SAN GIUSEPPE PROTETTORE DEI CRISTIANI (2)

IL PROTETTORE DEI CRISTIANI

[A. CARMAGNOLA: Il Custode della Divina Famiglia S. GIUSEPPE – Tipogr. e libr. Salesiana, TORINO, 1896]

RAGIONAMENTO XXIX.

Della ognor crescente glorificazione di S. Giuseppe qui sulla terra lungo il corso dei secoli.

Discorrendo S. Bernardo dell’antico Giuseppe, figliuolo di Giacobbe, osserva, giusta quel che ne dice la Santa Scrittura, che tali erano le sue doti e le sue qualità da tirarsi dietro come rapito da dolce incanto tutto l’Egitto: Ioseph universum Ægyptum post se currere fecit(Serm. II in Cant.). Ma ciò non è che una meschina figura di quanto si è realizzato del nostro S. Giuseppe nel corso dei secoli cristiani. Di mano in mano che si misero sempre più in chiara luce le sue eccelse virtù, i suoi preclari meriti, si videro altresì correre dietro a lui i cuori di tutti i Cristiani! Difatti la divozione verso questo Santo Patriarca, nascosta per così dire nel cuore dei primitivi Cristiani, svolta quindi dai sentimenti espressi dai Santi Padri, e resasi in seguito apertamente manifesta, si è distesa non solo in tutta Europa, centro della nostra santissima Religione, ma è passata ancora nell’Asia, nell’Africa, nell’America e nell’Oceania e nelle più remote contrade del mondo, e da per tutto coi nomi dolcissimi di Gesù e di Maria si ripete e si invoca ancora il nome di Giuseppe. Da per tutto col più fervido slancio di pietà si celebrano le sue feste, lo si onora nel mercoledì di ogni settimana, gli si consacra il mese di Marzo, si implora la sua possente protezione in vita e specialmente al punto di morte. Da per tutto e tutte le classi della società, tutte le età della vita a lui si rivolgono tributandogli l’omaggio dei loro ossequi e delle loro preci: i sovrani Pontefici, i re, i vescovi, i regni, le città, le ville, le famiglie, gli istituti religiosi, la Cristianità tutta quanta, per modo che si ha da dire di lui che per la sua singolare grandezza ha fatto correre dietro a sé tutto il mondo e tutto il mondo ha guadagnato alla sua glorificazione. Iosepli universum mundum post se currere fecit. Ma per farci un’ idea più ampia e più particolare di una tale verità, rifacciamoci da capo e trascorriamo oggi almeno i principali periodi della ognor crescente glorificazione di S. Giuseppe sopra di questa terra.

PRIMA PARTE.

