LO SCUDO DELLA FEDE (74)

LO SCUDO DELLA FEDE (74)

[S. Franco: ERRORI DEL PROTESTANTISMO, Tip. Delle Murate, FIRENZE, 1858]

PARTE SECONDA.

FRODI PER CUI S’INTRODUCE IL PROTESTANTISMO

CAPITOLO IX

NONA FRODE: LUSSO DEL PAPA E DEI PRELATI DI S. CHIESA.

Dopo d’avere rimproverata 1avarizia passano a rimproverare il lusso dei Sacerdoti e questo lo ritrovano specialmente nel Papa,nei Cardinali e nei Prelati di S. Chiesa, Vedete,dicono, se S. Pietro si sedeva sul trono, e se gli altri Apostoli si vestivano di porpora, e se sfoggiavano tanto lusso di palazzi e di cocchi: e dicendo ciò, par loro di poter condannare come falsa la Religione. Ora ascoltate: fingete per un momento, che tutto ciò sia un eccesso, che pure non è come ora diremo, ma fingete pure che sia un eccesso: ebbene che ha che fare ciò con la verità della Religione di Gesù Cristo? Al più al più si potrebbe dire che i Prelati non la osservano a dovere, ma perché essi non la osservano, dunque la Religione è falsa? Ci vuole un cervello d’oca per venire a questa conclusione. – Ma poi perché i Protestanti che hanno tanto zelo per la povertà Apostolica non incominciano a procurarla in casa loro? L’Inghilterra e la Prussia sono i paesi che servono di modello a tutti i Protestanti: nessuno lo reca in dubbio. Ebbene costì chi sono i Capi della Religione? In Prussia il Re, in Inghilterra laRegina. Se ripugna la dignità regia, il lusso e lo sfarzo all’autorità di Capo della Chiesa, questi che si arrogano di essere i Capi, perché fanno poi tanto sfoggio non solo di cavalli e di cocchi, ma ancora di spettacoli e di teatri? Perché non solamente lo procurano per sé, ma ancora per la moglie e per i figliuoli, o pel marito? Perché non riprendono le immense rendite ed il lusso dei Vescovi Anglicani i quali sono tanto più ricchi dei nostri Vescovi e Cardinali, e che sprecano tutto il loro danaro nel lusso della moglie e nel collocamento de’ loro figliuoli e delle loro figliuole invece di distribuirlo ai poveri? Ma sono anche Sovrani, direte voi. Sì, ma e perché non trovate anche qui da dire che S. Pietro non istava sul trono e nella porpora, e potreste con più ragione aggiungere che non istava tra tanti cortigiani e cortigiane? Ah ipocriti, avete la trave negli occhi propri e cercate il bruscolo negli occhi altrui quando anche non vi è! Ma infine non è vero che S. Pietro e gli Apostoli non avevano tanto lusso, e che però bisogna ridurre le cose a quella forma? Orsù se volete ridurre le cose a quella forma, io spero che non sarete uomini di doppio peso e di doppia misura. Se le cose si hanno da recare all’uso di quei tempi, le ridurrete tutte, non solo cioè il Papa ed i Prelati di S. Chiesa, ma anche i laici, ma tutto il popolo Cristiano. Sappiate adunque che quando S. Pietro e gli Apostoli andavano coperti di cenci, anche i semplici Fedeli non istavano molto largamente. Incominciate dunque anche voi a vivere nelle Catacombe come vivevano essi; là in quei segreti, tra quegli orrori, al buio in quei sepolcri. Allora i Fedeli (e l’abbiamo negli Atti Apostolici),vendevano tutti i loro beni e ne portavano il prezzo agli Apostoli, perché  lo distribuissero ai poveri ed alle vedove; fate voi altrettanto. Allora i Cristiani perseveravano nella s. Orazione le lunghe ore: da bravi incominciate a farvi vedere a pregare un po’ più assiduamente. Allora si comunicavano frequentemente ed anche tutti i giorni, intervenendo al Divino Sacrifizio: orsù fatevi vedere assidui alla S. Messa in  ogni festa ed alla Comunione almeno ogni mese. Allora stavano i Fedeli sempre parati a dare il sangue e la vita per Gesù Cristo in mezzo ai tormenti; mostrate dunque voi un poco di coraggio, se non in faccia ai Proconsoli ed ai Carnefici, almeno in faccia ai miscredenti ed ai libertini. Se volete ridurre tutto secondo l’uso di quei tempi, non siate ingiusti, non riducete soltanto il Papa ed i Vescovi. ma riducete tutti, anche i semplici Fedeli. Vi garba questo nuovo modo di vivere Cristiano? abbracciatelo dunque prontamente e poi riprenderete quei che non lo praticano. Che se vi riesce per ventura più comodo il vivervene a casa vostra tranquillamente ed attendere alle vostre faccende ed andare in Chiesa quando vi pare, anzi se vi pesa tanto l’andarvi anche quel poco, a cui con tutta discrezione vi obbliga la S. Chiesa, perché fate poi i falsi zelanti addosso ai Prelati di S. Chiesa, ai Cardinali, al Sommo Pontefice? Ah ipocriti, io ripeto di bel nuovo, ipocriti, che avete una bilancia a doppio peso, l’uno per voi e l’altro per gli altri. Ma spieghiamo ormai la verità. È egli vero che ripugni l’esterno decoro ed anche il Principato al Capo della Chiesa ed ai Prelati? Falso falsissimo. Nei primi tempi la Chiesa era in uno stato di estrema abiezione sì, ma non era quello il suo stato normale: come lo stato d’infanzia non è lo stato ordinario dell’uomo. Gesù permise per un tratto di tempo, che la Chiesa fosse piccola, nascosta, perseguitata, perché ognuno comprendesse che se ciò non ostante essa si stabiliva, si propagava, non era opera umana la sua fondazione, e così ognuno vi riconoscesse il braccio divino: ma passato quel tempo e somministrata quella prova alla nostra durezza, intenzione divina era che la S. Chiesa prevalesse e si rendesse cospicua a tutto l’universo, perché potesse spargere da per tutto la sua luce ed attrarre a sé tutti gli sguardi e conquidere i cuori di tutti gli uomini. Voleva adunque che fosse molto illustre anche per esterno decoro, mentre questa sua esterna grandezza doveva servire ad attirarle un maggior numero di figliuoli, e quindi quel lustro esterno non era di utile ai Pastori principalmente, ma bensì ai fedeli. – Così lo dimostrano tutte le profezie, che parlano della Chiesa, come di un gran regno, che si stenderà da un capo all’altro della terra, come altrove vi ho detto. Così ce lo significa lo stesso Gesù il quale gettò i primi semi di questa grandezza, col possedere che Egli fece in comune con gli Apostoli quel denaro che gli veniva fornito dai suoi fedeli, come si raccoglie dal santo Vangelo, il quale racconta che Giuda appunto era quello che li conservava presso di sé. Poi gli stessi Apostoli disponevano di grandi somme, come si ritrae dalla necessità in cui furono di eleggere sette Diaconi che le amministrassero a dovere. I Romani Pontefici successori di quelli erano nella stessa condizione, come si ricava dalle restituzioni che Costantino Imperatore fece fare alla Chiesa di molti denari rubati già prima dei suoi tempi dai suoi antecessori. S. Gregorio Magno nelle sue lettere fa vedere chiaramente di quali beni egli potesse disporre in Roma, in Sicilia ed altrove: sicché voi potete conchiudere che la Chiesa nacque col diritto di possedere come qualunque società; ed infatti ebbe subito ricchezze da disporre. Ma pazienza se la Chiesa se ne servisse per i poveri, ma impiegare quelle somme nel lusso, ohibò! Questa bella ragione del lusso fu tratta fuori la prima volta sapete da chi? Da Giuda, il quale trovò che la Maddalena aveva con troppo lusso impiegato un gran vaso di unguento prezioso intorno a Gesù, mentre si poteva adoprarne meglio il prezzo in vantaggio dei poverelli. E come fu adoperata contro Gesù, così fu poi spesso spesso messa in campo contro la sposa di Gesù Cristo la S. Chiesa. Gesù Cristo però non menò molto buona al perfido quella ragione ed anzi lodò la Maddalena di quel lusso come di un’opera molto santa, che essa aveva fatto: ed il somigliante vuol dirsi di quel decoro, che adoprano i Pastori di S. Chiesa che costoro riguardano come lusso. Imperocché come si adornano con gran magnificenza i Sacri Tempi, perché il lustro esterno c’innalzi la mente a Dio ed aiuti la nostra pietà e serva alla nostra divozione; così la S. Chiesa approva il lustro esterno dei sacri Pastori perché quell’esterna magnificenza ci dia un qualche concetto della stragrande autorità di cui essi sono investiti da Gesù Cristo e della riverenza che perciò loro si debba. I Principi della terra per dimostrare la loro potenza e dignità si valgono di ogni mezzo, impiegano a loro servizio gran numero di ministri, abitano palagi sontuosi e spiegano una somma magnificenza; ed i Prelati di S. Chiesa che hanno un autorità tanto più eccelsa di quella dei Monarchi terreni, quanto lo spirito eccede il corpo, non dovranno darlo a conoscere in nessun modo? Oppure si dovrà stimare una vanità quello che ritorna a gloria di Gesù, che ha dato tal potere agli uomini, ad onore della S. Chiesa che è stata fatta sì grande, ed a vantaggio dei fedeli i quali sono condotti perciò più soavemente da quella maestà esteriore a riverire ed ossequiare ed a sottomettersi all’autorità del Pontefice e dei Prelati? E che! Nell’antica legge non fu Dio stesso, il quale prescrisse ornamenti di immenso pregio al sommo Sacerdote ed ai Leviti? – Il trono però non sarebbe necessario al Sommo Pontefice, replicano i Protestanti. Ebbene fingete che non sia necessario: dunque per questo sarebbe un male? Tante cose non sono necessarie, che però non è male il farle. Che ripugnanza vi ha ad unire insieme queste due qualità di Principe e di Pontefice? Si sono riunite tante volte queste due dignità nell’antico popolo Giudaico, che fu la figura del popolo Cristiano, perché si dovrà adesso ritrovare in questo una ripugnanza? Ricordatevi anche dei Principi protestanti che sono Capi delle Chiese, contro cui nessuno però schiamazza, nessuno protesta. – Ma Gesù Cristo ha detto che il mio regno non è di questo mondo. Sì: ma perché i Protestanti che pretendono di aver presso di sé la vera Chiesa perché non si applicano questo testo; e perché sopportano dei Capi che sono Re o Regine? La verità è che queste parole di Gesù Cristo vogliono significare tutt’altro da quel che fanno dir loro tutti questi maestri d’ iniquità che v’imbecherano tutto giorno. Queste parole vogliono significare che Gesù Cristo, tuttoché sia Re universale di tutti gli uomini, tuttavia non si propose per fine di stabilire qui sulla terra un regno temporale nel quale egli reggesse gli uomini, come fanno i monarchi terreni: ma bensì che il suo intendimento quaggiù fu d’indirizzare tutti gli uomini a costituire quel gran Regno che avrà il suo pieno atto e compimento nel cielo, e che perciò è detto tante volte nel Vangelo il Regno dei cieli. Se queste parole s’intendono diversamente, riescono ad esprimere una bestemmia contro di Gesù; perché verrebbero a significare che Gesù non ebbe suprema potestà sopra tutti gli uomini, e che non può regnare sopra di essi anche quaggiù. Ora chi non sa che Gesù è uomo-Dio, ed in quanto è Dio è padrone di tutte le cose, in quanto è uomo ha ricevuto ogni cosa dal suo Padre, il quale tutto pose nelle sue mani, come parla il Vangelo (Joan. III, 35)? Adunque quando Gesù dice che il suo regno non è di questo mondo, non vuol dir altro se non se che Egli, sebbene padrone assoluto di tutti, non è venuto per fondare un regno temporale in cui regnare alla maniera degli altri Monarchi, come credevano molti Giudei ed anche i due Apostoli Giacomo e Giovanni, che perciò ambivano di sedere l’uno a destra, l’altro a sinistra di Gesù; ma che volle invece fondare una Monarchia spirituale che abbracciasse tutti i Fedeli, che Egli avrebbe poi accolto nel suo Regno spirituale e celeste dove se ne fossero resi degni. Ora che cosa fa il Sommo Pontefice? Continua l’opera stessa di Gesù, ordina tutti i membri di S. Chiesa, li regola, li sopravveglia, li ammaestra, li conferma, cioè costituisce i Vescovi, mantiene in tatto il deposito della Fede, definisce i dubbi dei Fedeli, che sono sparsi per tutto il mondo, e come è chiaro, non li indirizza a formare una Monarchia celeste e spirituale. Epperò può con tutto rigore dire anch’esso che il suo regno non è di questo mondo: se già qualcuno non giunge a tanto di stupidità da affermare che tutti i Cattolici dell’Universo siano sudditi temporali del Papa. – Né però questa qualità che egli ha di ordinatore dirò così del Regno spirituale di tutti i fedeli, toglie che egli possa essere anche ordinatore temporale di un piccolo stato qual è l’Ecclesiastico. Che anzi la sua immensa dignità lo rende più degno e lo fa più capace di bene amministrarlo: poiché sarà sempre, parlando generalmente, meno appassionato un Pontefice che un Monarca, e la scienza sacra della Religione di cui è fornito, gli gioverà sommamente eziandio per la temporale amministrazione. Tutto sta che a quel Trono egli vi abbia un qualche diritto legittimo. Ma il mettere anche solo in dubbio questo diritto del Papa al dominio temporale è il massimo assurdo che si possa immaginare, perché il Papa fu fatto Sovrano per spontanea sommissione che a lui fecero e Principi e popoli, perché la sua autorità è confermata dalla prescrizione di tanti secoli quanti non ne conta veruna Monarchia, perché è stato riconosciuto da tutti i Sovrani dell’universo ed anche da loro protetto. Se questi diritti non valgono, sbalzate pure da tutti i Troni quanti sono i Principi della terra, perché niuno ve ne ha che possa vantare diritti, che pareggino anche da lungi i diritti dei Romani Pontefici. Né niuno creda che l’avere da amministrare un Regno temporale, sia per nuocere all’amministrazione del Regno spirituale di tutta la Chiesa, perché è anzi tutto l’opposto. Che cosa ha da fare il Sommo Pontefice per indirizzare tutti alla beatitudine sempiterna? Risogna che possa parlare liberamente a tutti, a tutti annunziare le verità cristiane, tutti animare, tutti anche riprendere, minacciare e se sia necessario anche colpire con le debite pene. Se il Papa non ha le mani sciolte, come potrà fare a comandare liberamente? Ora fra le sue pecore conta anche i Principi, i Re, gl’Imperatori cristiani. Anche sopra di loro deve potere stendere la sua spirituale autorità ed ammonirli e consigliarli e riprenderli e se fa bisogno scomunicarli: se già non vogliamo dire che non siano più Cristiani e pecorelle di Gesù, perché sono costituiti in dignità. Ora come potrebbe il Papa esercitare tutti questi suoi inalienabili diritti sopra tali personaggi, se non fosse indipendente da loro? E come potrebbe essere indipendente da loro se fosse loro suddito? se essi gli potessero metter le mani addosso ed incarcerarlo e violentarlo ogni momento? Vi ricorderete certo di quando il S. Padre stava a Gaeta nel quarantanove. Che cosa dicevano tutti gli scellerati allora? Dicevano che quel che Egli stabiliva e decretava non era ordinazione sua, ma bensì del Re di Napoli, nel cui dominio egli stava: e da ciò pigliavano pretesto di non obbedirgli. Eppure ognuno sa che Egli era in pienissima libertà di costituire tutto quel che voleva senza che niuno gli facesse ostacolo. Altrettanto direbbero al presente, se fosse suddito temporale di qualche Monarca. Ed i Principi stessi sarebbero spesso tentati a dinegargli la debita sommissione. Imperocché qual Sovrano che l’avesse suo suddito, soffrirebbe poi di ricevere da Lui gli ordini nelle cose spirituali, specialmente quando questi gli fossero molesti? Se Egli poi fosse suddito temporale per esempio dell’Austria, gli obbedirebbe volentieri la Francia? Se fosse suddito temporale della Francia, gli obbedirebbe volentieri l’Austria? Chi conosce le cose del mondo non penerà a vedere quanto sarebbe difficile. Laddove essendo Egli stesso Sovrano, niuno può scusarsi col dire, o che gli manchi la libertà d’ordinare, o che ordini per altrui insinuazione. Nel che è mirabilissima la divina Provvidenza, la quale pel bene di Santa Chiesa, per la quiete dei Fedeli, e per l’accrescimento del Regno di Gesù, ha disposto che egli abbia un Regno non sì vasto che lo occupi soverchiamente, non sì piccolo che non lo renda augusto e venerando a tutto l’orbe, e bastevole però a mantenergli la necessaria libertà. – Da tutto ciò finalmente alcuni conchiudono, che dunque la S. Chiesa non potrebbe reggere senza l’umana potestà. A questa sciocca illazione io risponderò con una similitudine. La S. Chiesa non può reggere senza un qualche mezzo, come non può reggere la vita dell’uomo senza qualche cibo. Or come al presente ha destinato Iddio che sia il pane nostro cibo comune, così noi lodiamo la sua Provvidenza che ce lo manda. Similmente avendo Iddio per ora destinato che sia il Trono che mantenga al Pontefice la libertà necessaria a reggere la Chiesa, così noi lo ringraziamo che mantenga nel Pontefice questo Trono che gli conserva la libertà. Ma e se questo venisse a mancare, che cosa ne nascerebbe? E se mancasse il pane agli uomini che cosa avverrebbe? Come Dio avrebbe infiniti mezzi nella sua sapienza ed onnipotenza per provvedere agli uomini il cibo senza del pane, così avrebbe infiniti mezzi per sostentare la Chiesa senza del Trono Pontificale. Come però sarebbe un iniquo chi non ammirasse e lodasse la bontà di Dio nel darci il pane ora che Egli ha voluto che questo sia il mezzo del nostro sostentamento: così sarebbe uno scellerato chi impugnasse l’autorità temporale ora che Dio l’ha scelta come mezzo per mantenere al suo Vicario la necessaria indipendenza e libertà. In una parola Iddio provvederebbe alla sua Chiesa con altri mezzi dove lo volesse e dove gli piacesse di togliere questo, perché  la Chiesa deve durare sino alla fine dei secoli; ma avendo scelto questo, a noi appartiene l’accogliere con ogni riverenza la sua volontà. – Per ultimo volete sapere chiaro il motivo per cui si scatenano tanto contro il dominio temporale del Romano Pontefice tutti i settari e tutti quelli che li imitano? Non è per zelo di povertà Evangelica, poiché, senza calunniarli, voi sapete che non sono i più devoti e più grandi amatori della virtù quelli che così declamano: ma è invece un desiderio furibondo di spiantare la Fede dalla terra quel che li muove. La Regia dignità di cui è accompagnato il Pontefice, gli dà un tal lustro, un tal decoro, che giova immensamente a scolpire negli uomini, che si governano coi sensi, il rispetto e la sommissione. Rispettato e riverito così, egli ha maggior efficacia a soddisfare coi popoli al suo gran debito di reggerli nello spirito. Ora come essi vorrebbero levargli ogni autorità se fosse possibile, così fanno la guerra ad un mezzo che gliela concilia. Adoperano lo stesso con tutti i Principi anche secolari. Li consigliano che per rendersi popolari si spoglino della maestà esteriore, perché spogliati di questa si diminuisca il concetto loro e sia più facile il fare le rivoluzioni e balzargli dai troni. Similmente se potessero ridurre il Papa ad essere come un Sacerdote privato, lo metterebbero a poco a poco in disprezzo alle moltitudini e con ciò avrebbero resi i popoli meno disposti ad inchinarsi alla sua spirituale autorità. – Ed ecco spiegato il motivo per cui con tanto fiele sparlano di lui, sino a fingere torcendo il collo amore all’evangelica povertà. Per questo non possono patire che venga onorato con tante mostre di ossequio, che i popoli si prostrino a lui dinanzi, che gli bacino il piede e somigliante. Per questo ripetono che egli non è altro che il primo Vescovo, che è un uomo siccome noi. È tutto un finissimo odio che portano alla S. Chiesa. Ora voi dovete rispondere a costoro che è il primo Vescovo non solo, ma che ha un’autorità verissima sopra tutti i Vescovi; che è uomo siccome noi, ma che ha una dignità che non abbiamo noi; che è un uomo sì, ma un uomo a cui Gesù Cristo eterna verità ha promessa la sua assistenza, perché non erri mai nell’insegnare la verità; è un uomo sì, ma sopra cui Gesù ha fondata la sua Chiesa; è un uomo sì, ma che ha in mano dategli da Gesù le chiavi del Regno dei cieli; è un uomo sì, ma che ha potestà di sciogliere e di legare qualunque cosa sopra la terra, protestando Gesù che Egli riconoscerà tutti gli atti che egli farà; è un uomo sì, ma è il centro, il capo, il vertice di tutta la Chiesa, e la voce per cui parla Gesù a tutti i Fedeli. – Se però gli baciamo il piede, noi non facciamo nulla che non sia di gran lunga inferiore a quello che gli dobbiamo. Imperocché non ci curviamo dinanzi a lui perché è uomo, ma perché è uomo rivestito di una divina autorità: e questa è per l’appunto quella che con tale ossequio noi vogliamo riconoscere. A quegli sventurati che non hanno altri occhi che quei del corpo e che dell’anima sono al tutto ciechi, potrà questa apparire troppa sommissione; ma a quelli che intendono dirittamente le cose, tutta quella sommissione parrà un nulla. Che cosa direste di una talpa che si lamentasse che non esiste il sole? Ah se tu avessi gli occhi che hanno le aquile lo vedresti. Dite il simile a costoro; perocché sono uomini carnali incapaci di sollevarsi fino a comprendere le celesti verità.

SALMI BIBLICI: “AD TE, DOMINI, LEVAVI ANIMAM MEAM” (XXIV)

SALMO 24: Ad te Domine, levavi animam meam …

CHAINE D’OR SUR LES PSAUMES

ou LES PSAUMES TRADUITS, ANALYSÉS, INTERPRÉTÉS ET MÉDITÉS A L’AIDE D’EXPLICATIONS ET DE CONSIDÉRATIONS SUIVIES, TIRÉES TEXTUELLEMENT DES SAINTS PÈRES, DES ORATEURS ET DES ÉCRIVAINS CATHOLIQUES LES PLUS RENOMMÉS.

[I Salmi tradotti, analizzati, interpretati e meditati con l’aiuto delle spiegazioni e delle considerazioni seguite, tratte testualmente dai santi Padri, dagli oratori e dagli scrittori cattolici più rinomati da …]

Par M. l’Abbé J.-M. PÉRONNE,

CHANOINE TITULAIRE DE L’ÉGLISE DE SOISSONS, Ancien Professeur d’Écriture sainte et d’Éloquence sacrée.

TOME PREMIER.

SALMO XXIV

[1] In finem. Psalmus David.

   Ad te, Domine, levavi animam meam.

Deus meus, in te confido; non erubescam.

[2] Neque irrideant me inimici mei: etenim universi, qui sustinent te, non confundentur.

[3] Confundantur omnes iniqua agentes supervacue.

[4] Vias tuas, Domine, demonstra mihi, et semitas tuas edoce me.

[5] Dirige me in veritate tua, et doce me, quia tu es Deus salvator meus, et te sustinui tota die.

[6] Reminiscere miserationum tuarum, Domine, et misericordiarum tuarum quae a saeculo sunt.

[7] Delicta juventutis meæ, et ignorantias meas ne memineris.

[8] Secundum misericordiam tuam memento mei tu, propter bonitatem tuam, Domine.

[9] Dulcis et rectus Dominus; propter hoc legem dabit delinquentibus in via.

[10] Diriget mansuetos in judicio; docebit mites vias suas.

[11] Universæ viæ Domini, misericordia et veritas, requirentibus testamentum ejus et testimonia ejus.

[12] Propter nomen tuum, Domine, propitiaberis peccato meo; multum est enim.

[13] Quis est homo qui timet Dominum? legem statuit ei in via quam elegit.

[14] Anima ejus in bonis demorabitur; et semen ejus haereditabit terram.

[15] Firmamentum est Dominus timentibus eum; et testamentum ipsius ut manifestetur illis.

[16] Oculi mei semper ad Dominum, quoniam ipse evellet de laqueo pedes meos.

[17] Respice in me, et miserere mei; quia unicus et pauper sum ego.

[18] Tribulationes cordis mei multiplicatæ sunt; de necessitatibus meis erue me.

[19] Vide humilitatem meam et laborem meum, et dimitte universa delicta mea.

[20] Respice inimicos meos, quoniam multiplicati sunt, et odio iniquo oderunt me.

[21] Custodi animam meam, et erue me; non erubescam, quoniam speravi in te.

[22] Innocentes et recti adhæserunt mihi, quia sustinui te.

[23] Libera, Deus, Israel ex omnibus tribulationibus suis.S

[Vecchio Testamento secondo la Volgata Tradotto in lingua italiana da Mons. ANTONIO MARTINI Arciv. Di Firenze etc.

Vol. XI

Venezia, Girol. Tasso ed. MDCCCXXXI]

SALMO XXIV

Preghiera che gli incipienti nella giustizia fanno a Dio pel perdono dei peccati e per la grazia di vivere rettamente. È il primo salmo alfabetico, che ha tanti versetti quante lettere dell’alfabeto (22), cominciando il primo dalla prima lettera, il secondo dalla seconda, ecc.; forse per aiuto di memoria.

Per la fine, salmo di David.

1. A te, o Signore, innalzai l’anima mia. Dio mio, in te confido, non abbia io da arrossire;

2.Nè mi deridano i miei nemici; imperocché tutti coloro, che li aspettano, non rimarranno confusi.

3. Sieno confusi tutti coloro, che invano commettono l’iniquità.

4. Mostrami le tue vie, o Signore, e insegnami i tuoi sentieri.

5. Fa ch’io cammini nella tua verità, e ammaestrami; perché tu sei il Dio mio Salvatore, e te ho io aspettato tutto il giorno.

6. Ricordati di tue misericordie, o Signore, delle tue misericordie che furono nei secoli addietro.

7. Non ti ricordare dei delitti di mia giovinezza, né delle mie ignoranze.

8. Secondo la tua misericordia, abbi memoria di me, o Signore, per la tua benignità.

9. Il Signore è buono e giusto; per questo ci darà ai peccatori la legge della via da tenere.

10. Condurrà gli umili alla giustizia; insegnerà le sue vie ai mansueti.

11. Tutte le vie del Signore (sono) misericordia e verità por coloro che cercano il testamento di lui e i suoi comandamenti

12. Pel nome tuo, o Signore, tu perdonerai il mio peccato; perché egli è grande.

13. Che uomo è quello che teme il Signore? (Dio) ha data a lui la legge della via, ch’egli elesse.

14. L’anima di lui sarà nella copia dei beni e la stirpe di lui avrà in retaggio la terra.

15. Il Signore è sostegno di coloro che lo temono; e il testamento di lui è per essere ad essi manifestato.

16. Gli occhi miei sempre rivolti al Signore, perché Egli trarrà dal laccio i miei piedi.

17. A me volgi il tuo sguardo, e abbi pietà di me, perché io son solo e son povero.

18. Le tribolazioni del mio cuore sono moltiplicate; tu mi libera dai miei affanni.

19. Mira la mia abiezione e le mie pene, e perdona tutti i miei peccati.

20. Pon mente ai miei nemici, come son molti di numero e ingiustamente mi odiano.

21. Custodisci l’anima mia, e dammi salute: non abbia io da arrossire perché ho sperato in te.

22. Gli innocenti e quelli di retto cuore si sono uniti con me, perché io ti ho aspettato.

23. O Dio, libera Israele da tutte le sue afflizioni.

Sommario analitico

Questo salmo è una preghiera composta da Davide quando era in preda ai molteplici sforzi dei suoi nemici per perderlo. Gli si può assegnare l’epoca della persecuzione di Saul o meglio ancora, quella di Assalonne. Egli era allora un oggetto di derisione per i suoi nemici, non sapeva dove rifugiarsi e si rimproverava i gravi peccati ai quali fa sovente allusione. Infine ricorda l’umiliazione alla quale è ridotto, la moltitudine dei suoi nemici ed i soggetti fedeli che si erano legati a lui, e prega Dio perché il suo popolo, in previsione degli orrori della guerra civile, sia liberato da tutte le persecuzioni. Nel senso allegorico si può applicare questo salmo a Gesù Cristo che parla in nome e nella persona della Chiesa; è la preghiera di ogni anima penitente in cui il regno di Gesù Cristo non è ancora pienamente stabilito e chiede a Dio di essere diretta nella via che conduce al cielo.

I. – Davide domanda a Dio di fargli conoscere la via nella quale debba camminare: 1) dove egli si sforza di entrare elevando la sua anima a Dio, e mettendo in Lui la sua fiducia, al punto da non dover arrossire e di non essere più oggetto di derisione per i suoi nemici e non essere confuso come tutti coloro che commettono il male senza soggezione (1-3); 2) ove egli prega Dio per essere aiutato con potenza: – a) facendogli conoscere la via dei suoi precetti ed il sentiero dei suoi consigli, dirigendolo Egli stesso in questa via (4), perché Dio è verità e non può ingannare né ingannarsi – b) perché Egli è un Dio salvatore che con il suo sangue ci ha aperto la via che conduce al cielo, – c) perché Egli ama coloro che sperano in Lui ed attendono pazientemente il suo soccorso (5); 3) nell’alleggerirlo del fardello che ritarderebbe la sua marcia, cioè rimettendogli i peccati commessi durante la sua giovinezza e per ignoranza (6, 7).

