GREGORIO XVII – IL MAGISTERO IMPEDITO: 3° Corso di Esercizi Spirituali (6)

S. S. GREGORIO XVII:IL MAGISTERO IMPEDITO:

III CORSO DI ESERCIZI SPIRITUALI (6)

[G. Siri: Esercizi Spirituali; Ed. Pro Civitate Christiana – Assisi, 1962]

IL NOSTRO ITINERARIO CON GESÙ CRISTO

6. L’Inferno

Dobbiamo fare la meditazione sull’inferno, perché « initium sapientiæ timor Domini ». È una verità fondamentale, è un punto di riferimento costante l’inferno, perché è da evitare a qualunque costo, con qualunque sacrificio, con qualunque accettazione. – Non dimentichiamoci il tono generale dei nostri Esercizi. Noi parliamo dell’iter cum Christo, sapendo bene che il filone di questo iter è la SS. Eucaristia. – Ci sono due proposizioni che debbono dare la tonalità alla serietà delle riflessioni nostre. La prima. Dite un po’: vi andremo o non vi andremo? È la domanda più grave che io possa rivolgere a me stesso e che possa rivolgere a voi. C’è qualcheduno che è sicuro di non andarci? Non c’è nessuno che sia sicuro di non andarci. È terribile. Nessuno può dirlo. « Si quis dixerit se esse infallibiter certum de propria æterna salute, nisi hoc privata revelatione didicerit, anathema sit » (Concilio di Trento). Ma ci pensate? Badate che ci possiamo andare. Ci posso andare io, e ho più facilità di andarci di voi. Quando mi annunziarono l’Episcopato, la prima parola che dissi fu questa: « Ma io ho paura di andare all’inferno ». Quel gran Papa che fu Pio XII, mi pare che fossero gli ultimi mesi della sua vita, disse a una persona di sua confidenza che lo riferiva a me: « Io veramente alle volte sono preso da una gran paura di dover finire all’inferno ». Ed era un santo. Io ho avuto l’onore e la fortuna di conoscerlo bene, molto intimamente, e di servirlo. Posso dire che era un santo. Eppure…. Vi rendete conto del valore di questa domanda? Perché quello che abbacina non è tanto la dottrina sull’inferno, è l’esistenza, ed è il fatto che rappresenta un punto al quale noi possiamo arrivare e rimanere per sempre. Perché l’inferno è eterno, come comporta la legge di ordinarietà dell’altra vita e di stato di termine; e questo vuol dire che non si danno più mutazioni. Ma c’è la seconda proposizione. Nostro Signore ci ha amato, è venuto tra gli uomini, si è fatto come uno di noi, è nato a Betlemme, ha vissuto come uno di noi, ha lavorato povero più di noi, ha patito tutto. Non si è mai servito della sua potenza divina per allontanare dalla sua santissima umanità qualunque fastidio o per rendere più facile la propria strada. Non ha usato neppure il suo potere divino per far capire tutto ai discepoli nel tempo in cui li ha avuti con sé e li ha educati, lasciando che a tanti effetti crescessero e maturassero come avrebbero potuto maturare e crescere accanto a un altro uomo, tanto è vero che lo stesso giorno dell’Ascensione si è sentito rivolgere da taluni di loro certe domande che avrebbero fatto scappare la pazienza a chiunque. Eppure è stato al giuoco dell’umanità fino in fondo. E poi t’ha inventato questo: l’Eucaristia ha inventato. E così è rimasto con noi, e non per essere con noi per avere soltanto una indistanza, quella che ci può essere tra noi e un tabernacolo, ma è rimasto con noi perché noi dobbiamo mangiare l’Eucaristia. Egli viene dentro di noi e realizza veramente quello che è stato il suo sogno, tanto ci ha amati : « Io in voi, voi in me ». E rimane così. E la S. Messa si può dire su tutti gli altari del mondo, continuamente. Se ci sono delle ore in cui il diritto canonico impone che non si celebri la Messa, siccome la terra è rotonda, e le ore buone si alternano nella rotazione della terra, il Santo Sacrificio è da centinaia di migliaia di sacerdoti offerto ogni giorno, in ogni ora, secondo la profezia di Malachia. E in tutte le chiese. Ci sono quattro persone che vanno a stare su un monte, ed ecco spunta fuori una cappella; la Chiesa, materna, arriva con la parrocchia. Fin dove può, arriva anche il sacerdote che starà lì ad assistere quella poca gente, e l’altare è animato dalla presenza dell’Eucaristia, e la fiammella arde dappertutto, sempre. Il popolo, questo povero tappeto di tutte le ambizioni sul quale tanti giuocano, chi l’ha amato veramente non è stato che uno, Gesù