Già fin da’ suoi primi tempi la Chiesa prese ad onorare S. Giuseppe. Poiché sebbene, come già osservammo in uno di questi primi ragionamenti, a principio ella andasse con molta cautela nel rendere a questo Santo la gloria dovuta per mettere in salvo il dogma della verginità di Maria, non lasciò tuttavia di dipingere e di scolpire nei venerandi asili delle catacombe, sui sarcofagi, nei codici, sui dittici e persino sopra le gemme insieme con l’immagine di Gesù e di Maria quella di S. Giuseppe. A Roma in un affresco del cimitero di Priscilla, che è della fine del primo secolo o del principio del secondo, S. Giuseppe è rappresentato in piedi vicino alla Beata Vergine, che tiene in seno il divin Pargoletto. Nel cimitero di S. Callisto vi ha un altro affresco del secondo secolo, dove S. Giuseppe è posto ritto tra la Vergine ed il Divino Infante. Così pure trovasi sempre effigiato in diversi sarcofagi, tutti dei primi quattro secoli, come anche nei mosaici di Santa Maria Maggiore sia quando si rappresenta il mistero della nascita di Gesù, sia quello dell’adorazione dei Magi, o della fuga in Egitto. Fuori di Roma trovansi queste simili pitture o sculture ad Ancona sopra un sarcofago del quarto o al più del quinto secolo, a Firenze nel codice siriaco della Bibbia, opera del sesto secolo, a Ravenna sulla Cattedra episcopale ancor essa del secolo sesto, a Milano sopra il dittico della Chiesa metropolitana, che pare appartenere al quinto secolo più che al sesto, sopra il sarcofago di S. Celso del secolo quarto, sopra quello assai prezioso che vi ha sotto il pulpito della basilica di S. Ambrogio, dove S. Giuseppe è rappresentato in età giovanile con bella e lunga capigliatura in atto di porgere il Bambino ai Santi Magi. E fuori della stessa Italia non mancano tali immagini e di vote memorie della primitiva devozione a S. Giuseppe, tra le quali vogliono essere segnalate un’effigie del santo scolpita nell’avorio, appartenente ad un monastero di Werden della Vestfalia, lavoro del sesto secolo, ed una gemma trovata in Oriente e che non è certamente più in là del quinto secolo, intorno alla quale si legge una epigrafe in lingua greca, che suona nella lingua nostra: « O Giuseppe assistetemi nei miei lavori e concedetemi la vostra protezione ». – Ma alla glorificazione, che di S. Giuseppe presero a fare nei primi secoli della Chiesa gli artisti, devesi aggiungere quella degli scrittori ecclesiastici e dei Santi Dottori. Il martire S. Giustino ed Origene del secondo secolo, poi i Santi Epifanio, Giovanni Crisostomo, Giovanni Damasceno nella Chiesa orientale, ed i Santi Ambrogio, Gerolamo, Agostino ed Ilario nella Chiesa occidentale rendono nelle loro opere splendida testimonianza della loro venerazione verso di S. Giuseppe. Fra di essi Origene nota come S. Giuseppe fosse onorato dal Figliuol di Dio col titolo di padre; S. Ilario (In Matt. cap. II) lo riguarda come tipo e figura degli Apostoli tanto presso degli Ebrei, come presso dei gentili, osservando che S. Giuseppe dapprima condusse Gesù a Gerusalemme nel tempio giudaico e poi nell’Egitto tra i popoli idolatri; e S. Agostino infine (Serm. LXXXI, de temp.), per non fare più altre citazioni, avverte che il nostro Giuseppe non aveva già solamente radunato del grano per i sudditi di un solo principe, come aveva fatto l’antico Giuseppe divenuto viceré dell’Egitto, ma che egli aveva dato e conservato a tutti i figli della Chiesa il vero pane vivo e vivificante che nutre le anime per renderle immortali, e che se l’antico Giuseppe era nato pel bene dell’Egitto, il nostro era venuto al mondo pel bene di tutto il genere umano. – Or dunque, da tutte queste bellissime e gravi testimonianze risulta chiaro, che S. Giuseppe fin dall’origine della Chiesa e dai suoi primi secoli venne pure, sebbene piuttosto in privato che in pubblico, assai onorato e glorificato dal popolo cristiano. Ma questo culto, che infino al secolo ottavo rimase per così dire alquanto velato, prese poscia nei secoli successivi a manifestarsi e svolgersi sempre più apertamente sia con chiese ed altari dedicati ad onore di S. Giuseppe, sia con feste speciali, sia con pratiche devote. Pare fuor di dubbio che la prima a tributare un pubblico culto a S. Giuseppe sia stata la Chiesa orientale. Nel secolo nono il beato Giuseppe, nativo di Sicilia, poi monaco e prete di Tessalonica, che scrisse molti inni sacri, per cui fu soprannominato Innografo, ne compose eziandio uno ad onore di S. Giuseppe, il quale doveva servire per la festività di questo Santo, che si celebrava nella domenica dopo la Natività di Gesù Cristo. Il che chiaramente dimostra che nel secolo nono presso la Chiesa orientale già si onorava di festa speciale epperò di pubblico culto il Custode della Divina Famiglia. Ma se la Chiesa orientale fu la prima riguardo al tempo ad onorare pubblicamente S. Giuseppe, la Chiesa occidentale, alla quale noi apparteniamo, non fu seconda riguardo allo slancio ed al fervore. Ne abbiamo una prova anzitutto del secolo decimo primo nella frequenza con cui nei loro scritti parlano di S. Giuseppe il mellifluo S. Bernardo e Ruperto abbate. Questi chiama S. Giuseppe massimo fra tutti i Santi, dopo la Beata Vergine; quegli nelle sue opere se ne dimostra devotissimo e gli tesse i più alti encomi. Altra prova ci è la certezza, che ne risulta da autentici documenti, dell’esistere fin dal secolo decimo secondo in Bologna un borgo detto di San Giuseppe, ed in esso una Chiesa parrocchiale a lui dedicata. Altra prova ancora vi ha nella sollecitudine, con cui gli Ordini religiosi presero a mettersi sotto la special protezione di questo Santo. Presso i Servi di Maria, come chiaro si legge nei loro annali, essendosi raccolti a capitolo generale in Orvieto l’anno 1324, furono rinnovati e dichiarati i decreti, i quali prescrivevano che in ciascuna Chiesa dell’ordine si celebrasse il dì 19 Marzo la festa di S. Giuseppe. Presso i Frati minori Francescani, in alcune loro generali adunanze stabilirono ripetutamente la stessa cosa. E così pure si prescrissero solenni onori al nostro Santo presso dei Domenicani e dei Carmelitani, intorno ai quali ultimi è sentenza comune degli eruditi aver essi trasportato dall’occidente in Oriente questa santa pratica del porgere culto amplissimo a S. Giuseppe. Ma le prove più belle della sua glorificazione per parte della Chiesa occidentale cominciamo ad averle