LIBRO SESTO
I frutti della redenzione.
CAPO I.
La vita cristiana.
[F. Pratt: La teologia di San Paolo – Parte SECONDA, S.E.I. Ed. – Torino, 1927 – impr.]
IV. — LA PERFEZIONE CRISTIANA.
1. LA VIA DEI CONSIGLI. — 2. L’IMITAZIONE DI GESÙ CRISTO. — 3. L’ASCESI CRISTIANA. — 4. L’EUCARISTIA SIGILLO DELLA PERFEZIONE.
1 . Si è potuto constatare che la parenesi di san Paolo, oltrepassando di molto lo stretto obbligo, è molte volte un ideale più che una norma imperativa. E come potrebbe essere diversamente? Quando si dice ai fedeli: « Abbiate i sentimenti che furono nel Cristo Gesù », si spalanca loro la porta dei consigli evangelici. Dopo che si fece sentire quel si vis perfectus esse del divin Maestro, una moltitudine di anime generose si sono messe spontaneamente per quella via, e gli Apostoli ve le esortano senza farne loro un dovere rigoroso. Quando san Paolo colma di elogi la verginità e raccomanda la continenza di cui egli stesso fa professione, ha cura d i avvertire che essa è un dono di Dio e che richiede una chiamata speciale della grazia; ma questa grazia è largamente offerta, e spetta all’uomo il corrispondervi. Se l’anima nostra è la tela su cui si deve ricamare l’immagine vivente di Gesù Cristo, vi saranno certamente dei tratti proposti alla nostra imitazione senza essere imposti alla nostra coscienza: pagare i debiti è giustizia; rendere più del dovuto è generosità o riconoscenza; dare tutto senza contare, è amore. Bisogna pure che i protestanti qui si pronunzino; e qualcuno era lo fa con bel garbo. Uno di essi scrive, riguardo al consiglio di verginità del quale si è parlato: « Il celibato cristiano nonmerita punto il nostro disprezzo; esso è — o può essere — degno di ammirazione; sotto il suo migliore aspetto, è di certo preferibile al matrimonio… Iprotestanti possono non sentire volentieri quest’asserzione; ma bisogna inchinarsi dinanzi ai fatti, ed è un fatto che san Paolo incoraggia la continenza. E il protestante stesso può, se lo desidera, scoprire delle ragioni per simpatizzare con la dottrina di Paolo (R.Mackintosh, Marriage probl. In Corinth. P. 350) ». Il Cattolico invece trova affatto naturale la dottrina di Paolo, perché in essa trova un’eco diretta dell’insegnamento di Gesù (Matth. XIX, 12; XIX, 21). La perfezione è una carriera che non ha limiti: a qualunque grado sia arrivato, il Cristiano può sempre aspirare a salire più alto, ed è compito del predicatore lo stimolarlo in questo nobile sforzo: « Noi predichiamo il Cristo, esortando e istruendo ciascuno con ogni sapienza, per presentare (a Dio) ogni uomo perfetto nel Cristo (Col. I, 28) ». Ma passerà tutta la vita prima che lo scopo sia pienamente raggiunto, perché la misura proposta al Cristiano, come membro del Corpo mistico, è la perfezione del Capo, cioè di Gesù Cristo, ed è evidente che non vi arriverà mai.
