SALMI BIBLICI: “DOMINE, DEUS SALUTIS MEÆ” (LXXXVII)

SALMO 87: DOMINE, DEUS SALUTIS MEÆ

CHAINE D’OR SUR LES PSAUMES

ou LES PSAUMES TRADUITS, ANALYSÉS, INTERPRÉTÉS ET MÉDITÉS A L’AIDE D’EXPLICATIONS ET DE CONSIDÉRATIONS SUIVIES, TIRÉES TEXTUELLEMENT DES SAINTS PÈRES, DES ORATEURS ET DES ÉCRIVAINS CATHOLIQUES LES PLUS RENOMMÉS.

[I Salmi tradotti, analizzati, interpretati e meditati con l’aiuto delle spiegazioni e delle considerazioni seguite, tratte testualmente dai santi Padri, dagli oratori e dagli scrittori cattolici più rinomati da …]

Par M. l’Abbé J.-M. PÉRONNE,

CHANOINE TITULAIRE DE L’ÉGLISE DE SOISSONS, Ancien Professeur d’Écriture sainte et d’Éloquence sacrée.

[Canonico titolare della Chiesa di Soissons, Professore emerito di Scrittura santa e sacra Eloquenza]

TOME DEUXIÈME.

PARIS – LOUIS VIVES, LIBRAIRE-ÉDITEUR 13, RUE DELAMMIE, 1878

IMPRIM.

Soissons, le 18 août 1878.

f ODON, Evêque de Soissons et Laon.

Salmo 87

Canticum Psalmi, filiis Core, in finem, pro Maheleth ad rispondedum. Intellectus Eman Ezrahitæ.

 [1] Domine, Deus salutis meæ,

in die clamavi et nocte coram te.

[2] Intret in conspectu tuo oratio mea, inclina aurem tuam ad precem meam.

[3] Quia repleta est malis anima mea, et vita mea inferno appropinquavit.

[4] Æstimatus sum cum descendentibus in lacum, factus sum sicut homo sine adjutorio,

[5] inter mortuos liber; sicut vulnerati dormientes in sepulchris, quorum non es memor amplius, et ipsi de manu tua repulsi sunt.

[6] Posuerunt me in lacu inferiori, in tenebrosis, et in umbra mortis.

[7] Super me confirmatus est furor tuus, et omnes fluctus tuos induxisti super me.

[8] Longe fecisti notos meos a me, posuerunt me abominationem sibi. Traditus sum, et non egrediebar;

[9] oculi mei languerunt præ inopia. Clamavi ad te, Domine, tota die; expandi ad te manus meas.

[10] Numquid mortuis facies mirabilia? aut medici suscitabunt, et confitebuntur tibi?

[11] Numquid narrabit aliquis in sepulchro misericordiam tuam, et veritatem tuam in perditione?

[12] Numquid cognoscentur in tenebris mirabilia tua? et justitia tua in terra oblivionis?

[13] Et ego ad te, Domine, clamavi, et mane oratio mea præveniet te.

[14] Ut quid, Domine, repellis orationem meam, avertis faciem tuam a me?

[15] Pauper sum ego, et in laboribus a juventute mea; exaltatus autem, humiliatus sum et conturbatus.

[16] In me transierunt iræ tuæ, et terrores tui conturbaverunt me:

[17] circumdederunt me sicut aqua tota die; circumdederunt me simul.

[18] Elongasti a me amicum et proximum, et notos meos a miseria.

[Vecchio Testamento Secondo la Volgata Tradotto in lingua italiana da mons. ANTONIO MARTINI Arciv. Di Firenze etc.

Vol. XI

Venezia, Girol. Tasso ed. MDCCCXXXI]

SALMO LXXXVII

Orazione di un uomo afflitto abbandonato dagli amici, e da’ prossimi. Conviene a Cristo.

Cantico, ovvero salmo a figliuoli di Core: per la fine: sul Maeleth: da cantarsi alternativamente. Istruzione dì Heman Ezraita.

1. Signore, Dio di mia salute, di giorno e di notte alzai le mie grida dinanzi a te.

2. Giunga al tuo cospetto la mia orazione, porgi le tue orecchio alla mia preghiera.

3. Imperocché l’anima mia è ripiena di mali, e la mia vita si avvicina al sepolcro.  

4. Sono riputato come un di quelli che scendono nella fossa, son divenuto come uomo senza soccorso, io che tra i morti son libero.

5. Come gli uccisi che dormono nei sepolcri, dei quali tu non hai più memoria, ed essi sono esclusi dalla tua cura.

6. Mi posero in una fossa profonda, in luoghi tenebrosi, e nell’ombra di morte.

7. Sopra di me si aggravò il tuo furore, e tutte le tue procelle scaricasti contro di me.

8. Allontanasti da me i miei conoscenti: mi riputaron come oggetto di abominazione.

9. Fui dato in potere altrui, ed io non avea scampo; gli occhi miei si seccarono per l’afflizione.

10. Alzai a te tutto dì le mia grida, o Signore, verso di te io stendo le mani mie.

11. Farai tu miracoli a pro dei morti? E i medici rendono loro la vita?  Perch’essi a te dieno lode?

12. Vi sarà egli forse chi nel sepolcro racconti la tua misericordia, e la tua verità nell’inferno?

13. Nelle tenebre si conoscono forse i tuoi prodigi, la tua giustizia nel paese dell’oblio?

13. Saran’elleno conosciute nelle tenebre le tue meraviglie, e la tua giustizia nella terra della dimenticanza?

14. Ma io alzai a te le grida, o Signore , e la mia orazione al mattino ti preverrà.

15. E perché, o Signore, rigetti tu la mia orazione, e rivolgi da me la tua faccia?

16. Povero son io, e in affanni fin dalla mia prima età: cresciuto poi fui umiliato, e depresso.

17. I tuoi sdegni son caduti sopra di me: e i terrori tuoi mi conturbano.

18. Tutto dì com’acqua mi inondano: tutt’insieme mi hanno sommerso.

Sommario analitico

Il Profeta, organo del Salvatore nella sua passione e sulla croce, allontanato da ogni giusto, carico di sofferenze, meno simile ad un vivente che ad un morto, effonde la sua anima davanti a Dio:

I. Descrive i tormenti della sua passione:

1° Eleva la sua anima a Dio, – a) nella speranza, indirizzandosi a Dio, della sua salvezza (1); – b) con la carità, desiderando che la sua preghiera entri alla presenza di Dio; – c) con l’umiltà, pregandolo di inclinare la sua maestà verso la sua miseria (2).