dal secolo decimo quinto. In questo secolo spargeva gran fama di sé il dotto e pio Gersone, gran Cancelliere dell’Università di Parigi. Or bene fu egli che in Francia cooperò mirabilmente a dare nuovo ed imperituro splendore al culto di S. Giuseppe. Egli non omise giammai occasione alcuna per far conoscere al mondo le sublimi prerogative e i tesori di virtù racchiusi nel cuore del nostro Santo. Soprattutto si applicò ad ispirare questa divozione agli ecclesiastici ed ai principi, giovandosi di tutto l’ascendente che gli dava il suo stato e scrivendo a tal fine inni, panegirici, lettere piene di unzione e di dottrina. Nell’anno 1414 intervenuto al Sinodo di Costanza, ed adoperandosi efficacemente per la cessazione dello sciagurato scisma di Occidente, propose quale mezzo sicuro ad ottenere la pace della Chiesa l’istituzione di una speciale solennità ad onore di S. Giuseppe. Incaricato in quel sinodo di predicare il giorno della natività di Maria Santissima, impiegò la massima parte del discorso nell’encomiare le prerogative dell’augusto Sposo di lei, e seppe parlarne con tanta energia, che lasciò quella santa assemblea penetrata dalla più viva ammirazione per lui e della più tenera confidenza verso di San Giuseppe. – Ma quel che allora andava facendo Gersone in Francia è pure quel che faceva in Italia San Bernardino da Siena, l’apostolo della divozione al Santissimo nome di Gesù, ed una delle più splendide glorie dell’ordine serafico. Questo Santo in tutte le sue apostoliche escursioni non lasciava mai di raccomandare con quello zelo efficacissimo che era tutto suo, la divozione ed il culto di San Giuseppe. Egli ne aveva composto un devotissimo sermone, e lo andava recitando con gran fervore in quasi tutte le città italiane, che egli percorse predicando. Per ogni dove magnificava le sue glorie, esaltava la sua santità, e la sua dignità altissima di Sposo di Maria e di Custode di Gesù, ne asseriva la sua santificazione nel seno materno e la sua assunzione in cielo in corpo ed anima; per modo che mercé un tanto zelo la venerazione a S. Giuseppe andava mirabilmente accrescendo in tutte le nostre terre. Nel secolo seguente suscitava nuove fiamme di amore a S. Giuseppe il frate Isidoro Isolano dell’ordine di S. Domenico. Egli l’anno 1522 pubblicava in Pavia un libro intitolato: Somma dei doni di S. Giuseppe, e lo presentava al Sommo Pontefice Adriano VI, accompagnandolo con calde preghiere, perché volesse accrescere onore al gran Santo e lo dichiarasse patrono della Chiesa militante, assicurando che ne sarebbe derivato un gran bene a tutta la Chiesa. Ma intanto ecco sorgere contemporaneamente nella Spagna la stella fulgidissima del Carmelo, S. Teresa di Gesù, la quale può a tutta ragione chiamarsi l’apostola della devozione a S. Giuseppe. Fin dalla sua tenera età si sentì nel cuore una tenerezza ed una fiducia particolare per questo Santo. Lo chiamava col nome di suo padre e signore, e lo riguardava, dopo Maria, come il suo primo protettore. Cresciuta negli anni e nella perfezione, accrebbe pure l’amore per lui. Nel giorno della sua festa faceva cantare la messa e l’ufficio solenne; a capo alle sue lettere metteva sempre con quello di Gesù e di Maria anche il nome di Giuseppe. In suo onore fece innalzare delle chiese, gli dedicò dodici monasteri dei diciassette che fondò per le monache carmelitane e tutti li mise sotto la sua protezione: a tutte le suore non solo, ma a tutti i fedeli, con cui aveva occasione di parlare, raccomandava sempre la divozione a questo santo e ciò con uno zelo ed una efficacia ammirabile. Sulla fine poi dello stesso secolo XVI e sul principio del XVII facevasi fervidissimo promotore del culto a S. Giuseppe il dolcissimo S. Francesco di Sales. Il Santo Vescovo di Ginevra con uno slancio meraviglioso prese a parlare di lui presso che in tutte le sue opere. Come al suo unico e più caro protettore volle dedicato il suo sublime trattato dell’amor di Dio: lui scelse come principale patrono ed angelo tutelare dell’ordine della visitazione; e lo diede ancora quale particolar guida nella via dell’orazione mentale e della contemplazione alle novizie. Per suo zelo si eresse nella città di Annecy un bel tempio ad onore di lui; ed alla vigilia della sua morte, al rettore di quella Chiesa che era venuto a trovarlo, disse: Non sapete, padre mio, che io sono tutto di San Giuseppe? Il religioso che lo assisteva, prendendo in mano il breviario di lui, non vi trovò se non un’immagine, ed era quella di S. Giuseppe. Tale e tanta era la divozione che nutriva in cuore per lui e che desiderava accendere nel cuor degli altri. Finalmente per non essere più particolare, dirò che largamente promossero la glorificazione di S. Giuseppe in sulla terra S. Ignazio di Loyola, S. Camillo de Lellis, S. Tommaso d’Aquino, S. Vincenzo de Paoli, S. Alfonso Maria de Liguori, Bernardino da Busto, Giovanni di Cartagena, il piissimo Suarez, S. Leonardo da Porto Maurizio e moltissimi altri. Quindi è che per opera di questi santi e dotti personaggi accendendosi sempre più nel cuor dei Cristiani l’amore a S. Giuseppe, i Romani Pontefici non indugiarono più a decretare al nostro Santo solenni onori. Essi fecero scrivere il suo nome nel Martirologio romano e lo inserirono nelle litanie dei santi. Stabilirono la sua festa il 19 di marzo da celebrarsi per tutta la Chiesa, prima per divozione e poscia per precetto; composero un ufficio proprio per lui, lo diedero per protettore a vari regni, arricchirono di sante indulgenze le pratiche della sua divozione, aggiunsero la festa del suo sposalizio e del suo Patrocinio, ed intromisero il suo nome in tutte le più importanti preghiere. Ed ecco l’umile granello di senapa diventato a poco a poco albero gigantesco, ecco la piccola scintilla suscitare un grande incendio, ecco con bella gara semplici fedeli e Pastori della Chiesa, santi e sante, scrittori ed oratori sacri, concorrere con zelo ognor crescente ad onorare il custode fedelissimo della divina Famiglia. Che si poteva dunque fare di più per glorificare S. Giuseppe? Non gli furono date così le più splendide testimonianze di onore a preferenza di qualsiasi altro santo dopo la Beata Vergine? Eppure in questi ultimi tempi la glorificazione di San Giuseppe raggiunse un grado di gran lunga superiore a quelli di cui ho finora parlato. Ma di esso vi dirò ancora qualche cosa dopo brevissima pausa.