2. A torto si è preteso che san Paolo, a differenza degli evangelisti, non proponga alla nostra imitazione il Cristo storico, ossia la Persona di Gesù Cristo considerata nella sua vita mortale. Senza dubbio nella vita terrena di Gesù vi sono molti tratti, come i miracoli e le manifestazioni della divinità, che sfuggono all’imitazione. È però imitabile, ed espressamente ci esorta ad imitarlo, quando si abbassa e si annienta, quando si mette in ginocchio dinanzi ai suoi discepoli per lavare loro i piedi, quando si lascia colmare d’ingiurie e di oltraggi, quando si carica della croce per nostro amore (Giov. XIII; Matth. XVI, 24). Questo pure è il modello che san Paolo ci presenta. Per indurci a piacere agli altri « in tutto ciò che è bene, per l’edificazione », invoca l’esempio del Cristo « il quale non si compiacque in se stesso (Rom. XV, 3) ». Per farci conoscere il merito e il valore della limosina, dell’abnegazione, dell’obbedienza, ci ricorda che il Cristo spontaneamente cambiò le ricchezze del cielo con l’indigenza della terra, che si annientò prendendo un corpo simile al nostro e spinse l’eroismo dell’obbedienza fino alla morte di croce (II Cor. VIII, 9; Fil. II, 5-11; I Piet. II, 21). Se tutta via la vita mortale di Gesù ha una parte abbastanza limitata nella morale di san Paolo, come anche nella sua teologia, bisogna ricordare che l’Apostolo preferisce considerare Gesù Cristo quale è presentemente nella sua vita gloriosa; ed egli non ci esorta soltanto a imitarlo, a modellarci su Lui, ma a trasformarci in Lui. Egli c’invita arivestire il Cristo, a riempirci dei sentimenti del Cristo, a vivere della vita del Cristo: « Io vivo, non più io, ma è Gesù Cristo che vive in me (Gal. II, 20) ». A che serve parlare d’imitazione, dal momento che l’Apostolo mira all’identità mistica? – È anche vero che nel darci Gesù Cristo come modello, Paolo suole interporre se stesso tra il Cristo e noi, come un’immagine vivente del Maestro: otto o nove volte nelle sue Epistole si trova questa formola in una forma poco diversa: « imitate me, come io imito il Cristo (I Cor. XI, 1) ». L’esempio è il più breve ed il più efficace degli insegnamenti: ora tutta la vita di san Paolo fu una continua morale in azione. Quello che vi è di curioso in questa predicazione muta, è che essa era un procedimento studiato e un complemento voluto della predicazione orale. Non vi era né ostentazione né vanagloria, ma quella condiscendenza paterna che sa adattarsi alla debolezza e che, per istruire meglio, si rivolge ora agli occhi, ora alla mente e ora al cuore. Egli diceva ai Tessalonicesi: « Voi stessi sapete come bisogna imitarci; poiché non siamo vissuti in mezzo a voi nel disordine, né abbiamo mangiato gratuitamente il pane di nessuno, ma nel lavoro e nella pena, faticando notte e giorno per non essere di peso a nessuno di voi. Non già che non ne avessimo il diritto, ma volevamo darvi in noi medesimi un modello da imitare (II Tess. III, 7-10) ». La parola degli araldi della fede è davvero eloquente, quando la loro condotta dà un tale appoggio al loro insegnamento. – L’imitazione del Cristo apre alla perfezione orizzonti infiniti: è la morte dell’egoismo e della ricerca personale di sé. Ecco alcune delle massime che ispira a san Paolo: « Non guardare al proprio interesse, ma a quello degli altri. — Rallegrarsi con quelli che sono nella gioia, piangere con quelli che piangono. — Sopportare le debolezze altrui e sforzarsi di piacere a tutti per il bene, per dare edificazione. — Ricordarsi… che vi è maggiore felicità nel dare che nel ricevere (10) ». Nell’Epistola ai Romani san Paolo fa la teoria di questa rinunzia volontaria a vantaggio della carità. A Roma vi erano degli scrupolosi che si astenevano da certi cibi o da certe bevande, e che stabilivano delle differenze tra i diversi giorni dell’anno, del mese o della settimana. Quelle anime piccine non formavano un gruppo distinto e non avevano un sistema preciso, ma, come tutti gli scrupolosi, obbedivano a vane apprensioni o a ripugnanze irragionevoli. Essi non cercavano d’imporsi agli altri in nome di una dottrina. « Deboli nella fede », essi erano soprattutto deboli di carattere e per conseguenza esposti ad essere trascinati dall’esempio, anche in cose che avrebbero ferito la loro scienza male formata. Subivano forse, senza saperlo, l’influenza del giudaismo? Anche questo non è impossibile, benché sembri piuttosto che fossero stati sedotti da un ideale Ascetico inconsiderato, per quanto rispettabilissimo in se stesso (Rom. XIV, 1; XV, 4). Ad ogni modo non erano affatto giudaizzanti aggressivi, come quelli di Antiochia, di Gerusalemme e della Galazia, né dualisti dogmatizzatori come quelli di Colossi. L’Apostolo, così pronto a fulminare l’anatema contro tutti i campioni delle false dottrine, non li tratterebbe con tanta dolcezza e con tanto riguardo. Egli vuole che i forti, cioè iCristiani illuminati, sopportino i deboli, soggetti agli scrupoli, senza neppure importunarli con discussioni sterili; che si astengano dal giudicarli e dal condannarli; anzi evitino di urtarli e di contristarli con un modo di fare contrario al loro. Il mantenimento della pace e dell’unione vale pure questi sacrifici: « È bene (per te) il non mangiare carne, il non bere vino e il rinunziare a tutto ciò che potrebbe essere per tuo fratello un’occasione di caduta, di scandalo o di debolezza (Rom. XIV, 21)… Se mio fratello è scandalizzato per un alimento, io non mangerò mai più carne per non scandalizzare mio fratello (I Cor. VIII, 13) ».