II. – Dopo aver chiesto a Dio di fargli conoscere la via che conduce a Lui, Davide si eleva più in alto e, contemplando Dio da vicino, invita tutti gli uomini ad avvicinarsi a lui: – 1) egli mostra al termine della via Dio come un vero padre pieno di dolcezza e giusto rimuneratore dei meriti; – 2) presenta la legge che Dio dà: – a) come un maestro che riprende e corregge i peccatori, – b) come una guida sicura che conduce i penitenti, – c) come un dottore che istruisce le anime umili, i perfetti (9, 10); 3) egli descrive questa via nella quale Dio ci impegna e ci conduce, essendo pieno di misericordia e di verità (4); 4) egli enumera i vantaggi ed i frutti che raccolgono coloro che camminano in questa via: – a) il perdono accordato ai peccatori, per la gloria del nome del Dio Salvatore (12); – b) per i veri penitenti, la considerazione continua della legge di Dio (14); – c) l’accrescimento delle virtù, « la sua anima riposerà in mezzo ai beni »; – d) la salvezza dei loro figli e della loro posterità; – e) per i perfetti, una forza granitica, e la manifestazione di Dio (15).

III. – Davide deplora gli impedimenti che lo tengono prigioniero sulla terra e chiede a Dio di esserne liberato: 1) eleva gli occhi a Dio, suo liberatore, e nutre la più viva speranza della sua liberazione (16); 2) non contento di elevare gli occhi, egli apre la bocca ed implora il soccorso divino e presenta a Dio diverse ragioni in appoggio alla sua preghiera: – a) egli è destituito di ogni soccorso e nell’estrema indigenza (17), – b) è nella più grande afflizione (17), – c) è ridotto ad una eccessiva umiliazione; conclude domandando a Dio di essere liberato dalle insidie ove i suoi peccati lo hanno condotto (18); 3) egli ricorda a Dio la moltitudine dei suoi nemici, il loro odio accanito contro di lui e gli chiede di salvare la sua anima, il suo corpo e la sua reputazione contro i loro sforzi uniti, perché egli ha sperato in Dio (20); 4) egli ricorda la fedeltà e l’attaccamento delle persone dabbene alla sua causa, e prega Dio di salvare il suo popolo da tutte le sue tribolazioni (21, 22).

Spiegazioni e Considerazioni

I. — 1- 7.

ff. 1, 2, 3. – « Signore, io ho elevato la mia anima verso di Voi, per un desiderio spirituale, essa che era prima ricacciata in terra dai desideri carnali » (S. Agost.). – Primo atto, prima condizione della preghiera, è elevare a Dio la nostra anima forzatamente abbassata, depressa verso la terra per tutto ciò che la circonda. « Il corpo che si corrompe appesantisce l’anima, e questa abitazione terrestre abbatte lo spirito che vuole elevarsi a pensieri più alti » (Sap. IX, 15). – « Esaminiamo le nostre vie, interroghiamole e torniamo al Signore. Leviamo verso Dio che è nei cieli i nostri cuori e le nostre mani » (Lam. III, 40), vale a dire le nostre affezioni con le nostre opere. – Verso chi il Re-Profeta eleva la sua anima? verso Dio! Non è verso i grandi, i potenti della terra. Troppo spesso noi crediamo di poter loro indirizzare le nostre voci, le nostre speranze, le nostre preghiere, le nostre sollecitazioni. Qual frutto ne raccogliamo se non il conoscere per esperienza le volontà cangianti, le parole ingannevoli, le diverse facce dei tempi, le delusioni delle promesse, l’illusione delle amicizie terrene che se ne vanno con gli anni e gli interessi? (Bossuet). – Niente di simile è da temere riponendo tutta la propria fiducia in Dio. « Considerate, figli miei, la moltitudine degli uomini, e sappiate che nessuno di quelli che hanno sperato nel Signore è rimasto confuso » (Eccli. II, 11). – C’è per Dio come per ogni fedele una specie di punto di onore acciocché i loro nemici comuni non rendano la preghiera impotente. – Mio Dio, la fiducia che avevo in me stesso mi ha fatto cadere nelle debolezze della carne; abbandonando Dio, io ho voluto essere come Dio, e temendo allora che il più piccolo degli animali mi desse la morte, ho arrossito a causa degli scherni meritati dal mio orgoglio. Ma ora io rimetto la mia fiducia in Voi, e non devo più arrossire (S. Agost. Su questo Salmo). – Falsa delicatezza di un’anima convertita da poco tempo, è l’apprendere le beffe dei peccatori che sono i suoi nemici più irriducibili. – Occorre porsi al di sopra di questa debolezza, persuadendosi bene che il genio del mondo è quello di beffarsi di ciò che non comprende e che non ama e di ciò che non vuole imitare, di irritarsi per quello che crediamo ed insegniamo dei giudizi di Dio, del suo continuo intervento, della maniera calma con cui rende i suoi giudizi, della lentezza con la quale esegue le sue sentenze. – Tutta le scienza della vita spirituale si condensa in questa espressione; « sospirare verso il Signore », mai disperare del suo soccorso, pazientare nelle attese, perché Egli conosce al meglio i tempi più opportuni per soccorrerci, profittando dei suoi ritardi per umiliarci. La confusione sarà il risultato di coloro che commettono l’iniquità, che insultano la virtù, la religione, la pietà, portandosi fino alla derisione, che è l’ultimo eccesso e come il trionfo dell’orgoglio, ed è parte di quei beffardi il cui giudizio è così prossimo, secondo la parola del saggio (Prov. XIX, 24).

ff. 4, 5. –  «Insegnatemi non le vie larghe che conducono la moltitudine a perdersi, ma gli stretti sentieri, che solo pochi uomini conoscono » (S. Agost.). –Le vie sono i mezzi necessari, i mezzi generali e comuni, cioè la via dei Comandamenti; i sentieri sono come le vocazioni speciali, le vie dei consigli. – Ciascuno di noi ha la sua vocazione, il suo sentiero particolare; non ci sono mai state due vocazioni precisamente identiche dall’inizio del mondo, e non se ne troveranno mai da qui fino al giorno del giudizio. Poco importa quale sia la nostra posizione nella vita, poco importa quanto dei nostri doveri possa sembrare ordinario, poco importa l’aspetto volgare di un’esistenza comune: ciascuno di noi, segretamente, ha questa grande vocazione. Posto questo, occorre ammettere che tutta la vita spirituale va all’avventura, se non è basata sulla conoscenza di questa vocazione o sugli sforzi da fare per scoprirla. Questa vocazione, qualunque essa sia, è la volontà di Dio su di noi; Egli può volere che essa non ci sia pienamente conosciuta, ma vuole però che tentiamo di scoprirla. La santità consiste semplicemente in due cose che sono entrambe uno sforzo: lo sforzo di conoscere la volontà di Dio, e lo sforzo di compierla una volta conosciuta (Faber. Conf. spirit. vocal. speci.). – Bisogna chiedere al più presto a Dio che ci faccia conoscere le sue vie, e che ce le insegni Egli stesso. – I sentieri sono strade strette; è poco conoscere le vie di Dio se non vi si cammina; è poco che Dio ce le insegni, a meno che non ci conduca Egli stesso. Privilegio delle nuova legge è « essere istruiti in tutto da Dio » (Giov VI, 40), essere istruiti non solo della lettera morta e i suoi Comandamenti, ma essere toccati dalla voce interiore ed onnipotente del suo Spirito (Duguet). – Essere condotto dalla verità di Dio, essere istruito nella verità da Colui che non ha detto solamente agli uomini come gli altri maestri: Venite a me, io ho la verità, bensì « Io sono la verità ». Gli altri uomini vogliono dirigerci secondo i loro interessi, le loro idee, le loro inclinazioni, le loro passioni; Dio come nostro Dio, Dio come nostro Salvatore non può dirigerci che secondo le regole della sua eterna Verità. – « Io sono la via, la verità e la vita, la via per la quale bisogna camminare, la verità verso la quale bisogna tendere, la vita nella quale bisogna perseverare; Io sono la via esente dall’errore, la verità pura da ogni menzogna, la vita al riparo dalla morte; Io sono la via nei miei esempi, la verità nelle mie promesse, la vita nelle mie ricompense; Io sono la via sicura, la verità irrevocabile, la vita senza fine; Io sono la via larga e spaziosa, la verità potente ed abbondante, la vita piena di gioia e di gloria » (S. Bern. Sermon. VI, in cæna).

ff. 6, 7. –  L’oblio non può esistere in Dio, la sua misericordia è sempre attiva; essa è antica quanto l’esistenza del male, risale all’inizio dei secoli, copre la terra come gli acque coprono il fondo del mare. Una delle nostre gioie più dolci è sapere che la sua sovrabbondanza sfugge ai nostri sguardi e che non possiamo comprenderla. – Quando, colpiti come siamo in tutte le facoltà della nostra anima, esauriti nelle forze da ferite così profonde, ci sentiamo attaccati da violente tentazioni, soccombenti sotto i piedi delle opposte cupidigie, esposti alle cadute alle debolezze che ci fanno gemere, noi crediamo qualche volta di essere dimenticati da Dio. Ma Dio è la, vicino a noi, la sua misericordia plana su di noi e ci copre con le sue ali (S. Agost. Conf. 1. III, c. III), essa ci sostiene nei nostri combattimenti e nelle nostre cadute. Essa protegge ancora questo cuore da cui Dio si ritira, con i ricordi che si degna di lasciarci, con l’adorabile facilità del suo ritorno, con questa profusione di clemenza che l’anima cristiana sa riconoscere fin nelle punizioni che lo colpiscono, sia per punirlo dei suoi peccati, sia per svegliarlo dal suo torpore. – Occorre pregare Dio di ricordarsi sempre delle sue misericordie, di dimenticarsi dei nostri peccati, ma soprattutto dei peccati di questa età in cui l’uomo sente, più vivamente che in ogni altra, la legge che combatte contro la legge dello spirito, e che lo tiene schiavo sotto la legge del peccato che è nelle sue membra (Rom. VII, 23); … di questa età in cui l’ardore, l’impazienza, l’impetuosità dei desideri, la forza, il vigore, il sangue caldo e ribollente, simile ad un vino fumante, che non permettendo nulla di stantio e di moderato; di questa età in cui tutto si fa con un calore sconsiderato, che si compiace del movimento e del disordine, che non è quasi mai in un’azione composta, che non ha onta che della moderazione e del pudore (Bossuet, Paneg. de S. Barn.); di questa età scossa da tentazioni numerose e terribili, battuta di volta in volta da tutte le tempeste delle passioni con una incredibile violenza, presumendo delle sue forze, mettendo tutta la sua felicità, tutta la sua gloria nel vedere il mondo e ad esserne visto, correndo con furore dietro alle false voluttà, allo splendore delle dignità menzognere o all’attrazione delle false voluttà (S. Agost.). – Sembra che Davide avrebbe voluto dire: ricordatevi di tutte le mie ignoranze che, dal momento che mi devono servire da scusante presso di Voi, è mio interesse che ne conserviate la memoria. È così che ne parla? No, ma dice a Dio: dimenticatele, cancellatele da questo libro terribile che voi produrrete contro di me quando verrete a giudicarmi (Bourdal, Aveug. Spir.). – Le ignoranze della nostra giovinezza o della nostra infanzia, possono ben diminuire la gravità delle nostre colpe, ma non rendere tuttavia la nostra condotta esente da ogni colpa. – Lo stato di ignoranza è senza dubbio quello che oppone l’ostacolo minore ai disegni e all’azione della misericordia divina, purché questa ignoranza non accheti ogni desiderio di verità, e non sia il frutto di qualche cattiva passione. – C’è sempre ignoranza nel peccato, anche nel peccato che è da condannare più duramente, come è il crimine di deicidio, del quale Gesù Cristo diceva: « Padre, perdonate loro, perché non sanno quello che fanno ». Nessuno può volere il male così come tale, perché l’oggetto della volontà non può essere che il bene. Coloro dunque che scelgono il male, lo scelgono sempre in tanto che esso si presenta al loro spirito sotto l’apparenza del bene (Bellar. Le sette parole). – Vi sono due tipi di ignoranza, l’una che viene dalla debolezza e dall’incapacità naturale di intendere ciò che potrebbe essere utile; l’altra è uno spirito ingegnoso nell’ingannare se stesso, avendo la luce sufficiente per comprendere ciò che sia necessario alla salvezza, ma il cui cuore corrotto non può soffrire la rettitudine della Verità che gli comanda di separarsi da ciò che egli ama. Tali spiriti amano la luce della Verità, ma non possono soffrire queste censure. Essa piace loro quando la si scopre, perché è bella; cominciano però ad urtarsi quando scoprono che esse stesse sono deformi. (S. Agost. De la correct, et de la grace).

II. — 8-15.

ff. 8-10. –  « Ricordatevi di me secondo la vostra misericordia », non secondo la collera della quale sono degno, ma secondo la misericordia che è degna di voi, « a causa della vostra bontà, e non a causa dei miei meriti » (S. Agost.). – Il Signore è dolce, perché Egli ha pietà dei peccatori al punto da favorirli con tutte le sue grazie; ma nello stesso tempo Egli è giusto e retto, perché dopo il dono misericordioso della vocazione e del perdono, grazie che essi non avevano potuto meritare, Egli esigerà da loro dei meriti degni del giudizio che Egli eserciterà nell’ultimo giorno (S. Agost.). – La bontà di Dio fa sì che Egli perdoni facilmente: la rettitudine fornisce ai peccatori i mezzi per rientrare nei diritti della giustizia. – Egli è dolce dando gratuitamente la sua grazia, ed è retto nell’esigere il buon uso della grazia che Egli dona; Egli è dolce perché non vuole che noi periamo, Egli è retto perché non dimentica di punirci. Egli è dolce perché è come una madre, è retto perché è come un padre. Egli è dolce per il nostro cuore, è retto per la nostra intelligenza. Egli è dolce perché è la nostra vita, è retto perché è la nostra via. (Hug. Card.). – Mai si devono separare questi due attributi che devono essere presenti nel cuore sia dei giusti che dei peccatori. La sola vista della bontà è capace di portare i peccatori all’impenitenza ed i giusti al rilassamento. La vista della sola giustizia è capace di precipitare gli uni nella disperazione e di diminuire l’umile confidenza negli altri (Dug.). – « Egli dirigerà coloro che sono docili: Egli insegnerà le sue vie a coloro che sono docili », non a coloro che vogliono correre da se stessi in avanti, come se fossero capaci di dirigersi meglio, ma a coloro che non alzano con fierezza la testa e che non si lamentano affatto quando si impone loro un giogo che è pieno di dolcezza ed un fardello che è leggero (S. Agost.). – Dio solo è il maestro dei cuori; Egli ha formato lo spirito ed il cuore dell’uomo, Egli conosce il modo per arrivare a loro, e dirigerli, raddolcirli, ed operare metamorfosi. Egli possiede mezzi all’infinito; ma per essere istruiti da Dio, e fare in modo che divenga efficacemente il nostro maestro, occorre che non abbiamo né orgoglio, né indocilità di cuore. Dio non si rivela che alle anime umili, che il Profeta chiama dolci, perché l’umiltà e la dolcezza sono virtù inseparabili l’una dall’altra.

ff. 11. – Quali vie insegnerà loro se non quella della sua misericordia, che fa che si pieghi facilmente, e quella della sua verità, che fa che Egli sia incorruttibile. Egli ci ha mostrato l’una, perdonando i nostri peccati; Egli ci mostrerà l’altra, giudicando i nostri meriti (S. Agost.). – Se ci sono delle ombre nelle condotte misteriose della Provvidenza di Dio, ci sono anche delle luci; se il velo non può togliersi interamente, Egli può nondimeno dischiuderlo e mostrare a quelli che cercano con ardore di conoscere la legge divina che le vie di Dio sono tutte piene di misericordia e di verità. È a questi che Egli dà a vedere in tutta la sua condotta una economia ammirabile ed una mescolanza tutta divina di questa giustizia e di questa misericordia che Egli esercita sugli uomini, proporzionando i mali ed i beni di questa vita ai disegni di misericordia o di giustizia che ha su di essi.

ff. 12-14. –  L’enormità e la moltitudine dei peccati per coloro che ne hanno un vero pentimento, sono una ragione per sperarne il perdono. Il nome di Dio non è mai tanto glorificato se non con l’esercizio e la manifestazione di questa grande misericordia. « A causa del suo nome » e qual è questo Nome? Il Nome di Gesù. « Voi Gli darete il nome di Gesù, cioè Salvatore, perché è Lui che salverà il suo popolo dai suoi peccati » (Matt. I, 21). – Altri hanno portato questo nome per aver liberato il popolo da una lunga prigionia, o dai pericoli della guerra, o dagli orrori della carestia. Ogni lingua deve confessare che questi è un Salvatore a miglior titolo, perché non viene per salvarci come gli altri, dalle pene o da qualche conseguenza di peccato; Egli viene a salvarci dal peccato stesso, ed estirpando il male fin dalla radice, è il vero liberatore ed il Salvatore per eccellenza (Bossuet, III Serm. Circ.). – « Chi è che teme il Signore »? Domanda giusta e fondata, ma terribile. In effetti ce n’è pochi che hanno veramente questo timore salutare! « Felice l’uomo che ha ricevuto il dono del timor di Dio! Colui che lo possiede a chi sarà comparato? » (Eccli. XXV, 25). – Questa via che l’uomo che teme Dio ha scelto, è lo stato particolare della vita al quale si è determinato, la vocazione speciale alla quale egli ha risposto, il genere di perfezione che ha abbracciato. – Ovunque arrivi, sarà felice, ed i suoi figli gioiranno della medesima gioia, sia in questa vita, sia nell’altra. – Il timore sembra riservato ai deboli e sembra essere l’appannaggio delle persone timide; ma il timore del Signore rende più forti, perché il Signore è il fermo appoggio di quelli che Lo temono (S. Agost.). – Si può essere anche molto versati nella scienza divina, si può aver approfondite le questioni più elevate della teologia, e ciò nondimeno essere lontani da Dio e conoscere molto poco della sua santa legge, di questa conoscenza viva e pratica come la ebbero i Santi che, sotto la guida e la scuola di Dio stesso, ne scoprirono rapporti sconosciuti ai sapienti.

ff. 16-22. –  « I miei occhi sono sempre al Signore; perché Egli liberi i miei piedi dalle reti e dalle trappole ». Sei caduto nelle reti delle avversità? Oh! Non guardare la tua disavventura, né le trappole in cui sei finito; guarda Dio e lascialo fare, Egli avrà cura di te; « … poni il tuo pensiero su di Lui, ed Egli ti nutrirà ». Perché tu vuoi immischiarti nel volere o non volere gli avvenimenti e gli accidenti del mondo? tu non sai ciò che devi volere, e quel che Dio vorrà per te, sempre a tuo vantaggio, e tutto ciò che tu potrai volere senza che ti metta in pena? (S. Franc. De Sales. Tratt. dell’am. di Dio, IX, c. XV). – « Gli occhi del Profeta non si volgono per contemplare ed ammirare il vano spettacolo delle cose nuove; essi non si fermano a considerare la bellezza dei corpi, scoglio frequente del pudore; essi non si lasciano prendere dal lavorio ricercato degli abiti preziosi, dal candore temperato dell’argento, dallo splendore seducente dell’oro, dal vano brillare delle pietre, etc.; ma, in mezzo a tutte queste opere magnifiche, essi si levano fino all’Autore di tutte queste meraviglie » (S. Ilar. Su questo Sal.). – Guardiamo sempre Dio come l’unico dal quale si attende il soccorso. Con questo sguardo, non c’è nessuna trappola da cui non potersi liberare. – Questo è il modello della vera orazione mentale: non si tratta che di girare gli occhi dell’anima, cioè l’attenzione dello spirito e le affezioni della volontà, verso il Signore (Berthier). – Mezzo infallibile per attirare questo sguardo favorevole di Dio, è il riconoscere la propria povertà, il proprio niente, la propria indigenza, la propria debolezza, la propria impotenza per ogni tipo di bene (Dug.). – Io alzo gli occhi verso di Voi, abbassate il vostro sguardo su di me per la vostra misericordia. Il mio dovere è quello di amarvi, a Voi il salvarmi! « Perché io sono solo, unico », conservando l’unità della vostra Chiesa che è unica, che nessuno scisma, nessuna eresia mi possano raggiungere, perseverando nell’unità della fede, della speranza e della carità; perché io sono il vostro povero, che non cerca al di sopra di Voi né l’oro, né l’argento, né i possedimenti, né le ricchezze. Io non mi presumo, non sono gonfio dei miei meriti, ma sono dolce ed umile di cuore e che non cerca nulla se non Voi. Gettate dunque gli sguardi su questo povero solitario ed abbiate pietà di lui (Ruffin, sul salmo). – Siamo ridotti a necessità spirituali, anche dopo che i nostri peccati siano stati perdonati: ancora abbattuti da mortali e perniciosi languori; feriti in tutte le facoltà della nostra anima, svuotati di forze da queste profonde lesioni, noi non facciamo che vani sforzi. Abbiamo mai preso una generosa risoluzione il cui effetto non ci abbia ben presto smentito? Abbiamo mai avuto un buon pensiero che non sia stato contrariato da qualche cattivo desiderio? Abbiamo mai iniziato una azione virtuosa in cui il peccato non si sia come messo di traverso? Si mescolano quasi sempre certi compiacimenti che vengono dall’amor proprio, e tanti altri peccati sconosciuti che si nascondono nelle pieghe della nostra coscienza, che è un abisso senza fondo, impenetrabile a noi stessi (Bossuet, Conc. de la S.te V.). – « Maledetto l’uomo che io sono, chi mi libererà da questo corpo di morte »? la grazia di Dio, per mezzo di Gesù Cristo nostro Signore, che solo ci salva dai peccati, rimettendo quelli commessi ed aiutandoci a non commetterne più, conducendoci alla vita ove non se ne possono più commettere (S. Agost.). – Indirizziamoci a Lui: « Vedete le mie umiliazioni e la mia pena, etc. », c’è una moltitudine spaventosa di nemici che ci circondano e che vogliono perderci. – Di tutti i nemici che ci attaccano, quelli della salvezza sono i più accaniti, i più protervi; l’odio che ci portano è oltremodo ingiusto, perché essi non possono trovare nella nostra perdita altra soddisfazione che la maligna gioia che viene ai malvagi nell’avere dei complici, dei compagni dei loro errori e dei loro tormenti. – Moltitudine non meno grande è quella dei nemici interiori, delle nostre passioni, delle nostre cattive inclinazioni, etc. – Gli innocenti ed i giusti non si congiungono a me con una presenza corporea, come i malvagi; ma essi si legano a me mediante l’accordo intimo dei cuori, fondato sull’innocenza e la giustizia, e questo perché io non sono portato ad imitare i malvagi, ma vi sono rimasto fedele, aspettando la separazione che farete del grano dalla pula nella vostra ultima mietitura (S. Agost.).

SALMI BIBLICI: “DOMINI EST TERRA, ET PLENITUDO EJUS” (XXIII)

SALMO 23: “DOMINI EST TERRA et … plenitudo ejus”

CHAINE D’OR SUR LES PSAUMES

ou LES PSAUMES TRADUITS, ANALYSÉS, INTERPRÉTÉS ET MÉDITÉS A L’AIDE D’EXPLICATIONS ET DE CONSIDÉRATIONS SUIVIES, TIRÉES TEXTUELLEMENT DES SAINTS PÈRES, DES ORATEURS ET DES ÉCRIVAINS CATHOLIQUES LES PLUS RENOMMÉS.

[I Salmi tradotti, analizzati, interpretati e meditati con l’aiuto delle spiegazioni e delle considerazioni seguite, tratte testualmente dai santi Padri, dagli oratori e dagli scrittori cattolici più rinomati da …]

Par M. l’Abbé J.-M. PÉRONNE,

CHANOINE TITULAIRE DE L’ÉGLISE DE SOISSONS, Ancien Professeur d’Écriture sainte et d’Éloquence sacrée.

TOME PREMIER.

PARIS

LOUIS VIVES, LIBRAIRE-ÉDITEUR RUE DELAMMIE, 13

1878

IMPRIM.

Soissons, le 18 août 1878.

f ODON, Evêque de Soissons et Laon.

PSALMUS XXIII

[1] Prima sabbati. Psalmus David.

   Domini est terra, et plenitudo ejus;

orbis terrarum, et universi qui habitant in eo.

[2] Quia ipse super maria fundavit eum, et super flumina praeparavit eum.

[3] Quis ascendet in montem Domini? aut quis stabit in loco sancto ejus?

[4] Innocens manibus et mundo corde, qui non accepit in vano animam suam, nec juravit in dolo proximo suo.

[5] Hic accipiet benedictionem a Domino, et misericordiam a Deo salutari suo.

[6] Hæc est generatio quærentium eum, quærentium faciem Dei Jacob.

[7] Attollite portas, principes, vestras, et elevamini, portæ æternales, et introibit rex gloriæ.

[8] Quis est iste rex gloriæ? Dominus fortis et potens, Dominus potens in prælio.

[9] Attollite portas, principes, vestras, et elevamini, portæ æternales, et introibit rex gloriæ.

[10] Quis est iste rex gloriæ? Dominus virtutum ipse est rex gloriæ.

[Vecchio Testamento secondo la Volgata Tradotto in lingua italiana da mons. ANTONIO MARTINI Arciv. Di Firenze etc.

Vol. XI

Venezia, Girol. Tasso ed. MDCCCXXXI]

SALMO XXIII

Il salmo è sulla ascensione di Cristo. I Greci hanno aggiunto il titolo: pel primo giorno della settimana, forse perché si cantava in quel giorno (che noi diciamo domenica).

Salmo di Davidde pel primo giorno della settimana.

1. Del Signore ell’è la terra, e tutto quello che la riempie; il mondo, e tutti i suoi abitatori.

2. Imperocché egli la fondò superiore ai mari, e al di sopra dei fiumi la collocò.

3. Chi salirà al monte del Signore o chi starà nel suo santuario?

4. Colui che ha pure le mani e il cuore mondo, e non ha ricevuta invano l’anima sua, e non ha fatto giuramento al suo prossimo per ingannano.

5. Questi avrà benedizione dal Signore, e misericordia da Dio suo Salvatore.

6. Tale è la stirpe di coloro, che lo cercano, di coloro che cercano la faccia del Dio di Giacobbe.

7. Alzate, o principi, le vostre porle, e alzatevi voi, porte dell’eternità; ed entrerà il Re della gloria.

8. Chi è questo Re della gloria? il Signore forte e potente, il Signore potente nelle battaglie.

9. Alzate, o principi, le vostre porte, e alzatevi voi, porte dell’eternità; ed entrerà il Re della gloria.

10. Chi è questo Re della gloria? il Signore degli eserciti egli è il Re della gloria.

Sommario analitico

Davide in questo salmo che egli compose per il trasporto dell’arca dalla casa di Obededon alla montagna di Sion, descrive con linguaggio poetico l’Ascensione del Signore nell’alto dei Cieli e la sua entrata trionfale nel suo reame; nel senso spirituale, l’entrata di Gesù Cristo nelle anime mediante la sua grazia. Vi sono in questo salmo come tre parti che esprimono i tre regni di Dio: il suo regno nella natura, il suo regno nell’economia della grazia, il suo regno nella gloria. Il Re-Profeta dichiara che la gloria di cui è stato coronato Gesù Cristo nella sua Ascensione è dovuta a tre titoli:

I) – come Creatore e Padrone assoluto dell’universo:

1° della terra, di tutto ciò che essa contiene, e di tutti coloro che la abitano (1);

2° della stabilità della terra che Egli stesso ha fondato sui mari ed elevata al di sopra dei fiumi (2).

II) – In ragione della sua innocenza e della sua santità; dopo aver assegnato il termine del trionfo: il cielo che designa sotto il nome della montagna del Signore e del suo luogo santo (3), Egli indica le quattro virtù principali che sono come le quattro ruote del carro trionfale che Lo conducono verso il cielo:

1° l’innocenza delle opere;

2° la purezza del cuore;

3° il fervore dell’anima nella pratica di tutte le virtù;

4° la moderazione e la sincerità della lingua e dei discorsi (4).

Ecco colui che riceve la benedizione di Dio per sé, e la misericordia per i suoi membri, affinché essi cerchino il Signore, Lo amino e desiderino vederlo (5, 6).

III) – Come vincitore e trionfatore:

1) Egli descrive il santo giubilo degli Angeli e dei cittadini del cielo nel riceverlo (7); 2) descrive Se stesso trionfante, splendente di gloria, con davanti al carro i nemici sui quali ha trionfato e di cui si è coperto delle spoglie sottratte nel combattimento (8-10).

Spiegazioni e Considerazioni

I. — 1, 2.

ff. 1. – « Al Signore appartiene la terra e quanto essa contiene ». – « O Israele – esclama il profeta Baruch – quanto è grande la casa di Dio, e quanto sono vasti i luoghi che possiede! Egli è grande, non ha fine; Egli è elevato, immenso » (III, 24). – Dopo che il chierico ha fatto la sua pubblica professione di fede nelle mani del Vescovo, ed ha scelto il Signore come sua parte, la Chiesa gli risponde ad alta voce con questo bel cantico di Davide, come se gli dicesse: « È con grande ragione che voi confidate in Dio; voi potete ben rimettervi nelle sue mani e contentarvi della vostra parte, perché il Signore che voi avete scelto come eredità, è il sovrano padrone della terra e di tutto quanto essa contiene (Olier, Traité des Saints Ordres). – « La terra è del Signore », nonostante gli uomini vogliano rendersene padroni. Egli dà a ciascuno di essi qualche porzione di questa terra, per coltivarla e raccoglierne i frutti, ed essi pretendono di esserne i proprietari assoluti. – Non contenti di quanto loro assegnato, cercano di impossessarsi della parte degli altri. – « Tutti quelli che abitano la terra sono del Signore », ed essi vogliono essere di se stessi, vivere per sé, non pensare che a sé, lavorare solo per sé (Duguet). –

ff. 2. – Gli uomini non costruiscono che sulla terra ferma; Dio ha stabilito i fondamenti dell’universo sui mari e sui fiumi, prova eclatante della sua onnipotenza, che ha fatto stabilire e riposare sulle acque la base ed il fondamento di una massa così prodigiosa come la massa della terra. – Egli non gli ha voluto dare altro fondamento che le acque, per far conoscere che essa dipende sempre da Lui nel suo appoggio, e far comprendere così a tutti gli uomini che essi dipendono dalla sua mano, e che la terra che li sostiene, senza il suo soccorso, si inabisserebbe nelle acque (Olier). I palazzi magnifici costruiti dalla mano dell’uomo su solidi fondamenti, crollano e rovinano, ma la terra, fondata sulle acque, resta sempre ferma. – Dio ha stabilito la Chiesa sulle acque, cioè sul Sangue di Gesù Cristo, sulle acque del Battesimo, sui fiumi dei Sacramenti, di tutte le grazie e di tutte le consolazioni spirituali.