SECONDA PARTE.

L’anno 1854, nel dì 8 dicembre, l’immortale Pontefice Pio IX proclamava solennemente il dogma della Immacolata Concezione di Maria SS. CoN la proclamazione di una tanta verità veniva posata sulla corona di Maria una delle più brillanti gemme e si andava mirabilmente riaccendendo nel cuor dei Cristiani l’amore e la divozione per lei. Lo stesso Pontefice nell’anno 1856, zelando altresì grandemente il culto del Sacratissimo Cuore di Gesù, estendeva a tutta la Chiesa la sua festa, che fino allora non si celebrava che in alcuni luoghi e prescriveva che da per tutto se ne recitasse l’ufficio e se ne dicesse la Messa. E nel 1864 innalzando ancora all’onor degli altari la Beata Margherita Alacoque, Apostola della divozione al Sacro Cuore, questa divozione istessa andava infiammando del pari che quella dell’Immacolata Maria. Ma il Cuore di Gesù e la Vergine Santissima sommamente teneri, l’uno del suo custode fedelissimo, l’altra del suo purissimo sposo, parvero non esser paghi di questo nuovo accrescimento del loro culto, se non si accresceva eziandio quello di S. Giuseppe. Epperò eccoli essi medesimi, senza dubbio, che sono gli ispiratori massimi dei Sommi Pontefici, venire eccitando colui, che già potevasi chiamare il Pontefice dell’Immacolata e del Sacro Cuore, a far opera tale da potersi pure meritamente chiamare il Pontefice di S. Giuseppe. – Di fatti quel grande Papa che fu Pio IX, eccolo nel 1862 in una allocuzione pronunciata il 9 di luglio all’occasione della canonizzazione dei SS. Martiri Giapponesi, alla presenza di più che duecento Vescovi, eccolo, dico, fuor della consuetudine dei suoi predecessori invocare subito il patrocinio di San Giuseppe dopo quello della Beatissima Vergine e prima di quello dei SS. Apostoli Pietro e Paolo; il qual fatto non è a dire quanto servisse a ravvivare in tutti i fedeli il desiderio di vedere anche più accresciuto il culto del gran Santo. Ma ciò non era che il faustissimo preludio di un più consolante avvenimento. Ed in vero l’anno 1870, il dì 8 dicembre e sacro perciò all’Immacolata Concezione, Pio IX assecondando i voti dei Vescovi, del clero e del popolo cristiano, dichiarava solennemente S. Giuseppe Patrono della Chiesa Cattolica, ne faceva in quel giorno stesso pubblicare il decreto nelle tre patriarcali basiliche di Roma, Lateranense, Vaticana e Liberiana, e comandava che la festa di sì gran Santo del 19 marzo fosse celebrata col rito più solenne che si usa nella Chiesa. – Per questo fatto e dopo il medesimo incominciò il periodo della glorificazione massima per questo Santo. Furono introdotte novelle pratiche di divozione in suo onore, si composero speciali preghiere ad invocare il suo possente patrocinio, gli si eressero nuove chiese ed altari, si fecero di lui quadri, statue, immagini e medaglie, si estese larghissimamente l’uso di celebrare con devota pompa il suo mese di Marzo, e più e più si prese a fervidamente pregarlo invocando mai sempre il suo nome insieme coi nomi dolcissimi di Gesù e di Maria. – E intanto al grande Pio IX succeduto nel Sommo Pontificato il sapientissimo Leone XIII, non meno zelante e sollecito del suo antecessore nel promuovere il culto di Maria e del Sacro Cuore di Gesù, non lasciò neppure di promuovere quello di San Giuseppe. E mentre prendeva ad esaltare il Cuore SS. di Gesù coll’innalzare a più solenne rito la sua festa, mentre ripetutamente si faceva a raccomandare ai fedeli la divozione a Maria colla recita del Santo Rosario, prendeva altresì ad eccitare i fedeli a riporre una grande fiducia in S. Giuseppe. Ed oltre al farne invocare l’aiuto dopo il Santo Sacrificio della Messa, in una sua stupenda enciclica dell’anno 1889 avvisava che, per meglio rendere alle nostre preci favorevole Iddio e perché egli, da più intercessori supplicato, porga più pronto e largo soccorso alla sua Chiesa, era sommamente convenevole che il popolo cristiano si accostumasse a pregare con singolare divozione ed animo fiducioso, insieme alla Vergine Madre di Dio, il suo castissimo sposo S. Giuseppe; raccomandava che gli si consacrasse con giornaliero esercizio di pietà il mese di marzo, o si facesse almeno precedere la sua festa con un devoto triduo di preghiere, proponeva egli stesso una bellissima orazione da recitare a questo Santo dopo il Rosario di Maria specialmente nel mese di Ottobre d’ogni anno e l’arricchiva di bellissime indulgenze; e finalmente nell’anno 1891 con un breve pontificio soddisfacendo alla brama del suo cuore e assecondando i voti dei Vescovi del Piemonte, della Liguria e della Sardegna, ristabiliva di precetto la festa di S. Giuseppe anche in dette provincie e nella Lombardia. – Or dunque, vedendo i Romani Pontefici, capi della Chiesa di Gesù Cristo, così mirabilmente intenti a glorificare San Giuseppe, facciamo d’intendere sempre più l’importanza della sua divozione. Che sempre più in noi si accresca, come si andò crescendo nel corso dei secoli. Che anche noi più e piò, colle nostre preci, con la imitazione delle sue virtù, con la recita delle sue lodi, attendiamo a glorificare S. Giuseppe qui in terra onde meritarci così la grazia di poterlo poi glorificare assai meglio in cielo.

CONOSCERE SAN PAOLO (53)

CONOSCERE SAN PAOLO (53)

CAPO II

I Novissimi.

[F. Pratt: La teologia di San Paolo – Parte SECONDA,  S.E.I. Ed. – Torino, 1927 – impr.]