3. Chi vuole camminare s u le orme di Gesù dev’essere pronto a qualunque sacrificio. Osserviamo Paolo suo imitatore fedele. Come araldo del Vangelo, potrebbe vivere del Vangelo; come Apostolo dei Corinzi, dovrebbe essere mantenuto da loro. Il soldato è mantenuto dal suo capitano, e l’operaio da colui che lo impiega; e per farci intendere questa verità di senso comune, Mosè proibisce di mettere la musoliera al bue che trebbia le messi nell’aia (I Cor. IX, 1-15). Eppure Paolo non si è mai valso di tale diritto: egli si affatica come un operaio nel lavoro manuale per non essere di peso a nessuno; si fa un vanto e un dovere di predicare gratuitamente la parola di Dio « per non mettere ostacolo al (la diffusione del) Vangelo (I Cor. IX, 12) ». Con questo scopo accetta in anticipo tutte le rinunzie: « Libero verso tutti, mi sono fatto servo di tutti, per guadagnarne un maggior numero… Mi sono fatto tutto a tutti per guadagnarne almeno alcuni (I Cor. IX, 20-22) ». Non è soltanto lo zelo che lo spinge: egli obbedisce a una considerazione più nobile: « I corridori dello stadio — non lo sapete? — corrono tutti, ma uno solo riporta il premio. Voi correte in modo da riportare il premio. Ora, chiunque prende parte alla lotta si astiene da tutto: essi per una corona peritura; noi per una imperitura. Per me, io corro, non già come alla ventura; io batto, non come se battessi l’aria. Ma io castigo il mio corpo e lo tratto da schiavo, per timore che, dopo di essere stato per gli altri araldo, non sia io stesso escluso (dalla palma) (I Cor., 24-27). -Si sa quanto fosse lunga e rigorosa presso gli antichi la preparazionealle gare atletiche. Per dieci mesi e più, un regolamento minuziosoe tirannico fissava al candidato le ore e la durata dei suoiesercizi, dei suoi pasti, del suo sonno che doveva prendere sopra ungiaciglio tanto duro da non conservare l’impronta del corpo. Dovevaagguerrirsi contro la fame e la sete, il freddo e il caldo, il sole e la polvere, la fatica e le intemperie. Non soltanto gli erano severamente vietati i piaceri della tavola e dell’amore, ma non doveva bere vino perché riscalda, né bevande fresche, col pretesto che indeboliscono. E tutto questo per la prospettiva di una corona di foglie, che doveva ornare la fronte del fortunato vincitore. – San Paolo, paragonando la vita presente ad un’arena, paragona se stesso al lottatore che disputa il premio della corsa e del pugilato. Come il corridore dello stadio, egli ha continuamente gli occhi fissialla mèta e non la perde di vista un momento; come il pugilatore,mena colpi terribili al suo avversario il quale non è altri che lui medesimo.Per capire il realismo raccapricciante delle sue parole, bisognaessersi fermati a osservare quelle antiche statue in cui il pugilatore è rappresentato con le orecchie tumefatte, gli occhi gonfi, il labbro cascante, i denti spezzati, con tutta la faccia pesta e insanguinata. Quando uno degli avversari, ansante e mezzo morto, giaceva a terra, il suo rivale gli metteva il ginocchio sul petto per far constatare la sua sconfitta. Ecco il trattamento che l’Apostolo infligge al suo corpo: egli lo colpisce senza pietà come un nemico mortale e lo tiene sotto i suoi piedi come uno schiavo ed un vinto. Quanto il suo ministero gli dovette costare di fatiche, di pericoli, di privazioni e di patimenti, lo potremmo indovinare facilmente, ancorché non avessimo le sue confidenze discrete (II Cor. XI, 23-30). Egli sopportòtutto con rassegnazione, con allegrezza; egli infatti sa che l’apostolo, ad esempio del suo Maestro, è salvatore