2° Enumera le sue sofferenze: – a) prima della croce: 1) la sua anima è stata ripiena di mali nell’orto degli ulivi; 2) il suo corpo, coperto di piaghe e di ferite da Caifa, Pilato ed Erode, è stato vicino alla morte (3); – b) sulla croce, 1) è stato posto dai sui nemici al rango degli scellerati; 2) è stato abbandonato e lasciato senza soccorso dai suoi amici (4); – c) nella tomba 1) è stato libero per la sua divinità tra i morti; 2) nella sua umanità, è stato come coloro che sono colpiti a morte e dormono nei sepolcri, abbandonati da Dio (5); – d) nel limbo, 1) Egli è disceso in questo lago e in questi luoghi tenebrosi coperti dall’ombra della morte (6); è stato in tutte queste circostanze, in balia della collera di Dio, ed oggetto di orrore per tutti i suoi amici ed i suoi vicini (7, 8).

II. – Chiede a Dio la sua resurrezione

1° Egli espone il modo in cui prega: con gli occhi, la voce, le sue mani tese.

2° Espone i motivi per i quali debba essere esaudito: – a) la gloria di Dio, 1) che non fa ordinariamente miracoli in favore dei morti (9); 2) che non è lodato da coloro che scendono nella tomba (10), 3) i cui divini attributi non sono né conosciuti, né lodati nel luogo della distruzione (11, 12); – b) la sua preghiera: 1) è fervente per cui innalza le sue grida verso Dio, 2) comincia con la sua passione (13), 3) è stata perseverante (14); – c) la sua miseria: 1) la miseria passata: a) è stato sempre privo di beni di fortuna; b) si è esercitato fin dall’infanzia nei lavori corporali; 2) la miseria presente: – a) è stato elevato sulla croce, – b) umiliato davanti ai suoi nemici, – c) turbato nel suo spirito (15), – d) agitato dalla tempesta (16, 17); – e) abbandonato dai suoi amici e dai suoi prossimi (18).  

Spiegazioni e Considerazioni

I. – 1-8.

ff. 1, 2. – Il salmista ci offre qui il modello di una fervente preghiera, testimonianza di una piena fiducia in Dio, che egli riconosce come Autore della sua salvezza; preghiera assidua e continua che non deve essere interrotta né di giorno né di notte quanto all’abitudine, al gusto, al desiderio di pregare. La preghiera è come un ambasciatore che noi inviamo a Dio a nome nostro. « Che la mia preghiera penetri fino a Voi. »

ff. 3-8. – Sull’esempio di Gesù-Cristo, i veri Cristiani sulla terra, sono sovraccarichi di mali e la loro vita è sempre vicino alla tomba. Oltre alle traversie che provano la santità,  oltre alle tempeste che eccitano le passioni, essi sentono che il loro soggiorno quaggiù è un esilio, e che devono sempre temere di essere esclusi per sempre dalla felice patria. Non c’è bisogno di prove per convincere un Cristiano che la sua vita è una morte continua. « Ah – esclamava Sant’Ambrogio – la nostra vita è tutta coperta di trappole: io ne vedo nel nostro corpo, nei nostri doveri, nella nostra scienza, nelle nostre passioni, in ciò che possediamo, in ciò che noi crediamo. Fuggiamo dunque da qui, aggiungeva, per passare dai malanni ai beni, dalle incertezze alla verità piena, dalla morte alla vita. » (Berthier). –  Quando commettiamo un peccato mortale, noi diamo talmente la nostra anima alla morte, ancorché Dio ci possa guarire, non di meno dal canto nostro rendiamo sia il nostro peccato che la nostra dannazione eterna, perché noi spegniamo la vita fino alla radice. Bisogna osservare ciò che fa il peccato, non ciò che fa l’Onnipotente. Chi rinuncia una volta a Dio, vi rinuncia eternamente, perché è la natura del peccato a fare, con quel che può, una separazione eterna. Ecco perché il Profeta-Re, ritenendosi in colpa, si considera come nell’inferno, a causa di questa spaventosa separazione: « Io sono – egli dice – annoverato tra coloro che discendono nella tomba; » e subito dopo: « essi mi hanno messo in un lago profondo, nelle tenebre e nell’ombra della morte. » –  E da lì viene che egli, nella sua penitenza, gridi: « Signore, io grido a voi da luoghi profondi; » e rendendo grazie per la sua liberazione continua: « Voi avete – egli dice – ritirato la mia anima dall’inferno inferiore. » Questo santo uomo aveva ben compreso che il peccato è un abisso ed una prigione, una profondità, un carcere, un inferno (Bossuet, Serm. Sur la gloire de Dieu). – Stato funesto è questo, ma troppo comune, nel quale, essendo stato ferito a morte dal peccato, si dorme piacevolmente nei sepolcri delle proprie cattive abitudini. –  Ed è allora che Dio non si ricorda più di questo peccatore, che lo rigetta dalla sua mano, che lo colma anche di una prosperità maledetta, e che gli dice queste parole spaventose: « Io ho giurato di non mettermi più in collera contro di voi. » (Duguet). – I morti, considerati come tali, dormono nel sepolcro: « Il Signore non se ne ricorda più, ed essi non sono più sotto la sua mano. Ma non è più così per le anime sante, per le anime amiche di Dio; perché se quelli sono morti allo sguardo degli uomini, « essi sono viventi per Dio, essi sono vivi sotto i suoi occhi e davanti a Lui; » ed ancora: « essi sono viventi per Lui ». Se essi hanno perso il rapporto che avevano con il loro corpo e con gli altri uomini, essi avevano un altro rapporto con Dio, che li ha fatti a sua immagine e per essere lodato. Questo rapporto non si perde; perché se il corpo si dissolve e non è più animato dall’anima, Dio, dal Quale l’anima è stata fatta e che porta la sua impronta, dimora sempre (Bossuet, Méd. D. Sem. XLI° j.). –  L’afflizione, fossa profonda è piena di tenebre e di oscurità. – La collera del Signore, nel linguaggio figurato della Scrittura, è un fuoco divoratore e  nello stesso tempo, un mare in tempesta. È nell’inferno che questo fuoco e questo mare dispiegano tutta la loro potenza, e non c’è risorsa contro questo giudizio senza misericordia. Non è da meno sulla terra: « Dio – dice Sant’Agostino – getta nella fornace la tribolazione, non per bruciare il vaso, ma per formarlo. » Egli ci inonda di flutti di tribolazione, non per sommergerci, ma per purificarci (Berthier). – Ogni genere di afflizione è annunciato in questi versetti: lontananza dagli amici e dai vicini, umiliazione profonda, privazione della libertà, gemiti continui, preghiere costanti e non esaudite. – Tale fu lo stato in cui si trovò Gesù-Cristo nella sua passione, e tale fu, sul suo esempio, la situazione di una moltitudine di Cristiani perseguitati, respinti ed abbandonati in qualche modo dal Signore stesso, che non darà loro nessuna consolazione esterna. Ma essi avevano Gesù-Cristo sotto gli occhi, e questo divino modello rendeva le sofferenze infinitamente preziose, la morte stessa sembrava loro deliziosa, perché sapevano che Gesù-Cristo aveva battuto questa strada che aveva come termine la corona meritata da Gesù-Cristo. « Bisogna – dice Sant’Ambrogio – che la morte lavori su di noi, affinché la vita consumi in noi l’opera di salvezza. » (Berthier). – L’abbandono degli amici, l’allontanamento dei prossimi, in mezzo a sì spaventose calamità, sono gli ultimi colpi che il Signore batte. La misura è colma e si resta ammirati come la testa non scoppi più, come la disperazione non si impossessi di una creatura così debole e così infelice. Una piena ed intera sottomissione alla volontà di Dio, proveniente dal fondo del cuore: non c’è altra risorsa! Si sono visti degli esempi di queste terribili prove prolungarsi fino agli ultimi giorni della vita, che sembravano raddoppiare di intensità; poi tutto ad un colpo, o bontà infinita, o saggezza adorabile, o impenetrabile provvidenza! … si vede risplendere la fede, rinascere la speranza, la riconoscenza più sentita illuminare il volto di questo eletto, infine liberato dalla sofferenza della vita (Rendu). 