II. LA MORTE E LA RESURREZIONE.

1. LA MORTE E L’ALDILÀ . — 2. LA RISURREZIONE DEI GIUSTI. — 3. LA SORTE DEI VIVENTI.

1. La morte ha tanti significati diversi quanti ne ha la vita di cui è l’antitesi. Oltre la morte naturale o distruzione fisica del composto umano, san Paolo ricorda una morte spirituale, la morte del peccato, che si oppone alla vita della grazia e diventa, al termine della prova, la morte eterna. Gli empi sono degni di morte, il peccato opera la morte, « la morte è lo stipendio del peccato (Rom. VI, 23; VI, 21) ». Morte fisica, morte spirituale, morte eterna, tutto questo risale, direttamente o indirettamente, ad una sorgente comune, alla trasgressione dell’Eden. Ma vi è una quarta morte, rimedio delle altre tre, la morte mistica nel Cristo, la quale è per l’anima e per il corpo il preludio e il pegno dell’immortalità gloriosa: « Voi siete morti, e la vostra vita è nascosta col Cristo in Dio ». — « Uno morì per tutti, dunque tutti morirono (Col. III, 1; II Cor. V, 14; Rom. VI, 2) » misticamente con lui. La morte è terribile come castigo del peccato. All’orrore istintivo della dissoluzione, si aggiunge il timore del Giudice e l’incertezza del di là. Nel linguaggio figurato di Paolo, « il peccato è lo stimolo della morte (I Cor. XV, 56) ». La morte si serve del peccato come di una freccia avvelenata per dilatare il suo impero, o meglio forse come di uno stimolo aguzzo per condurre a suo talento e per terrorizzare gli uomini. Gesù Cristo, vincitore del peccato, toglie alla morte il suo pungiglione malefico e doloroso, e un giorno la renderà impotente e inoffensiva. Se essa conserva fino alla fine un resto del suo antico potere ed è l’ultima a cedere al trionfo della croce, ha però già perduto il potere di spaventare. Nonostante le ripugnanze naturali, si fa strada, il sentimento della rassegnazione cristiana predicata ai fedeli di Tessalonica e di Corinto, e il sentimento più eroico di amoroso desiderio che Paolo, senza allontanarsi dalla conformità al volere divino, lascia spesso trapelare. D’ora innanzi la vita è un dovere che si accetta, e la morte un guadagno al quale si aspira. Che cosa diventa l’anima separata dal corpo? Quali sono le sue relazioni con Dio, con i vivi, con gli altri defunti? Sopra questi problemi san Paolo ci dà poche indicazioni e meno ancora di insegnamenti. Un numero assai notevole di teologi eterodossi pretendono che l’Apostolo si rappresenti l’anima inoperosa, intorpidita, addormentata, in attesa dell’ora della risurrezione (5). Simile alle ombre vaganti presso l’Èrebo mitologico, essa non avrebbe più né sentimento, né memoria, né coscienza, né personalità; e non ci vorrebbe meno che lo squillo dell’ultima tromba per trarla dal suo letargo. Queste supposizioni sono fondate sul nome di « dormienti (I Cor. XV, 20) » dato talora ai morti; ma questo appoggio è assai debole. In tutte le letterature, morte e sonno sono fratelli; il sonno è immagine della morte, e morire è dormire. Questa metafora conviene meglio ancora alla morte cristiana, anello di congiunzione di due vite, breve intervallo tra due atti di una medesima esistenza. Se portasse con sé la perdita del pensiero, la morte non avrebbe nulla di desiderabile. Paolo c’insegna formalmente che essa non separa i giusti dal Cristo (Fil. I, 21-23). Uscire dal corpo, per l’anima vuol dire emigrare verso il Signore, vivere in sua compagnia (II Cor. V, 6-8). La corona attende il vincitore al termine della lotta che figura evidentemente la vita presente (II Tim II, 5). Quello che in noi dorme non è dunque l’anima, ma è il corpo adagiato nella polvere del sepolcro e per il quale sarà un risveglio la risurrezione. Se i giusti entrano in possesso della beatitudine senza attendere l’ultimo giorno, è naturale che i peccatori subiscano il loro castigo appena finita la prova; tuttavia l’Apostolo non ci dice nulla a questo riguardo. Egli non ci parla neppure del giudizio particolare che fissa la sorte di ciascun uomo subito dopo la morte; ma tale giudizio è nella natura delle cose e risulta dal fatto che né la felicità degli eletti né, per analogia, il supplizio dei reprobi, viene differito fino alla parusia. Forse la maniera con cui l’Epistola agli Ebrei avvicina il giudizio alla morte, senza frapporre, a quanto pare, nessun intervallo tra i due avvenimenti, ci porta alla stessa conclusione (Ebr. IX, 27). Non troviamo neppure un insegnamento definito intorno alla sorte dei giusti che terminano la loro vita con colpe leggere o non interamente espiate. Niente di impuro entra in Paradiso, e nessuno è ricevuto nel seno di Dio senza aver pagato i l suo debito fino all’ultimo obolo: la dottrina del purgatorio si fonda sopra questi dati biblici e sopra la tradizione; ma il testo di san Paolo, citato da parecchi, ci dà piuttosto un’indicazione, che non una prova apodittica (I Cor. III, 11-15). Questa penuria di particolari intorno alle cose del di là non ci deve sorprendere, perché tutta la sollecitudine dell’Apostolo converge verso il fatto della risurrezione e verso questa verità capitale, che cioè i giusti sono uniti intimamente al Cristo così nella morte come nella vita.