II — 3-6.

ff. 3. –  Siccome è piccolo il numero di quelli che salgono sulla montagna del Signore, il Re-Profeta ha ragione di porre questa domanda: « Chi salirà etc. …? », come se dicesse: non sarà affatto il primo venuto, colui i cui costumi sono comuni e volgari, ma colui la cui vita presenta un meraviglioso concentrato di tutte le virtù (S. Ambr.). – Ci possono essere molti che salgono; ma tenersi sulla montagna santa è appannaggio di un piccolo numero, di coloro che sono perfetti. Quanti sono saliti, ma in seguito non sono tornati indietro. Chi dunque potrà resistere senza esporsi alla caduta ed a ritirarsi nel giorno della tentazione? (Ruffin.).

ff. 4. –  Essere puri significa essere senza compromessi, semplice come la luce, trasparente come il cristallo, limpido come l’acqua della roccia, affrancato dalla materia, come l’idea pura del vero, del bene, del bello. Lungi da noi quindi le tenebre, il peccato; lungi da noi tutto ciò che teme lo splendore dell’anima ed offusca la limpidezza del suo sguardo; lungi da noi gli attaccamenti, le affezioni, benché legittime in se stesse, perché possono ritardare lo slancio della nostra anima verso Dio. Così intesa, la purezza, è la castità, la verginità, l’amore santo della Verità eterna, è il matrimonio mistico del cuore e della divina saggezza, è una partecipazione di questa unione ineffabile che esiste al cuore di Gesù tra la sua anima umana ed il Verbo divino (Mgr. Baudry, Le Coeur de Jésus). – Ma chi potrà glorificarsi di aver le mani innocenti de il cuore puro? Nessuno è esente da peccati, nemmeno il bambino che ha vissuto solo un giorno sulla terra. Pertanto non ce n’è che uno innocente tra i colpevoli, uno tra gli impuri, vivo in mezzo ai morti, ce n’è uno e non ce ne sono altri. È Colui di cui leggiamo nel III capitolo di San Giovanni: « Nessuno è salito in cielo se non Colui che è disceso dal cielo, il Figlio dell’Uomo, che è nel cielo ». Le sue mani erano innocenti, perché Egli non ha commesso peccato; ma dopo aver operato una moltitudine di buone opere, poteva dire apertamente ai Giudei (Giov. VIII, 46): « Chi di voi può convincermi di peccato? » (S. Bern. Sur le Ps. XXIII). – « Colui che non ha ricevuto la sua anima invano »; Chi non ha confidato nella sua anima nel numero delle cose passeggere, e che, sentendola immortale, ha voluto prepararle una dimora immortale; colui che non ha seguito la vanità, la vanagloria, il fasto, l’orgoglio che gonfia senza riempire, la menzogna che è opposta alla verità; colui che non ha ricevuto la vita inutilmente ma che si è esercitato nella pratica delle buone opere per raggiungere il fine per il quale era stato creato, cioè la beatitudine eterna (S. Agost.). Ogni uomo che vive senza produrre dei frutti, ha ricevuto invano la sua anima. Coloro ai quali il Padre di famiglia diceva: « … perché ve ne state tutto il giorno senza far nulla? » avevano ricevuto la loro anima invano. Bisogna vivere in modo da poter dire con San Paolo: « è per grazia di Dio che io sono ciò che sono e la sua grazia non è stata vana in me » (I Cor XV, 10); e con il servo buono: « Signore, voi mi avete dato cinque talenti, ecco io ne ho guadagnati altri cinque » (Matt. XXV, 20). – A maggior ragione, colui che, per sua vocazione, è una delle principali parti di questa Chiesa, che Gesù Cristo vuole presentare a Dio tutto pura e senza rughe, senza avere nulla dell’uomo vecchio, santo e senza alcuna macchia; a maggior ragione egli deve essere innocente nelle sue opere e puro nel suo cuore. – È d’obbligo rinunziare completamente a tutte le vanità del mondo e ai suoi piaceri, se non si vuole aver ricevuto invano la sua anima. Tutto il suo dovere, tutto il suo oggetto, tutta la sua natura, è quello di attaccarsi agli interessi di Dio e del suo culto, che Gesù Cristo stesso chiama Verità: carità perfetta verso i propri fratelli, che evita tutte le parole piene di artifizi, gli abili giri di parole, le menzogne confermate da giuramenti; ecco i pensieri, le parole, le azioni rettificate, e tutto l’uomo preparato per la santa montagna di Dio.

ff. 5, 6. –  La benedizione del Signore, è principio di ogni bene; la benedizione del Salvatore, è principio di tutte le misericordie che si ottengono da Dio. – Il Re-Profeta ha chiesto al singolare « chi salirà sulla montagna, etc. », ed ha risposto egualmente al singolare: « colui le cui mani sono innocenti, etc. »; poi in seguito dice al plurale « … questa è la generazione di quelli che lo cercano ». Egli non parla inizialmente che di uno solo: « è colui che riceverà, etc. »; ma egli intende ora questa benedizione su tutta una generazione, aggiungendo: « Tale è la generazione di coloro che lo cercano », affinché in questo solo uomo di cui ha parlato all’inizio, non intendiate la singolarità della persona, ma l’unità di spirito. Poiché Egli è lo sposo, e la Chiesa la sua sposa, e noi sappiamo che ha detto: « Non sono più due, ma una sola carne » (Gen. II 2, 4; Efes. V, 31). Questi dunque salirà per ricevere la benedizione, ma con Lui, o piuttosto in Lui salirà colui che ha ricevuto da Lui la benedizione. È ciò che il Re-Profeta dice altrove (Sal. LXXXIII, 6) « il sovrano Legislatore li colmerà di benedizioni; essi andranno di virtù in virtù, essi contempleranno il Dio degli dei in Sion » (S. Bern.). – Altro è la generazione e l’inclinazione naturale degli uomini come figli di Adamo, altro sono le loro inclinazioni, i loro umori, il loro genio, come Cristiani e come figli di Dio. « Ecco la generazione di Adamo », dice la Scrittura, riferendosi alla discendenza della posterità del nostro primo padre; e ben presto questa generazione dimenticherà Dio e si abbandonerà all’idolatria e a tutti i vizi. Non è lo stesso della generazione di cui Gesù Cristo è il Capo, « essa cerca sinceramente Dio, essa cerca la faccia del Dio di Giacobbe », espressioni che sottolineano una continuità di desideri, di impressioni, di lavori, e non solo degli sforzi passeggeri, degli eccessi, se così si può parlare, di pietà e di regolarità (Berthier).

III. – 7-10.

ff. 7-10. –  Porte del cielo aperte a Gesù Cristo, e che Lui stesso ha aperto agli uomini, e che il peccato di Adamo ed i peccati propri avevano chiuse. – Cuori dei Cristiani, porte dell’anima chiuse da lungo tempo a tutti i movimenti di grazia, apritevi infine al Re della gloria, che bussa e che vi dice (Apoc. III, 20): « Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, Io entrerò in lui, e cenerò con lui e lui con Me » ( Dug.). – L’entrata del chierico nella Chiesa, che è il paradiso della terra, è comparato all’entrata gloriosa di Gesù Cristo in cielo nel giorno della sua Ascensione (Olier.). – Cuori induriti, ai quali bisogna spesso ripetere la medesima cosa per obbligarli ad arrendersi, porte aperte a tutte le vanità del secolo, alla falsa gloria del mondo, non vi aprirete mai al Re della vera gloria? Non chiedete più chi sia il Re della gloria, di cui parlate così spesso: è Gesù Cristo umiliato, è Gesù Cristo povero, sofferente e morto sulla croce, che è diventato, proprio per questo, il Re della gloria, e che ci grida che noi non entreremo mai nella sua gloria se non per gli obbrobri, le umiliazioni e la croce (Duguet).

LE BEATITUDINI EVANGELICHE (-8B-)

LE BEATITUDINI EVANGELICHE (- 8B-)

[A. Portaluppi: Commento alle beatitudini; S.A.L.E.S. –ROMA, 1942, imprim. A. Traglia, VIII, Sept. MCMXLII]

CAPO OTTAVO

Beati qui persecutionem patiuntur propter justitiam: quoniam ipsorum est regnum cælorum.

[Beati i perseguitati]

IV

LA VITA RELIGIOSA ODIATA DAL MONDO

FAMIGLIA CRISTIANA

Le vie della salvezza sono molte. Ogni forma e grado di vocazione al servizio di Dio è strada che mena al Cielo. Dio tutti quanti arricchisce dei suoi beni coloro che gli si accostano quaggiù con l’intenzione di essere pronti al suo comando. Non è Egli il distributore della felicità e la sorgente d’ogni gaudio? Qui offre i saggi, lassù, poi, conferisce il pieno godimento dei suoi doni. Basta osservare la famiglia cristiana. È lo spettacolo più attraente e ricco di commozione. Poiché tu vi vedi l’amore nelle sue forme più varie, con le età diverse, i compiti più disparati, le delicatezze che fanno sentire a chiunque la forza della religione cristiana sulla condotta. Fedeltà, che non subisce ombra di seduzione; carità dell’uno verso l’altro; come cosa normale e piacente, più d’un servizio ottenuto, il servigio offerto; gioia scoppiarne dai volti sereni e volontari, perché sempre tesi verso il piccolo o grave dovere. Parlare improntato alla naturalezza semplice e spontanea; godere senza ansietà o foga, lavoro e diporto, sempre come dovere e diritto della vita, senza un pensiero di stanchezza per il primo o di abuso per il secondo. E poiché tutto si svolge in armonia con la divina legge, anche i corpi sono di solito sani. La salute dei grandi è assicurata dalla frugalità, quella dei piccoli dall’obbedienza; quella di tutti dal costume semplice e devoto alla legge austera del vivere a servizio del Signore. La sobrietà sostiene le energie d’ognuno, poiché chi è padrone della gola rinvigorisce la volontà e così raddoppia le forze morali. La delicatezza, che sveglia la sensualità, è cagione di molti disordini e morali e fisici. Tu sai leggere negli occhi, che irraggiano, in codeste famiglie nutrite di Dio, la intima pace nell’equilibrio dei sentimenti e nella intera soggezione al precetto divino. Ma avverti altresì, che sovente accanto a queste vivono le famiglie disordinate e senza legge. Forse che possono esse tollerare il contrasto che le umilia e le urta? Ed eccole in armi per diffamarle, per destare contro di loro il malumore, per dipingerle come singolari e ipocrite e, insomma, meritevoli dell’ostracismo. E spesso anche persone non pessime si accodano a codeste per giustificare la persecuzione contro i buoni, che sono sempre luce fastidiosa all’occhio malato.

CHIAMATE ALL’ALTO

Se poi passiamo dalla onestà familiare alla vita religiosa ed ecclesiastica, scorgiamo anche meglio l’intolleranza del maligno, che rimarrà sempre terribilmente seccato dalla virtù. Si osservi, che le vocazioni ecclesiastiche o religiose comunemente sbocciano dalle famiglie cristiane migliori. Le eccezioni ci sono, ma non sono frequenti e indicano piuttosto una sorta di prodigio che avviene nella coscienza illuminata dallo Spirito Santo. Bisogna riconoscere, che la vocazione spesso anche nelle migliori famiglie desta una preoccupazione avversa. Ma se in questa è per il timore dell’illusione e dell’errore forse irreparabile, nelle altre l’opposizione nasce da ragione d’interesse, come la volontà di guadagno, la speranza di avere nel figlio o nella ragazza un appoggio per la vecchiaia, la vanità e la ambizione, forse anche, d’un buon partito e di avanzare nella scala sociale. L’opporre qualche difficoltà è cristiana prudenza e mira a provare la sincerità della vocazione; ma l’insistenza e l’uso delle forme violenti sono sommamente riprovevoli. Tradiscono infatti la concezione mondana della vita e l’antipatia per queste schiere di anime, che nella Chiesa stanno dal principio della sua storia come strumenti insostituibili a beneficio dell’umanità. Il loro sacrificio infatti è condizione di innumerevoli vittorie dell’opera di Dio. Non si può pertanto ammettere, che un Cristiano sincero opponga resistenza insormontabile ai propri figli, chiamati a dare un così ambito contributo di attività a servizio della Chiesa. – Non il loro amore verso la famiglia s’è spento, ma è venuto ad accendersi un nuovo amore grande per Gesù e per il prossimo. E i figli e le figlie offerti a Dio rimarranno i più disinteressati, tenaci e fedeli nella loro dilezione alla famiglia abbandonata. Oltre a questo, solo essi le daranno il frutto delle loro fatiche, sovente misconosciute e negate, e rappresenteranno la più sicura benedizione. – Il celibato e la verginità, l’apostolato della intelligenza o la carità dei corpi, la dedizione a prò delle vite menomate e inferme, dei deficienti e minorati dalla nascita, sono le prove della vocazione. Ma la radice di essa non è quella che talvolta muove gli spiriti comuni: la pietà verso la miseria umana, la compassione per la disgrazia fisica o spirituale; bensì l’amore di Dio. Soltanto se vibra questo unico sentimento si ha l’energia dell’eroismo. Il quale non ha da fare nulla con quello umano, che dura un attimo e che sa talora più di disperazione che di vera forza, ma l’eroismo della vita eterna. L’eroismo d’ogni giorno d’ogni ora, d’ogni anno sino alla morte.

OLOCAUSTO

Vuoi sentire da una di codeste anime la commozione che la portò alla offerta libera della vita? Leggi santa Caterina da Genova, una patrizia, che conobbe il fasto, ma che seppe anche scoprire l’oggetto dell’amore eterno. – « O anima felice, anima beata che hai gioito di questo amore; tu non puoi più gustare né vedere altra cosa, poiché questa è veramente la tua patria per la quale fosti creata! O dolcissimo amore, sconosciuto, chiunque t’ha gustato non può vivere senza di te! O uomo! Tu, che sei creato per questo amore, come mai potrai contentarti senza questo amore? come essere in riposo, come vivere? Tu trovi in esso tutto ciò che puoi desiderare e con una soddisfazione tanto grande che è impossibile esprimerla né figurarsela. Colui che saprà esprimere bene il sentimento d’un cuore scaldato dall’amore di Dio farà sciogliersi o spezzare gli altri cuori, fossero essi più duri del diamante e più ostinati del demonio ». (Dialoghi., II, 4). È per questo, che le loro opere sono tutta fiamma di carità, tutto splendore di bellezza, e candore di semplicità trasparente e ingenua, giacché nulla hanno da nascondere né da sofisticare. Le opere sono l’espressione irrompente dell’amore più alto, più santo, dell’unico grande amore. Né stupisce allora l’odio con cui satana li perseguita. Ma non avvenga, che Cristiani fedeli si lascino travolgere da istinti umani, non illuminati dalla fede, a contrastare la vocazione. Bisogna saperla difendere, riconoscerla ed esaltarla. Se il caso lo impone, metterla in valore e farne risaltare i meriti religiosi e sociali; essa è una forma comune di incarnazione di Dio, che si ripete nei secoli cristiani a redenzione dell’umanità sempre miserabile e sviata. È il mezzo con cui Cristo riscatta via via la schiava, che misconosce la sua libertà e la vende e prostituisce per un nulla, che sono tutte le soddisfazioni del peccato. La beatitudine di questi eletti comincia subito ora, è un compenso immediato, un premio che noi constatiamo con i nostri occhi. Ma poi li vedremo coronati di gloria e colmati di felicità. Accanto al Martire della giustizia per tutti i secoli. Neque esurìent, neque sitient amplius, nec cadet super illos sol, neque ullus æstus (Apoc, VII, 16). Non proveranno più la fame, né la sete, non sentiranno più l’ardore del sole, né alcuna intemperia ».

V.

PREPARARE I GIOVANI

A BATTERE LA LORO STRADA

Non educate i figli ad alcuna forma di viltà. Questa « beatitudine » dice come si debba essere beati quando s’è presi di mira da una ingiusta persecuzione. L’amore delle giustizia prepara anche codeste sorprese, che poi si risolvono in benefici preziosi e augurabili.

L E STRADE OVATTATE E SICURE

È forse raro il caso di genitori i quali hanno troppa cura di preparare ai loro figlioli tutte le strade ovattate e scevre da fatiche e da inciampi? E notisi, non perché occorra cercarli o provocarli, dato che ve n’ha molti, e vengono da sé; ma per la estrema paura d’ogni disagio e delle più piccole privazioni o rinunce. Devono, secondo il loro modo di concepire la vita, passarla liscia liscia, senza scosse; e a qualunque costo. Ma per garantirsi questa immunità, i buoni genitori non si peritano di acconsentire a compromessi e di indurre i figli ad accettarli sempre che si possa, senza altre compromissioni maggiori. Una tale educazione è errata alla partenza, come già sopra s’è varie volte prospettato. È l’educazione alla paura, alla viltà. Il giovane formato a siffatto metodo di vita, per cui debba calcolare il danno o il vantaggio per giudicare la moralità d’un’azione, sarà uno schiavo, uno spregevole servitore del violento. Anche se farà la posizione agognata, non potrà godere la stima di alcuno (neppure dei suoi padroni), né avrà la coscienza in pace, poiché la vergogna della sua condizione morale lo farà abbietto a se medesimo. – La teoria della soggezione al più forte non è stata insegnata da Cristo. L’evitare i fastidi, le « grane » a tutti i costi, non avvia un giovine sulla strada dell’onore. Ma non devesi mai credere sulla parola colui, che non vi è coerente nell’azione. Mille volte un pane guadagnato a frusto a frusto, che una propina lauta e fastosa, a prezzo della dignità. Se non che il mondo ragiona diversamente; e noi non abbiamo che a tenerne conto, non per compatirlo o seguirlo, ma per giudicare con criteri opposti.

ABITUDINI DI VILTÀ

Una delle forme di soggezione ispirate dalla viltà, consiste nell’adattamento al gergo e alle abitudini di servilismo, che fanno strada nel mondo. Il sacrificio della naturalezza, della spontaneità è un segno evidente di rinuncia e di servilità. Il giovine non ama questi atteggiamenti artificiosi. Egli sente piuttosto piacere ad affermare le sue qualità peculiari, che a farne sacrificio per ottenere protezione o benevolenza. Preferisce la manifestazione spontanea del tipo suo e del suo criterio di vita conforme alla educazione del Vangelo. « Sì, sì, no, no ». Tutto quello che non è in questi termini è per il giovane almeno sospetto d’inganno. Ed egli, poco esperto delle abitudini della vita mondana, ne nutre schietta ripugnanza. Bisogna preparare i giovani alla naturalezza, tanto simpatica; alla chiarezza di espressione e all’affermazione, modesta e misurata fin che si vuole, ma aperta e senza doppiezze. Né questo è singolarità. La legge dell’ordine e della dignità appare presente di continuo nella storia umana, e con Cristo è diventata il patrimonio di tutti i suoi veri seguaci. La persecuzione non ha peso nel conflitto fra la giustizia e l’interesse materiale. Vorrei dire, che colui il quale ama la giustizia ha gusto di trovare malagevole la strada che ve lo conduce. È il piacere dell’amore difeso e onorato; è la soddisfazione di vedersi la meta agognata; e il premio antecedente la stessa vittoria. I giovani sani entrano facilmente in questo criterio e giudicano secondo una vena di moderato eroismo e di ragionata ostentazione. Nutrono un chiaro disprezzo della persecuzione, come mezzo di sopraffazione della giustizia. Ed è testimonianza della rettitudine di quelli i quali non sono ancora compromessi con il male. I giovani appaiono il documento vivo delle tendenze della natura ed essi ci si presentano piuttosto con carattere di indipendenza e di una spiccata personalità. Poi le circostanze vengono ad attenuare e tanto spesso anche a soffocare l’impulso alla spontanea affermazione di essa. Occorre pertanto, che i genitori e gli educatori si guardino dell’insegnare ai giovani la strada delle timidezze e dei compromessi. Che cosa può essere per loro di maggiore soddisfazione, che degli allievi capaci di guardare la vita in faccia e di affrontarne le difficoltà con animo generoso? Naturalmente per questo necessita la disposizione di sopportare sovente anche il danno. O forse una tale prospettiva deve intimidire un animo cristiano? Non posso vincere la tentazione che mi prende di citare una pagina biografica di Newman, per dimostrare come fosse la sua linea spirituale. Essa portava in sé tanto fermento di quelle novità, le quali ebbero benefico influsso nella sua patria e fuori. La cito per mostrare quanta fosse la semplicità di questa grande anima. Essa fu ben lontana dall’equilibrarsi e dalle decisioni diplomatiche proprie degli spiriti angusti e divorati dall’ambizione. Osservate attentamente dove si appiatti la sollecitudine di far bella figura e di adattarsi, di proporzionarsi, e di conquistarsi il buon nome e le riverenze. « Chiunque — scrisse l’indomani della morte del cardinale uno dei suoi amici più intimi — chiunque ha seguito con attenzione la carriera del Newman, ha dovuto sentirsi colpito da questo tratto del suo carattere, la naturalezza, la viva e libera semplicità con la quale egli parlava ad un amico o esprimeva la sua opinione, l’assenza di ogni sorta d’affettazione e di formalismo. Doveva talvolta, per necessità, portare le insegne della sua dignità (negli anni della sua maturità era cardinale); si poteva scorgere insieme la piena obbedienza all’autorità che gli imponeva la porpora, ma anche la sua impazienza sorridente, per vedersi vestito di tanta maestà. Non accoglieva come amici particolari se non coloro con i quali potesse (come si dice) parlare in manica di camicia; e giudicava con severità un amico troppo cerimonioso e formalista. Tutto ciò che avesse un sapore di unreality, ogni pomposità, solennità di portamento, affettazione, lo impazientava. Ma più che tutto lo disgustava quando lo si faceva oggetto d’una ammirazione beata. Lui, un eroe, un profeta; la sola idea lo faceva andar fuori dai gangheri ».

INCOMPRENSIONE NEI FELICI

Come accadde, tale atteggiamento gli procurò fastidì e incomprensioni. Ma non è anche questo affrontare in qualche senso la persecuzione per amore di giustizia? Davanti agli esempi, che poi nella vita appaiono ripugnanti, di ricerca della simpatia, dell’ossequio e della popolarità a qualunque prezzo, questo criterio di condotta è veramente evangelico ed anche perciò sommamente imitabile. Una dama, con la quale egli aveva scambiato qualche lettera, venne a visitarlo a Oxford, mentre era ancoa anglicano. Ne fu delusa e ne scrisse in tono modesto a Newman, come « per raggiustare i lembi del suo sogno », dice Bremond nella meravigliosa biografia psicologica del grande uomo. Ecco la risposta. « Quanto a me. siate sicura che, se voi tornerete a vedermi, tutto sarà esattamente come l’altro giorno. Io non sono affatto, ma niente affatto venerabile e nulla mi può rendere tale. Io sono come sono. Somiglio a chiunque altro, e, dove non ci sia male, non ho ragione per astenermi da pensieri e da sentimenti uguali a quelli di chiunque. Io non posso parlare come un libro, ciò che qualcuno fa senza sforzo. Non fatevi delle idee e sbagliate sul conto mio. Chiunque mi conosce, non sogna neppure di soffocarmi con segni di ossequio e di deferenza. È il mio desiderio più caro e la mia supplica, che nessuno mi tratti così. Non fui mai su un piedistallo, né ho mai ricevuto inchini. Non li potrei tollerare. Per dire tutto, io ho la debolezza di ricevere duramente coloro che a me vengono con un atteggiamento di deferenza ». E questo, se sa un poco dell’orso, quanto insegna ad un mondo che affoga, non dico nelle dichiarazioni di quel rispetto che è d’uomini consapevoli dei rapporti sociali, ma nelle esaltazioni, ipocrite e nelle corrispondenti dimostrazioni di soggezione, che dicono spesso perfettamente il contrario di ciò che è dentro l’animo. Sicché « beati i perseguitati per amore di giustizia » e di verità. Beati quelli i quali sopportano volontariamente il peso della loro sincerità e della semplicità del loro costume; quelli che dicono ciò che hanno dentro, che fanno ciò che il dovere e come il dovere impone; ma che insieme sono soddisfatti del frutto della fatica, senza enfasi, smorfie e viltà. E non sarà dunque lecito ripetere: « Beati i perseguitati » anziché i fortunati? Con questi è il mondo in tutte le sue forme basse e piccine, con quelli è il Vangelo di Cristo Signore, che fu il vessillifero d’ogni schiettezza, il nemico d’ogni ipocrisia. Che egli salvi i suoi dall’inganno del formalismo. Nei rapporti sociali essi siano maestri di semplicità e di sarà  verità a servizio della carità.

VI.

SARÀ IN CIELO LA PIENA BEATITUDINE

GRAZIE AL MEDICO DIVINO

Tutte le considerazioni venute su dal cuore e distese in queste rapide pagine, sincere fino all’evidenza, hanno un valore relativo. Che cosa miriamo con esse, se non a temperare un’arsura, ma senza l’illusione di soddisfare la nostra sete? – È pertanto una sorta di ricerca di calmanti, che sappiamo essere effimeri, questo nostro sforzo. Non rimane tuttavia senza effetti promettenti. Il dolore attenuato non affatica troppo, non stanca, non arresta la salita della vita. E il calmante consente di arrivare alla meta. Ciò che importa è la natura della medicina. Non deve essere per altre vie nociva. Ma se davvero sana è, se è fatta di ingredienti utili e combinati abilmente, così da conservare le proprietà iniziali e da concordare ciascuna al comune scopo, siano benedetti la medicina e il chimico, che l’ha spremuta dal suo ingegno. Non possiamo noi pertanto ringraziare il Signore Gesù? – Le « Beatitudini », riferite da Matteo nella forma compiuta e che io ho preso a meditare, sono il calmante e la medicina prodigiosa, che il Cuore di un Dio fatto nostro fratello, ci ha ammannito come mezzo di energia e di saggezza, nella vicenda di questa nostra esistenza, dove si incontrano fattori di bontà, di bellezza, di gioia e di incoraggianti promesse, insieme ad elementi purtroppo deprimenti, sconfortanti e talora disperanti. Queste otto parole del Signore ci furon date a tale fine, di renderci il peso leggero e la soddisfazione sufficiente, di svelare il pericolo per farci atti a superarlo felicemente, di rafforzare la nostra resistenza per andare incontro a tutte le forme del dovere senza sbandare dalla paura, dall’incertezza o dal panico fatale. L’averle meditate e studiate lungamente, sotto i diversi aspetti, che la vita nostra di questa epoca singolare ci offre, ne ha certo rivelato un succo di salute, di forza e di costanza. Sentiamo, spero, che non siamo esseri sperduti su questo pianeta, per la crudeltà d’un Creatore insensibile alle nostre difficoltà c alle debolezze della natura. Avvertiamo, al contrario, di essere vigilati assistiti carezzati da un occhio attento benevolo e amoroso. Sappiamo chiaramente e sicuri, che quest’occhio è guidato da un cuore sommamente buono e caritatevole, da una volontà potente e decisa di plasmare gli stessi esterni avvenimenti secondo un piano di benevolenza paterna.

ALLE EDUCATRICI

Non posso nascondere un’altra circostanza riguardante la nascita di questo libretto. Esso fu scritto per invito della Presidenza dell’Unione Donne di Azione Cattolica. Benché lo svolgimento non abbia rispettato i limiti intesi da essa, il mio intento di somministrare alle Donne della nostra amata Patria un sussidio, pur tenue, per aiutarle nel compimento della loro missione mi pare in certa misura raggiunto. Ho avuto sempre davanti agli occhi questa donna italiana. Essa ha il merito di conservare nel mondo il primato della religiosità familiare e della morale cristiana. Di essa possiamo concepire le speranze migliori per l’avvenire, poiché nella sua grande maggioranza si mantiene salda e compatta intorno ai principii di vita emananti dal Vangelo e che ci vengono inculcati dalla nostra Madre Chiesa. L’essere la nostra la famiglia più prossima alla Sede del Vicario di Cristo, ne fa quasi un vessillo e un emblema che Egli possa talvolta mostrare al mondo. Voglia Iddio, che essa perseveri e migliori su questa sicura strada, collaudata dai secoli e benedetta da Dio. La tradizione cattolica della famiglia, checché se ne dica, all’eco di certi pregiudizi, che traversano i tempi ma non intaccano la verità, è la più aderente al pensiero di Cristo, dalla Chiesa conservato puro e intatto. L’unica Nazione al mondo, forse, nella quale il divorzio non ebbe il più modesto successo, fa onore alle sue donne e queste la onorano. [Purtroppo questo primato è stato perduto vergognosamente per l’opera ed il contributo dei cani muti, delle jene vestite da agnelli, i falsi prelati massoni della quinta colonna infiltranti la Chiesa ed usurpanti cattedre e istituti religiosi, che hanno minato dalle fondamenta il tempio cattolico morale e dottrinale italiano e mondiale, travolgendo donne e famiglie in primis … alberi marci dai frutti bacati e corrotti, servi dell’anticristo insediati nei sacri palazzi dell’urbe …- ndr. -]. Esse sono eccellenti per la robustezza del buon senso, che respinge, nel suo insieme, la procacità di mode straniere; per la serietà dell’amore alla casa, curata nel casto solco dei più austeri principii; per il culto della Religione, nella quale essa trova il sostegno massiccio e lo stimolo acuto per ogni dovere; per la sodezza del metodo educativo, sicché i figli loro, nonostante tutte le deficienze, crescono in un ambiente di sano amore, di rispetto scrupoloso, di austerità serena e parca ad un grado unico. A codeste donne, spose e madri o educatrici che siano, questo libretto sulle « Beatitudini » è dedicato. È scritto per esse. Venne steso con l’occhio di continuo fisso su di loro, come per scoprire i rapporti, i richiami, gli echi che dalla mirabile pagina del Vangelo passano alle guide della nostra gioventù. Talvolta l’argomento ha costretto lo scrittore a indugiare su temi particolarmente vasti e implicanti fenomeni più sociali, che familiari; tuttavia anche queste pagine offriranno all’occhio attento e allo spirito accorto della lettrice, posata e lenta, lo spunto personale atto a svegliare in cuore una sollecitudine rilevante e opportuna. Il cuore sovrattutto avrà modo di trasalire talvolta e di sentirsi tutto preso, in talune considerazioni, dove la responsabilità della educatrice risulta maggiormente impegnata. Anche i punti scabrosi e delicati verranno tuttavia osservati con occhio sereno e comprensivo e daranno il frutto inteso. Ma sappiamo bene che tutto questo non si limita a quaggiù. Che cosa sarebbe la nostra appassionata sete di felicità, se dovessimo contentarci di una misura così ristretta e che non esclude il sospiro insaziato?