Cristo. E allora, a pensare a tutto questo, deve essere facile, deve essere possibile, deve essere straordinariamente possibile appendersi al braccio di Gesù Cristo e farsi portare via dalle porte dell’inferno. Dal di dentro no, eh! Perché dal di dentro non porta più via, ma dal di fuori sì. Vedete le due proposizioni: creano un contrasto che è un dramma incredibile. Si direbbe che la mente non ci capisce più nulla, perché da una parte ciascheduno deve dire a sé stesso: tu puoi andare all’inferno; dall’altra: ma se è così, ecco, bisogna diventare proprio stupidi per andare all’inferno; questa è la conclusione ragionevole: bisogna diventare proprio stupidi, accettare la stupidità come una gloria. Con Lui che, dopo essersi incarnato, fatto uomo e dopo esser stato al giuoco dell’umanità fino in fondo — badate il trattato De Verbo Incarnato è stupendo, osservate la unità diquesta logica — stando al giuoco fino in fondo:se Gesù Cristo è stato uomo, deve essere possibilesalvarsi. È così vicino, così amabile, così infinitamente caro, così affettuoso, così tenero, cosìfermo ma così pieno di misericordia! E a emblemasuo ha permesso che fosse elevato ben piùalto, specialmente negli ultimi secoli, il suo Cuore,di cui l’Eucaristia è il documento. Le capite ledue proposizioni che cozzano dentro alla nostratesta? Da una parte possiamo andarci, all’inferno,nessuno di noi è sicuro d’evitarlo; dall’altra c’è questo spettacolo che riempie il cielo e la terra, il tempo e l’eternità, che si conforma come unaarra di tranquillità, di sicurezza e di pace. Dunqueper non diventare stupidi continuiamo a pensareche ci possiamo andare, e per continuare anon essere stupidi continuiamo a pensare che siamo con Lui. Le due proposizioni cozzano nella testa, fanno un po’ l’effetto di due pattini da sci acquatico, dei quali uno va un po’ su e l’altro va un po’ giù, e si deve correre dietro a questo motoscafo che corre pazzamente e noi siamo su questi due pattini. La meditazione dell’inferno a che cosa serve? A farci attaccare a un tabernacolo come se ci fosse nelle nostre mani un peso che ce le trattiene, e protese per accompagnare un atto di eterna adorazione e di eterno amore dell’anima.Allora mettiamoci un po’ a guardare dalla parte dell’inferno. Voi sapete che l’inferno consta della pœna damni e della pœna sensus. Anche qui c’è un binomio. La pœna damni è la vera sostanza dell’inferno, quella che basta da sola a farlo; se anche l’altra non ci fosse, l’inferno rimarrebbe, e consiste nella privazione di Dio. La poena sensus consiste in una pena aggiunta, non privazione ma aggiunta, pena positiva, dove entra un agente materiale per noi d’ignota natura. Poiché la nostra anima è stata unita al corpo, il ritmo della giustizia si propaga anche agli inferi, e il ritmo di questo binomio — anima e corpo — si propaga anche là secondo che è stata la situazione normale e comune della nostra esistenza. Ma la pœna sensus è la cosa minore, è il ristabilimento della giustizia lesa dal malo uso delle creature, lesa allora instato di libertà, lesa con chiara percezione di sovvertire un ordine e sovvertire quella strumentalità di tutte le cose di cui abbiamo parlato a proposito della morte, la strumentalità di tutte le cose che è quella che riproporziona, riaggiusta, riequilibra assolutamente tutto. Ora lasciamo stare la pœna sensus e recliniamoci un po’ nella pœna damni. La pœna damni sta in questo: Non Dio. Senza Dio. Ricordo che in un altro Corso di Esercizi, svolgendo il tema dell’inferno, vi ho fatto tutta la meditazione su questo punto: come viene a trovarsi l’anima appena staccata dal corpo. È una cosa terribile. Noi non abbiamo una percezione immediata della pœna damni e tanto meno ne abbiamo l’esperienza, ma per deduzione razionale possiamo avere una pallida idea di quello che viene a cessare al momento della morte e della situazione dell’anima, delle sue facoltà conoscitive e operative, indipendentemente dai sensi e pertanto al di fuori di qualsiasi rapporto col mondo che fino a quel momento l’ha accompagnata. Perché il punto di contatto col mondo lo si ha con l’accidens quantitatis che allora viene a cessare, perché l’anima è fuori dalla quantitas, essendo spirituale; anzi che è spirituale ce ne