2. Sappiamo dall’Epistola agli Ebrei, che la risurrezione dei morti era, col giudizio Anale, uno dei punti cardinali della catechesi apostolica (Ebr. VI, 2). Paolo non mancava mai di mettere come base del suo insegnamento la risurrezione di Gesù alla quale egli collegava, sotto forma di corollario, la nostra risurrezione (I Cor. XV, 1-13). Né le beffe degli Ateniesi (Act. XVII, 32), né i sarcasmi del procuratore Festo (Act. XXVI, 24), né lo scetticismo del re Agrippa (Act. 27-28), né l’incredulità dei Sadducei (Act. XXIII, 6-8) poterono indurlo a dissimulare una verità tanto essenziale: egli si sarebbe vergognato di comprare la sua libertà con un silenzio disonorevole e si vantava di essere perseguitato per questo articolo di fede. Sappiamo quale fu la sua sorpresa e il suo sdegno quando venne a sapere che in una chiesa fondata da lui si sollevavano dubbi intorno ad un dogma tanto fondamentale (I Cor. XV, 12). Egli aveva predicato a Cesarea la risurrezione generale dei buoni e dei cattivi (Act. XXIV, 15). Così certamente deve essere presentata ordinariamente la dottrina della risurrezione, dato il testo ben noto di Daniele e dato anche l’insegnamento formale di Gesù, d’accordo in questo con l’opinione più accreditata degli Ebrei di quell’epoca (Dan. XII, 2). Tuttavia sembra che Paolo nelle sue lettere si occupi soltanto della risurrezione dei giusti. I suoi argomenti valgono soltanto per questa; il suo contesto per lo più impone una limitazione che, per analogia, conviene estendere a due o tre espressioni dubbie. È vero che nella prima ai Corinzi egli fa menzione, senza distinzioni, della risurrezione dei morti (I Cor. XV, 42), 0ma tutto il seguito del discorso dimostra che egli intende parlare della risurrezione gloriosa; e quando, nell’Epistola ai Filippesi, esprime il voto di « arrivare alla risurrezione dei morti (Fil. III, 11) », il suo pensiero non è punto equivoco: egli aspira alla risurrezione gloriosa. – Buoni esegeti sono di parere che l’insigne vittoria riportata dal Cristo sopra la morte suppone o esige la risurrezione universale; poiché, dicono, se non tutti i morti risuscitassero, la sconfitta della morte sarebbe soltanto parziale, e san Paolo non avrebbe il diritto di dire: Novissima autem inimica destruetur mors (I Cor. XV, 26). Questo argomento ci pare poco decisivo. Anche la vittoria del Cristo sul peccato sarà completa come la sua vittoria sopra la morte; ma ciò non porta come conseguenza la conversione di tutti i peccatori: la ragione è che i frutti della redenzione, universali per principio, sono di fatto condizionati dalla cooperazione dell’uomo. La vittoria del Cristo sopra la morte sarà assoluta in coloro che si uniranno a Lui per partecipare alla sua vittoria; per gli altri essa potrebbe essere soltanto parziale, come la vittoria sul peccato. Più debole ancora ci sembra l’argomento tratto da questo testo: « Ciascuno (risusciterà) nel suo ordine. La primizia è il Cristo; poi quelli che appartengono al Cristo, al momento della sua parusia; poi la fine (I Cor. XV, 23-24) ». Si vorrebbe che questa sia la fine della risurrezione e il terzo ordine dei risuscitati, di coloro che non appartengono al Cristo; ma questo è leggere troppe cose tra le righe. Sta il fatto che la risurrezione dei peccatori, la quale poco importa all’Apostolo perché non ha connessione con la sua dottrina, rimane ordinariamente fuori dal suo campo visivo. – In quanto alta risurrezione dei giusti, è provata con una decina di argomenti: l’argomento dall’assurdo, fondato sopra le perniciose conseguenze della tesi contraria (I Cor. XV, 12-19); l’argomento di tradizione che si appoggia alla dottrina e all’insegnamento costante degli Apostoli (I Cor. XV, 30-32); l’argomento ad hominem, tratto dalla persuasione intima, spontanea, irresistibile degli stessi fedeli (I Cor. XV, 29); argomento della causa meritoria, stabilito sopra questa verità, che Gesù Cristo è venuto per restaurare le rovine del peccato e per restituirci i beni perduti dal primo Adamo (I Cor. XV, 21); l’argomento della causa esemplare, legato alla teoria del corpo mistico e alla solidarietà del Cristo con i santi (29); l’argomento del sigillo impresso in noi dallo Spirito Santo che, col farci suoi, si obbliga a conservarci, corpo e anima, eternamente (Ephes. IV, 30); l’argomento dei pegni dati dallo stesso Spirito come una caparra dell’immortalità gloriosa (II Cor. V, 5); l’argomento del tempio, dimora sacra e imperitura dello stesso Spirito, (I Cor. VI, 19); l’argomento delle primizie, o detto anche della grazia semente di gloria (Rom. VIII, 23); L’argomento del desiderio soprannaturale che lo Spirito Santo accende in noi e che ci fa sospirare la glorificazione di questo corpo associato ai combattimenti dell’anima, strumento delle sue vittorie (Rom. VIII, 15, 17, 23-26). Alcuni di questi argomenti sono così vicini, che si toccano e si compenetrano: non sono tanto prove distinte, quanto piuttosto aspetti diversi di una medesima prova. Che cosa possano avere di oratorio, non tocca a noi il cercarlo; bisogna però guardarsi bene dal considerarli come conclusioni filosofiche. Sono induzioni teologiche in tutta la forza del termine, le quali si appoggiano sopra l’insegnamento dell’Apostolo. Fatta astrazione dalle asserzioni di Paolo che ne afferma le premesse come verità di fede, alcuni sembrerebbero fondati sopra una petizione di principio o girare in un circolo vizioso. – I primi cinque argomenti sopra citati sono stati studiati a proposito della prima epistola ai Corinzi. Gli altri cinque i cui elementi sono sparsi in diverse Epistole, si fondano tutti sopra l’attività soprannaturale dello Spirito Santo. Si può dire che essi si riducono a questa formula: « Se lo Spirito di Colui che risuscitò Gesù da morte abita in noi, Colui che risuscitò Gesù Cristo da morte vivificherà anche i nostri corpi morti, per causa del suo Spirito che abita in noi (Rom. VIII, 11) ». Forse perché il corpo del giusto è il suo tempio? Può essere. Tuttavia, eccetto due testi in cui lo Spirito Santo figura come anima del corpo mistico più che come ospite di un tempio individuale (I Cor. VI, 19), il ragionamento dell’Apostolo prende un’altra forma. Lo Spirito Santo, egli dice, « vi ha segnati col suo segno per il giorno della redenzione (Ephes. IV, 30) ». Voi siete sua proprietà; un giorno vi reclamerà come suoi: in quel giorno il corpo dopo l’anima sarà vendicato degli oltraggi della morte. Il sigillo di cui parla san Paolo ci è impresso nel Battesimo. Questo rito sacramentale che ci incorpora al corpo mistico, ci conferisce anche i « pegni dello Spirito (II Cor. I, 22) », nuovi pegni dell’eternità beata. I pegni sono una caparra pagata come garanzia del pagamento totale. Essi non sono distinti dallo Spirito Santo: sono lo stesso Spirito Santo come dono delle anime, dono identico nella sua essenza ma suscettibile di progresso in intimità e in perfezione. I giusti vivificati dalla grazia hanno ricevuto fin da questo mondo, le primizie dell’immortalità gloriosa; essi sono « salvati in speranza ». e la salvezza promessa riguarda tanto il corpo quanto l’anima. Paolo non stabilisce mai una linea di divisione netta tra la grazia e la gloria che ne è lo sviluppo tardivo ma assicurato. Chiunque è innestato sul Cristo è per ciò stesso associato alla sua vita immortale e glorificata. – La prova tratta dal desiderio sembra a prima vista un sofisma, e tale sarebbe veramente, se si trattasse di un desiderio puramente naturale, poiché vi sarebbe allora sproporzione tra la tendenza e la mèta. Ma l’Apostolo suppone e afferma che tale desiderio è soprannaturale, prodotto e mantenuto in noi dallo stesso Spirito Santo. Facendo salire alle nostre labbra quel grido del cuore: Abba Pater! Lo Spirito fa testimonianza della nostra filiazione adottiva; attesta che noi siamo eredi di Dio e coeredi del Cristo. Ma la gloria del corpo risuscitato fa parte integrante di questa eredità. Allora non abbiamo più bisogno che la creazione, con le sue aspirazioni ansiose, ci predica il ritorno all’immortalità originaria: « noi stessi, avendo le primizie dello Spirito, gemiamo internamente nell’attesa della filiazione (consumata) e della redenzione (gloriosa) del nostro corpo (Rom. VIII, 24) ». Il desiderio della grazia non sarà illusorio; infatti perché mai lo Spirito Santo ci metterebbe in cuore un’aspirazione che Egli non può o non vuole soddisfare?