LA META SOVRANA

Noi guardiamo assai più lontano e più alto. Teniamo l’occhio volto al Cielo dove le ansie si placano e i desideri vengono appagati infinitamente. Al Paradiso mirano le nostre aspirazioni senza limiti e senza rinunce. Al Paradiso volano dì per dì i nostri pensieri, dove sappiamo quante anime, a noi ben note, sono giunte e ci aspettano con l’affetto diventato più retto, più disinteressato, più intero. A quelle miriadi di spiriti, che a Dio offersero il frutto della loro fatica di quaggiù, noi pensiamo e sospiriamo, umili e fidenti. Beatitudine piena è soltanto in essi. Donde l’asprezza della nostra è scomparsa, rimanendo soltanto gli elementi positivi di soavità gaudiosa… Lassù i poveri sono diventati i ricchi effettivamente e con assoluta interezza; perché il Signore ha consegnato loro tutto il suo patrimonio di felicità. I miti sono riconosciuti per tali e amati e onorati. Posseggono tutto e tutti nel gesto della loro benignità compiacente e longanime. Dio li onora. Lassù, i dolenti sono consolati, così da ringraziare il ricordo del male sofferto e da benedirlo. Lassù i famelici e gli assetati di giustizia vedono effettuato il loro sogno siffattamente da sentirsene colmi e ripagati in misura pigiata, scossa e strabocchevole. Oh! i mondi di cuore sentono quanto bene si sono opposti al sudiciume di questa terra, dove la mondezza era guardata come angustia di cuore e inettitudine al godere. Ora vedono capovolti i criteri e avvertono da lontano i gemiti dei pentimenti tardivi e delle impossibili resipiscenze. L’Agnello è fissato dai loro occhi ed essi lo seguono per sempre in una dovizia di appagamenti ineffabili, e cantano l’Inno che solo dice alfine la loro trionfale vittoria. Dio lassù chiama suoi « figli » i pacifici. L’aver lottato per mettere pace nel mondo li fa sovrani e centro di ammirazione. La loro pace interiore li rende luminosi di una luce che tutto vede giusto e dolcemente in Dio. E tutti gli spiriti celesti gridano ai perseguitati della terra: « Orsù, possedete e godete il Regno dei Cieli; è vostro per diritto di conquista e Dio ve lo dona in tutta la sua vastità… Avete ben combattuto e siete coronati ». – Qui, pertanto, abbiamo un piccolo e sufficiente saggio della ricchezza e lautezza di Dio; lassù il possesso pieno. Al Cielo teniamo dunque levato l’occhio. Il Cielo è fatto per tutti. Gesù ha detto che « è in noi », per farci intendere questa nostra destinazione superiore e definitiva. Esso è lo sviluppo del bene, da questa vita sino ai confini dell’altra, dove ha compimento. Il suo segno è la felicità. « Io vi dissi queste cose, affinché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia perfetta ». Il più miserabile degli uomini non disperi della sua fortuna, egli « ha ancora un regno intero ». – Nel Cielo il bene sarà soddisfazione, ma non senza nuova speranza. Dal suo interno il bene posseduto ha uno sviluppo continuo e proporzionato al merito di ciascuna anima beata. Ora tutto questo è difficile e oscuro. L’unione con Dio stabilitasi quaggiù, si farà più «sensibile» e goduta, più totale. «Ci sono tante dimore nella casa del Padre mio », ha detto il Signore. Ciascuno di noi troverà la « beatitudine » alla quale si è andato preparando in questa vita di prova.

« E la carità rimane ».

[Fine]

LE BEATITUDINI EVANGELICHE (-8A-)

LE BEATITUDINI EVANGELICHE (- 8A-)

[A. Portaluppi: Commento alle beatitudini; S.A.L.E.S. –ROMA, 1942, imprim. A. Traglia, VIII, Sept. MCMXLII]

CAPO OTTAVO

Beati qui persecutionem patiuntur propter justitiam: quoniam ipsorum est regnum cælorum.

[Beati i perseguitati]

I.

LA PROVA DI FEDELTÀ

Ma sapeva il Signore, che i suoi seguaci in tutti i secoli sarebbero stati colpiti dalla calunnia, dalle malvagie accuse, dalla persecuzione in vasta misura? Egli lo leggeva nell’avvenire con il suo occhio infallibile e anche nella sua personale esperienza. Poteva perciò ammonire con senso paterno i pochi intimi. La folla anche se avesse ascoltato una simile profezia non l’avrebbe saputo intendere nel suo giusto senso, e si sarebbe scandalizzata. Agli intimi darà spiegazioni. Tuttavia anche la folla ascolti, e tutti, perché in seguito non si ritengano ingannati o illusi. – Desiderano essi vivere quaggiù come la turba? Beati non saranno mai; qualunque sia per essere la loro accortezza. Intendono essi di assicurarsi un avvenire sicuramente felice? Siano capaci di affrontare anche la persecuzione. Malevolenza, calunnia, tormenti morali e anche fisici, come darà lui medesimo esempio tra breve, Su codesta strada, siano certi, troveranno la beatitudine, che non soffre diminuzioni.Saranno beati, non soltanto perché Dio nell’altra vita ha modo di premiare ogni sacrificio compiuto per Lui, ma proprio qui, come inizio visibile della eternità felice. – Non è proprio vero, che soltanto dopo questa esistenza tormentata, assente da ogni agio, spesa totalmente e austeramente per il bene, arida, fredda, oscura, malmenata e appesantita dal malvolere di molti, possa riceversi da Dio la prova del suo compiacimento. Anche ora il giusto è sovente scoperto, riconosciuto, premiato. Egli non sempre ne sarà consapevole; ma qui gli uomini sanno indovinare la bontà, anche se non sappiano essere buoni sempre.

UN’ANIMA

Leggo il titolo di alcuni capitoli della mirabile vita di santa Elisabetta d’Ungheria, langravia di Turingia. « Come la cara santa Elisabetta fosse cacciata dal suo castello coi suoi teneri figli e ridotta all’estrema miseria; e della ingratitudine grande e crudeltà degli uomini inverso di lei ». « Come il misericordiosissimo Gesù consolasse la cara santa Elisabetta nella sua miseria e nel suo abbandono, e come la dolcissima e misericordiosissima e clementissima Vergine Maria venisse a istruirla e fortificarla ». « Come i cavalieri di Turingia facessero pentirsi il langravio Enrico della sua fellonia e rendere giustizia alla cara santa Elisabetta ». – Tutta la storia della santa si può intuire da questi argomenti. Perduta la potenza con la morte del marito durante la crociata, essa cade vittima del cognato. È ammirabile la sua condotta in questo frangente. Cacciata di notte dalla sua casa, insieme ai figli, essa si reca alla chiesa dei cappuccini, che era aperta mentre si cantava mattutino e fa intonare per carità il Te Deum di ringraziamento al Signore per la sorte toccatale. – Ma il Signore non l’abbandona e presto viene la rivincita. Se poi questa non fosse venuta, la sua vittoria era piena e nella coscienza di tutti i buoni, dei quali il giudizio morale soprattutto conta, e nella propria coscienza, la quale conta anche maggiormente. Non occorre di più in questa misera esistenza terrena. La nostra posizione è necessariamente incomoda. Il mondo essendo posto « totus » nel maligno, che cosa possono pretendere coloro che aspirano invece a servire Dio? – Lo spirito del mondo è l’antitesi dello spirito di Dio. Anche prima di Cristo era così. Chi aspirava a giustizia, era considerato come nemico. Non lo si legge di Aristide? Fu bandito da Atene perché i suoi concittadini erano stanchi ed annoiati di sentirsi ripetere, che egli era « giusto ». E di Socrate pure si legge, che fu condannato a bere la cicuta, perché aveva insegnato troppo assiduamente di amare la virtù. – Il mondo è un campo di battaglia nel quale la luce combatte contro le tenebre, il bene contro il male; chiunque si sforza di propagare la luce e di fare il bene, lavora a vantaggio di Colui che fu detto Sole di giustizia. Come il mondo potrà tollerarli? Se volessimo recare esempi, quanti mai ne avremmo nella storia dell’umanità! Abele fu perciò ucciso da Caino; Abramo fu visto di malo occhio dai Cananei, perché fu il primo ad onorare il vero Dio; Isacco perseguitato da Ismaele; Giacobbe da Esaù; Giuseppe dai suoi fratelli, che lo vendettero, simulando che fosse stato divorato dalle fiere, ma le fiere erano essi. – E Gesù Signore fu soppresso dai Giudei, fratelli di sangue. Sicché san Gerolamo commenta: « Un giorno non mi basterebbe se volessi enumerare in quanti modi gli empi prevalgono quaggiù sui giusti e li opprimono ». (Com., in Habacuc). C’è anche la storia della Chiesa, ci sono le vite dei Santi, per somministrarci esempi. Ma chi non ne ha esperienza personale? Non perché ciascuno si possa sentire Santo; ma perché ogni volta che uno fa sinceramente bene, incontra ostacoli, che invece non incontra allorché seconda lo spirito del demonio. « Ho amato la giustizia, ed ho odiato l’iniquità, diceva sul letto di morte il Papa Gregorio VII, propterea morior in exilio ». E la persecuzione può venire da ogni parte, anche dalle meno pensabili.

DIO È MEDICO

La persecuzione prende anche le forme meno solenni e visibili e agisce sullo spirito sottilmente, copertamente, con gli effetti del fiele da cui una vita può essere disfatta senza apparire. Dai prossimi più intimi, nella stessa tua famiglia, nel tuo gruppo sociale, con il quale dividi gli ideali e la sorte dell’apostolato e del sacrificio, nel respiro della medesima fede. E forse questa è la più acre e avvelenante. La più difficile da concepire e da tollerare. Nondimeno il Signore soccorre, medica, consola, sostenendo sino all’estremo. E gli effetti per l’anima sono veramente sostanziosi. Una purificazione senza pari, un consolidamento della fiducia in Dio solo, una più chiara visione dell’intervento di Lui, una più massiccia decisione della volontà d’aderire con pienezza a Dio. Gaudio dell’anima ringiovanita e fatta più castamente ardente per la virtù. « Dio è medico, dice sant’Agostino, è tu hai ancora qualche infezione. Tu gridi, ma egli ha ancora qualcosa da potare. Ed egli non leva la mano sin che non ci sia qualche cosa, secondo il suo giudizio, da togliere. È medico crudele quegli che si lascia commuovere dai lamenti del paziente e perdona alla ferita e all’infezione. Osserva le madri: con quale energia esse trattano i loro piccoli nel bagno, per la loro salute!… Difettano forse di tenerezza? Tuttavia i loro bimbi gridano, ed esse non li ascoltano. Così il nostro Dio è pieno di carità, ma pure non sembra che ci ascolti, per guarirci e risparmiarci nell’eternità ». (Enarr. in Ps., XXXIII, 16). – Tutto questo non scusa i persecutori. È Dio mirabile nella sua arte di prodigioso utilizzatore del male a beneficio dei suoi. Ad essi Egli dà così, per via solo a lui praticabile, la beatitudine, che è un bene senza confine e senza pari. Piuttosto che lagnarci, facciamo d’essere fra i perseguitati anziché fra quelli che perseguitano, fra le vittime piuttosto che fra i carnefici. Siamo, sì, strumenti in mano al Signore, ma a servizio della virtù e non del vizio. Qui è meglio ricevere che dare. Poiché dare è frutto di cattiveria, ricevere è atto di adesione al Signore, che apprezza l’accorta virtù di chi si piega senza colpa a sopportarne il peso e il castigo.

II

NON DIAMO PRETESTO AI PERSECUTORI

Ci sono Cristiani i quali porgono ai maligni il fianco alle critiche e alle persecuzioni? Ci sono. È una delle conseguenze della umana fragilità. Si aderisce ad un grande ideale di vita, e si rimane indietro alla retroguardia di tutte le infermità morali, onde è tempestata la nostra esistenza quaggiù. Aneliti sinceri ma facili, cedimenti incresciosi e d’ogni dì.

I PRETESTI CI SONO

È vero, che talora passano, come aderenti a Cristo, anime dannate e che a Cristo offrono il segno della loro considerazione, calpestandone la legge e negandone i principi di vita. Disertori dall’esercito pacifico dei suoi veri seguaci, si fanno belli del suo nome e dei meriti dei fedeli per accaparrare profitti. Negatori delle sue verità, si adornano, data occasione, della fragranza delle parole del divino Maestro e della sua Chiesa. Usano della conoscenza, che ne hanno, attraverso la buona educazione, per coprirla di ingiurie e perseguitarla con la calunnia. Traditori come Giuda, ve n’ha ancora e quanti… Son questi i più pericolosi fra i persecutori, perché sono informati delle fragilità umane, che anche i migliori debbono portare con sé giorno per giorno. – I loro metodi di persecuzione hanno del diabolico. Con la negazione delle fondamentali verità della Fede, accoppiano il disprezzo e il ridicolo. Sicché sovente presso il pubblico ignaro giungono ad ottenere l’effetto di uno stupore e di un disagio umiliante e deprimente. Vi sono poi i trascurati. A questi guardano i primi, per dire a colpo sicuro, che la Fede è da cercare fra le donnette, ma che non esiste neppure più in troppi membri della Cristianità. Poiché le loro povertà di opere li fa insignificanti parti della società; soprattutto la deficienza della carità verso i bisognosi, li fa oggetto di facile critica ed esposti alla demolizione della loro sincerità di fedeli. La carità in vero, è la prova della convinzione d’appartenere al Corpo mistico di Cristo. Lo si può affermare ed insegnare, ma se le opere non corrispondono, e il bisognoso dell’elemosina e della indulgenza e comprensione morale fa difetto, a che serve la stessa Fede? Sicché costoro sono una autentica zavorra della comunità della Chiesa e forniscono il pretesto di polemiche e di persecuzioni.

NON LE RAGIONI

È pur vero, che Gesù nostro Signore ha insegnato che fossimo « perfetti » come lo è il Padre. Ed è questo l’ideale splendente che irraggia su ogni novella anima, dall’istante che viene irrorata dalle onde battesimali. La giovinezza di molti poi si svolge nell’atmosfera di purezza c di ardore, che li fa aderenti ad esso e li cresce nel dolce clima dell’amore delle cose alte. Ma in seguito viene la prova delle tentazioni, delle seduzioni mondane, le insidie di cui si incaricano con il Demonio anche la carne e il mondo. Parecchi cedono presto all’assalto, non proprio interamente; ma si fanno tiepidi, fiacchi, esitanti al sacrificio, che la battaglia impone. Che cosa volete dire contro la condotta della guerra se il soldato, anziché entusiasmarsi del coraggio del capitano, si intimidisce e abbandona il posto? E Gesù è il capitano in questa resistenza al male, e son degni di lui tanti suoi rappresentanti, da lasciare nell’insieme dei militi la più schietta ammirazione. Ma i deboli non difettano e la loro condotta offre motivi di critica e di maldicenza. Sono anime non affatto indegne della divisa che vogliono portare, ma c’è della zavorra nella loro condotta e, se occorre riconoscerla, bisogna altresì dare aiuto e protendere loro la mano, invece di gravarla sulle accuse ed esporli alla irrisione dei malevoli. Stimolarli, spingerli avanti con l’esempio più schietto di calore, di fervore, di santa letizia. Anche da queste constatazioni, che talvolta affiorano nella cronaca quotidiana ed entrano nell’ambito della conversazione di famiglia, la mamma accorta sa trovare argomento per sollecitare le volontà alla interezza della fede consapevole e vissuta. Le mezze misure del tiepido Cristiano sono tradimento della verità e di Cristo stesso, sono frode alla buona fede e tranelli contro il prossimo e illusione nociva a chi le va perpetrando. Le debolezze della vita morale devono essere battute in breccia con chiarezza di portamento consapevole e non scusate o velate al proprio occhio. La pietà ipocrita non serve e danneggia sempre. Si faccia tuttavia ben rilevare la bassa astuzia del persecutore, che abusa di ombre, incolpabili ai singoli, per oscurare lo splendore della veste, che orna il corpo mistico di Cristo. La Chiesa soffre di codeste cattiverie, ma il suo dolore è vivo soprattutto per il danno che colpisce gli ignari scandalizzati e le anime stesse dei colpevoli. Ogni Cristiano senta la maternità della Chiesa e se ne serva nei frangenti più difficili quando il tiepido scivola nella ingratitudine. – Il Cristianesimo si presenta al mondo come una potenza di elevazione spirituale. Non soltanto il suo Fondatore ha giustificato un tale concetto, ma tutta la sua storia ne è una dimostrazione. Gli effetti del suo lavoro nei secoli sono troppo evidenti; e, benché il peso delle fragilità umane venga ogni momento a gravare sui settori secondari della sua attività, sono palesi le elevate mète raggiunte, la nobiltà di schiere di anime, la distinzione di tanti suoi membri, l’efficacia stimolante per le folle che ne vissero. Oggi si tende a sopravalutare le deficienze della media e la esiguità del suo successo complessivo sulla vita sociale.

LA PIÙ GIUSTA REAZIONE

Questa tendenza antistorica, è il massimo argomento in mano ai negatori e agli illusi fondatori di una certa nuova religione mitica e psicologica. In ogni tempo ci furono fuggiaschi dalla Fede di Cristo. Non ci furono tra gli Apostoli stessi? Eresie, che travolsero intere regioni, vigoreggiarono per secoli. Scismi durano ancora e di proporzioni formidabili. Ma che cosa valgono nei riguardi della essenza del Cristianesimo? Non prevarranno « le porte dell’Inferno ». Le vicende particolari non contano. E pare, che due mila anni possano bastare a provare la consistenza intima e la divina protezione su di esso. I frantumi che lo circondano servono a dargli rilievo. A noi si impone di non servire codeste deviazioni dei giudizi degli uomini. Spetta ad ogni fedele di Cristo il dovere di compiere le opere della virtù con tutta quella perfezione, che esige il servigio di Dio. In tal modo offriremo al mondo l’esempio di cui ancora ha bisogno per ravvedersi e migliorare. Come sarà grande la nostra gioia lassù, allorché il Signore ci riceverà coronati dalle spine della persecuzione, che se non gli altri, noi a noi medesimi avremo confitto intorno alla nostra fronte, per amor suo e dei suoi fratelli! Ci sentiremo invitati ad accostarlo, a sedere a Lui vicino, a godere della sua intimità, poiché l’avremo in qualche senso meritata, vivendo quaggiù nella sua sequela più umile e disagiata. – Ma intanto intorno ai servi buoni si sviluppa un alone di vera simpatia, che attira al Signore e alla Chiesa gli sviati, gli ignari, quelli che soltanto per errore si erano allontanati dalla strada del bene. La virtù così praticata porta alla beatitudine di un efficace apostolato. Conferisce alla somiglianza viva con Gesù. Non sarà consolante di poter esclamare come alcune anime sante hanno fatto quaggiù: «Signore, se sono piccolo e fiacco, la mia energia l’ho spesa tutta per te! ». – Che cosa peseranno allora le calunnie, le ingiurie, le persecuzioni, quando tutto sarà messo a chiaro e ognuno si renderà conto del premio offerto da Dio alla nostra piccolezza? Santa Giovanna d’Arco, in un dramma letterario, a un certo punto chiede: « Signore, tu, che hai preparato questa contrada, dimmi quando essa sarà alfine pronta per ricevere i tuoi santi? Quanto tempo dovrà ancora passare, o Signore, quanto tempo? ». Sappiamo, ormai, che tocca a noi di essere questi santi. Quando ci decideremo a farci tali?

III

COME I SANTI AFFRONTANO LA PERSECUZIONE

CONCEZIONE AGONISTICA

Parliamo di cose irreali? Dove sono i segni d’una prova, che Iddio sia per chiedere ai suoi seguaci? Non occorre essere informati in misura particolare, per conoscere quanti popoli siano nel crogiolo della durissima prova della loro fedeltà al Cristo Signore. Le persecuzioni sono permanenti qua e là contro la Chiesa Cattolica. Ora è una nazione ora è l’altra; mentre essa benefica tutte le nazioni e consola tutti i popoli guidandoli alla salvezza, per la via della civiltà. Le sue vittorie son queste. Fin che essa è in grado di sostenere la fiducia nel bene, che è il dovere verso Dio e verso il proprio Paese, la Chiesa si dichiara soddisfatta e contenta di soffrire su quella strada feconda. Ma ciascuno è pure impegnato personalmente a sostenersi in faccia alle prove, che sono le opposizioni dello spirito del male e le seduzioni che esso esercita contro di noi. Non è una prova permanente questa? Non siamo noi così senza respiro nella persecuzione? Chi non rimane quasi permanentemente in stato di allarme, domani sarà con probabilità uno sconfitto. La battaglia è ingaggiata dal principio del mondo. La prova è d’ogni istante. La resistenza deve essere costante e vigile. Salda la convinzione della verità e delle sue basi storiche. Chiari i fondamenti razionali e le prove comuni, per sostenere le piccole obbiezioni quotidiane. Crescente l’impegno e l’accortezza per conoscere le ragioni della condotta della Chiesa e le difficoltà, che essa incontra qua e là. Soldato consapevole dei suoi doveri e delle difficoltà da superare, deve oggi insomma essere il fedele di Cristo. Se non che combattere è atto dello spirito e questo ha da essere nutrito e sostenuto con cura. Indichiamo tre atteggiamenti necessari allo scopo di sostenere la parte d’un saggio milite di Cristo. Innanzi ogni altra cosa un vivo senso d’umiltà.

ALCUNI CONSIGLI

È tanto facile convincersene, quando uno osservi le proprie insufficienze in cento aspetti della giornata intima e del lavoro. L’umiltà è un giudizio veritiero della propria condizione. I doni di Dio, le buone opportunità in cui siamo venuti a trovarci, la riuscita di questo o di quest’altro affare, sono in gran parte da attribuirsi ad altri che a noi. Chi se ne esalta dimostra di non averne rilevata l’origine. Splendori effimeri sono certi modi di intendere la propria consistenza morale e intellettuale. Fuochi fatui sono certi sogni fioriti soltanto nella fantasia. Quando io sono sincero con me medesimo e non tengo conto delle lusinghe o delle facili adulazioni, sento la mia povertà e mi stupisco della considerazione che presso taluni posso forse godere. Riflettiamo, che l’orgoglio allontana le simpatie e l’umiltà ci concilia quella degli Angeli e Dio ci ama. Riconosciamo il suo potere e la sua volontà; siamo soggetti ai suoi comandi senza inani proteste; siamo pronti ad accettare i doveri, i posti, le responsabilità che Egli ci affida ed egualmente disposti a rinunciarvi. Docili così, non può che rallegrarsi con noi e compensarci in proporzione. Come l’orgoglio che è il principio d’ogni peccato » (Eccli., X, 15), così l’umiltà è il piano su cui tutte le virtù si possono erigere. Cara virtù, che attira altresì la benevolenza degli uomini. Essi non sono mai minacciati nei loro possessi o materiali o spirituali dall’umile, e da questi ricevono esempi di remissività, di indulgenza, di bontà. L’umile non si appropria nulla da alcuno e riconosce a ciascuno il suo. E questa è la condizione prima di godere buona pace col prossimo. La seconda condizione per sostenere efficacemente la persecuzione è la piena confidenza in Dio, per cui si rimette a Lui la difesa della sua causa e non si reagisce con alcuna delle forme usate dagli uomini del mondo. Come fece il Signore. Si legge nel salmo XXXVII: « Sono diventato come un uomo che non ode e che non ha parole di risposta nella sua bocca. Poiché in te, Signore, ho poste le mie speranze; e tu ascoltami, Signore Dio mio ». – « Il Signore, scrive sant’Agostino, ti mostra ciò che devi fare, se la persecuzione si abbatte su di te. Tu cerchi di difenderti e nessuno ti presta ascolto. Eccoti colmo di turbamento, come se avessi perduta la tua causa: nessuno ti difende, nessuno reca testimonianza in tuo favore. Ma se l’accusa ha prevalso contro di te, ciò è soltanto davanti gli uomini: pensi tu che così avverrà anche al tribunale di Dio, dove la tua causa deve essere trattata in appello? Quando avrai Dio per giudice, tu non avrai altro teste che la tua coscienza. Tra essa e questo giusto Giudice, non temere nulla, se non la tua causa. Che questa non sia cattiva e tu non avrai né accusatori da temere, né difensori da sollecitare ». (Enarr., in Ps. XXXVII, 16). – Questo richiamo alla sovrana giustizia di Dio, capace di correggere qualunque umano errore, è sommamente consolante. Esso ci porta a concepire un assoluto abbandono in Lui, anche fra le laceranti angustie e le delusioni dalle quali l’umana accortezza sia incapace di liberarci.

METODI GLORIOSI

Non dico neppure, che la fiducia in Dio miri ad ottenere questo intervento risolutivo a nostro vantaggio. La fiducia deve avere un altro oggetto. La santa Chiesa non intende ottenere, pregando, la immediata fine della persecuzione; sebbene che la intenzione del Signore, il quale è sempre Padre, sia raggiunta nel miglior modo per la sua gloria e per la salute dei suoi figli. Altrettanto dobbiamo fare noi. Fiducia nella bontà di Dio. In Lui ci riferiamo in ogni tribolazione con la speranza della salute dell’anima, raggiunta con quelle forme e con quei mezzi, che siano di suo gradimento. Sicuri, come rimaniamo in qualunque frangente, della sua saggezza e del suo paterno amore. Lasciamo fare a Lui, che conosce i nostri bisogni. – È per questo atteggiamento del tutto superiore alle capacità dell’uomo, privo di grazia, che le persecuzioni contro la Chiesa, furono di costante profitto persino a molti dei persecutori. Questi strumenti della rabbia di satana e, in diverso senso della divina giustizia, furono sempre così vivamente colpiti dalla sovrumana serenità dei veri Cristiani, dalla loro accettazione del male senza reazioni violenti e ribelli, che sovente ne trassero l’unica conclusione naturale: essere la Chiesa alimentata da un succo divino, i suoi fedeli nutriti da una forza superiore, e la sua missione condotta a termine a dispetto di tutte le più disperate risoluzioni, dalla mano stessa del Signore. È la gloria dei Cristiani nel mondo: d’essere sovente oggetto di odio e di non mai odiare. Anzi di insegnare, con una assiduità e una fermezza che in certi frangenti della sua storia stupisce, che occorre amare gli stessi nemici. « Diligite inimicos vestros, benefacite his qui oderunt vos et orate prò persequentibus et calumniantibus vos » (Mt., V,. 44). – Lo stupore del mondo rimane sempre questa generosità senza uguale nel suo dominio. Si legge di san Francesco di Sales, il quale ebbe a dichiarare a chi lo offendeva atrocemente, che se gli avesse pur cavato un occhio, non avrebbe potuto impedirgli di guardarlo dolcemente con l’altro. Questo stato d’animo è innanzi tutto ispirato dall’amor di Dio, che sa e vede e protegge i suoi, poi dall’amore del prossimo e dall’istinto dell’apostolato, che alberga in ogni cuore di Cristiano. Per questo ognuno si considera « pescatore d’uomini ». Orbene il pescatore con l’amo non attira pesci se lancia sassi. Sappiamo dunque aspettare che si accostino e siano così presi senza violenza.

[Continua …]

19 Agosto: SAN GIOVANNI EUDES

19 AGOSTO: San GIOVANNI EUDES

[Mons. Carlo SALOTTI: I SANTI E BEATI del 1925 – S. E. I. Torino, 1927]

Giovanni Eudes fu canonizzato, insieme al Curato d’Ars, nel giorno della Pentecoste, il 31 maggio 1925. Ed io, che avevo già avuto l’onore di perorare, quale avvocato concistoriale, la sua causa di canonizzazione nel Concistoro pubblico del 2 aprile del medesimo anno, fui invitato a celebrarne le lodi nella Chiesa del Gesù il 4 giugno, giorno di chiusura delle solenni feste triduane.

Labora sicut bonus miles Christi Jesu.