soltanto per mezzo della croce: « Mi rallegro nelle mie tribolazioni e compio nella mia carne quello che manca ai patimenti del Cristo per il suo corpo che è laChiesa (Col. I, 24) ». Alle prove suscitate dagli uomini o mandate da Dio,egli aggiunge le rinunzie volontarie. Tutta la sua ambizione è di« portare dovunque nel suo corpo la crocifissione di Gesù (II Cor. IV, 10) » e di« portare nella sua carne le stimmate (Gal. VI, 17) » sanguinose del Crocifisso. Questo atteggiamento verso le creature e verso se stesso, per quantosia generoso, non presenta ancora altro che il lato negativo della perfezione. Esso produce l’effetto di rompere tutti i vincoli che legavano l’anima alla terra, e di allontanare gli ostacoli che impedivano il suo slancio verso il cielo. Tale fu la disposizione di san Paolofin dal primo momento della sua conversione. « Le cose che erano per me vantaggi, io ho considerate come danno per causa del Cristo. Anzi io considero tutte le cose come una perdita, per causa dell’eccellenza della conoscenza del Cristo Gesù mio Signore, per il qualeho rinunziato a tutto, e le considero come fango, a fine di avere non già la mia giustizia che viene dalla legge, ma quella che è per mezzodella fede del Cristo, la giustizia che viene da Dio (fondata) sopra la fede (Fil. III, 7-9) ». Non contento di purificare l’anima sua dagli affetti terreni, si volge verso il modello inimitabile e si sforza di riprodurlo. Non che io abbia già raggiunto (la mèta) o che sia già perfetto; ma io corro per cercare di prendere quello per cui io stesso fui preso dal Cristo Gesù.No, fratelli, io non mi credo ancora arrivato. (Io miro soltanto a) una cosa: dimenticando quello che è dietro di me e tendendo tutti i miei nervi verso quello che mi sta davanti, io corro diritto alla mèta, verso la palma lassù dove Dio mi chiama nel Cristo Gesù (Fil. III, 12-14). L’allegoria della corsa qui è trasparente. Il guardarsi dietro le spalle, per il corridore dello stadio, è un atto altrettanto inutile che pericoloso: egli deve tenere lo sguardo costantemente fisso davanti a sé, per non deviare dalla linea retta e anche per prevenire le sorprese, gli accidenti e gli ostacoli che potrebbero ritardare la sua corsa o farlo cadere. Il desiderio di vincere gli dà le ali, ed egli tende verso la mèta tutti i suoi nervi ed i suoi pensieri, sapendo benissimo che un momento di tregua può fargli perdere la vittoria. Possiamo osservare nelle immagini antiche quei corridori agili che toccano appena col piede la terra, col busto proteso in avanti e le braccia tese verso la mèta che divorano con gli occhi. Nella via della perfezione non vi è né tregua né riposo: ecco perché san Paolo dimentica volontariamente quello che ha già fatto; lo cancella dalla sua memoria e ne distrugge il ricordo. La sua unica preoccupazione è di avanzarsi sempre, di avvicinarsi sempre più alla mèta, di diminuire gradatamente la distanza che lo separa dal suo modello sublime. Questo sforzo incessante verso il meglio, questa continua tensione della sua anima, Paolo la esprime con una forza intraducibile quando dice: ad ea quæ priora sunt extendens meipsum. – Però san Paolo prevede che non tutti i fedeli sono maturi per questa dottrina. Parecchi non l’intenderanno o la intenderanno a rovescio. Con tali spiriti, piuttosto lenti che indocili, egli sa temporeggiare e condiscende alla loro debolezza: « Noi tutti che siamoperfetti, egli dice loro, abbiamo questi sentimenti; e se voi in qualchepunto siete di parere diverso, Dio stesso vi illuminerà, al riguardo (Fil. III, 15-16) ».
