dies enim sollémnis agitur,

in qua mensæ prima recólitur

hujus institútio.

In hac mensa novi Regis,

novum Pascha novæ legis

Phase vetus términat.

Vetustátem nóvitas,

umbram fugat véritas,

noctem lux elíminat.

Quod in coena Christus gessit,

faciéndum hoc expréssit

in sui memóriam.

Docti sacris institútis,

panem, vinum in salútis

consecrámus hóstiam.

Dogma datur Christiánis,

quod in carnem transit panis

et vinum in sánguinem.

Quod non capis, quod non vides,

animosa fírmat fides,

præter rerum órdinem.

Sub divérsis speciébus,

signis tantum, et non rebus,

latent res exímiæ.

Caro cibus, sanguis potus:

manet tamen Christus totus

sub utráque spécie.

A suménte non concísus,

non confráctus, non divísus:

ínteger accípitur.

Sumit unus, sumunt mille:

quantum isti, tantum ille:

nec sumptus consúmitur.

Sumunt boni, sumunt mali

sorte tamen inæquáli,

vitæ vel intéritus.

Mors est malis, vita bonis:

vide, paris sumptiónis

quam sit dispar éxitus.

Fracto demum sacraménto,

ne vacílles, sed meménto,

tantum esse sub fragménto,

quantum toto tégitur.

Nulla rei fit scissúra:

signi tantum fit fractúra:

qua nec status nec statúra

signáti minúitur.

Ecce panis Angelórum,

factus cibus viatórum:

vere panis filiórum,

non mitténdus cánibus.

In figúris præsignátur,

cum Isaac immolátur:

agnus paschæ deputátur:

datur manna pátribus.

Bone pastor, panis vere,

Jesu, nostri miserére:

tu nos pasce, nos tuére:

tu nos bona fac vidére

in terra vivéntium.

Tu, qui cuncta scis et vales:

qui nos pascis hic mortáles:

tuos ibi commensáles,

coherédes et sodáles

fac sanctórum cívium. Amen. Allelúja.

Evangelium

Sequéntia sancti Evangéli secúndum Joánnem.

R. Gloria tibi, Domine! – Joann VI:51-59

“In illo témpore: Dixit Jesus turbis Judæórum: Ego sum panis vivus, qui de cælo descendi. Si quis manducaverit ex hoc pane, vivet in aeternum : et panis quem ego dabo, caro mea est pro mundi vita. Litigabant ergo Judaei ad invicem, dicentes: Quomodo potest hic nobis carnem suam dare ad manducandum? Dixit ergo eis Jesus: Amen, amen dico vobis : nisi manducaveritis carnem Filii hominis, et biberitis ejus sanguinem, non habebitis vitam in vobis. Qui manducat meam carnem, et bibit meum sanguinem, habet vitam aeternam : et ego resuscitabo eum in novissimo die. Caro mea vere est cibus et sanguis meus vere est potus. Qui mandúcat meam carnem e bibit meum sánguinem, in me manet et ego in illo. Sicu misit me vivens Pater, et ego vivo propter Patrem: et qu mandúcat me, et ipse vivet propter me. Hic est panis, qu de coelo descéndit. Non sicu manducavérunt patres vestri manna, et mórtui sunt. Qui manducat hunc panem, vivet in ætérnum. [In quel tempo: Gesú disse alle turbe dei Giudei: Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo”.[ Allora i Giudei si misero a discutere tra di loro: “Come può costui darci la sua carne da mangiare?”. Gesù disse: “In verità, in verità vi dico: se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avrete in voi la vita. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno. Perché la mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue dimora in me e io in lui. Come il Padre, che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia di me vivrà per me. Questo è il pane disceso dal cielo, non come quello che mangiarono i padri vostri e morirono. Chi mangia questo pane vivrà in eterno”.]