( II Tim., II, 3)

Se vi fu, specialmente per la Francia, un secolo travagliato, agitato e abbastanza discusso nella storia, fu il secolo XVII. Secolo di luce e di ombre, di glorie e d’ignominie, di eroismi e di debolezze, di civiltà e di decadenza. Molti personaggi di quel tempo riflettono questo stato di cose nel loro temperamento personale e nelle loro pubbliche azioni. Il re Enrico IV, ripudiato per la seconda volta il Calvinismo e pubblicato l’editto di Nantes, si propone di rimediare ai mali della guerra civile, ch’egli stesso aveva provocato; e mentre riordinava le sorti della Francia e ne restaurava le finanze, promovendo nel tempo stesso il commercio e l’agricoltura, veniva trucidato per le mani di un fanatico, Francesco Ravaillac. Maria de’ Medici, che assumeva il potere, dopo aver contaminato il trono con intrighi e con amori colpevoli, finiva col morire in esilio. Luigi XIII, salendo sul trono, vede minacciata la Francia su tutte le frontiere; e, mentre combatteva con ardimento per ricacciare i nemici, il suo nome era oscurato dalle discordie intestine e dai favoritismi di corte. La sua sposa, Anna d’Austria, donna di grande bontà e di pietà sincera, sopraffatta dalle vicende di quel periodo turbinoso, è costretta a fuggire da Parigi. In mezzo a questi avvenimenti politici appare la porpora di due Cardinali, che ebbero tanta parte nel governo della pubblica cosa: Armando Richelieu e Giulio Mazarino. Il Richelieu. mente vasta e profondamente comprensiva, volontà ferrea e indomita, che non si piegava nemmeno dinanzi alle trame ed ai pericoli, genio assai pratico che passava dall’idea all’azione con sorprendente abilità. All’audacia che gli veniva dal genio accoppiava una inflessibilità assoluta, per la quale molti lo giudicarono un despota. Secondo il giudizio del Montesquieu, egli diede al Monarca il secondo posto nella monarchia, ed il primo nell’Europa; avvilì il re, ma illustrò il regno. I servigi che rese alla Francia furono immensi; poiché ne accrebbe la potenza politica e ne favorì il progresso sotto tutte le forme, dal commercio alle arti, dall’industria alla letteratura. Egli, ministro di Luigi XIII, poté giustamente vantarsi di governare non la sola Francia, ma l’intera Europa. È doveroso tuttavia riconoscere, che la grandezza dell’eminente uomo di Stato non andò scevra di colpe e di difetti, che difficilmente si potevano conciliare con la dignità del Cardinale. – Continuatore della sua opera fu il Cardinale Mazarino che, nominato primo ministro della regina Anna d’Austria, accrebbe ancora l’influenza della Francia in Europa, rese più compatta l’unità della nazione ed aprì la via al dispotismo di Luigi XIV. Luci ed ombre avvolgono la figura di quest’uomo di Stato, che ottenne ed esercitò una potenza straordinaria. Dietro di lui è Luigi XIV, che afferra il governo del suo Paese con tale energia, da divenire uno dei più potenti sovrani. Egli porta l’assolutismo della monarchia al più alto grado di espressione, il suo potere è senza limiti. Il re incarna in sé lo Stato, il quale alla sua volta proclama la sua supremazia sulla Chiesa. Potenza e soprusi, guerre ed amori, vittorie e dolori, grandezze e difetti accompagnano la vita di questo monarca, il quale, morendo, lascia un grande vuoto nello Stato, giacché tutto aveva concentrato nelle proprie mani. – Attorno a questi personaggi è tutto un affermarsi audace di errori e di sistemi perniciosi ai diritti della Chiesa e alle pure dottrine del Cattolicismo, e nel tempo stesso nocivi alla concordia degli animi e al benessere sociale. Il Gallicanismo alza la testa, e, assumendo proporzioni allarmanti, detta i famosi quattro articoli, coi quali veniva limitata l’autorità pontificia in Francia; e l’illustre vescovo di Meaux, Benigno Bossuet, ponendo il suo alto ingegno a servigio dei principi gallicani, contribuiva a separare lo spirito della sua nazione dalla Chiesa romana. Il Giansenismo, per il suo doppio carattere, ereticale e scismatico, attenta all’unità delle credenze, e, raffreddando la pietà e allontanando i fedeli dai Sacramenti, attraversa le vie della Chiesa, ne diminuisce il prestigio e le sottrae grande parte di quelle attività, che avrebbero potuto spiegarsi più efficacemente per la salute delle anime. Il Calvinismo, penetrato in Francia, diventa una forza poderosa, dinanzi alla quale lo Stato deve spesso patteggiare e cedere. Violento ed armato détta leggi, s’impone agli uomini del governo, divide i cittadini, provoca guerre, fa versare del sangue e disperde le energie della Chiesa francese. Le conseguenze di questa triplice lotta, che si combatteva contro lo spirito genuino del Cattolicismo, furono funeste ed esiziali. Il clero di Francia era impotente ad arrestare l’onda sovvertitrice degli errori. Pur troppo esso erasi allontanato dalle sorgenti. Le correnti politiche lo avevano distolto dall’azione religiosa. Il suo atteggiamento non corrispondeva alla dignità dell’ufficio e del carattere sacerdotale. Si saliva sulle cattedre episcopali per protezionismo. Così i pastori di anime non erano più in grado di promuovere efficacemente la salute del gregge e gl’interessi della religione. Mancando sacerdoti idonei e zelanti, le popolazioni erano abbandonate a se stesse, e non posero più freno alle passioni che furono lasciate libere ad ogni sfogo. La voce di Roma non destava più un’eco in Francia. O era arrestata ai confini, o veniva soffocata sotto la tempesta suscitata dal genio del male. Di qui lotte civili, contrasti religiosi, confusione d’idee, corruzione di costumi, abusi senza limiti e sfrenate licenze. S. Vincenzo de’ Paoli con le sue opere benefiche, col suo apostolato evangelico, con i suoi consigli alla Corona, con gl’insegnamenti preclari delle sue virtù, cercò di opporsi alla iniquità dilagante. Ma l’organismo sociale era troppo inquinato di un veleno che minava la vita religiosa e sociale. – In queste condizioni aspre e difficili, si svolse l’apostolato di Giovanni Eudes, al quale noi oggi prestiamo il culto dei Santi. Nato all’alba di quel secolo XVII nella piccola borgata del comune di Ri, in terra normanna, egli fu l’operaio evangelico, il santo provvidenziale, che durante quella lunga epoca storica compì una grande missione, la quale, a mio modesto avviso, assunse un’importanza anche maggiore di quella che gli è stata universalmente riconosciuta. In lui è mestieri ravvisare il soldato valoroso, che in settantanove anni di vita consacrò tutto se stesso per riparare i mali prodotti dall’errore e dal malcostume, per conservare viva e operosa la fede nella sua patria. Egli fu fedele al monito di S. Paolo: labora sicut bonus miles Christi Jesu; e fu soldato forte, intrepido, coraggioso, che non si risparmiò giammai nel combattere incessantemente le più nobili battaglie. – Studiamo oggi l’opera multiforme e svariata di questo soldato di Cristo, che col suo travaglio, col suo valore, co’ suoi eroismi e con i suoi sacrifizi tenne alto in Francia il vessillo della fede, nobilitandolo con i sudori del suo apostolato, le cui benemerenze sono scritte a caratteri indelebili nei fasti della Chiesa e della civiltà.

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Vi ha una doppia specie di soldato: il soldato del re e della patria, il soldato di Cristo e della Chiesa. Il soldato del re offre la sua spada e il suo sangue per un ideale nobile, ma umano, quale è il trono, la patria, la libertà: ideali terreni, nei quali la passione può portare delle ombre e suscitare diversità di apprezzamenti. Ma il soldato di Cristo si consacra ad un ideale più alto, cioè al servizio del Re dei re, alla difesa della Religione, alla causa della Chiesa, alla elevazione spirituale dei popoli, al vero progresso civile e morale dell’umanità. Qui le finalità sono più pure, e s’innalzano al di sopra di tutte le passioni e delle contingenze della politica umana. Giovanni Eudes è il forte e magnanimo soldato di Cristo. La bandiera, sotto la quale si è schierato, è la stessa bandiera di Dio. Le finalità, per le quali lotta fino al sacrifizio, non sono gl’interessi umani e caduchi del tempo, bensì i supremi interessi delle anime, cioè a dire le alte ragioni di Dio. Sono varie e molteplici le armi, con le quali sogliono combattere i soldati di Cristo e gli apostoli del bene. Si combatte con l’azione multiforme e con l’organizzazione sapiente di opere salde e durature, come fecero S. Vincenzo de’ Paoli e il Venerabile Giov. Bosco. Si combatte con l’arma tagliente e vibrante della parola, che scuote, illumina e converte, come fecero S. Bernardino da Siena e S. Leonardo da Porto Maurizio. Si combatte con la penna, mercé la quale si difendono le grandi verità, e si stritolano gli errori perniciosi, come usarono San Tommaso d’Aquino e S. Francesco di Sales. Si combatte con la preghiera, che in certi periodi critici e dolorosi fu un mezzo potente per salvare la Chiesa e la società, come attesta la vita di S. Caterina da Siena e della Beata Anna Maria Taigi. Si combatte con l’esempio magnifico delle virtù, che ha tale eloquenza da sospingere i popoli verso la fede e la morale evangelica, come fecero tutti i santi del Cattolicismo. Si combatte infine col coraggio, che affronta tutte le difficoltà, che non si arresta dinanzi agli ostacoli, e che non teme lo sdegno dei forti e dei potenti, come praticarono S. Ambrogio di Milano e S. Francesco da Paola. Il nostro santo, Giovanni Eudes, non trascurò nessuna di queste armi nell’esercitare il suo ufficio di soldato di Cristo. – Egli è soldato fin dalla sua fanciullezza. Predestinato a cose grandi, si raccoglie nella preghiera e si esercita in atti fervorosi di pietà. A nove anni, schiaffeggiato da un compagno, non si vendica, ma offre eroicamente ad una nuova offesa l’altra guancia. A dodici anni, riceve per la prima volta con l’ardore dei santi il pane eucaristico. A quattordici anni si consacra definitivamente a Dio col voto di perpetua castità. Inviato a Caen nel collegio reale diretto dai padri Gesuiti, si segnala presto nello studio e nella pietà, facendo meravigliosi progressi. Destinato dai parenti ad essere sposo di una onesta fanciulla, ricca di fortuna, di bellezza e di virtù, respinge l’offerta e si mantiene fedele alle promesse fatte al suo Dio. Nella lotta coi genitori è saldo e fermo. I diritti dello spirito sono da lui difesi con incrollabile energia. La sua vocazione è il sacerdozio, ed egli lo raggiungerà. Sarà Giovanni Eudes sacerdote secolare o religioso? Con volontà più che mai risoluta delibera di entrare nella Società dell’Oratorio, fondata a Parigi dal P. De Bérulle, per realizzare i suoi disegni. Il suo padre lo tratta da inumano e da ingrato, che calpesta i doveri di figlio per correre dietro ad una chimera, che una fantasia troppo accesa gli aveva creato nell’anima. La tempesta è grave. Impetuoso è l’assalto. I soldati deboli tentennano e cedono al primo irrompere delle forze nemiche. Giovanni non cede. La voce di Dio nel suo cuore è più forte di quella del sangue. Egli vince la resistenza paterna, parte per Parigi, entra nella casa dell’Oratorio, e si prepara nella solitudine, nello studio, nella preghiera ed in una più intima unione con Gesù Cristo al grande atto. Il 20 dicembre 1625 egli è religioso e sacerdote. Qui comincia la sua azione apostolica. L’attività, l’organizzazione e la predicazione sono tre forme di apostolato, che in lui si accoppiano insieme e procedono di pari passo. Sono tre armi che vengono adoperate dal giovane soldato simultaneamente e con immenso successo. – Nell’anno 1627 il terribile flagello della peste cominciò a portare lo sterminio in molte regioni francesi. Le campagne nei dintorni di Argentan erano desolate dalla morte, che seminava dovunque innumerevoli vittime. Giovanni rimase commosso dinanzi all’abbandono in cui erano lasciate le sue terre native, e sente di non potere rimanere più oltre inoperoso sotto la tenda, mentre i suoi compatrioti morivano senza assistenza e senza conforti. Egli lotta contro la resistenza dei superiori, che temevano di lui per la temerità dell’impresa; e, riuscito vincitore, prende il suo breviario, un po’ di biancheria, un altare portatile, una scatoletta per riporvi le specie Eucaristiche, e solo prende la strada della Normandia. Il coraggio, col quale a ventisei anni, sprovvisto di mezzi e di cautele, affrontava l’ardua impresa, rivela l’anima del soldato già temprata all’asprezza delle battaglie e al pericolo dei cimenti. Il santo non trova né un gentiluomo né un prete che gli offra ospitalità. Affidato al suo Dio, percorre impavido i paesi straziati dal morbo, visita gl’immondi abituri come le case dei ricchi, confessa gli appestati, somministra il viatico agli agonizzanti; è l’angelo consolatore che porta sollievo alle anime e rinfranca i corpi abbattuti. Pari zelo dispiega nella città di Argentan, ove conforta i morenti, rianima i superstiti, e, consacrata con pubblico voto solenne la città alla Vergine, ottiene la cessazione del flagello. – Rientrato in una casa dell’Oratorio, a Caen, per prepararsi alle missioni, manifesta un’altra volta il suo spirito di sacrifizio, quando, quattro anni dopo, la peste venne a desolare questa città. Egli, offerta a Dio la sua vita, corre sollecito al letto degli appestati, e mentre tutti fuggono e si riversano nelle campagne, il santo è l’anima consolatrice degli infermi e dei desolati; sale e scende le scale delle case, ove si soffre, si agonizza e si muore; assiste anche i suoi confratelli colpiti dal morbo, converte un calvinista che chiuso in casa con sua moglie era agli estremi, e, poste le immagini della Madonna come salvaguardia a tutte le porte della città, vede la peste rallentare e poi cessare del tutto. Il soldato eroico aveva compiuto il suo dovere. – Dal capezzale degli appestati eccolo quindi salire sui pergami a combattere col vigore della sua parola l’ignoranza, i vizi e la corruzione sfrenata del tempo. La Società dell’Oratorio si era proposta di evangelizzare i popoli. E ve ne era veramente bisogno, massime nella Normandia, che ancora risentiva le conseguenze funeste dell’eresia calvinista. Gesù Cristo non era più conosciuto. La fede o era interamente perduta, o si era illanguidita al punto da non informare più la vita dei cittadini. Delitti orrendi, vizi vergognosi, cupidigie sfrenate, violenze inaudite, superstizioni ridicole, costituivano il fondo di quel quadro storico, che richiamò a sé le cure di pochi ma ferventi apostoli, i quali, commossi da sì triste spettacolo, si dedicarono ad evangelizzare la Francia. Giovanni Eudes è uno di questi eroi. Primo tra i primi si slancia nell’agone della battaglia. Egli predica, catechizza, confessa, illumina, converte. Acceso di ardore divino e penetrato da una virtù celeste, corre dovunque è chiamato. Alla parola gagliarda dell’apostolo non si resiste; si ridesta la fede, si migliorano i costumi, si riaccende il coraggio cristiano, e perfino i protestanti ritornano sulle vie della verità. L’efficacia della sua predicazione, come la forza del suo esempio riescono spesso a trionfare di tutti gli ostacoli. E là, dove i soldati del re non valgono a restaurare l’ordine fra i cittadini, che erano in preda al terrore, questo soldato di Cristo calma gli spiriti e ristabilisce la pace. – Nel fervore delle sue battaglie, egli si era convinto che non poteva migliorarsi il popolo, se prima non si riformasse il clero; giacché principale ostacolo al successo delle missioni era la corruzione dei pastori di anime. Come convertire il gregge, e come farlo poi perseverare in propositi di bene, se il clero, ignorando l’eccellenza del sacerdozio e la importanza de’ suoi obblighi, era con la sua condotta motivo continuato di scandalo ai fedeli? Di qui nasce nel santo e si matura lentamente, ma inesorabilmente, il primo disegno di fondare una nuova società che intendesse a trasformare radicalmente il clero, attraverso l’opera dei seminari, nei quali avrebbe dovuto essere preparato adeguatamente per corrispondere alle finalità della sua missione. Egli prega, si consiglia, discute. Il suo disegno non arride a molti de’ suoi confratelli, i quali prevedono che, per attuarlo, Giovanni Eudes sarebbe uscito dalla Società dell’Oratorio. Essi ben conoscevano la tempra dell’Uomo, che, quando si vedeva chiamato da Dio ad un’ardua impresa, non vi rinunziava facilmente. – L’opposizione frattanto si accentuava. Il santo, che ama il suo Istituto e che non riesce a fargli abbracciare l’idea ch’egli perseguiva con tanto entusiasmo, soffre immensamente. La sua anima è lacerata da una terribile lotta. È una dolorante tragedia che si svolge nel suo cuore. Ma, scoccata l’ora di Dio, non tentenna, e non si ritrae indietro. Pur sentendosi desolato e trafitto dal pensiero di dover abbandonare luoghi così cari e persone così venerate, si distacca coraggiosamente dall’Oratorio. Tale distacco gli procura il titolo di orgoglioso, di ambizioso e di ribelle. Non importa. Si può combattere lo stesso nemico anche in altre trincee, purché si militi sotto la stessa bandiera, si serva la medesima causa e si dilati il regno del condottiere supremo, Cristo, nostro Signore. L’oratore e il missionario diventa così organizzatore. Come un soldato, assurgendo alla condizione di capitano, organizza una milizia e prepara il suo piano di battaglia per sconfiggere i nemici della patria, così il valoroso soldato di Cristo, desiderando di abbattere l’iniquità che imperversava sulla sua nazione, organizza la Congregazione di Gesù e Maria e si accinge alle più aspre battaglie per la difesa della fede e della morale. Nacque così dal suo cuore, in un impeto di amore gagliardo a Cristo, il nuovo sodalizio, che si proponeva due scopi precipui: formare, con gli esercizi del seminario e dei ritiri, dei buoni ecclesiastici, e suscitare lo spirito cristiano nel popolo mediante le missioni, le predicazioni e l’amministrazione dei Sacramenti. Il rinnovamento del clero e del popolo fu il suo nobile obbiettivo. Con un clero ricco di coltura e di pietà, pieno di spirito di sacrificio, e posto a disposizione del Papa e dei Vescovi, si sarebbero restaurate le sorti della Religione, e, con queste, quelle della società civile. A tredici chilometri da Caen, verso il mare, in un santuario dedicato a Maria, si raccoglie il primo manipolo di eroi, che sotto la guida del santo giurano dinanzi all’altare di consacrarsi a quest’epoca di restaurazione. Per conseguire il primo de’ suoi scopi, la rinnovazione del clero, occorreva santificare i membri della sua Congregazione, rendendoli strumenti adatti a formare nuovi ecclesiastici, degni di esercitare poi santamente il loro ministero. Qui convergono i primi sforzi del fondatore. Né gli fu difficile creare una milizia di santi fra i suoi seguaci. L’esempio del maestro era un fascino per i discepoli. Alla scuola del suo esempio e della sua dottrina integra ed illuminata cresce e giganteggia il manipolo dei valorosi. Preghiera e studio, azioni di pietà ed edificanti letture, alternate coll’esercizio del ministero, sono il loro cibo quotidiano. Il progresso spirituale li accompagna di giorno in giorno. Lo spirito di povertà, di semplicità, di candore viene ad informare le loro anime; lo zelo più ardente le eccita a promuovere seriamente la causa di Dio; la fiamma della carità le pervade e le accende, stimolandole a suscitare in tutti faville d’amore e sante aspirazioni. Quei prodi, corroborati settimanalmente in questa scuola di virtù sode e robuste, nei giorni festivi si recavano nelle diverse parrocchie per diffondere nei cuori altrui quelle spirituali ricchezze ond’essi erano ricolmi. Ad ecclesiastici di tal fatta si poteva affidare sicuramente la riforma del clero. – Con l’aiuto di questi uomini, Giovanni Eudes forma dei preti secondo lo spirito di Cristo, si studia poi di rivederli nelle riunioni da lui organizzate, per rassodarli nella vocazione e nei propositi di bene. Quando si recava ad evangelizzare una città od una campagna, affrettavasi a riunire gli ecclesiastici della contrada, e li intratteneva con molta cordialità su quanto potesse contribuire alla loro perfezione individuale, ad un più efficace esercizio del loro ministero e ad un adempimento più scrupoloso dei loro doveri sacerdotali. Erano veri cenacoli di pietà e di studio, nei quali talvolta si contavano fino a trecento gli ecclesiastici che vi prendevano parte. Da questi ritiri spirituali, ravvivati dalla rugiada di celesti consolazioni, l’anima del clero usciva commossa e rinnovata. All’opera di questi ritiri si aggiunse la fondazione dei seminari di Caen, di Coutances, di Lisieux, di Rouen, di Evreux e di Rennes, scuole autentiche di santi, nelle quali i compagni di Giovanni Eudes lavoravano a formare, istruire ed esercitare coloro che aspiravano al sacerdozio o che l’avevano raggiunto. Da quei seminari, che la pietà e lo zelo del santo avevano aperto e consolidato, uscirono legioni di sacerdoti, che perpetuarono la missione del fondatore e fecero risuonare un’altra volta sotto i cieli di Francia il nome benedetto di Cristo. Il primo scopo prefìssosi dal santo era raggiunto. La restaurazione del clero era in gran parte compiuta. Da per tutto si scorgevano preti operosi e zelanti, tutti intenti alla salvezza delle anime. La buona reputazione degli ecclesiastici, cresciuti alla scuola dell’Eudes, venne universalmente riconosciuta. In quasi tutte le diocesi si notava una trasformazione confortante. I Vescovi ne godevano. La società ne intese influssi benefici e duraturi. – Mercé la sua Congregazione, ove il nostro eroe formò missionari pieni di zelo, che correvano per tutte le regioni di Francia, predicando la fede e la morale cristiana, riuscì a rinnovare interamente paesi, città e provincie. Egli fu l’anima di quest’apostolato. Oratore nel più alto grado della parola, possedeva tutte le qualità fisiche e morali, che lo rendevano eloquente e gli assicuravano il successo. Voce, gesto, vivacità di sguardo, espressione di viso, dominio assoluto del pubblico, andavano congiunti ad una dottrina soda, ad una facilità di comunicativa, ad uno slancio, ad una prontezza che gli permettevano di conquistare fin dall’inizio il cuore delle masse. La fiamma poi della grazia lo investiva talmente, che in lui tutti riconoscevano il santo e il messaggero di Dio. Ad un santo i popoli non resistono mai, e gli si danno in una dedizione completa. Giovanni Eudes fu un vero conquistatore di anime. Predicava, catechizzava, confessava per settimane intere, per mesi interi. Quando terminava la sua missione in una località, trasportava altrove le sue tende e ricominciava lo stesso lavoro. Furono ben poche le terre di Francia, che non ebbero la fortuna di giovarsi del suo apostolato. Folle imponenti si gettavano ai suoi piedi; i peccatori più ostinati gli si arrendevano; i vizi più disonoranti erano estirpati; riparate le ingiustizie; abolite le cattive pratiche; ricomposte le paci; bruciati i libri nefandi; maledetta la bestemmia; impugnati gli errori; combattuto il giansenismo; trionfante la fede; Gesù Cristo amato e adorato. Che più? I figli, camminando sulle orme del padre, sono come le squadre volanti che rapidamente si recano da una diocesi ad un’altra per predicare la buona novella e per sradicare la immonda zizzania. È una milizia agguerrita, pronta a respingere tutti gli assalti ed a difendere con vigore le posizioni e le dottrine del Cattolicismo. Mentre il santo dava tutta la sua esuberante attività a quest’opera di apostolato, creava insieme l’Istituto di Nostra Signora della Carità, generosa milizia femminile, destinata da Dio ad uno sviluppo veramente straordinario, giacché i suoi due rami, quello del Rifugio e quello del Buon Pastore, contano oggi circa 15.000 Suore, che in diverse parti del mondo si adoperano generosamente per la redenzione e riabilitazione delle infelici vittime del vizio. Molte famose peccatrici, dopo aver ascoltato il nostro missionario, toccate dalla grazia avevano formato il proposito di abbandonare la loro vita colpevole. Di qui sorse in lui l’idea di costituire un Ordine religioso, con la missione esclusiva di ricondurre le Maddalene a Gesù e di farle perseverare nel bene. Donne magnanime si ascrissero a quell’Ordine, legandosi, oltreché coi tre voti ordinari di religione, con un quarto voto, quello cioè di consacrarsi alla santificazione delle pentite. In questo voto audace e sublime, che rispecchia la misericordia di Gesù, s’innalza come sopra una roccia la nuova religiosa famiglia, che per virtù del suo fondatore e per lo spirito di sacrificio che egli seppe comunicarle, fiorisce ancora rigogliosa, testimone perenne di quell’azione provvidenziale, spiegata dall’eroico soldato di Cristo. – Oltreché con la parola, con l’orazione e con la organizzazione di due poderosi Istituti, egli combatté altresì valorosamente con la penna. Se questa nelle mani di un eretico o di un miscredente è causa di naufragio e di morte per tante anime, nelle mani di Giovanni Eudes fu strumento di vita e di propaganda cristiana. I molti libri vergati dalla penna dell’infaticabile missionario, erano un vero arsenale di sapienza e di dottrina non comune, ed un focolare ardente di pietà. È veramente da deplorarsi che gran parte di quei tesori sia andata perduta. Quei che sono rimasti, rivelano il suo immenso amore a Cristo ed alla Vergine, i due radiosi ideali, che gli palpitavano nell’anima e gl’infondevano l’ardore nelle lotte dell’apostolato. Il suo libro « Vita e regno di Gesù nelle anime cristiane », è un’eco fedele dei sentimenti di chi si era proposto di far vivere e regnare Gesù Cristo in tutte le intelligenze, in tutte le volontà, in tutti i cuori, e sottomettere al suo impero tutte le potenze e facoltà dell’anima e del corpo. In quel libro è come una visione profetica del regno sociale di Cristo, di cui egli fu un ardito precursore ed un assertore illuminato. Quello che poi scrisse di Maria intorno alla sua ammirabile fanciullezza ed al suo Cuore di Madre, è quanto di più squisito poteva sgorgare da un’anima, amante appassionata di questa celeste regina. Fin dalla età di diciotto anni aveva scelto Maria come sua sposa; e più tardi firmava col suo sangue gli sponsali mariani, che sono il canto d’amore da lui sciolto alla sua diletta, il dolce e magnifico epitalamio, scritto con accenti di tenerezza commossa, che solo il grande amore poteva ispirare. Altra arma potente di battaglia fu per lui la preghiera. Tutta la sua vita può dirsi un atto continuato di orazione. Dinanzi all’altare, prima e dopo la Messa, egli bruciava di ardore divino ed era assorto nei sublimi misteri. Le sue missioni erano precedute e accompagnate dall’aroma della preghiera, alla quale sola affidava i successi del suo ministero. Conquistava le anime dei popoli più con la preghiera che con l’azione; questa senza di quella sarebbe stata sterile e incapace di produrre tante trasformazioni e conversioni; ravvalorata invece dalla preghiera, fu una forza incoercibile che dominava gli spiriti e li rinnovava. La sua attività, privata e pubblica, era plasmata di quello spirito di orazione, che la rendeva feconda ed efficace. Parlare, predicare, confessare, organizzare, scrivere era per lui pregare. Il presidio più valido, che lo sostenne durante le vicende dolorose e angoscianti della sua vita, fu la preghiera. Se non fosse appoggiato a questa forza soprannaturale, avrebbe dovuto soccombere. Uomo di orazione e di contemplazione, fu un gigante che combatté e vinse, conquistando la palma degli eroi. – Il buon soldato di Cristo si segnala altresì con l’esercizio indefesso delle virtù cristiane, la cui potenza d’attrazione sulle masse è immensa. Il popolo non bada tanto alla scienza quanto alla santità. La scienza potrà interessare i dotti, ma la santità conquista tutti; e questa si manifesta nello splendore delle virtù, esercitate eroicamente giorno per giorno con la costanza propria dei santi. In Giovanni Eudes rifulse in maniera speciale l’amore di Dio, forte, sincero, puro, che gli traboccava dall’anima, e fu la sorgente di tutte le opere che intraprese a vantaggio del prossimo. Egli non visse un giorno solo per sé; non conobbe affatto l’egoismo di una gran parte degli uomini, che si racchiudono nella cerchia della propria individualità, e non si curano che di se stessi; arse invece di fervido zelo che lo spinse a consumare le sue forze e la sua vita in un lavoro nobilissimo per la salvezza delle anime. Per strappare i peccatori al vizio, all’errore e all’inferno, non badò a fatiche, a sacrifici, ad ostacoli, a minacce. Un mare di lacrime e di sangue – egli diceva – non basterebbe a piangere il danno delle anime che si perdono per mancanza di operai apostolici. Fermo e saldo nell’avversa fortuna, paziente ed inalterabile fra i disprezzi e le persecuzioni, tranquillo e perseverante nella sua propaganda, sottomesso in tutti gli eventi alla volontà divina, retto nei suoi intendimenti, puro nei pensieri e nelle opere, fu modello di bontà, di giustizia e di santità alla sua patria. Sul letto di morte coronava la sua vita di santo con un atto sublime di fede, di umiltà, di amore e di sacrifizio, allorché, accasciato e morente, volle lasciare il suo giaciglio e inginocchiarsi sul nudo pavimento per ricevere l’Ostia santa. Dinanzi a questa dichiarò di fare ammenda dei suoi peccati, chiese perdono ai suoi confratelli, e si strinse a Dio in un palpito supremo, che era il compimento dell’immolazione e l’ultimo grido di amore al Padre, che andava a raggiungere nei cieli. – Verrei meno al mio dovere di panegirista e di storico, se passassi sotto silenzio quel coraggio eroico, del quale il santo dette continue prove durante il suo lungo apostolato. Il soldato deve essere per sua natura coraggioso; deve affrontare con petto impavido tutti i pericoli; né deve sgomentarsi per le durezze dei cimenti o ripiegare la bandiera dinanzi all’irrompere delle forze nemiche. Giovanni Eudes, forte e valoroso soldato di Cristo, nell’adempimento della sua missione, non conobbe nessuna di quelle debolezze, che potrebbero oscurare la luce dell’eroe; e in tutte le circostanze più aspre e difficili combatté con coraggio di Cristiano e di apostolo. Al cospetto dei nobili e dei magistrati predicò ugualmente la verità, senza attenuarla in qualsiasi maniera. Di fronte ai potenti del secolo non usò blandizie di sorta, né ricorse ad alcuna di quelle accortezze, che potrebbe suggerire la prudenza o la pusillanimità. Nelle sue frequenti relazioni con i sovrani, aborrì dalle servilità del cortigiano, come dalle facili e mendaci approvazioni dell’adulatore. Ai potenti ed ai despoti si curvano sempre le schiene in un servilismo ributtante. È la storia di tutti i paesi e di tutti i tempi. Il nostro santo, che aveva a schifo cotesti sistemi, in tutti i suoi atti s’ispirava alla semplicità del Vangelo, ai diritti della verità, alle esigenze della giustizia. I suoi memoriali alla reggente Anna d’Austria, con i quali la richiamava ai suoi doveri di regina, erano capolavori di dignità e di ardimento. Nell’additarle le piaghe del tempo, e nel chiedere provvedimenti contro gli abusi e le iniquità che desolavano la Francia, e contro i danni che l’audacia del Giansenismo produceva nelle anime, non ricorreva a circonlocuzioni, né si valeva di eufemismi poco sinceri, ma scriveva con precisione e con energia, come gli dettava la sua coscienza di sacerdote. Nel 1660, chiudendo un corso di missioni a Parigi, non si peritò d’indirizzarsi pubblicamente alla regina madre, supplicandola con vivo ardore di fede, perché estirpasse le vecchie e nuove eresie, e rimuovesse le cause di tante miserie. Nell’anno appresso, mentre predicava in una festa solenne, non appena scórse la predetta regina, che era venuta ad ascoltarlo, cambiò il soggetto del suo discorso; e, prendendo motivo dal fuoco, che due giorni prima aveva incendiato al Louvre la galleria del re, ne trasse argomento per ammonire che se il fuoco temporale non aveva risparmiate le case del re, il fuoco eterno non perdonerebbe né ai principi e sovrani, né a principesse e regine, se non vivessero cristianamente e non impiegassero la ‘loro autorità a distruggere la tirannia del peccato e del demonio, ed a stabilire nelle anime dei sudditi il regno di Dio. Non per questo si offese Anna d’Austria, che era solita dire: « Ecco come bisogna predicare; coloro che ci adulano, c’ingannano, e dovrebbero invece dirci con tutta franchezza la verità ». Invitato nel 1671 dal re a predicare il Giubileo di Clemente X al castello di Versailles, accettò l’incarico, e dinanzi al potente sovrano Luigi XIV ed alla sua sposa Teresa d’Austria, parlò con franchezza cristiana in quella corte, ove si trascorreva il tempo di festa in festa, e non mancavano cortigiani che facevano a gara nel lusingare le passioni del re. Due anni dopo predicava a Saint-Germain en Laye alla presenza del re, della regina, delle dame e dei gentiluomini di corte, e col suo coraggioso linguaggio commosse tutto l’uditorio e suscitò nel cuore dei monarchi sentimenti più vivi di cristiana pietà. In grazia dei suoi ardimenti, il santo vinse ben dure battaglie per la fede e per Cristo. Con pari animo tenne fronte alle persecuzioni che gli vennero mosse, alle tempeste che gli si scatenarono contro, all’uragano che tentò di rovesciare con lui i suoi disegni e le sue opere. Rare volte nella storia si legge di persecuzioni ostinate, ingiuste e violente, quali furono quelle che ebbe a subire il nostro santo. Offese ed ingiurie, provenienti non solo da uomini sregolati e corrotti, ma anche da preti e religiosi, da curati e vicari, che dal pulpito e nel confessionale lo attaccavano con inaudita animosità; accuse di spergiuro, di sacrilegio e di ribellione, che gli furono formulate; miserabili libelli pubblicati per distruggere la sua reputazione e per prevenire in suo danno le autorità ecclesiastiche e civili; calunnie infamanti, per le quali lo si qualificava uomo senza fede, senza pudore, senza religione; odio implacabile che giunse al punto da fare interdire la cappella del suo seminario di Caen; maneggi ignobili per suscitare contro di lui le diffidenze o le inimicizie di personaggi eminenti, di Vescovi e degli stessi monarchi; tutte le armi più disoneste e sleali furono adoperate a fine di annientare l’opera sua, paralizzare la sua azione, e creare il vuoto e la solitudine attorno all’uomo che combatteva con purezza d’intendimenti per salvare le anime, per restaurare la Francia, per difendere la causa della Religione. Altri al suo posto avrebbe finito col cedere le armi. Egli non si perdette mai di coraggio; fissando gli occhi sulla croce, rinfrancava le sue speranze; e impavido atleta giurava di morire combattendo per il Signore. Làbora sicut bonus miles Christi Iesu. Il forte soldato di Cristo non si arrestò mai nel suo lavoro; proseguì animosamente la sua battaglia; e, sopportando con animo invitto tutte le persecuzioni, insegnò col suo esempio che non ai deboli ed ai pusillanimi, ma solo ai generosi ed eroici lottatori è riserbata, nella storia e nella luce dell’immortalità, la corona e la gloria.