3. San Paolo in diverse riprese afferma che i giusti testimoni della parusia non morranno. Egli non dice mai: « Tutti i giusti risusciteranno », ma dice invece: « I morti che sono nel Cristo risusciteranno (I Tess. IV, 16) ». Talora presenta il suo pensiero in questo dilemma: « O noi risusciteremo, o non saremo trasformati (I Cor. XV, 52) ». Egli parte da questo principio, che « la carne e il sangue non possono ereditare il regno di Dio (I Cor. XV, 50) ». La carne e il sangue per lui sono sempre la natura umana in ciò che ha di debole, di mutevole, di perituro, soprattutto in opposizione alla natura divina eterna, immutabile, incorruttibile. Qui dunque il suo pensiero non è, come credettero certi Padri, che nulla d’impuro entrerà nel regno dei cieli, e neppure che la carne non avrà parte alla risurrezione gloriosa, come vogliono parecchi interpreti moderni che accoppiano così uno sbaglio di esegesi con un errore dottrinale. Egli insegna che i corpi dei giusti, per entrare nella gloria, hanno bisogno di una trasformazione. Questa trasformazione che egli ha descritta minutamente per i defunti restituiti alla vita, è pure altrettanto necessaria — e anche più misteriosa — per i vivi risparmiati dalla morte. Ecco il messaggio che egli trasmette ai Tessalonicesi, da parte del Signore: “Noi, i viventi, noi riservati per (assistere a) la parusia del Signore, non precederemo quelli che dormono (il sonno della morte). Poiché il Signore stesso, al comando, alla voce dell’Arcangelo, al suono della tromba di Dio, scenderà dal cielo ed i morti (che sono) nel Cristo risusciteranno prima; poi noi, i viventi, i superstiti, insieme con essi saremo rapiti nelle nubi dell’aria all’incontro del Signore; e così saremo sempre col Signore” (I Tess. IV, 15-17). – Da questa rivelazione che non ha nulla di oscuro, purché si legga senza pregiudizi dommatici, si ricavano tre verità: I morti in istato di grazia (οἰ νεκροὶ ἑν Χριστῷ = oi necroi ev Cristo) risusciteranno prima del trasporto aereo dei giusti allora in vita. — I morti risuscitati ed i vivi saranno rapiti insieme in aria all’incontro del Cristo. — Tutti i giusti, morti risuscitati e viventi, saranno per sempre col Signore. L’Apostolo non dice nulla dei peccatori, né vivi né morti; egli si occupa soltanto dei giusti e specialmente di quelli che vivranno al momento della parusia. Questi ultimi non avranno nessun vantaggio sopra i loro fratelli mietuti dalla morte; ma essi pure dovranno essere oggetto di una trasformazione gloriosa per godere eternamente, senza mutamento né vicissitudine, della società del Cristo glorificato. Se fosse altrimenti, la loro sorte non sarebbe da compiangere? Paolo non aveva bisogno di insistere sopra una dottrina della quale i neofiti di Tessalonica non dubitavano punto. »  Egli vi ritornerà più tardi per rispondere ai dubbi dei Corinzi: « Ecco che io vi dico un segreto. Non tutti moriremo, ma tutti saremo trasformati, in un istante, in un batter d’occhio, al suono della tromba, poiché sonerà la tromba ed i morti risorgeranno incorruttibili e noi saremo trasformati. Perché bisogna che questo (corpo) corruttibile rivesta l’incorruttibilità, e che questo (corpo) mortale rivesta l’immortalità (I Cor. XV, 51-53) ». San Paolo annunzia che vuole svelare un segreto, qualche cosa di nascosto e di misterioso. Il mistero consiste in questo, che anche i giusti risparmiati dalla morte devono essere trasformati come i giusti morti nel Cristo. — Questa trasformazione comune ai vivi ed ai morti avverrà istantaneamente e simultaneamente, al primo squillo della tromba che annunzierà la parusia. — La ragione « di questa trasformazione necessaria è che la « carne e il sangue non potrebbero ereditare il regno di Dio, né la corruzione l’incorruttibilità ». Corruzione e incorruttibilità sono due cose contraddittorie e perciò incompatibili. Dunque questo corpo corruttibile deve cessare di essere corruttibile, e questo corpo mortale deve cessare di essere mortale: in questo consiste la trasformazione. Rivestire l’immortalità senza subire gli orrori della morte è un privilegio invidiabile. I Corinzi, sapendo dall’insegnamento di Paolo nella prima Lettera, che tale privilegio toccherà effettivamente ai giusti che si troveranno in vita al momento della parusia, cominciarono a desiderarlo. L’Apostolo non li biasima, poiché tale desiderio è troppo naturale. “Noi non ci perdiamo di coraggio; ma anche quando il nostro uomo esteriore va in rovina, il nostro uomo interiore si va rinnovando di giorno in giorno Perché sappiamo che se la tenda in cui abitiamo su questa terra viene a perire, abbiamo in cielo un edificio (promesso e preparato) da Dio, una dimora eterna che non è fatta da mano d’uomo. Per questo noi gemiamo, desiderando di rivestire la nostra abitazione celeste sopra (il corpo mortale), se tuttavia siamo trovati vestiti e non nudi. Sì, noi che siamo in questa tenda, gemiamo accasciati, perché non vogliamo essere spogliati ma rivestiti (d’immortalità) sopra (questo corpo perituro), affinché ciò che vi è di mortale in noi sia assorbito dalla vita. Ora Colui che ci ha disposti a questo, è Dio stesso che ci ha dato i pegni dello Spirito”. (II Cor. IV, 16) È quasi impossibile tradurre questo passo senza commentarlo o poco o assai, tanto è denso di pensieri. La difficoltà nasce anzitutto da una mancanza di armonia nelle metafore, poiché Paolo rappresenta il nostro corpo ora sotto l’immagine di un abito, ora sotto quella di un edificio e qualche volta mescola insieme le due figure; essa dipende anche da altre cause. Qui è il caso di ricorrere a quel principio di esegesi, in virtù del quale ciò che è oscuro si spiega con ciò che è chiaro. Ora i due punti seguenti sembrano fuori di dubbio: « La tenda della nostra abitazione terrestre » indica il corpo corruttibile che è quaggiù la dimora dell’anima. — Noi non vorremmo essere spogliati di questo corpo, per quanto sia abbietto; noi