Omelia di

S. S. GREGORIO XVII (1975)

Avete sentito leggere un tratto (Gv VI, 51-58) di quello che è accaduto a Cafarnao un anno prima dell’istituzione dell’Eucaristia, quando Gesù cioè tenne il celebre e lungo discorso sull’Eucaristia. Il tratto che avete sentito leggere vi ha presentato la difficoltà degli uditori ad accettare una simile verità. Gli uditori avevano questo torto: non si ricordavano che poco prima Gesù aveva moltiplicato i pani e i pesci, dimostrando con questo di essere padrone tanto della sostanza che della quantità e di poterne disporre da Creatore a Suo piacimento. Questo era il loro torto. In questo torto non sarebbe caduto Pietro, – questo non l’abbiamo lettolo -, che terminò l’incidente, non comprendendo nulla anche lui, ma dicendo a Gesù: “Signore, da chi andremo noi? Tu solo hai parole di vita eterna” (Gv VI, 68). – Pur avendo torto, c’era un motivo d’interrogazione, non di contestazione, e il motivo d’interrogazione era questo: “Ma, Signore, come mai ti metti sotto apparenze così semplici come quelle di un pane, di una ostia, niente di più umile, di più comune, Signore?”. La domanda, non la contestazione, la domanda poteva essere ragionevole. In noi la stessa domanda, che potrebbe essere ragionevole, fa questo effetto purtroppo, e io sono qui a protestare fortemente contro questo effetto: che, non interpretando l’umiltà con la quale Dio si manifesta a noi e la delicatezza suprema, noi usiamo il massimo di irriverenza verso la Santissima Eucaristia, il massimo. E io sono qui a protestare con tutta l’anima contro questo. Non con voi che siete qui, cari, ma potrebbe essere che anche voi abbiate bisogno di sentire questa protesta. In altri termini, l’umiltà e la delicatezza divina nel trattare con noi uomini ci fa da dimenticare la maestà di Dio, perché nell’Eucaristia è presente Gesù Cristo Dio. E pertanto accanto all’umiltà e alla delicatezza della manifestazione e del sacro segno va ricordata la Maestà divina per trarre tutte le conseguenze. – Perché questa umiltà divina? E tutto uno stile di Dio che meriterebbe un lungo e interessantissimo discorso, perché è una delle linee principali della Provvidenza Divina nel trattare con gli uomini. Dio ci parla continuamente attraverso la creazione: il sole che sorge, l’alba rosata, la primavera che esplode, l’estate che matura, l’autunno che dà i suoi frutti, l’inverno che dà il suo raccoglimento e, per via dei contrasti, fa amare quello che è caldo, tutto, ma dolcemente, parla del Creatore. Non si arriva di conseguenza del Creatore se non si mette un’attenzione volontaria, libera, e Dio è delicato proprio per lasciare a noi il merito di questa iniziativa, di questo non primo, ma secondo passo (il primo lo fa sempre la Grazia Sua all’interno di noi), il merito di questo secondo passo. Dio non vuole con impressioni cogenti, violente, diminuire il valore del nostro atto libero e del nostro merito: questa è la ragione. Ho detto che meriterebbe un ben lungo discorso, e forse in altre occasioni lo faremo. Ma mi importa proseguire nel tema che propongo a voi questa mattina. – Sì, l’Eucaristia si presenta dolcissimamente umile, cosa comune all’esterno, segno che non viola nessuno dei limiti della nostra debolezza, ma c’è la maestà di Dio lì e dobbiamo rispettarla! La maestà: che cos’è? E una parola che è nella testa degli uomini generalmente confusa da un’idea di grandezza, di impotenza da parte nostra, di superiorità e basta, un’idea che sconvolge, che noi ricordiamo unicamente per darla alle cose che riteniamo massime in questo mondo, ma è difficile che se ne abbia una idea precisa. Ora, la maestà è quella qualità per cui Dio si alza all’infinito sopra delle Sue creature; questa è la maestà. Noi abbiamo degli elementi per parlarne, certamente, ma sempre come quando si parte da una riva e si cerca di solcare un mare che va all’infinito. Noi vediamo il sole, le altre stelle, le vediamo – in genere non le guardiamo, almeno per quanto mi consta -, però, se si osservano, si sente una grandezza tale, la grandezza dataci dall’idea di spazio, e l’idea di spazio lancia verso l’immenso. Noi siamo oppressi dal rotare degli anni, dei giorni, dei mesi, delle ore, del tempo; la storia in fondo dà questa impressione, è la prima che essa dà: che tutto quanto passa, che tutto quanto incalza, che tutto quanto ha fretta e tutto quanto lascia nella polvere, nel silenzio e, quaggiù, nella morte; ma il tempo è la sponda dalla quale si parte per avere l’idea dell’eternità. Le cose a noi sembrano mirabili, grandi; i colori si prestano, le forme, tutte le forme si prestano a questo, congegnando così l’impressione esterna della bellezza della quale è ripieno il mondo: e tutto questo costituisce una sponda che ci spinge un’altra volta sul mare infinito, quello dell’eterna bellezza. – Quando tuona il fulmine, quando il terremoto scuote, quando l’alluvione irrompe, noi abbiamo impressioni orribili e orrende, ma sentiamo la grandezza: sono le piccole rivelazioni della presenza di Dio; qualche volta sono anche un castigo, ma sono delle rivelazioni con le quali Dio, non presentando un elemento cogente all’intelligenza, perché deve rimanere libera, ma al sentimento esterno, a quel sentimento fisico che hanno anche gli animali, comune con noi, che è di fuga – e noi lo chiamiamo anche spavento -: ed è una sponda anche questa dalla quale si può partire come per un mare immenso per vedere di quanto Iddio stia al di sopra di noi. Fratelli miei, potrei continuare, ma il tempo limimitato. Dio ci dà gli elementi per la maestà, ce la richiama. – Parliamo di noi che la dimentichiamo. Quando io vedo gente che contesta d’inchinarsi davanti al Santissimo Sacramento, mi chiedo fino a che punto sia decaduta la potenza intellettuale e logica degli uomini, fino a che punto! Quando io devo constatare che bisogna proteggere il culto alla Santissima Eucaristia anche contro coloro che lo dovrebbero promuovere, piangerei. Ma siamo diventati così ciechi, siamo diventati così poveri di spirito nel senso deteriore, da non ricordarci di intendere almeno qualche volta in vita questo supremo richiamo che ci viene da tutto il creato? Se questa cattedrale crollasse e desse a noi, schiacciandoci, un segno della potenza che ha la forza di gravità o dell’attrazione della terra, sarebbe piccola e futile cosa davanti all’onnipotenza di Dio: ma abbiamo bisogno che ci cadano le cattedrali sulla testa per capire che dobbiamo adorare Colui che si degna di stare nei piccoli, umili tabernacoli – che spesso cerchiamo di rendere più spogli e miserabili -, che si degna di restare per amore nostro? A questo punto mi par di sentire una voce che dice: “Ma il senso della maestà ci opprime”. E credete che sia un male? Non è affatto un male! Se dobbiamo essere anche e fortemente richiamati al più elementare senso di giustizia verso Chi ci ha creato e redento, ben venga. Però non è questa la risposta. – Ho detto che Dio si manifesta a noi in modo umile e dolce per amore. L’Eucaristia è un atto d’amore di Dio, che ha voluto scegliere il pane e il segno della manducazione, dell’assimilazione, che è la forma più grande con la quale una creatura si può inverare nell’altra, per indicare fino a che punto Dio vuole essere unito a noi e noi uniti a Lui. E per amore! – E concludo col dire che l’amore, quando è tale, è un amore adorazione alla maestà di Dio. E non c’è da scomporsi; la logica va perfettamente a posto: in Dio, perfezione eterna ed assoluta, amore e maestà si identificano. Se s’identificano in Lui, non c’è affatto difficoltà che l’atto di adorazione in noi sia amore e l’atto di amore sia adorazione.