*

* *

Chi mai sostenne e confortò Giovanni Eudes fra le vicende di quelle terribili persecuzioni? Quando un povero mortale è per cadere sotto il peso della sventura, se ha un cuore amico che gli batte vicino, se la parola tenera di una madre gl’infonde balsamo e vita, egli non cade e non dispera. Il dolore non lo abbatte. Una grande speranza lo sorregge e lo guida. Quando un soldato, circondato da tanti nemici, è per soccombere sul campo di battaglia, se al suo fianco vede agitarsi la bandiera, nelle cui pieghe palpita il cuore della patria, egli riprende tosto vigore e combatte da eroe, compiendo generosamente tutto il suo dovere. Allorché sui campi lombardi i soldati, che si erano uniti per la vita e per la morte, si videro circondati dalle compatte falangi tedesche, in quell’ora fatale fissando il Carroccio, in cui l’ideale della patria e della fede parlava al loro cuore, quei giovani figli d’Italia, in un impeto gagliardo che travolse l’esercito del Barbarossa, salvarono l’onore della patria e la libertà dei Comuni. – Anche al santo, nei suoi aspri e lunghi cimenti, sorrisero due bandiere, nelle quali erano scolpiti due cuori: il Cuore santissimo di Gesù e quello di Maria. Queste furono le sue più belle e dolci devozioni. Con una fede che ha del sublime, e con una costanza che ha del meraviglioso, erasi fatto propagatore delle due devozioni. Per più di mezzo secolo fece sventolare queste due fiammanti bandiere sotto il cielo di Francia, difendendole contro il giansenismo imperante e contro le varie opposizioni congiurate a disperdere il culto liturgico dei Sacri Cuori, che trionfò pienamente. Egli moriva sulla breccia, salutando quelle due bandiere gloriose, che lasciava come retaggio di salvezza alla Francia e come pegno di riscossa alla Chiesa. La devozione ai Cuori di Gesù e di Maria, divulgata per l’apostolato di Giovanni Eudes, salvò veramente la Francia nel periodo più funesto e più tragico della sua storia. Ricordiamo una pagina che ci riporta ai tempi del Terrore. Luigi XVI, balzato dal trono, è rinchiuso nella prigione del Tempio. La sposa Maria Antonietta, la sorella Elisabetta e la principessa di Lamballe, anch’esse sono gettate nel fondo del carcere. Quest’ultima, di sangue e di stirpe italiana, aveva voluto dividere la sorte degl’infelici monarchi. Condannata a morte, è trucidata ferocemente da alcuni miserabili che le mozzarono il capo e, conficcatolo in cima ad una picca, lo mostrarono alle finestre del carcere, ove era chiusa la famiglia regale. In quell’ora di crudele martirio Elisabetta, serena e forte, è l’angelo che consola quelle anime martoriate. Il monarca è tratto al patibolo, e vi lascia la testa perdonando e pregando. La stessa sorte è riserbata più tardi a Maria Antonietta, che affronta il supplizio con un coraggio ed una dignità che toccano la cima dell’eroismo. Rimane Elisabetta, la sorella del re. Anche per essa è aperta la via del patibolo. Quando i commissari della rivoluzione frugano nelle sue tasche, non vi trovano che due cose: un libretto di devozione, entro il quale era una immagine dei due Cuori di Gesù e di Maria, ed un foglio di quattro pagine intitolato: Consacrazione della Francia al Sacro Cuore di Gesù. Quella immagine dei due Cuori santissimi ci richiama l’apostolato di Giovanni Eudes, e il pegno di salvezza che egli aveva lasciato alla sua patria. Senza l’apostolato del santo, quante più gravi iatture sarebbero state riserbate alla Francia! Senza la sua opera restauratrice, continuata con ardore dai suoi figli e coadiuvata da quella di altri campioni della fede, il clero ed il popolo cristiano sarebbero stati travolti interamente dalla rivoluzione. La resistenza non sarebbe stata possibile in alcuna maniera. Ecco la luce più fulgida che abbellisce la fronte dell’apostolo. Il clero ed il popolo francese, per quanto gli editti di proscrizione e di morte lo permettessero, resistettero impavidi contro la bufera. Ogni paese ed ogni città di quella nazione ebbe i suoi martiri e le sue catacombe. Gli eroismi di quei confessori, che vennero trucidati nel Carmine ed a S. Firmino, tra i quali si contano non pochi figli del Santo, non sarebbero stati così cospicui, se il germe che produsse gesta tanto gloriose, non fosse stato seminato nel secolo antecedente da questo apostolo. Giovanni Eudes aveva lasciato alla Francia due grandi patrimoni: una fede ed una fiamma; la fede restaurata nel clero e nel popolo; la fiamma di due cuori divini, che creò la forza di quella Chiesa militante. La Francia cristiana sotto i colpi formidabili di quella rivoluzione satanica che uccideva preti, bruciava altari, chiudeva chiese ed aboliva il culto cattolico, cadde, è vero, intrisa di sangue e gemette per tante ferite. Ma dopo la tempesta risorse più gagliarda e più giovane, in virtù di quella fede e di quella fiamma. – Io saluto il soldato invitto, l’eroe magnanimo, l’alfiere impavido e l’intrepido condottiero, che amando e soffrendo, evangelizzando e combattendo, salvò la sua patria. Onore all’eroe! – I martiri della rivoluzione levino la testa dai loro avelli, benché deturpata dal ferro dei manigoldi, e con tutti gli spiriti immortali della Francia cantino l’epopea gloriosa di questo eroe, il cui solo nome basta ad illustrare la fede e la grandezza di un popolo. – O santo, Roma ha rivendicato giustamente il tuo merito ed i tuoi sacrifici; giacché non solo approvava le tue opere e benediceva i tuoi Istituti, ma afferrava dalle tue mani la bandiera dei Sacri Cuori e, inalberandola su tutti gli altari, realizzava il tuo nobile ideale. Ma Roma, la città di Dio, la patria delle anime, la città pontificale che gusta tutta la bellezza e il dono della sua cattolicità, ti ha posto anche sulla fronte l’aureola dei santi, ed oggi in questo tempio farnesiano ti offre le primizie del culto, che ti sarà reso in ogni terra. Roma eterna, che vive d’immortalità, ed è la sola città del mondo che può dispensare agli uomini l’immortalità, ha consacrato il tuo nome non sulla fragile pietra o sul marmo muto, ma nei cuori riconoscenti dei fedeli, nella poesia sublime della fede, nel canto suggestivo del culto, nel plauso e nell’ammirazione della storia.

SALMI BIBLICI: “DOMINUS REGIT ME, ET NIHIL MIHI DEERIT” (XXII)

Salmo 22: “Dominus regit me …

CHAINE D’OR SUR LES PSAUMES

ou LES PSAUMES TRADUITS, ANALYSÉS, INTERPRÉTÉS ET MÉDITÉS A L’AIDE D’EXPLICATIONS ET DE CONSIDÉRATIONS SUIVIES, TIRÉES TEXTUELLEMENT DES SAINTS PÈRES, DES ORATEURS ET DES ÉCRIVAINS CATHOLIQUES LES PLUS RENOMMÉS.

[I Salmi tradotti, analizzati, interpretati e meditati con l’aiuto delle spiegazioni e delle considerazioni seguite, tratte testualmente dai santi Padri, dagli oratori e dagli scrittori cattolici più rinomati da …]

Par M. l’Abbé J.-M. PÉRONNE,

CHANOINE TITULAIRE DE L’ÉGLISE DE SOISSONS, Ancien Professeur d’Écriture sainte et d’Éloquence sacrée.

TOME PREMIER.

PARIS

LOUIS VIVES, LIBRAIRE-ÉDITEUR RUE DELAMMIE, 13

1878

IMPRIM.

Soissons, le 18 août 1878.

f ODON, Evêque de Soissons et Laon.

PSALMUS XXII

Psalmus David.

[1] Dominus regit me, et nihil mihi deerit:

in loco pascuæ ibi me collocavit.

[2] Super aquam refectionis educavit me, animam meam convertit.

[3] Deduxit me super semitas justitiæ, propter nomen suum.

[4] Nam, etsi ambulavero in medio umbræ mortis, non timebo mala, quoniam tu mecum es.

[5] Virga tua, et baculus tuus, ipsa me consolata sunt.

[6] Parasti in conspectu meo mensam, adversus eos qui tribulant me;

[7] impinguasti in oleo caput meum; et calix meus inebrians quam praeclarus est!

[8] Et misericordia tua subsequetur me omnibus diebus vitae meæ;

[9] et ut inhabitem in domo Domini, in longitudinem dierum.

[Vecchio Testamento secondo la Volgata

Tradotto in lingua italiana

da mons. ANTONIO MARTINI Arciv. Di Firenze etc.

Vol. XI

Venezia, Girol. Tasso ed. MDCCCXXXI]

SALMO XXII

Esimia benevolenza di Dio verso i suoi eletti, figurata dalle cure dell’ottimo pastore verso le sue pecorelle.

Salmo di David.

1. Il Signore mi governa, e niuna cosa a me mancherà;

2. Egli mi ha posto in luogo di pascolo abbondante; Mi ha condotto a un’acqua che riconforta.

3. Richiamò a sé l’anima mia. Mi ha condotto pei sentieri della giustizia, per amor del suo nome.

4. Imperocché, quand’anche io camminassi in mezzo all’ombra di morte, non temerò disastri, perché meco sei tu.

5. La tua verga stessa e il tuo bastone mi han consolato.

6. Hai imbandita dinanzi a me una mensa, in faccia di quelli che mi perseguitano.

7. Hai asperso il mio capo di unguento; ma quanto è mai buono il mio calice esilarante!

8. E la tua misericordia mi seguirà per tutti i giorni della mia vita,

9. Affinché io abiti nella casa del Signore per lunghi giorni.

Sommario analitico

Questo salmo, sorgente inesauribile di soavità e sicurezza per l’anima che ama Dio e medita sulla sua provvidenza paterna, è stato composto da Davide, poco tempo dopo che Samuele gli ha conferito l’unzione reale, e torna verso il suo gregge nelle pianure così fertili di Bethleem. Davide, qui, nel senso allegorico e tropologico, rappresenta la Chiesa ed ogni uomo giusto che nella Chiesa riconosce Gesù Cristo come suo pastore e gli rende grazie per i molteplici doni che gli ha fatto, e soprattutto per i Sacramenti del Battesimo e dell’Eucarestia. Il Profeta qui fa tre cose:

I – Descrive la via purgativa dell’uomo, sotto la figura di un pastore.

II – La via illuminativa, sotto la figura di un ospite e di un amico, al quale si è dato nutrimento durante la pace, e l’olio degli atleti per il giorno del combattimento.

III – La via unitiva, sotto il simbolo di una coppa inebriante.

Iˆ Sezione.

Gesù Cristo ci viene qui presentato come un pastore che riunisce in sé tutte le condizioni di un pastore buono ed eccellente:

1) È il Signore stesso e non un mercenario che pasce le sue pecore.

2) È un pastore liberale: “nulla potrà mancarmi”.

3) È un pastore ricco: “mi ha stabilito in pascoli erbosi” (1). –

4) È un pastore buono e soave: “mi ha condotto presso acque tranquille”. –

5) È un pastore vigilante e attento a riportare la pecora errante: “egli fa ritornare la mia anima”. (2) –

6) È un pastore prudente che conduce le sue pecore lungo sentieri sicuri ed agevoli (3). –

7) È un pastore potente e forte per difendere le sue pecore da ogni pericolo (4). –

8) È un pastore severo che al bisogno sa fare un uso moderato del vincastro e del bastone pastorale (5).

II e III Sezione

In questa seconda parte, il Profeta ci propone le via illuminativa, sotto il simbolo di un amico ammesso al banchetto di un amico, e la via unitiva, sotto la figura di un calice inebriante:

1) Gesù Cristo riceve come amici ed ospiti coloro che si presentano alla sua tavola e dà loro la forza necessaria per combattere i nemici e sopportare tutti i travagli (6). –

2) Gesù Cristo nell’Eucarestia, è per l’anima uno dei profumi più soavi (7). –

3) Gesù Cristo, nell’Eucarestia, inebria l’anima ispirando il disprezzo delle cose terrene, e l’unisce a Gesù cristo. –

4) La misericordia di Dio segue ed accompagna tutta la vita coloro che ricevono con pietà l’Eucaristia (8). –

5) Gesù Cristo, nell’Eucaristia, conduce misericordiosamente i suoi servitori fino al cielo (9).

Spiegazioni e Considerazioni

I. Sezione – 1-5.

ff. 1. –  Quale consolazione per un Cristiano avere Dio per guida e per pastore! Cosa gli può mancare? Che calma, che sicurezza! « Io non sono turbato, Signore, se voi mi guidate come pastore » (Ger. XVI, 17). – Dite con Giacobbe: « Se Dio sarà con me e mi proteggerà in questo viaggio che sto facendo e mi darà pane da mangiare e vesti per coprirmi, se ritornerò sano e salvo alla casa di mio padre, il Signore sarà il mio Dio » (Gen. XXVIII, 20, 21). – Differenza immensa c’è tra Dio, considerato come pastore, e gli altri pastori. Dio, nostro Maestro sovrano e nostro Creatore, non ci mette in altre mani; Egli non disdegna di essere Egli stesso nostro pastore, di condurci al passo come un pastore conduce le sue pecore « Ascoltatemi, voi che governate Israele, voi che conducete Giuseppe come una pecora » (Sal. LXXIX, 1). – In quanti modi la Provvidenza paterna di Dio ci governa e ci conduce. La Provvidenza che Dio stende sulla nostra vita e su ciascuno di noi, in particolare è una rivelazione personale del suo amore. Nessuno di noi saprebbe studiare la propria storia senza trovarvi l’influenza soprannaturale e l’azione diretta di Dio, così sensibile ed anche palpabile come se leggessimo una pagina dell’Antico Testamento. Dio veglia su noi con tanta sollecitudine che noi potremmo ingannarci e crederlo il nostro Angelo custode, invece che il nostro Dio (Faber, Il Creatore e la creatura). – Essendo Gesù Cristo il Pastore della Chiesa, nulla può mancare alle sue pecore, né per l’anima, né per il corpo. 1) Egli da loro per nutrimento la propria carne: « … la mia carne è un vero nutrimento ed il mio sangue vera bevanda ». – 2) Egli le nutre con la sua grazia: « Felici coloro che hanno fame e sete di giustizia, perché essi saranno saziati ». – 3) Egli li nutre di scienza e di dottrina: « Egli lo nutrirà con pane di vita e di intelligenza, e lo disseterà con la saggezza e la salvezza » (Eccles. XV, 3). – 4) Egli li nutre di gloria celeste: « Quale ineffabile onore è il far parte delle truppe di Gesù Cristo! Se noi vogliamo seriamente riflettervi, noi troveremmo in questo stesso pensiero, in mezzo a queste lacrime, a queste tribolazioni, il motivo di una grande gioia » (Sant’Agost. Lib. De Ovib.). – Davide faceva qui allusione a Bethleem, città situata in una contrada fertile, irrorata da numerosi corsi d’acqua … la Chiesa, vera Bethleem, è la casa del pane. Tre pascoli vi sono nella Chiesa: Gesù Cristo, i Sacramenti e le Sante Scritture. E cosa sono questi tre pascoli, se non Gesù Cristo? È Lui che ci nutre e ci ripara le forze che abbiamo perso. È nei divini Sacramenti che raccogliamo questo fiore nuovo che ha sparso il buon odore della resurrezione; voi raccogliete questo giglio brillante degli splendori dell’eternità; raccogliete la rosa, cioè il sangue del corpo del Signore. – Sono ancora i libri delle Scritture celesti ad essere il nostro nutrimento quotidiano, con cui ripariamo le forze della nostra anima quando ne gustiamo i divini oracoli, o quando ruminiamo frequentemente e approfondiamo le verità che abbiamo solo sfiorato con la semplice lettura (S. Ambr. Serm. XIV sur le Ps. CXVIII.). – il Re-Profeta, dice « in loco Pascuæ », e non « in locis », perché la Chiesa è una. Le eresie, gli scismi, le false filosofie, il libero pensiero sono dei deserti aridi pieni di erbe velenose. Sovrana importanza è il ben considerare dove si debba cercare questo pascolo e dire come la sposa dei cantici: « Dimmi, o amore dell’anima mia, dove vai a pascolare il gregge, dove lo fai riposare al meriggio, perché io non sia come vagabonda dietro i greggi dei tuoi compagni » (Cant. I, 7). – Per troppo tempo sono stato simile alla pecora che erra e perisce, ma non voglio più seguire i pastori mercenari che proponevano davanti ad essi la volontà dei loro capricci; i loro pascoli lussureggianti e fioriti, non erano che veleni mortali, e mai la minima ombra mi metteva al riparo dagli ardori di un sole bruciante! Voi solo, Signore, sapete dare alla pecora che in voi confida l’alimento che la fa vivere e l’ombra sotto la quale riposare. È Gesù Cristo stesso che ci pone nei suoi pascoli. Egli è nel contempo il Pastore e la via; Egli lo fa con sollecitudine, con carità, con soavità. Se diventate pastore voi stessi, con quale bontà, con quale dolcezza, con quale amore dovreste pascere le pecore di Gesù Cristo. « Pietro, mi ami tu? Pasci le mie pecore ». Gesù Cristo, dice san Crisostomo, avrebbe potuto dire a Pietro: se mi ami, dedicati ai giovani, dormi sulla terra nuda, veglia continuamente, sii il protettore degli oppressi, mostrati padre degli orfani, difensore delle vedove. Ma no, Egli gli domanda solo una cosa: « pasci le mie pecore ».

ff. 2. –  Questa acqua fortificante, è l’acqua del Battesimo, ove noi veniamo rigenerati; è l’acqua della grazia che ci purifica e ci infonde nuove forze; è l’acqua della saggezza che disseta e rinfranca la nostra anima. « Colui che ne berrà non avrà mai sete » (Giov. IV). – Questa è l’acqua viva e pura e che sola spegne la sete. L’acqua stagnante e fangosa dei beni e dei piaceri della terra non fa che alterare. Noi attingiamo, alla sorgente della misericordia, le acque del perdono per cancellare i nostri peccati; noi attingiamo alla sorgente della grazia le acque della devozione per produrre e spandere la pioggia delle buone opere. Noi attingiamo alla fonte della saggezza le acque del discernimento spirituale per spegnere la nostra sete (S. Bern. I, Serm. sur la Nat.). – Dovere di un pastore è: condurre le sue pecore presso le acque pure della sana dottrina; « Non vi basta pascolare in buone pasture, volete calpestare con i piedi i resti della vostra pastura; non vi basta bere acqua chiara, volete intorbidire con i piedi quella che ne resta. Le mie pecore devono brucare ciò che i vostri piedi hanno calpestato e bere ciò che i vostri piedi hanno intorbidito » (Ezech. XXXIV, 18, 19). – « Egli ha convertito la mia anima ». A Dio solo appartiene il cercare, il ricondurre la pecora errante, a Dio solo appartiene la conversione della nostra anima. Questa conversione esige un atto di potenza superiore a quella che richiede la creazione. Il pastore deve lavorare con tutto il suo potere per convertire la anime che gli sono affidate, se … non vuole esporsi a questo terribile rimprovero:  «Vanno errando tutte le mie pecore in tutto il paese e nessuno va in cerca di loro e se ne cura » (Ezech. XXXIV, 6).

ff. 3. –  I sentieri sono letteralmente (sentiero = semi-iter) una via più stretta delle strade ordinarie, e bisogna intendere, con questi sentieri della giustizia, la pratica dei consigli così come quella dei comandamenti. « Il cammino della virtù – dice Bossuet – non è quello delle strade larghe nelle quali ci si può estendere con libertà; al contrario noi apprendiamo, dalle Sante Lettere, che questo non è che un piccolo sentiero, ed una via stretta e angusta e nello stesso tempo estremamente diritta; noi dobbiamo comprendere che in essa bisogna camminarvi in semplicità, e con grande rettitudine. Se ci si distoglie, o anche se si vacilla solo in questa via, si cade negli scogli dai quali è circondata da una parte e dell’altra » (Paneg. De S. Jos. I. P.). – Il pastore deve condurre le sue pecore, non lungo cammini larghi e spaziosi che conducono alla morte, ma attraverso i sentieri stretti della giustizia, che solo conducono alla vita. – Sull’esempio di Gesù Cristo, il buon pastore non deve cercare la propria gloria, ma unicamente quella di Dio nell’opera divina della conversione delle anime. Grande differenza c’è tra lo spirito mercenario, che guarda le pecore in rapporto a se stesso, come un bene proprio, e la carità pastorale che non le considera come proprie, perché esse sono di Gesù Cristo ed i loro interessi sono suoi (Dug.).

ff. 4. – L’ombra della morte, è il pericolo della morte; è la vita presente, che è piuttosto una morte che una vita, che non è che un’ombra in cui non vi è nulla di solido e di reale, e che svanisce rapidamente come l’ombra. L’ombra della morte sono ancora le tribolazioni, le prove, le grandi tentazioni, che riempiono la nostra anima di inquietudini mortali, nelle quali sembra che tutta la natura si sia scatenata contro di noi, e in cui corriamo il rischio di perdere la vita dell’anima e del corpo. – Se un branco di pecore è in piena sicurezza quando è condotto o sorvegliato da un uomo, quale non deve essere per noi la sicurezza, per noi che abbiamo Dio stesso come pastore? (S. Agost. lib. de Ou.). – Il pastore che ama le sue pecore, e che non vuole che nessuna di esse perisca (Matt. XVIII, 14) è un Pastore vigilante: « … non dormirà e non si assopirà, Colui che custodisce Israele » (Sal. CXX, 4); egli non teme in mezzo ai mali dai quali ti senti oppresso, perché: « Io sono il tuo Dio che ti fortifica, non mi svio mai dalla via nella quale ti introduco, perché Io sono con te, e non cesserò mai di soccorrerti; ed il Giusto che Io invio al mondo, questo Salvatore misericordioso, questo Pontefice compassionevole, ti tiene per mano » (Isaia, XLI, 9, 10.); è un Pastore potente e forte: « Io do alle mie pecore la vita eterna, esse non periranno mai, e nessuno le rapirà dalla mia mano. » – Dovere per il Pastore delle anime è l’esporre la propria vita, se necessario, per le proprie pecore, l’essere sempre con esse e non abbandonarle come fa un mercenario.

ff. 5. –  La verga è per gli agnelli, ed il bastone per i figli diventati più grandi e già avanzati, in virtù della propria crescita, dalla vita animale a quella spirituale (S. Agost.). – Secondo San Gregorio, la verga è per la correzione, il bastone per sostegno. – « Il pastore porta la verga ed il bastone, l’una per le pecore, l’altro contro i lupi, ma l’uno e l’altro nell’interesse degli eletti » (S. Bern.). – La verga pastorale è necessaria per difendere le pecore contro gli attacchi dei lupi, per allontanarle da tutto quello che potrebbe corromperle: cattive dottrine, letture pericolose, commerci sospetti. – Il bastone pastorale non solo serve a condurre le pecore, ma pure per battere salutarmente quelle che si allontanano. – È il dovere della correzione con la quale un buon pastore evita egualmente due eccessi contrari: un lassismo complice che perdona tutto, ed una severità inesorabile che non vuole perdonare nulla (Dug.).