accorgiamo proprio perché è fuori dalla quantitas. Io non voglio ora ripetere quello che dissi allora. Posso supporre che una parte dei miei ascoltatori ricordino bene quella esposizione terrificante. E allora vado avanti con una serie di considerazioni che mi debbono poi riportare a Gesù Cristo, all’iter. Senza Iddio. Quaggiù, in questo mondo, Dio ha ritratto sé stesso in infinite cose, ed ecco perché tutte le cose portano qualche elemento di bellezza e di bene. Tutto quello che è, è bene. E tutto quello che è — lasciamo stare la discussione scolastica se ens et pulchrum convertuntur — se anche tutto quello che è non è necessariamente bello, certo ha la nota positiva appunto perché è per concorrere a realizzare il bello. E allora Iddio ha ritratto in infiniti modi il suo bene, la sua bellezza, per ogni dove e per ogni cosa. Nel fondo di ogni anima gli elementi della bellezza si contano assai più che se noi dovessimo affondare le mani in immensi forzieri ripieni distupende perle e di scintillanti pietre. Nel fondo delle anime, e in tutte le cose così, allo stesso modo, tanto più che tutte le cose si accendono quando una certa rifrazione d’intelligenza, anche quella riflessa dall’intelletto divino, riverbera su di loro una qualche luce. E il giuoco delle luci, di quelle intellettuali e anche di quelle materiali, per prendere le più espressive, è certamente mirabile, ricchissimo. E quaggiù si possono sostituire le cose. Viene a chiudersi un capitolo, se ne apre un altro. Passa una stagione col suo incanto, ne viene un’altra con un altro incanto. E tutto è surrogabile qui, perché la rifrazione dell’infinito Bene e dell’infinita Bellezza di Dio non ha praticamente limiti per noi. Poi è la fine. Là dove non c’è Dio, per noi non c’è più alcuna rifrazione, ossia non c’è più nulla nell’essere che accolga la rifrazione di Dio e la possa riverberare. È la fine, nella tremenda lucidità di unavita e di una intelligenza che non si può spegnere in eterno.Vedete, le grandezze dell’amore di Dio sono un controluce nell’inferno. Mi spiego con una immagine. Voi sapete che cosa sono gli iceberg. La legge degli iceberg è questa: che nella media stanno unterzo fuori dell’acqua, due terzi in acqua. Poi vene sono di quelli che stanno anche soltanto undecimo fuori dell’acqua, a seconda della loro conformazione, ma la media è un terzo fuori, dueterzi in acqua. Dell’iceberg si vede la parte minore: quello che s’affonda nei vortici del mare è pauroso. È pauroso: la montagna a rovescio. La figura riflessa nell’acqua è a rovescio. Ora tutte queste grandezze sono degli iceberg, la montagna che pende a rovescio. Sono le immagini ritrattenell’acqua che, anche quelle, pendono a rovescio. Dio mio! Ma che cosa dev’essere l’essere senza Dio quando Iddio, la parte che sta dritta, è arrivato a questo punto? A questo punto! Noi maneggiamo il Corpo del Signore. In questo pomeriggio qualcuno l’ha tirato fuori, l’ha maneggiato, l’ha infilato in un ostensorio, l’ha messo là sopra. E lui ha lasciato fare. Se qualcheduno l’avesse preso e scagliato per terra — Dio ce ne liberi — avrebbe lasciato fare! Perché ordinariamente Dio non fa miracoli per salvaguardare la tutela delle sacre specie; è rarissimo che il Signore abbia fatto miracoli; ne ha fatti, ma rarissimi. Poiché le specie sono ancora quelle del pane, che non c’è più, non si rompono le ossa a Gesù Cristo! Avrebbe lasciato fare anche quello. Come lascia fare talvolta a certi sacrileghi che sottraggono le sacre specie e le portano a sedute orrende, orrende, dominate dall’odium Dei. Perché è vero, è vero questo, accade qualche volta. Egli lascia fare. Questa è l’immagine dritta. Adesso prendetela, questa immagine, e rovesciatela nell’acqua. L’iceberg: la montagna che pesca a rovescio. Dopo aver avuto una vita con Gesù Cristo accanto, nell’inferno è Gesù Cristo a rovescio. È la montagna che pende in giù. È l’amore divino ma a rovescio, è l’immagine dello splendore, ma riflessa a rovescio; tutto quello che è grande, che è modulazione di misericordia, di grandezza, di gioia, di speranza, di attrazione, di elevazione eterna, tutto a rovescio.Vi immaginate la Messa a rovescio, la Passione di Gesù Cristo a rovescio, la Redenzione a rovescio, la parola