 

 

 

FESTA DEL CORPUS DOMINI

[J.-J. “Catechismo di Perseveranza”; vol. IV, Torino, 1881]

Corpus Domini. — Antichità, universalità di questa festa. — Parte ch’ella occupa nel culto cattolico. — Istituzione della festa particolare del Santo Sacramento. — Beata Giuliana. — Miracolo di Bolsena. — Scopo di questa festa. — Uffizio di questo giorno. — Processione. — Disposizioni con le quali si deve assistervi. — Miracolo di Faverney.

I . Eccellenza della festa del SS. Sacramento. — Questa festa è nata col mondo, al pari della festa della SS. Trinità. La celebrarono i Patriarchi con offrire i sacrifici simboleggianti la gran Vittima; tutti i popoli pure ne rinnovavano la ricordanza sopra i loro sanguinosi altari; perché dall’idea primitivamente rivelata d’una vittima senza macchia, capace di espiare i delitti, invalse nel genere umano l’idea del sacrificio. Come, di grazia, avrebbe potuto cadere in mente dell’uomo lo strano pensiero che Dio poteva esser placato dal sangue d’un animale? Quindi tutti i sacrifici antichi erano figure dell’augusto sacrificio del Calvario: poco importa, che la cognizione di questo profondo mistero sia stata alterata nel Paganesimo, non perciò il fatto è meno certo. [M. de Maistre, Schiarimenti circa i Sacrifici]. Ma in modo speciale dopo la pubblicazione del Vangelo la festa dell’Eucaristia è divenuta permanente sopra la terra. Fedeli all’ordine del loro Maestro di rinnovare il sacrificio misterioso della Cena e di celebrarla in memoria di lui, gli Apostoli hanno resa la festa dell’Eucaristia antica ed universale quanto la Chiesa. Partendo da quell’epoca il sangue divino non ha cessato un momento solo di scorrere su tutti i punti del globo.Osservate la meravigliosa armonia che esiste tra le due feste dell’Eucaristia e della Trinità. L’adorabile Trinità è l’oggetto essenziale e primario di tutta la Religione e di tutte le feste; e l’augusta Eucaristia è il sacrificio perpetuo e il culto il più santo che sia prestato alla Trinità in tutte le feste: in altre parole, tutto l’anno è la festa della Trinità che adoriamo e dell’Eucaristia per la quale principalmente l’adoriamo. Vi sarà egli dopo di ciò luogo a meravigliarsi che siasi tanto indugiato a stabilire de’ giorni speciali per onorare questi due grandi misteri? Se la Chiesa finalmente ciò ha fatto, non è però stato suo intendimento di escludere l’Eucaristia o la Trinità dalle altre feste, o di opporsi a queste feste perpetue. Ella anzi ha voluto rinnovare nella mente dei popoli due verità fondamentali; 1° che le tre Persone divine sono il solo ed unico oggetto delle nostre adorazioni, che a questo solo si riferisce tutto il culto cristiano; 2° che l’onore il più essenziale che si presti alla Trinità in tutte le feste è il Sacrificio del Corpo e del Sangue di Gesù Cristo. Cosi Dio, termine del culto cattolico; Gesù Cristo, mediatore tra Dio e l’uomo e Pontefice del culto cattolico, ecco tutta la liturgia, tutta la Religione! Conoscete voi cosa alcuna più sublime, e ad un tempo più semplice ? Ove trovare una sorgente più feconda di alti pensieri, di nobili sentimenti, di determinazioni generose? Oh! quanto sono da compiangere coloro che non conoscono le bellezze né le ricchezze del Cristianesimo!In antico il Giovedì santo era la festa del Santo Sacramento, come è tuttora; poiché i nostri padri nella fede si comunicavano tutti nel Giovedì santo. Per memoria di ciò anche adesso la Messa nel Giovedì santo è accompagnata da tutte le cerimonie e da tutta la pompa d’una gran festa, quantunque la Chiesa sia allora nel duolo e nelle lacrime. Finalmente egli è perciò, che secondo il rito romano non si dice in tal giorno che una sola Messa a fine di rappresentare più vivamente la memoria dell’ultima Cena; tutti i sacerdoti si comunicano per mano del celebrante, come gli Apostoli si comunicarono per mano di Gesù Cristo.