II e III sezione. – 6-9

ff. 6. –  Questa mensa è l’abbondanza delle grazie e delle consolazioni divine (Orig.), essa è la santa Scrittura. Allo stesso modo di quando, sedendosi ad una tavola si ritrova il rilassamento, la consolazione e la refezione, così i Cristiani, sedendosi al banchetto delle sante Scritture, vi trovano consolazione e forza, cioè la fede, la speranza e la carità, contro i persecutori della Chiesa (S. Girol.). – È nella divina Eucaristia che il Cristiano attinge forza per resistere ai nemici della sua anima. – Frequentiamo quindi questo sacro pasto dell’Eucaristia, e viviamo in unione con i nostri fratelli; frequentiamola e ci nutriremo della gioia celeste, mangiamo questo pane che sostiene l’uomo; beviamo questo vino che gli deve rallegrare il cuore, e diciamo con un santo trasporto: « … che il mio calice inebriante è squisito! » Gesù Cristo si è servito del pane e del vino per darci il suo corpo ed il suo sangue, al fine di dare all’Eucaristia il carattere della forza e del sostegno, nonché il carattere della gioia e del trasporto; e col fine anche di farci comprendere, dalla figura di queste cose che costituiscono il nostro alimento ordinario, che tutti i giorni noi dobbiamo non soltanto sostenere, ma anche riscaldare il nostro cuore; non solo fortificarci ma anche inebriarci con Lui e bere a tratti lunghi già da questa vita, l’amore che ci renderà felici per l’eternità (Bossuet, Medit. LII° j.). – Quando il vostro nemico vi incontra dopo aver partecipato alla santa Tavola, dopo esservi seduti al celeste banchetto, scappa rapidamente come se vedesse un leone vomitare fuoco e fiamme, e non osa avvicinarsi. Quando questo nemico crudele percepisce che tutta la vostra lingua è coperta da sangue, credetemi, egli non oserà affrontare la vostra presenza, e quando vedrà la vostra bocca brillante di un chiarore divino, prenderà la via della fuga con sentimenti di vergogna e di spavento (S. Chrys. Omel. ai neofiti). – l’anima viene usata più del corpo, in mezzo alle battaglia della vita; essa si impegna lottando contro la malvagità, contro le tentazioni, contro le amare disillusioni del mondo, contro le scosse dell’odio e della calunnia; e quando non c’è più da lottare all’esterno, gli restano ancora i nemici interni, le angosce invisibili, le torture dello spirito immortale che vorrebbe delle ali per volare verso l’oggetto dei suoi desideri. Povera anima, quanto è da compiangere! Ma Dio nella sua misericordia, le ha dato, come ad un atleta, un nutrimento solido e sostanzioso: egli si siede al banchetto divino; poi terminato il pasto celeste, si alza, e come il pellegrino sempre gioioso, continua la sua strada cantando con il Profeta: « Il Signore mi conduce, nulla mi può mancare; … Egli ha servito davanti a me una tavola reale per fortificarmi nelle mie debolezze » (Mgr Landriot. Euchar, 3° Conf.) . – Dovere sacro del pastore è quello di preparare alle sue pecore la magnifica mensa del Corpo e del Sangue di Gesù Cristo; e di renderle capaci e degne di questo divino nutrimento con la parola, l’istruzione e l’esempio (Dug.).

ff. 7. –  L’Eucaristia è per l’anima uno dei profumi più soavi. Essa non è soltanto la forza, ma la soddisfazione, la gioia data a tutte le facoltà. È la proprietà dell’olio che galleggia su tutti gli altri liquidi, che è soave, si dilata e si spande, guarisce le ferite, assorbe la luce, nutre e rende l’atleta inaccessibile alla presa dell’avversario. – Ciò che c’è di essenziale in noi è la nostra anima; ecco perché il Re-Profeta gli dà il nome di capo (S. Greg. Mor. XIX). – Questo calice che inebria, è soprattutto l’Eucaristia, ove con il Sangue di Gesù Cristo, noi beviamo torrenti di latte, fiumi di miele e un balsamo celeste (S. Bern.). – Effetti di questa ebbrezza celeste prodotta dall’Eucaristia sono: 1) la sobrietà dell’anima, dice San Cipriano, perché l’ebrezza prodotta dal calice che contiene il Sangue del Salvatore è ben diversa da quella che produce il vino; – 2) la saggezza. « Essa l’abbevera con l’acqua della saggezza e della salvezza »; – 3) l’amore di Gesù Cristo; – 4) Una santa gioia. « Venite a bene a questa divina coppa, dice S. Ambrogio, gusterete la gioia della remissione dei vostri peccati, l’oblio delle pene e degli affanni di questa vita, sarete affrancati dalla paura e dalla sollecitudine della morte »; – 5) L’aumento delle forze dell’anima: – 6) Una unione intima con Gesù Cristo (S. Cipr. Serm. de cæna). – nostro Signore Gesù Cristo si tiene alla porta della vostra anima, ascoltatelo mentre vi dice: « Io batto alla porta e busso, se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, Io entrerò in lui, cenerò con lui e lui con Me » (Apoc. III, 29); e la Chiesa stessa vi dice . « … la voce del mio diletto si fa sentire alla porta » (Cant. V, 22). – Egli rimane allora alla porta ma non da solo, gli Angeli lo precedono e vi dicono: « Aprite le vostre porte, o principi ». Quali porte? Quelle di cui il Signore dice: « apritemi le porte della giustizia » (Salm. CXVII). – Aprite dunque le porte a Gesù Cristo, affinché Egli entri in voi; aprite le porte della giustizia, aprite le porte della purezza, aprite le porte della forza e della saggezza … Che la vostra porta si apra al Cristo, e non si apra solamente, ma si elevi, se essa è eterna e non fragile o deperibile. Ora le porte della vostra anima si eleveranno se voi credete che il Figlio di Dio è il Dio eterno, onnipotente, inenarrabile, incomprensibile, il Dio che conosce tutte le cose passate e future; se voi limitate anche di poco la sua potenza e la sua saggezza, non solleverete mai le porte eterne (S. Ambr. De Fide).

ff. 8, 9. –  L’abbondanza e la continuità della grazia sono meravigliose come la sua natura. Noi viviamo in un oceano di grazia come il pesce nella acque del mare. Esse sono sopra, sotto, attorno a noi, dappertutto ed in numero prodigioso; è una marea che può avere i suoi improvvisi aumenti, ma che sale sempre e non conosce deflusso o riposo. La nostra anima è tutta avvolta dalla misericordia divina, essa vive nella sua luce, si appoggia su di essa, così come il nostro corpo respira l’atmosfera, vede mediante la luce del giorno, e sente sotto i suoi piedi l’appoggio solido del nostro pianeta (Faber, le Createur et la creature, p. 224.). – « Affinché abiti eternamente, etc. », è l’ultimo frutto ed il più prezioso dell’Eucaristia: Essa ci conduce a questa Gerusalemme celeste, a questa eternità felice ove non ci sono che gioie, « ove non ci sarà più notte, né dolore, né pianto, né lacrime, né pericolo, né combattimenti ».

UN’ENCICLICA AL GIORNO, TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI DI TORNO: S. S. PIO XII – ORIENTALIS ECCLESIÆ

La lettera Enciclica che oggi leggiamo, costituisce l’occasione, nel commemorare l’opera di S. Cirillo di Alessandria, per richiamare i Cristiani d’Oriente all’unità dell’unica vera Chiesa di Cristo, la Chiesa Cattolica Romana, guidata dal “vero” Sommo Pontefice successore di S. Pietro. Dopo aver ricordato gli avvenimenti storici del Concilio di Calcedonia che condannò inesorabilmente l’empia eresia nestoriana, proprio per merito principale di S. Cirillo, il Santo Padre invoca l’unita dei Cristiani, e l’unità che egli auspica è naturalmente l’unica possibile, cioè il triplice legame che unisce tutti i seguaci del Divin Maestro  « … nell’unica Fede Cattolica, nell’unica Carità verso Dio e verso tutti, e infine nell’unica Obbedienza e soggezione alla legittima Gerarchia costituita dal divin Redentore medesimo ». Poche ma ben ponderate espressioni che ancora una volta sottolineano come l’adesione alla Verità unica, si possa compiere mediante una unica possibilità. Affermare la Verità cattolica, con tutti i suoi dogmi senza eccezioni, senza mediazioni o aggiustamenti o dissimulazioni, è l’unica via all’ecumenismo, via che non tradisca il Divin Redentore che, nel fondare la sua unica Chiesa, ha sparso il suo sangue sulla Croce. Qualunque altra ventilata ipotesi è tradimento vergognoso alla Passione del Redentore, è apostasia mortale ed inescusabile dalla Chiesa scaturita dal fianco trafitto del Figlio di Dio … e il Magistero in numerose occasioni ha ribadito, infallibilmente e irrevocabilmente, che fuori dalla Chiesa Cattolica, come Arca unica di salvezza, non c’è salvezza dell’anima ma dannazione eterna. Nella situazione attuale, eresie e scisma (… quante false chiese, pseudo monasteri ed istituti virtuali e fasulli nel mondo!) sono così numerosi e diffusi che praticamente la vera Fede Cattolica è pressoché sconosciuta o praticata senza alcuna cognizione di causa e senza rispetto per le regole canoniche, ed in realtà coloro che si professano Cattolici, con coscienza quantomeno dubbia, oltre ai gruppi sedevacantisti, fallibilisti, protestanti di Oriente e d’Occidente, aderiscono alla setta che il Santo Padre Leone XIII descrisse perfettamente nella sua preghiera a san Michele « … hostes faverrimi Ecclesiam, Agni immaculati sponsam, repleverunt amaritudinis, inebriarunt absinthio et …

ubi sedes beatissimi Petri et Cathedra veritatis ad lucem gentium constituta est, ibi thronum posuerunt abominationis et empietatis suæ … »

sì, la setta del “Novus ordo”! In questo frangente anche il gran San Cirillo di Alessandria, poco potrebbe fare, per cui il fedele “pusillus grex” possiede solo la preghiera da rivolgere con fiducia alla SS. Trinità …

Veni Domine Jesu! Ne moreris

PIO XII

LETTERA ENCICLICA

ORIENTALIS ECCLESIAEÆ

S. CIRILLO DI ALESSANDRIA 
NEL XV CENTENARIO DELLA MORTE

Sempre con somme lodi la chiesa esaltò s. Cirillo patriarca di Alessandria quale autentica gloria della chiesa orientale e preclarissimo vindice della vergine Madre di Dio. Queste lodi Ci piace ora in succinto riandare scrivendo di lui, mentre si compie il XV secolo da quando felicemente egli mutò con la patria celeste questo terreno esilio. Fino dai suoi tempi infatti il Nostro predecessore s. Celestino I lo chiama «buon difensore della fede cattolica», «sacerdote degno della massima approvazione», e «uomo apostolico». Il Concilio ecumenico Calcedonese poi non solo invoca in aiuto la sua dottrina per ravvisare e ribattere i nuovi errori, ma non esita a paragonarla altresì con la sapienza di san Leone Magno, il quale a sua volta elogia gli scritti di un così grande dottore e ne raccomanda la lettura, precisamente perché appieno combaciano con la fede dei santi padri. Né minore venerazione il quinto concilio ecumenico radunato a Costantinopoli tributò all’autorità di s. Cirillo; e più tardi, a distanza cioè di parecchi anni, quando si dibatteva la controversia delle due volontà in Cristo, di nuovo la dottrina di lui sia nel primo concilio Lateranense, sia nel sesto concilio ecumenico, fu meritatamente e vittoriosamente rivendicata dagli errori dei monoteliti, dei quali a torto alcuni l’accusavano d’essere infetta. E invero, a testimonianza dell’altro santissimo predecessore Nostro Agatone, egli «fu difensore di verità» e risultò «costantissimo predicatore di fede ortodossa». – Riteniamo pertanto cosa molto opportuna, scrivendone brevemente, di porre la vita integerrima, la fede, la virtù sua sotto gli occhi di tutti, e prima che ad ogni altro sotto gli occhi di coloro i quali, per appartenere alla chiesa orientale, ben a ragione si gloriano di questo luminare di cristiana sapienza e di questo atleta di apostolica fortezza. Ebbe onorati natali, e promosso nell’anno 412, come si ha per tradizione, alla sede di Alessandria, dapprima combatté contro i novaziani e gli altri detrattori e corruttori della genuina fede, tanto con la parola, quanto con gli scritti e la pubblicazione di appositi decreti, mostrandosi d’una vigilanza e d’un coraggio a tutta prova. Poi, al serpeggiare dell’empia eresia di Nestorio per le varie regioni dell’oriente, da quel sollecito pastore che era, subito scoprì i novelli errori che imperversavano, usò ogni mezzo per allontanarli dal gregge a lui affidato, e durante quel periodo di tempo, ma specialmente nello svolgersi del concilio di Efeso, si dimostrò invitto assertore e sapientissimo dottore della divina maternità di Maria vergine, dell’unità d’ipostasi in Cristo e del primato del romano pontefice. Avendo però l’immediato Nostro predecessore di fel. mem. Pio XI nell’enciclica Lux veritatis,  magistralmente descritta e illustrata la parte precipua che ebbe s. Cirillo nelle vicende di questa gravissima vertenza, allorché nel 1931 ricorse il XV centenario di quel concilio, reputiamo superfluo il ritornarvi sopra punto per punto. – Non si tenne pago Cirillo di combattere strenuamente contro le dilaganti eresie, di tutelare con alacre diligenza l’interezza della dottrina cattolica e di farla risaltare nella meridiana sua luce, ma quanto più poté si adoperò per richiamare sul retto sentiero della verità i fratelli erranti. I vescovi infatti della regione antiochena non avevano fino allora riconosciuta l’autorità del concilio di Efeso. Ebbene, Cirillo col suo zelo fece sì che dopo lunghi tentennamenti arrivassero finalmente a piena concordia. E dopo che con l’aiuto di Dio poté raggiungere e conciliare siffatta felicissima pace, e difenderla con diligente cura contro quanti la oscuravano e la turbavano, ormai maturo per la ricompensa e la gloria eterna, nell’anno 444, tra le lacrime di tutti i buoni, se ne volò al cielo. – I fedeli di rito orientale non solo lo collocano nel numero dei «padri ecumenici», ma nelle loro preci liturgiche l’onorano dei più ampi elogi. Così per esempio i greci, nei «Menèi» da celebrarsi il giorno 9 di giugno, cantano di lui: «Illustrato la mente dalle fiamme dello Spirito Santo, quasi sole che dardeggi i suoi raggi, esprimesti gli oracoli tuoi; lanciasti i tuoi dogmi su tutte le parti del mondo fedele, illuminando ogni condizione di persone, o beatissimo, o divino; e mettesti in fuga le tenebre delle eresie, con la potenza e le forze di Colui, che nato dalla Vergine sfolgorò i suoi splendori». Certamente hanno ben ragione i figli della chiesa orientale di rallegrarsi di questo santissimo Padre, come d’insigne loro gloria domestica. Perché su di esso risplendono in modo particolare quelle tre doti dell’animo che parimente tanto illustrarono gli altri padri dell’oriente: cioè una esimia santità di vita, in cui nominatamente brilla una calda devozione verso l’eccelsa Madre di Dio; una dottrina veramente ammirevole, per la quale la Sacra Congregazione dei Riti con decreto del 28 luglio 1882 lo dichiarò dottore della Chiesa Universale; e una premurosa e indefessa sollecitudine, in virtù della quale infranse con invitto coraggio gli assalti degli eretici, asserì la fede cattolica, la difese, e instancabilmente, fin dove poté, la propagò. – Mentre tuttavia di gran cuore Ci congratuliamo che tutti i popoli cristiani dell’oriente onorino con intensa venerazione s. Cirillo, non meno Ci addolora che non tutti convengano in quella desideratissima unità, la quale egli così ardentemente amò e promosse. Tanto più anzi Ci duole che ciò accada a questi nostri tempi in cui si rende necessario che tutti i Cristiani, a gara unendo intenzioni ed energie, si stringano nell’unica Chiesa di Gesù Cristo, affinché quasi uniti in una sola falange, compatta, concorde, stabile, resistano contro gli sforzi dell’empietà ogni giorno più minacciosi. – Per conseguire tale effetto, è assolutamente necessario che tutti, seguendo le orme di S. Cirillo, raggiungano quella concordia di animi, che dev’essere munita di quel triplice legame con cui Cristo Gesù, fondatore della Chiesa, volle che essa fosse stretta e tenuta insieme, quasi in superno infrangibile vincolo, da Lui stabilito; vale a dire nell’unica Fede Cattolica, nell’unica Carità verso Dio e verso tutti, e infine nell’unica Obbedienza e soggezione alla legittima Gerarchia costituita dal divin Redentore medesimo. Questi tre vincoli, come ben sapete, venerabili fratelli, sono tanto necessari, che se l’uno o l’altro di essi viene a mancare, non si può più neppure comprendere nella Chiesa di Cristo vera unità e concordia.

I

Allo scopo di conseguire volenterosamente e di conservare con vigoria questa sincera concordia, desideriamo che, come fu già per i tempestosi suoi tempi, così anche per i giorni nostri il santo patriarca di Alessandria sia a tutti maestro e modello preclarissimo. Volendo incominciare dall’unità della fede cristiana, nessuno ignora l’inconcussa alacrità sua nel sostenerla con somma energia. «Noi – così egli dichiara – che abbiamo per amica la verità e i dogmi della verità, non seguiremo affatto gli eretici, ma calcando le vestigia della fede lasciataci dai santi padri, custodiremo contro tutti gli errori il deposito della divina rivelazione». Pur di combattere sino alla morte questa buona battaglia, era pronto a sopportare qualsiasi più acerba calamità. «Il mio più ardente desiderio – egli scrive – è di patire e morire per la fede di Cristo». «Nessuna ingiuria pertanto, nessuna contumelia, nessun insulto mi muove… sol che la fede ne esca sana e salva». – E anelando con forte e nobile cuore alla palma del martirio, vergò queste magnanime parole: «Ho deciso per la fede di Cristo di andare incontro a qualsiasi travaglio, di sopportare altresì qualsiasi tormento, anche quelli che fra i supplizi sono giudicati i più gravi, finché non abbia alla fine sostenuta la morte che gioiosamente accetterò per questa causa».(15) «Perché, se avessimo paura di predicare per la gloria di Dio la verità, per non incorrere in qualche molestia, con qual faccia, di grazia, potremmo presso il popolo esaltare le lotte e i trionfi dei santi martiri?». – E poiché nei cenobi dell’Egitto si agitavano a più riprese acerrime dispute sulla nuova eresia nestoriana, egli, da vigilantissimo Pastore, avverte i monaci delle pericolose fallacie di tale dottrina, non per aggiungere esca a contrastanti competizioni di parole, «ma perché se mai alcuni, – così loro scrive – v’investissero, possiate non solo scansare voi stessi quei perniciosi errori, ma opponendo alla loro frivolezza la verità, possiate altresì indurre gli altri, da buoni fratelli e con opportune ragioni, a conservare costantemente, qual preziosa perla, la Fede, già un tempo trasmessa alle chiese per mezzo dei santi Apostoli». Come facilmente riscontreranno tutti coloro, i quali abbiano studiate le lettere ch’egli ebbe a inviare riguardo alla controversia degli antiocheni, mette luminosamente in rilievo che questa fede cristiana, la quale devesi da noi salvare e difendere a tutti i costi, è dottrina trasmessaci per il tramite della sacra Scrittura e dei santi Padri, e al tempo stesso ci viene chiaramente e legittimamente proposta dal vivo e infallibile Magistero della Chiesa. I Vescovi della provincia di Antiochia per il ristabilimento e la conservazione della pace pensavano che fosse sufficiente l’affermarsi soltanto sulla professione nicena. Invece s. Cirillo, pur fermamente aderendo al Simbolo di Nicea, richiese ancora dai suoi confratelli nell’episcopato, per il rafforzamento dell’unità, la riprovazione e la condanna dell’eresia nestoriana. Sapeva infatti benissimo che non basta accettare con docilità gli antichi documenti del Magistero ecclesiastico, ma che occorre in più abbracciare con fedele sottomissione di cuore tutte quelle definizioni che dalla Chiesa in forza della sua suprema Autorità di tempo in tempo ci siano proposte a credere. Anzi, non è lecito, neppure sotto il pretesto di rendere più agevole la concordia, dissimulare neanche un dogma solo; giacché, come ammonisce il Patriarca alessandrino: «Desiderare la pace è certamente il più grande e il primo dei beni, ma però non si deve per siffatto motivo permettere che ne vada di mezzo la virtù della pietà in Cristo». Perciò non conduce al desideratissimo ritorno dei figli erranti alla sincera e giusta unità in Cristo, quella teoria, che ponga a fondamento del concorde consenso dei fedeli solo quei capi di dottrina, sui quali o tutte o almeno la maggior parte delle comunità, che si gloriano del nome cristiano, si trovino d’accordo, ma bensì l’altra che, senza eccettuarne né sminuirne alcuna, integralmente accoglie qualsiasi verità da Dio rivelata. – Per questa strenua fortezza nel conservare e proteggere l’unità della fede, s. Cirillo Alessandrino sia a tutti d’esempio. Appena scoprì l’errore di Nestorio, per mezzo di lettere e di altri scritti lo confutò, ricorse al Romano Pontefice, e nel Concilio di Efeso, come suo rappresentante, con ammirevole apparato di dottrina e intrepido cuore represse e condannò l’eresia che si era insinuata, in modo che tutti i padri conciliari, letta nell’adunanza la lettera di Cirillo che suol chiamarsi dogmatica, con solenne deliberazione la dichiararono pienamente consona alla rettitudine della fede. Oltre a ciò, per questa sua apostolica fortezza, fu iniquamente cacciato dall’ufficio episcopale, e sostenne con invitta serenità le ingiurie dei confratelli, il biasimo di un illegittimo conciliabolo, prigionie e angosce non poche. Né questo bastandogli, non esitò, per il coscienzioso adempimento del proprio santissimo ufficio, di opporsi apertamente, non solo ai Vescovi che si erano allontanati dalla retta via della verità e della concordia, ma alla stessa augusta persona dell’imperatore. E inoltre, come tutti sanno, ad alimento e sostegno della fede cristiana, compose quasi innumerabili libri, dai quali splendidamente si riverberano la sua luce di sapienza, l’imperterrita sua costanza e la solerzia della sua pastorale sollecitudine.

II

Alla fede è necessario che si unisca in bell’intreccio la Carità. Per essa veniamo tutti congiunti gli uni agli altri e con Cristo. Essa, ispirata e mossa dallo Spirito Santo, stringe tra loro con infrangibile vincolo le membra del Corpo mistico del Redentore. Pertanto questa carità non deve rifiutare di aprire le braccia in fraterno amplesso anche agli erranti che hanno sbagliato la retta strada: cosa della quale è dato scorgere insigne esempio nel modo di procedere, tenuto da s. Cirillo. Egli infatti, per quanto avesse con tutta la forza combattuta l’eresia di Nestorio, tuttavia, animato com’era di accesa carità, afferma di non permettere a nessuno di professarsi più amante di Nestorio, di lui stesso. – Né ciò è senza un perché. I traviati e, gli erranti sono da ritenersi come fratelli malati, e debbono essere trattati con dolcezza e delicata premura. Sul qual proposito giova rievocare questi prudentissimi consigli del santo patriarca di Alessandria. «La cosa – egli avverte – ha bisogno di grande moderazione». – «Perché la durezza del disputare spinge spesso non pochi a imprudenza, ed è meglio con dolcezza sopportare le altrui resistenze, piuttosto che a punta di diritto creare loro molestia. Come, qualora si sia ammalata qualche parte del loro corpo, bisogna esaminarla con la mano, alla stessa maniera è necessario soccorrere l’anima caduta inferma, servendosi della debita prudenza a guisa di medicina. Così, essi pure giungeranno passo per passo a un regolare comportamento di spirito». – Altrove poi soggiunge: «Abbiamo imitato l’arte dei bravi medici: non subito col fuoco e col ferro spietatamente curano i morbi e le piaghe appena apparse sui corpi umani; ma spalmata dapprima la piaga con leggero fomento, rimettono l’ustione e il taglio al momento opportuno». – Era insomma, riguardo agli erranti, animato da compassionevole benignità, tanto da dichiarare esplicitamente «di essere desiderosissimo di pace, e insieme totalmente alieno da rissosi litigi; tale in una parola da accogliere in cuore questa duplice brama: amare tutti ed essere a sua volta da tutti riamato». – Questa incline disposizione alla concordia rifulge nel santo dottore principalmente quando, dopo la mitigazione dell’anteriore severità, attese con volenterosa diligenza a indurre alla pace i Vescovi della provincia antiochena. Parlando del loro legato, scrive tra le altre cose: «Forse sospettava di dover andare incontro a lotte non piccole per convincerci della necessità di congiungere le chiese in una pace concorde, per eliminare il dileggio degli eterodossi e reprimere la coalizione della diabolica protervia. Ma ebbe a trovarci talmente disposti a tale parere, da non doverne affatto risentire travaglio alcuno. Ricordiamo benissimo il detto del nostro Salvatore: “Vi do la mia pace, vi lascio la mia pace”. Siccome nondimeno alla stipulazione di questa pace erano d’ostacolo i dodici capitoli, da san Cirillo composti nel sinodo di Alessandria – i quali capitoli, perché parlavano di «unione fisica» in Cristo, venivano respinti dagli antiocheni come eterodossi – il benignissimo Patriarca, pur non riprovando né sconfessando questi scritti, perché in realtà proponevano la dottrina ortodossa, tuttavia in parecchie lettere spiegò meglio la sua intenzione, in modo da rimuovere qualsiasi anche minima parvenza d’errore, e da appianare più facilmente la via alla concordia. Ciò pertanto egli rese noto ai Vescovi, «non già come a oppositori, ma come a fratelli». Giacché a suo giudizio, «per la pace delle chiese e affinché queste a causa delle opinioni dissenzienti non restino separate le une dalle altre, sono tutt’altro che inutili le accondiscendenze». E così felicemente avvenne che la carità di s. Cirillo raccogliesse in abbondanza i desideratissimi frutti della pace. E quando finalmente ne poté scorgere i primi albori e pregustò la gioia del fraterno abbraccio ai Vescovi della provincia d’Antiochia risolutisi a condannare l’eresia nestoriana, nella ridondanza della celeste soddisfazione, esclamò: «”Si allietino i cieli ed esulti la terra!” È distrutta la parete interna di separazione; ciò che arrecava mestizia si è quietato; ogni occasione di dissidio è tolta di mezzo, dal momento che Cristo, Salvatore di noi tutti, ha concesso alle sue chiese la pace». – Purtroppo, come in quel lontanissimo tempo, così anche al presente, venerabili fratelli, per promuovere quell’auspicabile conciliazione dei figli dissidenti nell’unica Chiesa di Cristo, conciliazione alla quale tutti i buoni anelano, senza dubbio una sincera ed efficace benevolenza d’animo apporterà, col favore della divina grazia, il più valido contributo. Questo benevolo affetto infatti riscalda la mutua conoscenza. Per promuoverla e completarla i Nostri predecessori con svariati mezzi vi si adoperarono, nominatamente con la fondazione in quest’alma città del Pontificio Istituto di alti studi orientali. Così pure bisogna tenere nel debito conto tutto ciò che costituisce per gli orientali quasi un geloso patrimonio lasciato dai loro maggiori, e insieme ciò che si riferisce alla sacra liturgia e agli ordini gerarchici, nonché agli altri capisaldi della vita cristiana, a patto ben inteso, che tutto concordi pienamente con la genuina fede religiosa e con le rette norme dei costumi. È necessario infatti che tutti e singoli i popoli di rito orientale in tutto quello che dipende dalla storia, dal genio e dall’indole di ciascuno in particolare, abbiano una legittima libertà che pur tuttavia non contrasti con la vera e integra dottrina di Gesù Cristo. E questo lo sappiano e vi riflettano a fondo, sia coloro che sono nati nel grembo della Chiesa Cattolica, sia gli altri che con le ali del desiderio veleggiano alla sua volta. Anzi si persuadano tutti e tengano per certo che non saranno mai costretti a mutare i loro legittimi riti e le loro antiche istituzioni con le istituzioni e i riti latini. Gli uni e gli altri debbono essere tenuti in uguale stima e uguale lustro, perché incoronano di regale varietà la Chiesa madre comune. Né solo questo; ma siffatta diversità di riti e di istituzioni, mentre conserva intatto e inviolabile ciò che per ciascuna confessione è antico e prezioso, non si oppone affatto alla vera e sostanziale unità. Più che mai ai nostri giorni, dopoché la discordia e le competizioni della guerra quasi dappertutto hanno alienato gli uni dagli altri gli animi umani, occorre che tutti, mossi dalla cristiana carità, siano sempre più spinti a ripristinare con ogni mezzo l’unione in Cristo e per Cristo.