di Dio a rovescio, la verità a rovescio, il Bene, l’Amore, tutto a rovescio? L’iceberg. Figura paurosa ma, direi, per noi simbolo rivelatore. E tutte le volte che guarderete uno specchio d’acqua e vedrete delle immagini riflesse, a rovescio, vi prego di ricordarvi quello che vi ho detto. E allora attacchiamoci a Lui; perché se noi non ci attacchiamo a Lui, che cosa faremo? La prima delle due proposizioni che ho enunciato iniziando la meditazione: io posso andare all’inferno, è troppo terribile, pencola troppo sul nostro destino. Attacchiamoci a Lui. Questo iter, fosse anche lastricato di tutti i dolori, percorriamolo attaccati a Lui, con Lui, in divina compagnia. La riflessione a rovescio di tutte le grandezze, in cui sia una obbiettiva considerazione per raggiungere qualche cosa del concetto dell’inferno, ci aiuti ad amare questo iter comunque piaccia al buon Dio di lastricarlo. E se qualche volta saremo noi stessi a cospargerlo di spine e di rovi, sarà tanto di guadagnato, sarà tanto più sicuro, e tanto più certa sarà la speranza che l’essere attaccati al braccio di Gesù Cristo non si rallenti mai più. Perché la certezza ci manca ma la speranza no: è una virtù teologale, la speranza; se noi siamo fuori dalla speranza, siamo nel peccato, perché anche la disperazione è un peccato orrendo. Vi dicevo che noi siamo esattamente come su due pattini da sciacquatico dei quali uno un po’ va giù, a seconda di come è la pressione che noi facciamo con le gambe, a seconda del moto dell’onda, a seconda del tipo di sterzare del motomezzo che ci trascina. Va un po’ su, va un po’ giù…. Ma, in fin dei conti, abbiamo una corda in mano. Quella, non lasciamola scappare, è un filo conduttore, è l’iter con Gesù Cristo. S. Agostino concludeva: « Descendamus in infernum viventes ne descendamus morientes ». È meglio discendervi da vivi che da morti : « Hic combure, hic seca, dummodo in æternum non comburas ». È meglio trovarci un po’ di pauretta di qua che andare non a trovare paura ma a subire l’orrore per definizione, l’orrore per definizione che è l’anti-Dio. Ricordiamoci di queste cose quandola terra ci scotta sotto i piedi, quando sale la mosca al naso, tutte le mosche al naso, tutte, nessuna esclusa, quando ci sono gli istinti che si mettono a girare e a fare una tregenda. Ricordiamocene allora. I rovi, le penitenze, anche le più aspre, come quelle del Santo Curato d’Ars, sono cose che paiono niente. Prendiamo tutto, utilizziamo tutto; ma, attenti bene, non distacchiamoci mai dall’iter con Gesù Cristo, perché la sicurezza — tanto il chiodo è lì — non l’abbiamo ma la speranza sì. Vedete, il mondo ci dà oggi una certa descrizione dell’inferno. La cultura moderna, messa bene tutta insieme, dà una certa impressione dell’inferno. E forse Iddio lo permette perché gli uomini, che potrebbero essere sereni e giocondi, anche nella croce e sulla croce, di qua non ne vogliono sentir parlare e hanno quel che si meritano. Guardate bene che l’inferno è la negazione, la negazione totale, perché è: non Dio, pœna damni.Tutto ciò che è meramente negativo è infernale; è parente del diavolo tutto ciò che è meramente negativo. Aprite gli occhi. Non valgono ragioni d’arte, perché non esistono, e non valgono ragioni di cultura, perché non esistono in subiecta materia. Il negativo è negativo e pertanto non esiste, non ha concretezza. Non valgono, dico, le ragioni d’arte o supposte d’arte, o le ragioni di cultura o supposte di cultura, per accettare come un bello scherzo, come un amabile passatempo quello che il mondo moderno propina di meramente negativo nella sua, qualche volta si direbbe sagace, che invece è satanica opera con la quale morde e riduce alla negatività le cose splendenti della vita. Guardate il tratteggio dell’inferno che hanno fatto gli ultimi quattro secoli, proprio perché hanno la linea della negatività. Da quando, precedute da un certo naturalismo panteistico, poi da tante altre storture delle quali non è ora il caso diparlare, Lutero ha innalzato la bandiera della rivolta contro la Chiesa e contro la divina tradizione dell’Evangelo, la divina tradizione, pur tenendo in mano la Bibbia, guardate bene il tratteggio della negatività: al posto dell’oggetto è andato il soggetto e si