Instituzione della festa del Corpus Domini. — Era giunto il tempo in cui una festa solenne doveva essere aggiunta al Giovedì santo, per onorare l’augusto Sacramento dei nostri altari. E qui pure osservate, come siano tutte le istituzioni della Chiesa in armonia con i bisogni della Religione e della società. Nel decimo terzo secolo sbucarono fuori certuni che osarono impugnare il più amabile tra i nostri misteri, quello che è quasi il cuore del Cattolicismo, e per conseguenza la pietra fondamentale della società. Alle bestemmie e agli oltraggi dei novatori bisognava opporre una luminosa manifestazione della fede nella presenza reale di Gesù Cristo tra gli uomini : alle loro derisioni sacrileghe, le testimonianze autentiche di rispetto e di amore; alle loro orribili profanazioni, una solenne espiazione. Wicleffo, Zuinglio, Calvino, acerrimi nemici del mistero d’amore, contro voi e contro i vostri settari sarà instituita la gran festa del Santo Sacramento. Dio lo vuole; ma a chi manifesterà egli il proprio intendimento? Fermiamoci qui un momento a considerare l’applicazione di quella legge divina formulata dal grande Apostolo da queste parole: Le cose deboli del mondo elesse Iddio per confondere le forti [1 Cor. I, 27]. La gloria di tutto appartiene a Dio; Dio è geloso di averla; Ei non la cede ad alcuno, ed ecco perché Ei si vale dei più deboli mezzi per operare grandi cose. La fragilità dell’arnese prova la potenza dell’artefice, e obbliga l’uomo ad esclamare: Al solo Dio onore e gloria pe’ secoli de’ secoli [1Tim. I, 17]. E questa legge si compie non solo nell’ordine religioso ma in tutti gli altri.Giova qui, poiché se ne presenta l’occasione, di provarlo con fatti. Percorrete la storia del mondo. Un popolo intero geme sotto la schiavitù del Faraone: di qual mezzo si varrà Dio per liberarlo ? Dell’oscuro pastore di Mardian, di Mosè. Un gigante spaventevole porta la costernazione nell’esercito d’Israello: chi lo atterrerà? Il giovine pastore di Betlemme, David. Oloferne, Aman minacciano di sterminare la nazione santa: chi spezzerà l’orgoglio di quei superbi? Due imbelli femmine, Giuditta ed Ester. Si tratta di far cadere il mondo pagano inginocchiato davanti alla Croce: chi saranno gli stromenti di questo prodigio? Dodici pescatori. Quindi troveremo e s. Gregorio VII, e sant’Ignazio, e santa Teresa, e san Vincenzo dei Paoli ed altri, quasi vivi monumenti posti di distanza in distanza sopra il cammino dei secoli, i quali ci dicono che la legge divina è sempre in vigore: Le cose deboli del del mondo elesse Iddio per confondere le forti. Ecco per l’ordine religioso.Non meno splendidamente la stessa legge si adempie negli altri ordini. Nell’ordini sociale, p. e. si tratta di unire i popoli disgiunti da vasti mari, e di rendere passibili e sicuri i viaggi a traverso oceani senza limiti e senza sentieri: di qual mezzo si varrà Dio per operare questo prodigio? D’un poco di calamita e di ferro, cioè detta bussola! Si tratta di scoprire o piuttosto indovinare un mondo perduto in mezzo all’oceano; chi è riserbato a questa gloria? Un semplice pescatore delle adiacenze di Genova, Cristoforo Colombo. Per operare in guerra i più micidiali effetti, che chiede il Dio degli eserciti? Un poco di salnitro, che è la polvere incendiaria. Vuol Egli in commercio arricchire intere province e far sussistere milioni di uomini? Ggli basta un verme, il baco da seta. Che appresta Egli nelle arti e nell’industria per operare incredibili meraviglie? Un poco di fumo il vapore. E voi stupite ch’egli tenga lo stesso metodo nell’ordine soprannaturale? Egli è in questo specialmente che debbono scomparire i mezzi affinché si palesi l’onnipotente sua mano. A dir breve, nell’ordine della grazia e in quello della natura, Dio è tutto, e vuole che lo sappiamo. Con questa lezione Ei dice a tutti: monarchi e sudditi, ricchi e poveri, dotti e indotti, se volete essere istrumenti di qualche cosa di grande, siate umili. ‘Questa legge riceve una luminosa applicazione nell’istituzione della festa della santa Eucaristia. Abbiamo poc’anzi notato, esser ciò avvenuto nel secolo decimoterzo. In quel tempo viveva all’ombra di un piccolo chiostro una religiosa ignota al mondo, umile, oscura , e sopra lei l’Onnipotente gittò lo sguardo per l’effettuazione del magnifico suo disegno. Presso la città di Liegi era il convento delle Ospitaliere del monte Corniglione. Tra le caste colombe che lo abitavano, si trovava una novizia, giovinetta di sedici anni, poveramente nata nel villaggio di Retina nel 1193, che aveva nome Giuliana. Essendo quell’angelo della terra un giorno in orazione, lo Sposo delle anime pure, quegli che si diletta di comunicarsi alle anime umili, le fece conoscere che desiderava venisse instituita una festa