II. — 9-17.

ff. 9-12. – Queste parole: « per i morti forse farete miracoli?» si applicano a coloro che erano talmente morti nel loro cuore e che i miracoli del Cristo non hanno potuto richiamare in vita. Così il Profeta non dice che i miracoli non siano stati fatti per essi, nel senso che essi non li hanno visti, non ne hanno approfittato. (S. Agost.). – Tuttavia è nei riguardi di questi morti spirituali che hanno perso la vita di grazia, che Dio fa i suoi miracoli più grandi, Egli impiega i suoi dottori, i pastori, i confessori, i predicatori per resuscitarli. Ma questi grandi dottori non possono resuscitare e guarire questi morti per virtù propria; benché i predicatori della parola siano eccellenti, con qualche miracolo che operano per insinuare la verità, nella maniera con cui trattano gli uomini i grandi medici, se questi uomini sono morti, la grazia di Dio può solo richiamarli in vita, perché possano ricevere da qualcuno dei suoi ministri le lezioni di salvezza (S. Agost.). – « Conoscerà le vostre meraviglie nelle tenebre e la vostra giustizia nella terra dell’oblio? Le tenebre significano lo stesso che la terra dell’oblio; perché gli infedeli sono designati con il termine di tenebre, ciò che fa dire all’Apostolo: « Voi un tempo eravate tenebre » (Efes. V, 8). Ugualmente la terra dell’oblio, è l’uomo che ha dimenticato Dio; perché l’anima infedele può spingersi nelle tenebre più oscure, per giungere alla follia di dire in se stessa: «Non c’è Dio. » (Ps. XIII, 1). Ecco dunque come stabilire la sequela ed il legame delle idee. « Io ho gridato a Voi, Signore, » in mezzo alle mie sofferenze; « tutto il giorno, io ho teso la mano a Voi, » cioè io non ho cessato di produrre le mie opere per glorificarvi. Perché dunque gli empi dilagano contro di me, se non perché Voi non farete miracoli per i morti? Vale a dire i miracoli non chiameranno alla fede ed i medici non resusciteranno, per glorificarvi, coloro che non sperimenteranno la segreta azione della vostra grazia, e che non saranno attirati da essa alla fede; perché nessuno può venire a me se Voi non lo attirate. Chi annunzierà in effetti la vostra misericordia nella tomba, cioè nell’anima dei morti? Chi annuncerà la vostra verità là dove si è periti, cioè in questo morto che non può né credere né sentire la misericordia, né la verità? In effetti, le vostre meraviglie e la vostra giustizia, saranno forse conosciute nelle tenebre di questa morte, cioè dall’uomo che ha perso, dimenticandovi, la luce della sua vita? (S. Agost.). Tutta la vita deve essere consacrata al servizio di Dio. Concludiamo da ciò che tutti coloro che abusano della vita per oltraggiare il Signore sono già morti. « Io vedo dei morti che ancora camminano – diceva Sant’Agostino – essi sembrano vivere, perché conversano con gli uomini; ma essi sono morti, perché Dio, che è la vita, si è separato dalla loro anima » (Berthier). –  L’occupazione degli uomini sulla terra deve essere pensare alla misericordia, alla verità, alle meraviglie ed alla giustizia di Dio. – Sarebbe sufficiente agli uomini affascinati dalle false gioie del mondo, pensare talvolta « alla terra di oblio », di cui parla il Profeta, per trovare ridicoli i desideri che agitano la loro anima. Accade a tutti i mondani l’essere dimenticati dopo la loro morte, e quando ci si ricordasse di essi, anche per vantare le loro qualità naturali o le loro grandi azioni, quale soddisfazione può questo dare loro? – Dormite il vostro sonno, ricchi della terra, e dimorate nella vostra polvere. Ah, se dopo qualche generazione, anzi dopo qualche anno voi ritornaste, uomini obliati, in mezzo al mondo, voi desiderereste rientrare nelle vostre tombe … per non vedere il vostro nome offuscato, la vostra memoria abolita, le vostre previsioni ingannate nei vostri amici, nelle vostre creature, o ancor più nei vostri eredi o nei vostri figli (Bossuet, Or. fun. de M. Le Tel.). – L’uomo giusto che muore deve contare anche sull’oblio di coloro che lascia ancora sulla terra, ma va in una regione dove non sarà più dimenticato (Berthier).

ff. 13, 14. – Quando Dio – dice S. Agostino – sembra rigettare la preghiera dei santi, è come un vento che respinge la fiamma e che illumina il fuoco sempre più: i rigori apparenti di Dio, inducono l’anima fedele a fare nuovi sforzi per avvicinarsi a Lui, per giungere a gustare le dolcezze della sua divina presenza. Non ci sono che i cuori toccati dalla bellezza di Dio che dicono, come il Profeta: Ah Signore, perché distogliete i vostri sguardi, perché rigettate la mia preghiera? Le anime che sono dedite al peccato o alla tiepidezza, sono insensibili all’allontanarsi di Dio, e quale miseria – esclamava ancora Sant’Agostino – essere lontano da Colui che è dappertutto. Ma come Colui che è dappertutto, si trova dunque lontano da noi? È – rispondeva il santo dottore – che ci manca il sentimento, è che noi siamo al suo sguardo come ciechi davanti al sole; questo astro spande dappertutto i suoi raggi, ma coloro che sono privi della vista, non ne profittano. Apriamo gli occhi della fede, lasciamoci illuminare dalla carità, e troveremo ben presto che Dio è vicino a noi. (Berthier).