4. È possibile, senza l’Eucaristia, arrivare a questo ideale di perfezione? « Se non mangiate la carne del Figliuolo dell’uomo, disse Gesù, e se non bevete il suo sangue, non avrete la vita in voi … Perché la mia carne è veramente cibo e il mio sangue è veramente bevanda ». Intese nel senso naturale, queste parole c’insegnano che il pane e il vino eucaristico sono tanto necessari al mantenimento ed al progresso della vita dell’anima, quanto è necessario il nutrimento materiale alla vita del corpo. Noi possiamo nascere alla vita della grazia senza l’Eucaristia, ed ecco perché il Battesimo, di fatto o di desiderio, è esso solo di necessità di mezzo; ma non possiamo conservare a lungo questa vita, fortificarla ed accrescerla, senza l’alimento eucaristico, eccetto un miracolo paragonabile a quello di un corpo umano che crescesse di statura e di vigore, benché privo di ogni nutrimento. L’Eucaristia è dunque necessaria, non soltanto come l’osservanza dei precetti di Dio e della Chiesa, per evitare la morte del peccato, ma come condizione normalmente richiesta per perfezionare in noi la vita del Cristo. San Paolo arriva al medesimo risultato per una via affatto diversa. Mentre san Giovanni considera il compito dell’Eucaristia nella vita dell’anima individuale, egli lo considera nei suoi rapporti col corpo mistico: « Il calice di benedizione che noi benediciamo non è la comunione al sangue del Cristo? e il pane che spezziamo non è forse la comunione al corpo del Cristo? Perché non vi è che un solo pane, noi formiamo tutti un solo corpo poiché tutti noi partecipiamo a questo medesimo pane (I Cor. X, 16-17) ». Il commento di san Giovanni Crisostomo è assai profondo: « Paolo non dice già partecipazione, ma comunione perché vuole esprimere una più intima unione. Infatti nel comunicarci noi non partecipiamo soltanto al Cristo, ma ci uniamo con Lui. E siccome questo corpo è unito col Cristo, così per mezzo di questo pane noi siamo uniti al Cristo… Ma che dico io di comunione? Paolo dice: Noi siamo identicamente questo corpo. Infatti che cosa è questo pane? È il corpo del Cristo. E Che cosa diventiamo noi ricevendo questo pane? Il corpo del Cristo: non parecchi corpi, ma un corpo solo ». – Sembra dunque che senza l’Eucaristia che è «il sacramento della pietà, il segno (efficace) dell’unità, il vincolo della carità », secondo la celebre frase di sant’Agostino, il corpo mistico non avrebbe tutta la perfezione che gli spetta. I cristiani non sarebbero uniti al Cristo né uniti tra loro con quella unione ineffabile che produce la comunione e che il Signore volle per la sua Chiesa nell’istituire l’eucaristia. Se la nostra incorporazione col Cristo, per mezzo della fede e del Battesimo, è sufficiente per la salvezza, la Comunione col Cristo è indispensabile per la perfezione sociale del corpo mistico ed anche, normalmente, per la perfezione individuale del Cristiano. La conseguenza è evidente per chiunque si ricordi che l’alimento eucaristico, a differenza del nutrimento ordinario, ha la proprietà di trasformare noi in Lui.