solenne per onorarlo nel Sacramento dell’amor suo. Fosse timidezza, fosse timore d’illusione, la devota giovinetta serbò per quasi vent’anni in cuore questa rivelazione, e soltanto procurava col raddoppiare la propria devozione verso Gesù Cristo nel Santo Sacramento di supplire a ciò che la Chiesa non aveva ancor fatto. Essendo stata nel 1230 eletta priora del monastero del monte Corniglione, ella si sentì più vivamente sollecitata a spiegarsi. La prima persona a cui ella si confidò fu un canonico di san Martino di Liegi, rispettatissimo da tutti, a cagione della santità della sua vita. Essa lo persuase a partecipare questo progetto ai teologi e ai pastori della Chiesa. Il canonico adempié tal missione con molto zelo, e riuscì favorevolmente presso quasi tutti coloro a cui si diresse. Egli invogliò specialmente a questa pia impresa il vescovo di Cambrai e il cancelliere della Chiesa di Parigi, ma sopra tutti il provinciale dei Domenicani di Liegi, che fu in seguito cardinale e arcidiacono di Liegi, vescovo di Verdun, patriarca di Gerusalemme, e finalmente Papa col nome di Urbano IV. La beata Giuliana, assicurata dall’approvazione di tanti personaggi ragguardevoli per dottrina e per devozione, fece comporre un uffizio del Santo Sacramento di cui ella stessa suggerì l’idea e il piano, e lo fece approvare dai principali teologi del paese. – Nel 1246 il vescovo di Liegi promulgò nel suo sinodo l’istituzione di una festa particolare del santo Sacramento, di cui ordinò la celebrazione pubblica e solenne in tutta la propria diocesi. Una grave malattia sopraggiuntagli lo impedì di ridurre ad effetto somigliante istituzione per mezzo di una pastorale ch’egli era sul punto di pubblicare. Non morì però senza avere la soddisfazione di veder celebrare in sua presenza l’uffizio della nuova festa, e i canonici di San Martino furono i primi a solennizzarla nella città di Liegi nel 1247. Ma le opere sante debbono soffrire contraddizione, e Dio lo permette affinché gl’istrumenti ch’egli adopera non attribuiscano che a Lui solo il successo; e questo prezioso suggello non mancò all’opera della beata Giovanna. La persecuzione di cui ella fu scopo, unita alla morte del vescovo di Liegi, sospesero la celebrazione della nuova festa. In questo frattempo Giuliana morì, e sembrava che la sua intrapresa dovesse morire con lei. E questo era inevitabile, se non fosse ella stata che l’opera dell’uomo; ma nel 1258, due anni dopo la di lei morte, una monaca della città di Liegi, che era stata sua confidente, sollecitò vivamente il nuovo vescovo ad interporsi presso il Pontefice, affinché introducesse in tutta la Chiesa la festa del SS. Sacramento, quale era osservata a san Martino di Liegi. L’innalzamento di Urbano IV al sommo Pontificato fu riguardato come una circostanza favorevole a questa impresa, di cui egli aveva in addietro approvato lo scopo ed i mezzi. Ciò nondimeno il Vicario di Gesù Cristo, seguendo il saggio stile della Chiesa Romana, non annuì così di subito alle istanze che gli si facevano, e volle prender tempo affine di esaminare una proposta di tale importanza. Con ciò successero dilazioni a dilazioni, quand’ecco un miracolo dei più sorprendenti toglie i dubbi del santo Padre ed affretta l’adempimento del pio voto. Trovavasi Urbano IV in compagnia del sacro collegio, ad Orvieto, piccola città a venti leghe circa da Roma, e prossima a Bolsena. Quivi mentre un sacerdote celebrava la Messa nella chiesa, ancora oggigiorno esistente, di santa Caterina, lasciò cadere per inavvertenza qualche goccia del sangue prezioso sul corporale. Volendo egli perciò rimediare a tale sconcio, piegò e ripiegò più volte il sacro lino per modo che venisse assorbito il sangue adorabile. Ma nell’aprire il corporale si ritrova che il sangue ha penetrato in tutte le piegature, ed ha lasciato impresso in color di sangue l’ostia sacra perfettamente disegnata. La fama del miracolo arrivò in poche ore ad Orvieto dove, per ordine del sommo Pontefice, venne tosto recato il miracoloso corporale. Si autenticò il prodigio; sicché il corporale, racchiuso in un reliquiario, vero capo-lavoro del Medio-Evo, conservasi tuttora in quella Cattedrale. – Cede allora il Pontefice alle istanze, istituì la festa del santo Sacramento, e volle che fosse celebrata come festa di primo ordine; assegnandole il giovedì dopo l’ottava di Pentecoste, e ciò per due motivi: 1° per esser quello il primo giovedì libero dagli uffizi del tempo pasquale; 2° perché conveniva assegnare quel giorno della settimana nel quale Gesù Cristo aveva instituito l’Eucaristia. S’ignora l’anno ed il giorno in cui fu data la Bolla d’istituzione, e soltanto sappiamo che il breve da Urbano IV diretto alla beata Eva, monaca di san Martino di Liegi, è dell’anno l264