ff. 15. – Queste parole – che convengono chiaramente a Gesù-Cristo – devono pure convenire ai suoi discepoli. La povertà ed i travagli devono essere la loro parte. Coloro che sono elevati alla qualità di figli di Dio e sono coeredi della gloria di suo Figlio, devono aspettarsi di avere parte alle sue umiliazioni ed alle sue sofferenze, poiché non si arriva all’elevazione se non con l’abbassarsi, ed alla pace sovrana se non con la guerra e le agitazioni. L’umiliazione non è mai più sensibile, né allo stesso tempo più necessaria, che quando essa segua ad una grande elevazione. (Duguet).

ff. 16, 17. –  Lo stato che dipinge qui il Profeta è molto doloroso, ma egli vi trova una consolazione, perché non ha parlato che di una collera di Dio « che passa », e non di quella di cui è scritto: « che dimora ». Che cos’è dunque questa collera i cui flutti sono passeggeri? Sono i mali di questa vita, è la rivolta involontaria delle passioni, è l’oscurità che si leva di tanto in tanto nell’anima di coloro che vogliono unirsi strettamente a Dio. Al contrario, la collera di Dio permanente è la riprovazione finale e definitiva; malanno senza risorse, castigo senza lenimento, vendetta di Dio senza misericordia (Berthier). –

ff. 18. – Ah! L’amicizia delle creature è ingannevole nelle sue apparenze, corrotta nelle sue adulazioni, amara nei suoi cambiamenti, travolgente nei suoi soccorsi in contro-tempo, e nei suoi inizi di costanza che rendono l’infedeltà più insopportabile. Gesù ha sofferto tutte le miserie, per farci odiare tanto i crimini che ci fa commettere l’amicizia degli uomini, con le nostre cieche compiacenze. Odiamoli, o Cristiani, questi crimini, e non abbiamo né amicizia, né fiducia di cui Dio non sia il motivo, di cui la carità non sia il principio. (Bossuet, III Serm. p. le Vendredi-Saint.) – Queste tribolazioni non hanno colpito solo la testa, esse si sono realizzate e si realizzano ancora nelle membra del Corpo di Cristo. E Dio volge il suo sguardo da coloro che Lo pregano, rifiutando di accordare loro ciò che vogliono, quando essi ignorano che l’oggetto della loro domanda non conviene loro. E la Chiesa è indigente quando, nel suo esilio, ha fame e sete di ciò che la sazierà in patria. Essa è nelle sofferenze fin dalla giovinezza; perché il Corpo stesso di Cristo dice in un altro salmo: « Essi mi hanno spesso attaccato fin dalla mia gioventù. » (Ps. CXXVIII, 1). Qualcuno dei suoi membri si sono elevati in questo mondo, ma affinché la loro umiltà divenga più profonda. E la collera di Dio scuota la debolezza dei fedeli, perché la prudenza tema tutto ciò che può arrivare, benché non sempre arrivi il dolore. E talvolta questi terrori turbano così fortemente lo spirito di colui che esamina i mali sospesi attorno a lui, che sembrano circondare da ogni lato come torrenti colui che è nel terrore e coinvolgerlo tutti insieme. E poiché i dolori non mancano mai alla Chiesa, pellegrina in questo mondo, ma le arrivano incessantemente, tanto in taluni dei suoi membri e tanto in altri, il Profeta dice: « … tutto il giorno, » volendo così esprimere la continuità del tempo fino alla fine del mondo. E spesso il terrore è causa che i santi siano abbandonati dai loro amici e dai loro prossimi, a motivo del pericolo che essi andrebbero a correre. Ma perché tutte queste tribolazioni, se non perché la preghiera di questo santo Corpo pervenga al Signore dal mattino, cioè alla luce della fede, all’uscire dalla note dell’incredulità, finché venga la salvezza che ci è già data, non ancora in realtà, ma in speranza, e che noi aspettiamo con pazienza? (Rom. VIII, 24). Quando noi vi saremo arrivati, il Signore non respingerà la nostra preghiera, perché allora non avremo più nulla da chiedere, ma da ottenere tutto quello che avremo convenientemente chiesto; Egli non volgerà da noi il suo sguardo, perché Lo vedremo così com’è (1 Giov. III, 2); noi non saremo più nell’indigenza, perché la nostra ricchezza sarà Dio stesso, tutto in tutti (I Cor. XV, 27); noi non soffriremo, perché non ci assalirà alcuna infermità; dopo essere stati elevati, non saremo né abbassati né turbati, perché in cielo non c’è più avversità; noi non dovremo più sostenere il peso della collera di Dio, anche passeggera, perché dimoreremo nella sua dolcezza permanente; i suoi terrori non ci scuotono più, perché il compiersi delle sue promesse ci renderà felici, e il terrore non allontanerà né amici, né prossimi, perché là non ci sarà più alcun nemico da temere (S. Agost.).  

GREGORIO XVII – IL MAGISTERO IMPEDITO: 3° Corso di Esercizi Spirituali (9)

S. S. GREGORIO XVII:IL MAGISTERO IMPEDITO:

III CORSO DI ESERCIZI SPIRITUALI (9)

[G. Siri: Esercizi Spirituali; Ed. Pro Civitate Christiana – Assisi, 1962]