temiamo per l’anima nostra una nudità contraria alla sua natura e alle sue aspirazioni; noi per conseguenza desideriamo di rivestire la nostra veste celeste senza abbandonare la veste terrestre. Tale è il valore esatto della parola greca non facilmente traducibile. A che cosa corrisponde la veste celeste? Che cosa significa la dimora eterna che è nei cieli? Qui cominciano le controversie. Anzitutto respingiamo senza esitare un’ipotesi emessa da un piccolo numero di esegeti eterodossi e anche da uno o due commentatori cattolici: i giusti riceverebbero nel Battesimo il germe di un corpo glorioso, che si svilupperebbe quaggiù con l’uso dei Sacramenti e soprattutto dell’Eucaristia; questo corpo provvisorio seguirebbe l’anima dopo la morte e sarebbe cambiato più tardi, nel momento della risurrezione generale, col corpo definitivo. In san Paolo non vi è traccia di tale concezione strana. I giusti morendo emigrano dal corpo; risuscitando riprendono il loro corpo trasfigurato; in nessun luogo si accenna ad un corpo intermedio tra il corpo perituro ed il corpo glorificato. – Respinta questa ipotesi, ci troviamo davanti a due opinioni. Secondo gli uni, la dimora spirituale indica per metafora il corpo glorioso; secondo gli altri, indica la gloria celeste. La prima interpretazione è la più comune: se « la tenda terrestre » rappresenta il corpo mortale, non è naturale che « la dimora celeste » rappresenti il corpo glorioso? Senza dubbio noi non lo possediamo di fatto subito dopo la morte; come sembra indicare la proposizione condizionale dell’Apostolo; ma lo possediamo fin d’allora idealmente, si può dire che vi abbiamo diritto; noi lo possediamo non con la certezza relativa della speranza, ma con la certezza piena e assoluta di un credito che dobbiamo esigere. Ora la Scrittura esprime ordinariamente con un verbo al tempo presente la certezza di un bene futuro. La sola difficoltà seria è che in realtà noi non rivestiamo il corpo glorioso sopra il corpo mortale: queste non sono due cose essenzialmente distinte; gli elementi materiali sono comuni a entrambe, e soltanto è differente la maniera di essere. Questa difficoltà non esiste affatto nella seconda opinione: l’anima santa riveste realmente la gloria celeste appena che il corpo mortale è separato da essa; ed i giusti testimoni della parusia rivestiranno quella stessa gloria sopra il loro vero corpo del quale non saranno stati mai spogliati. Così dunque l’allegoria si armonizza, e il linguaggio di Paolo è di una rigorosa esattezza. Se moriamo prima della parusia, abbiamo subito la nostra veste di gloria; se invece viviamo fino all’ultimo giorno, la gloria ci avvolgerà come di un manto regale, secondo il desiderio che lo Spirito Santo accende nei nostri cuori, e così ciò che vi è di mortale in noi sarà assorbito dalla pienezza della vita. Rimane ancora una proposizione incidente il cui senso preciso è molto discusso. Secondo la Volgata, il senso sarebbe: Noi desideriamo di rivestire la gloria sopra il corpo attuale, si tamen vestiti non nudi inveniamur; « se tuttavia (al momento della parusia) noi siamo trovati rivestiti (del corpo), e non nudi », cioè spogliati dalla morte, del nostro involucro mortale terrestre. È una spiegazione così naturale, che non fa davvero meraviglia il vederla accettata da tanti Padri e da commentatori antichi e moderni. Ma molti dotti contemporanei, in nome della filologia, insorgono contro una interpretazione così semplice. Per salvaguardare la proprietà dei termini, essi propongono questa traduzione: Noi desideriamo di rivestire la gloria sopra il corpo mortale « atteso che, una volta rivestiti (della gloria celeste) noi non saremo più trovati nudi », poiché la morte non avrà più potere sopra di noi (46). L’inciso non esprime più la condizione da compiersi per realizzare il voto espresso nel versetto precedente, ma bensì l’oggetto stesso di quel voto o la circostanza che lo rendo desiderabile. Per quanto sia grande la divergenza su questo punto particolare, l’idea complessiva del passo resta quasi immutata. Ad ogni modo, l’Apostolo ha la certezza che un corpo glorioso e immortale lo attende in cielo; e tale prospettiva gli fa affrontare con gioia le tribolazioni di questa vita e lo consola del veder cadere in rovina il suo corpo perituro. Se egli prova il desiderio naturale di vivere fino alla parusia, non è già per timore della morte, poiché sa benissimo che nulla può separarlo dal Cristo, unico oggetto del suo amore, ma è per la ripugnanza istintiva che noi tutti proviamo al pensiero di dover subire, anche solo per qualche tempo, la dissoluzione del composto umano. Come i fedeli di Tessalonica e di Corinto, dei quali approva e divide il desiderio, vorrebbe essere portato vivo incontro al Cristo trionfante ed entrare nell’immortalità gloriosa senza passare per la morte. Egli non dà come certa la sopravvivenza fino alla parusia, e neppure come probabile, ma la dà soltanto come possibile, altrimenti il suo desiderio sarebbe privo del suo oggetto. Anzi egli afferma che tale desiderio ha lo Spirito Santo come autore, e questo, una volta di più, ne indica la possibilità. La condizione posta per la realizzazione di tale desiderio è espressamente enunziata se si intende l’inciso come lo intendono la Volgata e l’esegesi comune; è almeno supposta, se s’interpreta come vorrebbe la maggior parte dei filologi moderni. Tuttavia il voto in questione non è talmente imperioso da togliere la pace e la rassegnazione. Noi sappiamo che il nostro pellegrinaggio su questa terra è un esilio lontano dal Signore, e sappiamo anche che per rassegnarci a quel passaggio, nonostante i desideri istintivi della natura e della grazia, ci vuole sempre del coraggio e dell’intrepidezza, sentimenti che la fede c’inspira. In qualunque condizione, noi cerchiamo di piacere al Signore, o vicino a Lui o lontano da Lui; questo è l’essenziale: il resto non dipende da noi.