III. Obbietto della festa. — Confondere la perfidia degli eretici, risarcire gli oltraggi commessi contro il Signore, attestare altamente la fede cattolica nella di Lui presenza reale, sono codesti, i principali motivi d’istituzione espressi nella Bolla. « Certamente, soggiunge il Papa, il Giovedì santo è la vera festa del santo Sacramento, ma in quel giorno essendo la Chiesa tutta occupata nel piangere la morte del proprio Sposo, nel riconciliare i penitenti, nel consacrare il santo Crisma, si reputò ben fatto statuire un altro giorno affinché la santa Chiesa potesse manifestare tutto il suo giubilo e supplire a quanto non si è potuto compiere nel Giovedì santo. Del resto tutte le solennità dell’anno sono le solennità dell’Eucaristia: e questa festa particolare non è stata instituita che per supplire alle mancanze e alla negligenza di cui si è potuto rendersi colpevoli nella festa generale. [Proprium eiusdem solemnitatis offlcium per B. Thomam de Aquino tunc ipsa Curia existentem eompositum edidit. Bull. Sixti IV. Apud. Bened. XIV. II, p. 366].

Liturgia. — Instituita pertanto la festa del santo Sacramento, non si trattava fuorché di trovare un dotto poeta degno del mistero d’amore; e la Provvidenza lo aveva già disposto. In quel tempo fioriva uno de’ più bei geni che siano comparsi sopra la terra, e si chiamava Tommaso d’Aquino. Questo grand’uomo. gloria del suo secolo e soprannominato il “Dottore angelico” per la purità della vita e per la sublimità dell’ingegno, ebbe da Urbano IV l’ordine di comporre l’uffizio del santo Sacramento. Tommaso si accinse all’opera, e abbandonandosi alle inspirazioni del proprio cuore, del proprio genio e della propria fede, compose l’uffizio che si canta ancora attualmente, e che è un immortale capo-lavoro, ove la poesia, la devozione é la fede si contrastano la palma. – Egli è perciò a giusto titolo riguardato come il più regolare e il più bello di tutti gli uffizi della Chiesa, tanto per l’energia e la grazia delle espressioni, che manifestano a vicenda i sentimenti della devozione la più tenera e la dottrina la più esatta circa il mistero dell’Eucaristia, quanto per la giusta proporzione delle parti, e per la precisione de’ rapporti tra i simboli del vecchio Testamento e la verità del nuovo. – Simile al grano di senapa, l’opera della beata Giuliana di monte Corniglione era cresciuta successivamente dall’umile cella del monastero fino al trono pontificio, e doveva crescere ancora, ma col tempo e in mezzo alle tempeste. In fatti essendo morto nel 2 ottobre 1264 Urbano IV, Dio permise che nessuno dei suoi successori immediati affrettasse l’esecuzione del decreto; sicché pel corso di quarant’anni poche furono le chiese, oltre quella di Liegi, ove fosse celebrata la nuova festa, che rimase quindi negletta fino al Concilio generale di Vienne tenuto nel 1311: in esso papa Clemente V, volendo finalmente darle tutto lo splendore e tutta la stabilità ch’essa meritava, fece accettare e confermare la Bolla d’istituzione data da Urbano IV. L’augusta solennità fu accettata da tutti i Padri del Concilio, che rappresentava la Chiesa universale, e ciò in presenza dei re di Francia, d’Inghilterra e d’Aragona. Così fu stabilita quella specie di trionfo che la Chiesa preparava in antecedenza, e che doveva sempre durare in risarcimento degli oltraggi che il più augusto e il più amabile dei nostri misteri doveva ricevere per parte dei settari e degli empi dei secoli seguenti.

Processione. – La parte più splendente degli uffici del santo Sacramento, e quella che maggiormente contribuisce a distinguere questa festa da tutte le altre, è la solenne processione nella quale il Salvatore è portato in trionfo con augusto apparecchio e con magnifica pompa, che per altro deve essere tutta religiosa. Questa processione stabilita dal Papa Giovanni XXII è stata solennemente approvata e caldamente raccomandata dal sacro Concilio di Trento [Sess. XIII, c. 9. — Questa processione sembra originata da quella ch’ebbe luogo per trasferire da Bolsena ad Orvieto il miracoloso corporale]. – Tutto concorre a renderla pomposa, e sembra che fino tutta la natura abbia voluto prendervi parte. È questo il momento delle belle giornate; è la stagione delle rose e dei gigli; è l’epoca nella quale milioni di augelletti, tuttora coperti della lanugine dell’infanzia provano il primo loro volo ed i primi gorgheggi. Nulla è più grazioso della processione del santo Sacramento nei villaggi, quando le campagne, gli alberi, i prati verdeggiano in tutto lo splendore del loro ornamento, e riflettono la propria bellezza sopra le stazioni rusticali; nulla è più imponente nelle città fortificate, ove il rimbombo del cannone accompagna il canto degli inni sacri; nulla è più solenne nelle città marittime, ove dall’oceano sembra ricevere le impressioni dell’infinito.