IL NOSTRO ITINERARIO CON GESÙ CRISTO

9. Il Sacramento permanente.

Dal Sacrificio della Messa ha origine il sacramento permanente, la reale presenza di Gesù Cristo sotto le apparenze del pane e del vino. Cominciamo un po’ a discorrere di questa reale presenza per cercare di incidere delle linee precise e vere nella nostra vita. Mi pare che debba essere indiscutibile il fatto che, essendo Gesù Cristo rimasto con noi in tutti i tempi, sempre cioè e ovunque, quel fatto debba diventare caratteristico per la guida, la impostazione, la conformazione, la definizione, il tratteggio e persino le sfumature della nostra vita. Questo è lo scopo per cui ne parlo. Non si può ammettere che il Figlio di Dio fatto uomo, entrato nel nostro piccolo ordine per amore e rimasto qui sacramentalmente, sia un turista in incognito, che la sua divina presenza sia una cosa secondaria o una cosa di facile e libera elezione della quale si può fare a meno o della quale si può fare uso. No. Perché, che sia venuti per amore, che sia rimasto tra noi in un’umiltà che supera di molto quella della capanna di Betlemme non toglie che Egli sia il Verbo, il Figlio di Dio, ossia Dio, il Creatore. E pertanto se l’amore in tutto questo fatto, appare tutto avvolgere e caratterizzare, e può spingere noi ad una fiducia infinita, il fatto che si tratta di Dio deve mettere alla nostra intelligenza e alla nostra volontà dei termini di assoluto rigore. – Parliamo dunque della presenza reale di Nostro Signore Gesù Cristo nell’Eucaristia. Ecco due rilievi fondamentali dai quali bisogna partire e coi quali cominceremo insieme una digressione storica, che è utile però all’anima nostra e capirete il perché. – Primo rilievo: Gesù Cristo è presente tutto, è Lui, realmente, Corpo, Sangue, Anima e Divinità. È lo stesso che è in cielo, è lo stesso che è in quello che noi chiamiamo cielo, perché cielo indica piuttosto uno stato, un ordine; non indica certo uno strato atmosferico. È lo stesso, è Lui e basta. Siccome non sarebbe Lui se gli mancasse qualche cosa, tutto quello che è di Lui e che è Lui e per cui Lui è Lui, questo c’è. Quindi nell’Eucaristia non è presente spiritualmente come qualche volta, con gran pompa, si dice nelle commemorazioni degli uomini: Qui è presente lo spirito di Garibaldi. Gesù Cristo non è presente spiritualmente. Non si riesce a capire che cosa volesse dire il povero Berengario quando diceva che era presente spiritualmente. Dire che uno è presente spiritualmente, è dire che ci è presente con la memoria sua, se l’ha, oppure dire che ce lo mettiamo noi, con la nostra, se l’abbiamo; è una cosa sfuggente non solo dalle mani, ma dalle stesse capacità intellettuali. Gesù Cristo non è presente solo spiritualmente, per carità! E tanto meno è presente, come ha detto qualcuno, virtualmente, cioè perché c’è una virtus. Io posso capire che si dica che la virtus della centrale elettrica che dà la forza a tutta l’Umbria è anche qui; infatti se vado a toccare un filo, prendo la scossa. Ma la virtus è un’altra faccenda. No, è Lui. E basta. Che stiamo a fare tutti questi discorsi? L’ha detto Lui. Il testo grande dell’Eucaristia rimane sempre il capitolo VI di S. Giovanni. Egli non ha detto soltanto: « mangiare la mia carne e bere il mio sangue » a quei poveri sprovveduti che stavano a sentire e che avevano dato la interpretazione cosiddetta cafarnaitica, e che sono rimasti celebri per aver trovato proprio la interpretazione cafarnaitica, che è come dire cannibalesca, e stavano comprendendo male. E quando hanno fatto capire esternamente, Lui lo sapeva, che capivano male, allora ha precisato e ha detto: « Mangiate me ». – Passiamo al secondo rilievo. Gesù Cristo è presente sacramentalmente. Veramente, realmente presente. Sacramentalmente. Che cosa vuol dire sacramentalmente? Vuol dire che la presenza, la non distanza (presenza vuol dire non-distanza) è ottenuta attraverso le specie sacramentali. Perché io sono presente qui? Che cos’è che mi fa presente qui in questo momento? Per un semplice motivo: perché ho una superficie estensa, cioè sono quantitativo. La estensione è un succedaneo della quantità. E allora la superficie estensa che mette parte fuori di parte viene a combaciare con la superficie di questo corpo ambiente e il combaciamento della superficie mia con la superficie appartenente a questo corpo ambiente mi colloca qui. In altri termini il fatto della presenza locale, in loco, in ambiente, è data dal combaciamento di due superfici. È data perché esiste quindi un combaciamento di una estensione con un’altra estensione. Se manca una estensione, manca il mezzo per poter avere la presenza locale. La presenza sacramentale, che è reale, è vera, come è ottenuta da Gesù Cristo in questo punto? Perché il combaciamento non è ottenuto dalla superficie sua coartata a questo ambiente, ma il servizio glielo rendono la superficie del pane e del vino, che non ci sono più dopo la consacrazione, ma la cui superficie, cioè i cui elementi accidentali rimangono dopo la consacrazione. Ecco che cosa significa « sacramentalmente ». Si tratta quindi di presenza che è reale, di presenza che è fisica. La differenza sta in questo: che la presenza reale, invece di essere ottenuta mediante la quantità propria, è ottenuta mediante la quantità del pane e del vino che sono stati transustanziati. Ora facciamo il nostro excursus storico. Potrete avere l’impressione che ora faccia una lezione invece di una predica di Esercizi Spirituali. Può anche essere che essa abbia veramente l’aspetto di una lezione; ma occorre, perché l’effetto spirituale, questa volta, deve passare attraverso l’intelletto. È veramente un mysterium fidei, questo. Già ve ne ho parlato; e vi ho parlato anche della fede e del medio, quindi il discorso è introdotto. Ma quando ci si pensa un po’, se non si è studiato molto, si capisce che quelli che a Cafarnao hanno tenuto quel contegno così scorretto con Gesù Cristo, che hanno mormorato, sono intervenuti, hanno zittito, hanno fatto gesti di disapprovazione, se ne sono andati rumorosamente sbattendo le porte ecc. hanno fatto male. Perché hanno fatto male? Perché si sono dimenticati che poco prima Gesù aveva moltiplicato i pani e i pesci e che per via dei pani e dei pesci avrebbero potuto dire: « Non capiamo niente, come S. Pietro, ma se lo dice Lui, dato il fatto dei pani e dei pesci moltiplicati, deve essere così ». Questa è la logica. Hanno fatto male perché hanno dimenticato i pani e i pesci