è capovolto tutto. Conseguenza logica, immediata, razionalissima di questo capovolgimento, la perdita del criterio di verità e della certezza della verità, perduta come un bene rimpianto da gran parte della cultura moderna; perduta la certezza della cognizione, affogata questa cultura nel suo agnosticismo, del quale tenta satanicamente di bearsi a rovescio soffrendone — perché il suo bearsi è il soffrire —e costruendo così, con irrompente audacia, i sogni stupidi e più rovesciati che in tutti i tempi siano mai usciti fuori dalla mente umana, costruendo pertanto un mondo a rovescio. Cose a rovescio. La negatività è l’essere a rovescio. Non è rimasto più niente, per tanta gente, della sicurezza della verità, della obiettività delle cognizioni. E alla fine, come debole, ingenua e disgraziata reazione a questo, l’esistenzialismo: consolarsi con l’angoscia. L’atto dell’esistenza, dopo aver rifiutato l’atto dell’intelligenza che conquista la verità, l’atto dell’esistenza va inteso soltanto in quel momento, come se fossero — la vedete la negatività? — le cose a rovescio. Soltanto quando si è nell’angoscia: lo vedete l’iceberg, la montagna che pende a rovescio, tutta la cultura, che, pur avendo aspetti anche grandiosi, in realtà nel suo insieme pare seguire il tratteggio della negatività. La montagna a rovescio, l’iceberg, quello contro il quale, se la nave sperona, si fracassa ed è il disastro, il naufragio. Ecco ciò che è dato a noi di vedere. Questo mondo, quando voi lo considererete; quando, distaccandovi un po’ dal particolare e prendendo, nel silenzio dell’anima, la distanza sufficiente per coglierne le grandi linee architetturali, le guarderete, osservate bene e vedrete la montagna a rovescio che pesca nell’acqua. L’immagine fatta tutta a rovescio. Come se gli uomini, trastullandosi con la loro vita e con tutti i beni della vita, per via del loro peccato, si divertissero anche a fare il carnevale dell’inferno a questo mondo. E noi stiamo assistendo al carnevale dell’inferno. E tutte queste cose vi servano. Dante si è giuocato un po’ di un mio concittadino, Branca Doria, trovandolo all’inferno e definendolo « col corpo ancor vivo ancor di sopra ». Povero Branca Doria! Chissà che dispetti gli avesse fatto? Ma guardate che di Branca Doria ce ne sono tanti, perché molti in questo mondo hanno la disperazione della negatività di tutte le cose: della negatività dell’aria che respirano, della vita che portano, dell’amore che è senso e nient’altro, come schiatta fuori da una parte notevole ormai della letteratura e degli spettacoli che si danno sulle scene d’Italia. Oggi, badate che molti dei nostri simili, poveretti, sono come Branca Doria. Non c’è verso, si dimenano in tuttii modi e non riescono a godere niente, ad avere piacere di niente, ad avere certezza di niente. Hanno rifiutato la fede, non hanno voluto dire amen a Gesù Cristo e dicono amen a tutto e lo dicono a rovescio. La montagna rovesciata, e la immagine riflessa nell’acqua tutta a rovescio. Povera gente! Però la considerazione architetturale del nostro mondo che sta facendo della negatività, elemento infernale, un suo segno caratteristico, ci richiami costantemente all’« initium sapientiae timor Domini ». Attacchiamoci, nel nostro iter, a questo nostro Salvatore dolcissimo, col quale possiamo parlare tutti i giorni e tutto il giorno, col quale possiamo vivere, lavorare e soffrire, col quale possiamo andare innanzi nella vita e col quale serenamente possiamo aspettare il tramonto. Attacchiamoci. E se qualche volta il sonno prende, facciamo come S. Carlo che teneva in mano una palla di metallo perché, se si addormentava, gli cadesse sui piedi e glieli schiacciasse e lo svegliasse. Anche noi teniamo questa palla continuamente perché sempre ci ricordi le cose dette in questa meditazione, questa palla che, ove il primo accenno dell’assopimento si avanzi, rotoli giù, ci schiacci qualche cosa, ci svegli, sicché « descendamus in infernum viventes » sempre, tutti i giorni,« ne descendamus morientes ». A forza di pensare alla morte tutti i giorni, si muore bene e sereni. E a forza di discendere all’inferno tutti i giorni, penso che, forse, ce la caveremo.

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