Modo di santificarla. — Ma che cosa debbo io fare per corrispondere ai desideri di quel Dio che vi è portato in trionfo? Primieramente assistere e far parte della processione: sì, farne parte, perché l’uomo s’innalza sempre quando si umilia davanti a Dio. Inoltre la riconoscenza per questo Dio Salvatore, che si degna percorrere le nostre pubbliche strade e piazze, spargendo, come già un tempo i beneficii sul suo cammino, non deve forse attaccarmi a’ suoi passi, e per così dire incatenarmi al suo carro trionfale? Uomini orgogliosi, che sdegnate di camminare al seguito del gran Re, che credereste avvilirvi mescolandovi alle pie schiere delle processioni, siete voi sempre così schizzinosi? Non siete voi forse quelli che noi vediamo, a guisa di vili schiavi, incatenati a vicenda al carro dell’ambizione e della voluttà, seguire coi piedi nel fango l’orma tortuosa che lascia il vizio sul proprio cammino? Sì; ben vi sta veramente di esser superbi con Dio! Io dunque assisterò alle processioni. La presenza del mio Dio mi inspira con qual rispetto, con quale raccoglimento io debba contenermivi; la sua infinita bontà parla al mio cuore e sollecita la mia riconoscenza. I fiori spicciolati per la via, l’incenso che s’innalza in vortici verso il cielo, i sacri cantici che echeggiano per l’aere m’invitano all’amore, allo spirito di devozione, di ringraziamento e di preghiera. E mentre quelle stazioni che incontrerò di tratto in tratto m’indurranno ad ammirare l’infinita benignità del Signore del mondo, che si compiace di fermarvisi, mi avvertiranno in pari tempo che anche il mio cuore deve essere una stazione, ove le semplici virtù debbono esalare i proprii profumi. Io lascerò dunque che la mia fede agisca, e ciò sarà bastante. Oltre a ciò quelle onde di popolo, che, sospinte da curiosità e da impulso profano, si accalcano sul passaggio dell’augusto corteggio, mi porgeranno occasione di atteggiarmi a compunzione e a fervore. Io dirò, non già come Giovanni e Giacomo, ripieni di sdegno : « Maestro, vuoi tu che noi chiamiamo sopra le loro teste colpevoli il fuoco del cielo ? » ma sebbene mormorerò le affettuose parole dell’Agnello divino confitto sopra la croce: « Padre, perdona loro, perché non sanno quel che si fanno». E così, figlio fedele della famiglia cattolica, io non avrò come tanti altri arrossito di venerare e di seguire il Padre mio; ed Egli se ne lamenterà, quando, arbitro supremo, verrà a giudicare i vivi e i morti. Ah! se il mio cuore sarà adesso tutto per Lui, io farò parte di quella processione solenne ed ultima, che si alzerà raggiante verso il cielo al seguito di Gesù trionfante, mentre gli orgogliosi spregiatori di Gesù umiliato piomberanno vergognosi e maledetti negli ardenti abissi. – Non potremmo terminar meglio questa lezione, quanto con riferire uno de’ tanti miracoli con i quali Nostro Signore si è degnato fortificare la fede dei suoi figli verso la realtà della sua presenza nell’augusto Sacramento dell’altare.

VII. Miracolo di Faverney. — L’anno mille seicento e otto, a quel tempo miserando in cui la Chiesa tuttora piangeva per gli attentati sacrileghi, che i Calvinisti avano con le armi alla mano commessi in Francia, durante molti anni, sulla Persona medesima di Gesù Cristo, di cui ricusavano ammettere la presenza reale nel Santo Sacramento dell’altare, piacque alla bontà di Dio, per consolazione de’ fedeli e per confusione degli eretici, di far conoscere la verità di questo augusto mistero per mezzo del più luminoso miracolo. In occasione di certe indulgenze concesse dal Santo Padre, i religiosi benedettini di Faverney, piccola città della diocesi di Besanzone, avevano per costume la vigilia di Pente coste, che in quell’anno cadeva al 25 maggio, di preparare nella loro Chiesa abbaziale una cappella, ornata con modesta ma nobile magnificenza, sul cui altare sorgeva un tabernacolo, ove erano due ostie consacrate, chiuse in un ostensorio d’argento. In quel giorno, 25 di maggio, era stato esposto il Santo Sacramento; ed ecco che al sopraggiungere della notte, allorché atutti si furono ritirati e fu chiusa la chiesa, essendo rimaste sull’altare due candele accese, le loro scintille diedero fuoco, come è da credersi, alle guarnizioni ed agli addobbi del piccolo tempio. Ben presto un denso fumo si sparge da per tutto; e le sacre suppellettili della cappella, tovaglie, tappeti, tabernacolo, tutto viene consunto, né rimangono che ceneri e carboni accesi. Chi potrebbe esprimere il dolore che provarono i religiosi quando l’indomani si recarono alla chiesa! Oh potenza di Dio! Quale spettacolo! Mentre compresi da terrore volgono intorno gli sguardi, ecco apparir loro al di sopra di quel mucchio di ceneri ardenti l’ostensorio miracolosamente sospeso in mezzo alla chiesa. Nel momento la nuova si diffonde di questo miracolo: una folla di gente di Faverney e di altri luoghi circonvicini accorre in quantità immensa, restando sempre l’ostensorio, ove stavano le due sante ostie, sospeso in aria. Il martedì, terza festa di Pentecoste, diversi pastori erano venuti con ì loro parrocchiani per celebrare la santa Messa in quella Chiesa, ed uno di loro celebrava all’altar maggiore. L’augusto sacrificio era per terminare, quando il cero acceso davanti al Santo Sacramento si spegne ad un tratto; lo riaccendono e si rispegne; lo riaccendono di nuovo e di nuovo si spegne per ben tre volte. Quest’avvenimento avvertiva gli astanti che alzassero gli occhi all’ostensorio, affinché tutti vedessero ciò che stava per accadere. Dopo la prima elevazione nel momento che quel sacerdote deponeva l’ostia sacra sopra l’altare, l’ostensorio, ch’era rimasto sospeso in aria per trentatrè ore, discese insensibilmente e si fermò sopra un corporale che gli era stato disteso sotto. Quanto è ammirabile, o mio Dio, la vostra provvidenza! Con questo miracolo il Signore voleva preservare gli avi nostri dagli errori dei Calvinisti, e voleva confermarli sempre più nella Religione Cattolica, con far loro conoscere per mezzo d’uno dei più sorprendenti prodigi la verità di quanto ella c’insegna circa gli argomenti della presenza reale di Gesù Cristo nel Santo Sacramento, della santa Messa e delle indulgenze; articoli tutti di fede che i Calvinisti contraddicono e rigettano. Nella informazione giuridica che monsignore di Rye, allora arcivescovo di Besanzone, fece stendere a questo proposito, ei ricevé il deposto e la firma di cinquanta delle più rispettabili persone tra quelle ch’erano stati testimoni di quel fatto miracoloso. Ogni anno l’uffizio del 30 ottobre lo rammenta alla memoria e alla riconoscenza dei fedeli della diocesi di Besanzone. – Quanto a noi, che scriviamo queste pagine, non mai si cancellerà dalla nostra memoria quella processione solenne del giorno dopo la Pentecoste, nella quale la città di Faverney celebra annualmente la ricordanza del miracolo. Nel 1827, noi avemmo la fortuna di portarvi in mano l’ostia miracolosa, e di presentarla all’adorazione d’un popolo numeroso.