e tante altre cose che certamente avranno viste operate da Gesù, per cui avevano una documentazione in mano che li poteva rendere bene edotti del valore delle parole dette da Nostro Signore, anche se per loro incomprensibili. Ma se non vi fossero stati i pani e i pesci e tutto ciò che rassomiglia al fatto dei pani e dei pesci, non avrebbero avuto torto del tutto. Perché… è un bel mistero da accettare, questo. Non è una cosa facile. Ora che Gesù Cristo è risuscitato da morte e ha dato prova di sé stesso, allora si può accettare, anzi si deve accettare, e abbiamo razionalmente e pienamente i motivi per accettare tutto quello che ha detto; e tutto quello che poi Egli ha disteso per il mondo e tutto quello di cui è animata la storia diventa l’attestazione di Lui. Ma la cosa era difficile. Quello che commuove è questo: che nella prima età hanno adorato, hanno creduto e per tanto tempo senza capire niente. Senza capire niente. Come l’Eucaristia la vivessero e la sentissero, noi lo riscontriamo dai documenti del I secolo. Guardate bene il racconto che fa S. Paolo nella prima Lettera ai Corinti. Lo racconta, ma ripete una cosa che tutti sanno, la celebrazione eucaristica. E la ritroviamo anche quando Paolo è a Troade (Atti cap. XX). È l’ultimo giorno della settimana, la vigilia della domenica, e passano la notte in preghiera e in catechesi. Fu la volta famosa in cui fece un discorso talmente lungo che, anche lui fece addormentare, e un ragazzo per essersi addormentato cadde dalla finestra, e lui poi lo ha risuscitato; e all’alba noi abbiamo la « fractio panis ». Per due secoli il nome più comune della Messa fu « fractio panis ». Noi vediamo la celebrazione eucaristica dappertutto nell’epoca apostolica. Ed è commovente tutto questo. Il primo documenta della letteratura apostolica, redatto in Antiochia mentre vivono ancora alcuni degli Apostoli, la Didaché, riporta tutta la celebrazione, tutta la dottrina, lo schema della Messa — lo schema generale è quello di oggi — e l’adorazione eucaristica è il centro della Didaché. Notate che la Didaché aveva lo scopo di essere come un piccolo catechismo riassuntivo per le chiese della Siria e dell’Oriente. La Messa al centro! Siamo al I secolo. Non dimenticatevi che Antiochia fu per 7 anni la sede del Papa, perché Pietro fu vescovo di Antiochia, è Pietro che ha aperto la sede di Antiochia, poi l’ha lasciata e ha portato la sede a Roma. È commovente: questi secoli che hanno adorato, amato, creduto, così, comprendendo poco o niente, sapendo solo che lì c’era il Signore, che il pane e il vino non c’erano più, perché lo dicono: questo non è più il pane e il vino. Quel vescovo di Gerapoli, nella Frigia, alla fine del I secolo, Abercio, discepolo di scuola apostolica, che si fa la tomba e nella tomba scrive non le date e tanto meno i propri elogi, ma scrive quello che ha animato la sua vita, l’ideale della sua vita. E gli ideali sono due. Notate bene, siamo a Gerapoli nella Frigia. La stele è stata donata a Leone XIII dal califfo di Costantinopoli in occasione del suo giubileo e oggi sta al Museo Lateranense. E questo Vescovo del I secolo, discepolo degli Apostoli, ha due idee in testa e le mette nella sua pietra tombale: la prima è l’Eucaristia, la seconda è Roma che tiene il sacro impero del mondo. Non Roma imperiale, no, non quella dei consoli, l’altra, quella che tiene il sigillo di Cristo e col sigillo di Cristo tiene l’impero del mondo ossia il primato di Pietro. Il lavoro per rendere accessibile, dove è possibile, il mistero eucaristico è cominciato al II secolo, perché nell’epoca degli Apologeti di cui rimangono le opere noi vediamo già il lavoro di approfondimento, di indagine, cioè il lavoro di penetrazione intellettuale del mistero creduto, adorato e amato. E quel lavoro, per poter arrivare a una certa chiarezza — non a risolvere il mistero, nessuno può pretendere che i misteri divini si risolvano, ma si può chiedere che vengano portati a una certa intelligenza e anche alla risoluzione di talune difficoltà — è durato mille anni. E per mille anni tutto questo popolo si è salvato sempre attorno alla Messa, all’Eucaristia. Ha creduto, ha amato, ha adorato. Vi prego di tener presente che per diversi secoli, i secoli di ferro, la predicazione è stata minima, anche per il decadimento dell’istruzione, e a un certo momento anche per il decadimento del clero. E per secoli il popolo ha ricevuto tutto dalla Messa, che era insieme il Sacrificio, che portava il Sacramento, che raccoglieva la vita e che dava la catechesi, cioè la istruzione con quello che nella Messa si faceva e nella Messa si leggeva. Notate che nel secolo X si poteva ritenere la catechesi pressoché morta, salvo che nei monasteri. Le ultime conseguenze del grande cataclisma barbarico, lo sfilacciamento della vita sociale, la mancanza delle scuole. Ma la Messa e tutta l’ufficiatura intorno alla Messa resiste, e quella, si può dire, pressoché da sola ha vinto. Guardate se non si sente storicamente la irradiazione dell’Eucaristia, la si tocca con mano. – E intanto gli altri, i pochi, continuavano a studiare. Mille anni. Ci sono stati dei momenti di diatribe e zuffe accesissime come tra chi vuol entrare per primo nella cella del tesoro. E una zuffa furiosa successe nel secolo IX: Rabano Mauro da una parte, Pascasio dall’altra, Scoto Errugesa in mezzo. Han detto anche degli strafalcioni, nel cercare, nel voler spiegare delle verità nel voler salire; si sono strappati tutti gli abiti come accade quando si hanno i camici lunghi. Poi, a qualcuno è arrivata una legnata sulla testa: un Concilio che ha condannato uno, che ha tirato su l’altro. Poi si è fatto silenzio. Ma era rimasto il fermento della ricerca. E forse il fermento della maggiore ricerca l’ha aiutato un eresiarca dell’XI secolo: Berengario, che ha negato la transustanziazione. Fu  eresiarca più per superbia che per altro. Disse e disdisse un sacco di volte e pare che sia morto bene in un’isola della Loira nel 1099. La figura che ha fatto è stata poco buona, però la funzione di questo eresiarca è stata quella di riagitare veramente tutti. Si sono mossi tutti in seguito a Berengario. A parte i legati papali che di tanto in tanto gli han dato qualche bastonata in testa, soprattutto Ildebrando, colui che sarebbe diventato poi uno dei più grandi uomini della storia: S. Gregorio VII. Ma si misero in moto tutti. Quelli dell’Abbazia di Le Bec, che era il centro in quel momento, per opera di Lanfranco e