[Anche la città di Torino è illustre nei fasti ecclesiastici per un solenne miracolo avvenuto il 6 giugno 1435, il quale le valse il titolo glorioso di Città del Sacramento. Nella terra d’Exilles, nel Delfinato, alcuni ribaldi saccheggiarono una chiesa, e tra i molti oggetti tolsero un Ostensorio con entro un’Ostia consacrata. Delle spoglie involate caricarono un giumento per trasportarsi non si sa dove. Nel giorno sovra indicato i sacrileghi attraversavano Torino, e come giunsero nella piazza a fianco della chiesa dello Spirito Santo, allora dedicata a san Silvestro, erano le ore 5 pomeridiane, il giumento improvvisamente fermossi e stramazzò, e né grida, né spinte valsero più a muoverlo dal luogo. In questo, ecco uno dei cestoni, ond’era carico, sciogliersi da sé, ed uscirne fuori un Ostensorio, che, salendo in aria a vista di tutti, si tenne in alto mirabilmente sospeso. Dopo qualche tempo l’Ostia santa sprigionavasi dall’Ostensorio e questo scendeva a terra, mentre quella raggiante come il sole rimanevasi immobile, librata in aria a vista d’un immenso affollato popolo, che commosso, estatico, prostrato a terra ammirava il grande prodigio e adorava il Sacramentato Signore. Nè per soli pochi istanti si protrasse il miracolo, ma dovette durare assai lungo tempo, perché tutta Torino fu in movimento e si chiusero le botteghe e cessarono tutte le occupazioni, perché tutti vollero recarsi sul luogo ad essere testimoni del fatto stupendo. Appena ne ebbe avviso il vescovo mons. Ludovico Romagnano, fatto radunare il Capitolo Metropolitano e quanto il clero poté raccogliere, recossi processionalmente sul luogo, e tutti si posero in atto di adorazione. Mosso il Prelato da una ispirazione si fece recare un calice, lo levò verso l’Ostia santa, ed allora essa lenta, lenta vi discese, e trionfalmente e con tutto il fervore della devozione inspirata dal miracolo, fu portata alla Cattedrale. Un fatto cosi strepitoso accaduto in pieno giorno, alla vista di tutto un popolo descritto e circostanziato da testimoni oculari nazionali ed esteri, i documenti deposti negli archivi ecclesiastici e civili, i monumenti perenni che ne esistono cioè: le istituzioni che ne derivarono, le lapidi incise, un tempio appositamente eretto, la festa e la processione annuale che sempre fu in tal giorno celebrata, convincono ognuno, che sia sano d’intelletto, che nulla vi può essere di più accertato al mondo. Gli empi stessi, i quali, per confutare un tale avvenimento, non sanno usare altr’arma che quella ridicolissima del ridicolo, ci dimostrano che non sanno trovare armi più valide, epperò confermano la nostra fede. Nel 1853 se ne celebrava con vera magnificenza il 4° anniversario secolare: in tale occasione la fede dei Torinesi si palesò spontanea, imponente e consolante.]

Preghiera.

O mio Dio, che siete tutto amore, io vi ringrazio che abbiate instituita la festa del Corpus Domini; fatemi la grazia ch’io la celebri con tutta la devozione necessaria, per ringraziarvi della vostra bontà e risarcirvi degli oltraggi, fin nell’adorabile Sacramento dei nostri altari. – Mi propongo di amar Dio sopra tutte le cose, e il prossimo come me stesso, per amor di Dio, ed in prova di questo amore io assisterò alla benedizione ogni giorno dell’ottava del Corpus Domini.