poi di Anselmo d’Aosta, forse il più grande di Normandia. E allora botte e risposte di ribelli contro ribelli, succede una zuffa che se ne riempie il secolo XI, mentre Enrico IV sta a litigare, mentre Gregorio VII depone tutti i vescovi simoniaci, i concubinari e addirittura dà licenza al popolo di cacciare via i propri vescovi che non fossero stati secondo Dio. Mentre succedono tutte queste cose, là si azzuffano; Berengario condannato in un sinodo in Francia, a Piacenza, a Roma. Vedete com’è la storia? Intanto si rianima lo studio, l’ultimo grande sforzo di ricerca. Viene poi la scuola dei Vittorini, nella celebre Abbazia di S. Vittore, e si arriva ad Alberto Magno. Gli elementi indigesti e forse per allora indigeribili sono raccolti. Si arriva a S. Tommaso d’Aquino. Guardate che su questo punto il mondo si è fermato, a S. Tommaso d’Aquino, e nessuno l’ha mai sorpassato. In questo, come in altri punti del resto, è una di quelle rupi che le alluvioni non possono portare via, una delle poche rupi che resistono alle alluvioni. Si è arrivati a S. Tommaso d’Aquino. Poi si è continuato in parte allo stesso modo, perché non è detto che S. Tommaso l’abbiano studiato tutti e l’abbiano capito, non è cosa tanto facile. Eppure si va avanti. Guardate che cosa si muove quando ci sono dei Congressi Eucaristici. Il mondo si ferma, si direbbe. Che cosa è successo a Monaco in quella Germania che vide la bestemmia di Lutero e dei suoi seguaci contro l’Eucaristia? Si è arrivati a Tommaso d’Aquino. Permettete che vi dia un brevissimo riassunto, ridotto al midollo, di questo grande iter intellettuale per cercare di capire la verità dell’Eucaristia. E non dico questo per cambiare una predica in una lezione, ma perché sono convinto che la predica qui viene soltanto attraverso l’intelletto che vede. Il fondamento di tutto sta nella distinzione tra la sostanza delle cose materiali e gli accidenti delle cose materiali, soprattutto nella distinzione che è obiettiva tra la sostanza e la quantità: i due grandi attori in questa vicenda. Sostanza e quantità sono due cose diverse, tanto è vero che si può mutare l’una senza mutare l’altra. Se mutando l’una non muta l’altra, vuol dire che sono diverse. Allora due ordini connotano questi due elementi, che noi non possiamo separare, ma che, essendo obiettivamente diversi, Dio può separare, perché non esiste contraddizione nella cosa e pertanto entra nella possibilità di Dio. Questi due elementi connotano due ordini completamente diversi: l’ordine e il comportamento delle sostanze, l’ordine e il comportamento delle quantità. A noi sembra facile dire questo. Già, ma sono stati necessari mille anni. Allora, come viene presente Gesù Cristo? Transustanziazione. È la conversione della sostanza del pane nella sostanza del Corpo di Cristo. Il punto caratteristico è che qui è solo la sostanza che si converte nel Corpo di Gesù Cristo, e pertanto tutto avviene secondo l’ordine delle sostanze e niente avviene secondo l’ordine delle quantità. Come si comporta il mondo delle sostanze da solo, senza quantità? Si comporta rinnegando tutte quelle caratteristiche che sono proprie dell’ordine della quantità: la distanza, la moltiplicazione, la divisione, la passibilità di fronte agli agenti esterni che suppongono la superficie estensa per ricevere la passione. Qui la questione delle distanze non esiste più, la questione della moltiplicazione non esiste più, la questione della divisione non esiste più, la questione della passibilità non esiste più. Ecco perché è lo stesso Gesù che è in cielo, lo stesso, non un duplicato, ecco perché è qui e in tutto il mondo, perché la vicenda avviene secondo il modo proprio delle sostanze e non secondo il modo proprio delle quantità. E allora che cos’è che lo rende presente qui? La sostanza che s’è convertita nella sostanza, e pertanto non c’è stato alcun moto locale ma moto soltanto ontologico, lascia lì, sostentati direttamente dalla onnipotenza di Dio, gli accidenti, cioè la quantità del pane e del vino; e gli accidenti del pane e del vino, sostentati tutti dalla quantità, che è il primo degli accidenti della materia, rendono al Corpo di Gesù Cristo, nel quale il pane è stato convertito, lo stesso servizio che rendevano alla sostanza del pane. Si è moltiplicato il legame, danno a lui il legame con l’ambiente esterno che crea la presenza locale. Moltiplicati i legami, si moltiplicano le presenze; non si moltiplica Gesù Cristo. Vi ho riassunto in poche parole il lavoro che è stato elaborato attraverso mille anni. È ovvio che per spiegarsi meglio occorrerebbe lungo tempo. Ma ho voluto farvene il riassunto perché io sto parlando di questo fatto, di questo mondo cristiano che è sempre vissuto intorno all’Eucaristia e ha creduto, ha amato, ha adorato perché aveva la fede anche prima che potessero arrivare quelle penetrazioni che, se non rivelano il mistero, danno quiete all’intelletto, e che sono arrivate a dimostrare come nella Eucaristia non ci sono molti miracoli, come talvolta si sente dire, ce n’è uno solo, che è la conversione della sostanza in sostanza, con tutte le sue conseguenze, cioè la transustanziazione. E tutto diventa di una semplicità straordinaria, e tutte quelle cose che potevano sembrare accettabili solo con una deglutizione molto difficile, pur rimanendo il mistero, diventano di una deglutizione facile. E così hanno continuato ad adorare. La sentite allora la irradiazione divina che c’è stata, senza spettacolarità, perché è come l’aria che agisce anche se non la vediamo. È come la luce del sole che pare dia soltanto di vedere le cose perché prendano forma e colore e invece produce infinite altre cose. Come la luce del sole, che dappertutto crea la vita perché la funzione clorofilliana cambia l’energia contenuta nella luce del sole in materia. E questo spiega perché tanta erba e tanti muschi riescano ad andare avanti anche dove c’è così poca terra e così poco umore. Allora noi sentiamo la storia della Chiesa, la storia di tutte le cose che sono state pure, efficienti, vittoriose, che hanno concluso qualche cosa nella Chiesa; la sentiamo tutta intrisa di questa reale presenza di Nostro Signore Gesù Cristo, che dell’ordine naturale non ha sconvolto niente. Perché la cosa stupenda è che non si sconvolge niente. Se fosse sottratto qualche cosa al nostro cosmo, si potrebbe avere uno squilibrio universale, ma siccome nel cosmo tutto è quantitativo e tutto avviene attraverso l’accidens quantitatis — la quantità del pane rimane — non si scombina niente nel nostro cosmo, la quantità rimane: è tutto a posto. Questa presenza silenziosa di una divina dinamica, questa presenza modesta, come sono modeste le apparenze del pane, ma che è incredibilmente irradiante e attiva. E che cosa dobbiamo noi, nella nostra vita, all’Eucaristia, anche se non ci siamo accorti, anche se non abbiamo sentito, anche se la nostra fede è stata o dormiente od opaca e non ha lasciato filtrare, perché era debole? Anche se noi non ci siamo accorti, che cosa mai è entrato in noi di questa divina presenza? Sentite dove sta l’anima vivente della Chiesa in terra e dove sta la robustezza di tutte le costruzioni e di tutte le cose che si fanno? Il sole è lì, e tutto quello che verdeggia, verdeggia perché prende da questo sole, la divina presenza. – Ora veniamo alle conseguenze della presenza, perché, se ci siamo fermati sulla storia, è stato per lasciarci edificare e per costatare che, ad onta del mysterium fidei, dell’arduità del mistero, della tardività con la quale si è potuti arrivare a talune spiegazioni teologiche che potevano quietare meglio l’intelletto, la fede è stata piena ed è stata operante e concludente e ha rappresentato il passaggio di età in età e ha fatto il legame dei secoli come ha fatto il legame degli atti nelle singole anime e come ha legato le anime alla loro eterna salute. – Prima conseguenza di questa presenza di Nostro Signore Gesù Cristo nel Sacramento è, direi, la sentite? è la consacrazione dell’ambiente in cui noi viviamo. È una realtà che dobbiamo custodire nell’anima nostra: la consacrazione dell’ambiente in cui viviamo. Guardate in Assisi, contate quante chiese e cappelle ci sono, con la presenza reale. Pensate a quella irradiazione che, essendo senza rumore, come quella del sole, avviene. Dite se noi non abbiamo la sensazione di muoverci in un ambiente che non perderà mai qualche cosa di sacro! Qualunque paese: il suo campanile, la chiesa, il tabernacolo, una lampada, e nel tabernacolo c’è Gesù Cristo. È l’ambiente che lo sentirà. Vedete, noi viviamo in un ambiente che ha una certa universale consacrazione, ed è per questo che noi, che abbiamo la fede, che la dobbiamo avere piena, che dobbiamo servire Gesù Cristo ed essere con Lui, camminare con Lui, dobbiamo in tutta la vita mantenere una tonalità di elevatezza in tutto, di educazione, di spiritualità, come se tutta la vita fosse una divina liturgia. Non è possibile ragionare diversamente, quando si pensa che il mondo è punteggiato dappertutto di essa, della reale presenza di Nostro Signore Gesù Cristo. Non è possibile pensare in altro modo. E avere profondo il concetto di questa sacralità di tutte le cose, perché noi possiamo fare le cose più laiche che vogliamo, le cose più civili, civili in quanto si oppongono ad ecclesiastiche, cose laiche o profane in quanto si oppongono a sacre, ma questo mondo ha una consacrazione generale universale da questa divina presenza. – C’è un particolare nella spiegazione teologica, di S. Tommaso d’Aquino, della presenza reale. La passività, cioè il ricevere l’azione ab exstrinseco, è possibile, fisicamente parlando, unicamente attraverso l’accidens quantitatis. Solo attraverso l’accidens quantitatis possono agire gli agenti fisici. La trasmissione pertanto delle azioni ab exstrinseco è fatta soltanto dall’accidens quantitatis, trasmissione che può incidere sulla sostanza. Ma attenti bene. Nel caso della presenza reale, è l’accidens quantitatis, che non è proprio, che fa la presenza e pertanto collega con l’ambiente — e abbiamo la presenza fisica — ma non trasmette l’azione dell’ambiente. E pertanto il buon Dio può anche permettere che in certe sedute massoniche si oltraggi l’Eucaristia. Non c’è bisogno che mandi scintille e li folgori tutti. No. L’azione si arresta alle apparenze, alle specie, non può andare oltre. È per questo che quando si spezza l’Ostia non si spezza Gesù Cristo, si spezzano le apparenze. È l’accidens quantitatis che viene diviso. E allora nell’uno e nell’altro frammento è realmente presente Gesù Cristo. Ho sentito dire qualche volta: « Ma Dio dovrebbe fulminare subito quelli che fanno sacrilegi, che gettano via le sacre specie! ». Sì, lo può anche fare, non è detto che qualche volta non l’abbia fatto, ma così, a titolo di saggio. Non è necessario, affatto, perché c’è il mistero stesso che provvede: le azioni passive si ricevono soltanto attraverso l’accidens quantitatis quando è proprio. Qui 1′accidens quantitatis, quello che dà la indistanza, cioè che dà la colleganza con l’ambiente, ossia che lo rende localmente presente nell’ambiente, non è l’accidens quantitatis proprio di Gesù Cristo. Vedete, l’ambiente rimane sacro anche se il mondo ha tanti aspetti cattivi. Ah, noi non sappiamo che cosa succede in tante anime proprio per la irradiazione dell’Eucaristia! Non lo sappiamo. Come non sappiamo quando queste irradiazioni si condensino per dare un effetto tangibile e conclusivo. Noi non sappiamo e non possiamo mai dire di uno che è morto senza Sacramenti: « è dannato ». No, poiché non sappiamo che cosa accade al margine in cui noi non vediamo. Dio ci ha nascosto tante cose affinché la nostra vita rimanesse comune e ordinaria e la prova dell’esistenza mantenesse tutto il suo valore. Ma noi tante cose le possiamo intuire. Naturalmente, dal punto di vista giuridico, la Chiesa nega la sepoltura ecclesiastica a chi ha rifiutato i Sacramenti e ha fatto un atto decisamente contrario. Ma, e chi ve lo dice che dopo averli rifiutati non sia accaduto dell’altro? E che la coagulazione di tutte queste irradiazioni divine avvenga anche dopo quel rifiuto? Chi ve lo dice? C’è stata una causa di beatificazione che è stata interrotta per questo. Il servo di Dio, del quale si trattava, aveva una volta assistito un condannato a morte ghigliottinato. Non era riuscito a convertirlo, fino all’ultimo ha avuto la ripulsa. Addolorato, atterrito da questo, ebbe un impeto di zelo. Quando cadde la testa, la prese per i capelli, l’alzò e poi disse: « Questa è la testa di un dannato ». La Chiesa ha sospeso il processo. Così mi è stato raccontato. – L’Eucaristia non vediamola confinata soltanto in un tabernacolo; sentiamo che la presenza di un tabernacolo consacra l’ambiente e sappia ricordarcelo non solo per educazione, non solo per lo splendore del culto, non solo per lo splendore della divina liturgia, ma per trasformare tutta la vita in una divina liturgia.