III

L’effetto peraltro della fede e della carità si rivelerebbe addirittura manchevole e inefficace allo scopo di rassodare l’unità nel Signore nostro Gesù Cristo, se non si appoggiasse a quella inconcussa pietra sopra la quale è stata da Dio fondata la Chiesa: vale a dire nella suprema Autorità di Pietro e dei suoi successori. La regola di condotta tenuta in questa gravissima controversia dal Patriarca alessandrino luminosamente lo prova. Tanto nella sconfitta dell’eresia nestoriana quanto nell’accordo coi Vescovi della provincia antiochena, egli si attenne alla più stretta e costante unione con questa Apostolica Sede. Quando infatti il vigilante presule si accorse che gli errori di Nestorio, con rischio della retta fede di giorno in giorno più pericolosi, s’insinuavano e progredivano per ogni parte, si rivolse al predecessore Nostro s. Celestino I, con una lettera, nella quale tra l’altro si legge: «Poiché Dio, in siffatte questioni, esige da noi vigilanza, e una vetusta consuetudine delle chiese ci persuade a comunicare simili questioni con la santità tua, ti scrivo, indottovi dalla stringente necessità». Alle quali parole risponde il Romano Pontefice che intende abbracciarlo «come se fosse presente nella sua lettera … molto più che gli sembra di riscontrare in lui i suoi identici sentimenti nel Signore». Perciò il Sommo Pontefice a questo così ortodosso dottore delegò l’autorità dell’Apostolica Sede, in forza della quale Autorità doveva curare l’esecuzione dei decreti già emessi nel sinodo romano contro Nestorio. A tutti poi è noto, venerabili fratelli, che il santo patriarca d’Alessandria nella celebrazione del concilio di Efeso tenne legalmente le veci del Romano Pontefice, il quale inoltre vi inviò i suoi propri legati, e loro raccomandò soprattutto che avvalorassero l’opera e l’autorità di s. Cirillo. Egli pertanto in nome del Vescovo di Roma presiede a quel sacro Concilio e primo fra tutti ne firmò gli atti. Tanto palesemente splendeva agli occhi d’ognuno la concordia fra la Sede Apostolica e la sede alessandrina, che nella seconda sessione del Concilio, quando pubblicamente fu letta la lettera di s. Celestino, i padri uscirono nelle seguenti acclamazioni: «Giusto giudizio questo. Al novello Paolo Celestino, al novello Paolo Cirillo, a Celestino custode della fede, a Celestino concorde col Concilio, a Celestino l’intero Concilio rende grazie. Uno Celestino, uno Cirillo, una la fede dell’orbe terracqueo». Nessuna meraviglia quindi se poco dopo lo stesso Cirillo poté scrivere: «Alla rettitudine della sua fede rese testimonianza sia la chiesa di Roma, sia il santo Concilio, adunato, per così dire, dall’universalità dell’orbe che si stende sotto il cielo». – Oltre a ciò, questa medesima unione costantissima di s. Cirillo con la Sede Apostolica risulta evidente, se poniamo mente al suo modo di procedere nelle trattative per l’inizio e il rafforzamento della pace coi Vescovi della provincia antiochena. Il Nostro predecessore s. Celestino sebbene approvasse e confermasse tutto quello che il presule alessandrino aveva fatto nel concilio di Efeso, giudicò nondimeno di doverne eccettuare la sentenza di scomunica, che il presidente del Concilio insieme con gli altri Padri aveva pronunziata contro gli antiocheni. «Riguardo a quelli – così il Romano Pontefice – che sembrano consentire nella stessa empietà di Nestorio… per quanto si legga contro di essi la sentenza vostra, purtuttavia noi pure stabiliamo quel che ci sembra opportuno. In siffatte cause molte circostanze bisogna considerare, ché la Sede Apostolica sempre suole tenere presenti…. Se dà speranza di correzione, vogliamo che la vostra fraternità s’intenda per lettera con l’Antiocheno… Giova aspettarsi dalla divina misericordia che tutti tornino sulla via del vero». E s. Cirillo, obbedendo a questa norma, suggeritagli dalla Sede Romana, cominciò a trattare coi Vescovi della provincia antiochena del ristabilimento della pace e del modo di venire a un accordo. Frattanto s. Celestino passò piamente da questa vita. Allora avvenne che del suo successore Sisto III alcuni prendessero a riferire non essergli piaciuto che Nestorio fosse stato deposto. A queste voci il patriarca d’Alessandria tagliò corto con la seguente dichiarazione: «Ha scritto (Sisto) in piena armonia col santo Concilio, ha confermato tutte le sue decisioni e sta dalla parte nostra». – Da tutto quello che abbiamo qui riportato risulta a evidenza che s. Cirillo appieno consentì con questa Apostolica Sede, e risulta del pari che i Nostri antecessori ritennero per propri gli atti di lui e li onorarono di meritate lodi. Prova ne sia che s. Celestino, non contento di avergli attestato innumerevoli volte la fiducia e la gratitudine sua, gli scriveva tra l’altro così: «Ci congratuliamo della vigilanza che nella santità tua è tanta, da sorpassare ormai gli esempi dei tuoi predecessori, i quali essi pure difesero sempre strenuamente i dogmi dell’ortodossia… Hai scoperto tutte le fallacie della più scaltra predicazione… Ridonda a non piccolo trionfo della nostra fede non solo l’esserti affermato con tanta fortezza sui nostri capisaldi, ma l’avere controbattuto gli avversari così come hai fatto con l’appoggio della sacra Scrittura». Allorché poi s. Sisto III, successore di Celestino nel supremo Pontificato, ebbe ricevuto dal patriarca d’Alessandria l’annunzio della pace e dell’unità raggiunta, gli espresse la sua letizia nei termini seguenti: «Ecco che mentre stavamo in ansia, perché vogliamo che nessuno perisca, la santità tua con la sua lettera ci significa redintegrato il Corpo della Chiesa. Ritornate le sue compagini nelle proprie membra, nessuno più vediamo andare errando al di fuori, perché un’unica fede attesta che tutti stanno al loro posto di dentro. … Al beato Apostolo Pietro ha fatto capo la fratellanza universale: ecco qui un ascoltatorio che si confà agli ascoltatori, che conviene alle cose da ascoltare. … A noi sono tornati i fratelli, a noi, dico, che perseguendo per comune desiderio il morbo, abbiamo curato la guarigione delle anime. … Esulta, fratello carissimo, e quale vincitore rallegrati perché i fratelli si sono a noi ricongiunti. La Chiesa ha accolto finalmente coloro che ricercava. Poiché se nessuno vogliamo che perisca dei piccoli, quanto più dobbiamo godere della guarigione dei reggitori». Dalle quali parole dell’antecessore consolato, il presule Alessandrino, vindice invitto della fede ortodossa e artefice premurosissimo della cristiana concordia, riposò nella pace di Cristo. – Noi pertanto, venerabili fratelli, nel celebrare la memoria quindici volte centenaria di questo avvenimento, niente desideriamo e auguriamo più vivamente, se non che quanti si fregiano del nome cristiano, col patrocinio e l’esempio di s. Cirillo promuovano ogni giorno più il ritorno dei fratelli orientali dissidenti, a Noi e all’unica Chiesa di Gesù Cristo. Unica sia per tutti l’intemeratezza della Fede, unica la Carità che tutti insieme ci saldi nel mistico Corpo di Gesù Cristo, unica infine e premurosamente attiva la fedeltà alla Sede del beato Pietro. A quest’opera degna e meritevolissima non solo impieghino tutte le loro forze coloro che vivono in Oriente, i quali con la mutua stima, col benevolo tratto, con l’esempio dei costumi integerrimi, più facilmente potranno attrarre all’unità della Chiesa i fratelli separati, e più degli altri i sacri ministri; ma tutti altresì i fedeli, implorando da Dio con le preghiere l’unità del regno del divin Redentore in ogni parte del mondo, e l’unità dell’universale ovile. A tutti costoro raccomandiamo anzitutto quel validissimo concorso e aiuto, che in qualsiasi iniziativa da intraprendere a salute delle anime, deve essere primo di tempo e precipuo d’efficacia: la preghiera, vogliamo dire, rivolta a Dio con cuore umile e fiducioso. Desideriamo poi che s’interponga il potentissimo patrocinio della Vergine Genitrice di Dio, affinché per la mediazione di questa benignissima e amantissima Madre di tutti, il divino Spirito illumini con la sua superna luce l’animo degli orientali, sì che tutti siamo una cosa sola nell’unica Chiesa, da Gesù Cristo fondata, e dallo stesso Spirito paraclito nutrita con incessante pioggia di grazie e sospinta verso la santità. A quelli poi che vivono nei seminari o in altri collegi, in modo speciale intendiamo raccomandare la «Giornata pro Oriente». In quel giorno s’innalzino più ardenti preghiere al divino Pastore della Chiesa universale, e con crescente premura si stimolino i giovani al desiderio di vedere raggiunta questa santissima unità. Tutti infine coloro che, o insigniti degli ordini sacri, o ascritti all’Azione cattolica e alle altre associazioni, aiutano l’opera gerarchica del Clero sia con la preghiera, sia con gli scritti, sia con la parola, promuovano quanto meglio possono la desideratissima unione degli orientali tutti quanti col Pastore comune. – Faccia Iddio che questo Nostro paterno invito sia ascoltato con buone disposizioni anche da quei Vescovi dissidenti e dai loro greggi, i quali, per quanto separati da Noi, encomiano e venerano tuttavia come domestica loro gloria il Patriarca d’Alessandria. Sia per essi questo preclarissimo dottore maestro ed esempio a restaurare di nuovo la concordia con quel triplice vincolo, che egli, come cosa assolutamente necessaria, raccomandò tanto, e col quale il divino Fondatore della chiesa volle che i suoi figli si sentissero avvinti. Si ricordino inoltre che Noi oggi, per disposizione della divina Provvidenza, occupiamo quell’Apostolica Sede, alla quale il presule alessandrino, spintovi dalla responsabilità del proprio ufficio, si rivolse, sia per difendere contro gli errori di Nestorio con armi sicure la Fede ortodossa, sia altresì perché l’ottenuto pacifico consenso dei confratelli prima dissidenti fosse poi ratificato quasi da sigillo divino. Sappiano anche che Noi siamo mossi dalla stessa carità dei Nostri predecessori e che a questo soprattutto con preghiere assidue tendiamo che, cioè, tolti felicemente di mezzo gli ostacoli inveterati, spunti alfine il sospirato giorno in cui l’intero gregge si trovi raccolto nell’unico ovile sotto la concorde e volenterosa dipendenza da Gesù Cristo nostro Signore e dal suo vicario in terra. – In particolare maniera poi Ci rivolgiamo a quei figli dissidenti tra gli orientali che, mentre venerano moltissimo s. Cirillo, tuttavia non ammettono l’autorità del Concilio Calcedonese, perché in esso fu solennemente definita la duplice natura nella Persona di Gesù Cristo. Riflettano costoro che il Patriarca d’Alessandria non si oppone con la sua sentenza alle deliberazioni, le quali di poi al sorgere di nuovi errori furono dallo stesso concilio di Calcedonia stabilite. Infatti apertamente egli scrive: «Non tutto quello che gli eretici dicono, si deve subito scartare e ripudiare: molte cose professano di quelle che noi pure ammettiamo… Ciò vale anche riguardo a Nestorio; sebbene egli affermi le due nature a significare la differenza dell’umanità e della divinità nel Verbo: e invero altra è la natura del Verbo, altra quella dell’uomo: tuttavia non professa l’unione con noi». – Similmente giova sperare che anche gli odierni seguaci di Nestorio se, senza lasciarsi prendere la mano da pregiudicate opinioni, sottopongono ad attento esame gli scritti di s. Cirillo, siano per vedersi aperta la strada alla verità, e per sentirsi richiamare con l’aiuto della grazia divina al grembo della chiesa cattolica. – Niente altro ormai Ci resta, venerabili fratelli, se non implorare con le supplici Nostre preghiere, durante questo XV centenario di s. Cirillo, sulla Chiesa tutta, ma specialmente su quelli che in Oriente si gloriano del nome Cristiano, il propizio patrocinio di questo santo Dottore, domandando soprattutto che nei fratelli e nei figli dissidenti felicemente si compia ciò che egli un giorno congratulandosi scrisse: «Ecco che le membra avulse del coro della chiesa di nuovo si sono tra loro riunite, e nulla ormai più rimane che per discordia divida i ministri dell’evangelo di Cristo». – Sostenuti da questa soavissima speranza, sia voi tutti e singolarmente, venerabili fratelli, sia al gregge a ciascuno di voi affidato, in auspicio dei celesti favori, e in attestato della paterna Nostra benevolenza, impartiamo con ogni affetto nel Signore l’apostolica benedizione.

Roma, presso S. Pietro, il 9 aprile, domenica di risurrezione di nostro Signore Gesù Cristo, dell’anno 1944, VI del Nostro pontificato.

PREGHIERE PER I MORIBONDI (con il Proficiscere)

PREGHIERE PER I MORIBONDI

[Ex Breviarium Romanum]

ORDO COMMENDATIONIS ANIMÆ

Tit. VI, cap. VII

Primum dicuntur Litaniæ breves in hunc modum:

KYRIE, eleison.

Christe, eleison.

Kyrie, eleison.

Sancta Maria, … ora prò eo (ea).

Omnes sancti Angeli et Archàngeli, … orate prò eo (ea).

Sancte Abel, … ora…

Omnis chorus Iustórum, ora…

Sancte Abraham, ora…

Sancte Ioànnes Baptista, ora…

Sancte Ioseph, ora…

Omnes sancti Patriàrchæ et Prophétæ, orate…

Sancte Petre, ora…

Sancte Paule, ora…

Sancte Andrea, ora…

Sancte Ioànnes, ora…

Omnes sancti Apóstoli et Evangelistæ, orate…

Omnes sancti Discipuli Dòmini, orate prò eo (ea)…

Omnes sancti Innocéntes, orate prò eo (ea)…

Sancte Stéphane, ora…

Sancte Laurénti, ora…

Omnes sancti Màrtyres, orate…

Sancte Silvéster, ora…

Sancte Gregóri, ora…

Sancte Augustine, ora…

Omnes sancti Pontifices et Confessóres, orate…

Sancte Benedicte, ora…

Sancte Francisce, ora…

Sancte Camille, ora…

Sancte Ioànnes de Deo, ora…

Omnes sancti Monachi et Eremitæ, orate…

Sancta Maria Magdaléna, ora…

Sancta Lucia, ora…

Omnes sanctæ Virgines et Viduæ, orate…

Omnes Sancti et Sanctae Dei, intercédite prò eo (ea).

Propitius esto, parce ei, Dòmine.

Propitius esto, libera eum (eam), Dòmine.

Propitius esto, libera…

Ab ira tua, libera…

A periculo mortis, libera…

A mala morte, libera…

A pœnis infèrni, libera…

Ab omni malo, libera…

A potestàte diàboli, libera…

Per nativitàtem tuam, libera…

Per crucem et passiónem tuam, libera eum (eam), Dòmine.

Per mortem et sepulturam tuam, libera…

Per gloriósam resurrectiónem tuam, libera…

Per admiràbilem ascensiónem tuam, libera…

Per gràtiam Spiritus Sancti Paràcliti, libera…

In die iudicii, libera…

Peccatóres, te rogàmus, audi nos.

Ut ei parcas, te rogàmus, audi nos.

Kyrie, eleison.

Christe, eleison.

Kyrie, eleison.

[Deinde, cum in agone sui exitus anima anxiatur, dicuntur sequentes orationes:]

Oratio

PROFICISCERE

PROFICISCERE, ànima Christiana, de hoc mundo, in nòmine Dei Patris omnipoténtis, qui te creàvit: in nòmine Iesu Christi Filii Dei vivi, qui prò te passus est: in nòmine Spiritus Sancti, qui in te effùsus est: in nòmine gloriósæ et sanctæ Dei Genetricis Virginis Mariae: in nòmine beati Ioseph, incliti eiùsdem Virginis Sponsi: in nòmine Angelórum et Archangelórum: in nòmine Thronórum et Dominatiónum: in nòmine Principàtuum et Potestàtum: in nòmine Virtùtum, Cherubim et Séraphim: in nòmine Patriarchàrum et Prophetàrum: in nòmine sanctórum Apostolórum et Evangelistàrum: in nòmine sanctorum Màrtyrum et Confessórum: in nòmine sanctórum Monachórum et Eremitàrum: in nòmine sanctàrum Virginum Sanctórum et Sanctàrum Dei. Hódie sit in pace locus tuus, et habitàtio tua in sancta Sion. Per eùndem Christum Dòminum nostrum.

R . Amen,

Oratio

DEUS miséricors,

Deus clemens, Deus, qui secùndum multitùdinem miserationum tuarum peccata pœniténtium deles, et præferitórum criminum culpas vènia remissiónis evacuas: réspice propitius super hunc fàmulum tuum (N) (fàmulam tuam N), et remissiónem omnium peccatórum suorum, tota cordis confessióne poscéntem, deprecàtus exàudi. Rénova in eo (ea), piissime Pater, quidquid terréna fragilitàte corruptum, vel quidquid diabolica fraude violàtum est: et unitàti córporis Ecclèsiæ membrum redemptiónis annécte. Miserére, Dòmine, gemituum, miserére lacrimàrum eius ; et, non habéntem fidùciam nisi in tua misericòrdia, ad tuæ sacraméntum reconciliatiónis admitte. Per Christum Dóminum nostrum.

R. Amen.

Oratio

COMMENDO  

te omnipotenti Deo, carissime frater (carissima soror), et ei, cuius es creatura, committo: ut, cum humanitatis debitum morte intervenente persolveris, ad auctorem tuum, qui te de limo terræ formaverat, revertaris. Egrediénti itaque ànimæ tuæ de córpore spléndidus Angelórum cœtus occùrrat : iudex Apostolórum tibi senàtus advéniat: candidatórum tibi Màrtyrum triumphàtor exércitus óbviet: liliàta rutilàntium te Confessórum turma circùmdet: iubilàntium te Virginum chorus excipiat: et beatæ quiétis in sinu Patriarchàrum te compléxus astringat: sanctus Ioseph, moriéntium Patrónus dulcissimus, in magnam spem te érigat: sancta Dei Génetrix Virgo Maria suos benigna óculos ad te convértat: mitis, atque festivus Christi Iesu tibi aspéctus appàreat, qui te inter assisténtes sibi iùgiter interèsse decérnat. Ignóres omne, quod horret in ténebris, quod stridet in flammis, quod crùciat in torméntis. Cedat tibi tetérrimus sàtanas cum satellitibus suis: in advéntu tuo, te comitàntibus Angelis contremiscat, atque in ætérna? noctis chaos immane diffugiat. Exsùrgat Deus, et dissipéntur inimici eius, et fùgiant qui odérunt eum, a fàcie eius. Sicut deficit fumus, deficiant: sicut fluit cera a fàcie ignis, sic péreant peccatóres a fàcie Dei. Et iusti epuléntur, et exsùltent in conspéctu Dei. Confundàntur igitur et erubéscant omnes tartàrea? legiónes, et ministri sàtanæ iter tuum impedire non àudeant. Liberet te a cruciàtu Christus, qui prò te crucifixus est. Liberet te ab ætérna morte Christus, qui prò te mori dignàtus est. Constituat te Christus Filius Dei vivi intra paradisi sui semper amœna viréntia, et inter oves suas te verus ille Pastor agnóscat. Ille ab òmnibus peccàtis tuis te absólvat, atque ad déxteram suam in electórum suórum te sorte constìtuat. Redemptórem tuum fàcie ad fàciem videas, et præsens semper assistens, manifestissimam beàtis óculis aspicias veritàtem. Constitùtus (-a) igitur inter àgmina Beatórum contemplatiónis divinæ dulcédinepotiàris in sæcula sæculórum.

R. Amen.

Oratio

SUSCIPE,

Dòmine, servum tuum (ancillam tuam) in locum sperànda? sibi salvatiónis a misericòrdia tua.

R . Amen.

Libera, Dòmine, ànimam servi tui (anelilæ tuæ) ex òmnibus periculis infèrni, et de làqueis pœnàrum, et ex òmnibus tribulatiónibus.

R . Amen.

Libera, Dòmine, ànimam servi tui (ancillæ tuæ),sicut liberasti Henoch et Eliam de commùni morte mundi,

R. Amen.

Libera, Dòmine, ànimam servi tui (ancillæ tuæ), sicut liberasti Noè de dilùvio.

R. Amen.

Libera, Dòmine, ànimam servi tui (ancillæ tuæ), sicut liberasti Abraham de Ur Chaldæórum.

R . Amen.

Libera, Dòmine, ànimam servi tui (ancillæ tuæ), sicut liberasti Iob de passiónibus suis.!

R. Amen.

Libera, Dòmine, ànimam servi tui (ancilla? tua?), sicut liberasti Isaac de hóstia, et de manu patris sui Abrahæ.

R. Amen.

Libera, Dòmine, ànimam servi tui (ancillæ tuæ), sicut liberasti Lot de Sódomis, et de fiamma ignis.

R. Amen.

Libera, Dòmine, ànimam servi tui (ancillæ tuæ) ut liberasti Móysen de manu Pharaónis regis Ægyptiórum.

R. Amen.

Libera, Dòmine, ànimam servi tui (ancillæ tuæ), sicut liberasti Daniélem de lacu leónum.

R. Amen.

Libera, Dòmine, ànimam servi tui ancillæ tuæ), sicut liberasti tres pùeros de camino ignis ardéntis, et de manu regis iniqui.

R. Amen.

Libera, Dòmine, ànimam servi tui (ancillæ tuæ) ut liberasti Susànnam de falso crimine.

R. Amen.

Libera, Dòmine, ànimam servi tui (ancillæ tuæ), sicut liberasti David de manu regis Saul et de manu Golia?

R. Amen.

Libera, Dòmine, ànimam servi tui lancillæ tuæ) ut liberasti Petrum et Paulum de carcéribus.

R. Amen.

Et sicut beatissimam Theclam Virginem et Màrtyrem tuam de tribus atrocissimis torméntis liberasti, sic liberare dignéris ànimam huius servi tui (ancillæ tuæ), et tecum fàcias in bonis congaudére cæléstibus.

R. Amen.

Oratio

COMMENDAMUS

tibi, Dòmine, ànimam fàmuli tui (fàmulæ tuæ) N, precamùrque te, Dòmine Iesu Christe, Salvator mundi, ut, propter quam ad terram misericórditer descendisti, Patriarchàrum tuórum sinibus insinuare non rénuas. Agnósce, Dòmine, creaturam tuam, non a diis aliénis creàtam, sed a te, solo Deo vivo et vero: quia non est àlius Deus præter te, et non est secundum òpera tua. Lætifica, Dòmine, ànimam eius in conspéctu tuo; et ne memineris iniquitàtum eius antiquàrum, et ebrietàtum, quas suscitàvit furor, sive fervor mali desidérii. Licet enim peccàverit, tamen Patrem, et Filium, et Spiritum Sanctum non negàvit, sed crédidit, et zelum Dei in se hàbuit, et Deum, qui fecit omnia, fidéliter adoràvit.

Oratio

DELICTA

iuventùtis, et ignoràntias eius, quæsumus, ne memineris, Dòmine: sed secùndum magnam misericórdiam tuam memor esto illius in glòria claritàtis tuæ. Aperiàntur ei cœli, collæténtur illi Angeli. In regnum tuum, Dòmine, servum tuum (ancillam tuam) sùscipe. Suscipiat eum (eam) sanctus Michaël Archàngelus Dei, qui militiæ cæléstis méruit principàtum. Véniant illi óbviam sancti Angeli Dei, et perdùcant eum (eam) in civitàtem cæléstem, Ierùsalem. Suscipiat eum (eam) beàtus Petrus Apóstolus, cui a Deo claves regni cæléstis tràditæ sunt. Adiuvet eum (eam) sanctus Paulus Apóstolus, qui dignus fuit esse vas electiónis. Intercédat prò eo (ea) sanctus Ioànnes, eléctus Dei Apóstolus, cui revelàta sunt secreta cæléstia. Orent prò eo (ea) omnes sancti Apóstoli, quibus a Dòmino data est potéstas ligàndi atque solvéndi. Intercédant prò eo (ea) omnes Sancti et Elécti Dei, qui prò Christi nòmine torménta in hoc sæculo sustinuérunt: ut, vinculis carnis exùtus (-a), pervenire mereàtur ad glóriam regni cæléstis, præstànte Dòmino nostro Iesu Christo: Qui cum Patre et Spiritu Sancto vivit et regnat in sæcula sæculórum.

R. Amen.

Oratio

CLEMENTISSIMA

Virgo Dei Génetrix, Maria, mæréntium piissima consolàtrix, fàmuli (-æ) N. spiritum Filio suo comméndet: ut, hoc matèrno intervenni, terróres mortis non timeat; sed desideratali! cæléstis pàtria? mansiónem, ea cómite, lætus (laeta) àdeat.

R. Amen.

Oratio

AD te

confùgio, sancte Ioseph, Patròne moriéntium, tibique, in cuius beato trànsitu vigiles adstitérunt Iesus et Maria, per hoc utrumque carissimum pignus, ànimam huius fàmuli N. (fàmulæ N.) in extrémo agóne laboràntem, enixe commendo, ut ab insidiis diàboli, et a morte perpètua, te protegénte, liberétur, et ad gàudia ætérna pervenire mereàtur. Per eùndem Christum Dóminum nostrum.

R. Amen.

(Si anxiatur adhuc anima, dicuntur hi psalmi, videlicet psalmus CXVII Confitémini Dòmino, et totus psalmus CXVIII Beati immaculàti per Horas dominicæ distributus).

IN EXSPIRATIONE

Tit. VI, cap. VIII

Moriens, si potest, dicat; vel, si non potest, assistens, sive Sacerdos prò eo Clara voce pronuntiet:

[Se può, il moribondo, (se non può un assistente, o il sacerdote), dica con voce chiara: Gesù, Gesù, Gesù]

Iesu, Iesu, Iesu.

Quod et ea quæ sequuntur, ad illius aures, si videbitur, etiam sæpius repetat:

[Si ripeta spesso, vicino alle sue orecchie:]

IN manus tuas, Dòmine, commendo spiritum meum.

Dòmine Iesu Christe, sùscipe spiritum meum.

[Signore Gesù Cristo, accogliete lo spirito mio]

Sancta Maria, ora prò me.

Maria, mater gràtiæ, mater misericórdiæ, tu me ab hoste prótege, et hora mortis

sùscipe. [Maria, madre di grazia, madre di misericordia, proteggimi dal maligno ed accoglimi nell’ora della morte]

Sancte Ioseph, ora prò me.

Sancte Ioseph, cum beata Virgine Sponsa tua, àperi mihi divinæ misericórdiæ sinum. [San Giuseppe, con la tua Vergine Sposa, aprimi il seno della divina misericordia]

Iesu, Maria, Ioseph, vobis cor et ànimam meam dono.

[Gesù, Giuseppe e Maria, vi dono il cuore e l’anima mia]

Iesu, Maria, Ioseph, adstàte mihi in extrémo agóne.

[Gesù, Giuseppe e Maria, assistetemi nell’estremo agone]

Iesu, Maria, Ioseph, in pace vobiscum dórmiam et requiéscam.

[Gesù, Giuseppe e Maria, riposi in pace con voi l’anima mia]

Egressa autem anima, dicitur hoc:

[Uscita l’anima, di dice:]

Subvenite, Sancti Dei, occùrrite, Angeli Dòmini,

* Suscipiéntes ànimam eius, * Offeréntes eam in conspéctu Altissimi,

v. Suscipiatte Christus, qui vocàvit te, et in sinum Abrahas Angeli dedùcant te

***

[Proficiscere. – Parti, anima cristiana, da questo mondo, in Nome di Dio Padre onnipotente che ti creò, in Nome di Gesù Cristo, Figlio di Dio vivo, che patì per te; in Nome dello Spirito Santo, che fu diffuso in te; in Nome della gloriosa e santa Madre di Dio la Vergine Maria; – in nome dei Troni e Dominazioni; – in nome dei Principati e Potestà; – in nome dei Cherubini e Serafini; – in nome dei Patriarchi e Profeti; – in nome dei santi Martiri e Confessori; – in nome dei santi Monaci ed Eremiti; – in nome delle sante Vergini e di tutti i Santi e Sante di Dio: oggi sia nella pace il tuo soggiorno e la tua dimora nella celeste Gerusalemme. Per lo stesso Cristo Signor nostro. Così sia.

Ti raccomando, carissimo fratello (sorella) a Dio onnipotente; a Lui, di cui sei creatura, ti affido, affinché, pagato che avrai, mediante la morte, il debito dell’umanità, ritorni al tuo Autore che ti formò dal fango della terra. – Perciò all’anima tua, uscente dal corpo, si faccia innanzi splendido corteo d’Angeli, venga a te il Senato giudice degli Apostoli, si muova ad incontrati l’esercito trionfante dei Martiri, ti circondi la casta turba dei candidi Confessori; t’accolga il coro delle Vergini festanti, ti stringano al seno i Patriarchi e ti stabiliscano nel possesso della beata requie: la santa Madre di Dio, la Vergine Maria, rivolga a te i suoi occhi: mite e gioioso Gesù Cristo ti mostri il suo volto e t’ammetta tra coloro che continuamente lo assistono. Possa tu ignorare gli orrori delle tenebre, gli stridori delle fiamme, lo strazio dei tormenti. – Si ritiri te il crudelissimo satana coi suoi satelliti, e nella tua dipartita, essendo tu in compagnia degli Angeli, tremi e fugga nell’immane caos della notte eterna.

Sorga Dio, e sian dispersi i suoi nemici, e fuggano quei che l’odiano dinanzi a Lui. Come svanisce il fumo, svaniscano essi: qual si strugge la cera innanzi al fuoco, così periscano gli empi dinanzi a Dio: e i giusti banchettino ed esultino dinanzi a Lui. Sian perciò confuse e svergognate tutte le legioni infernali, e i ministri di satana non osino ostacolare il tuo viaggio. Ti liberi dalle pene Cristo, che fu crocifisso per te.  Ti liberi dalla morte eterna Cristo, che si degnò morire per te. Cristo, Figlio di Dio vivo, ti stabilisca tra le sempre amene verzure del suo paradiso ed Egli, vero Pastore, ti annoveri tra le sue pecore. Egli t’assolva da tutti i tuoi peccati, e ti collochi alla sua destra insieme coi suoi eletti. Che tu veda il Redentore faccia a faccia e, ministro sempre assiduo, ne contempli coi beati occhi la manifestissima verità. Posto (a) dunque tra le schiere dei Beati, possa tu gustare la dolcezza dellacontemplazione divina, nei secoli dei secoli.

R. Così sia.

Ricevi, Signore, il tuo servo (tua serva) nel luogo della salvezza che gli fa sperare la tua misericordia. Così sia (ogni volta).

Libera, Signore, l’anima del tuo servo, da tutti i pericoli dell’inferno, dai lacci di pena e da tutte le tribolazioni.

Libera, Signore, l’anima del tuo servo siccome liberasti Enoc ed Elia dalla comune morte del mondo.

Libera, Signore, l’anima dei tuo servo come liberasti Noè dal diluvio.

Libera, Signore, l’anima del tuo servo come liberasti Abramo da Ur dei Caldei.

Libera, Signore, l’anima del tuo servo, come liberasti Giobbe dalle sue sofferenze,

Libera, Signore, l’anima del tuo servo, come liberasti Isacco dall’essere immolato dalla mano di suo padre Abramo.

Libera, Signore, l’anima del tuo servo, come liberasti Lot dai Sodomiti, e dalla fiamma del fuoco.

Libera, Signore, l’anima del tuo servo, come liberasti Mosè dalle mani di Faraone, re d’Egitto.

Libera, Signore, l’anima del tuo servo, come liberasti Daniele dalla fossa dei leoni.

Libera, Signore, l’anima del tuo servo, come liberasti i tre fanciulli dalla fornace del fuoco ardente e dalle mani dell’iniquo re.

Libera, Signore, l’anima del tuo servo, come liberasti Susanna dalla falsa accusa.

Libera Signore, l’anima del tuo servo, come liberasti David dalle mani del re Saul e dalle mani di Golia.

Libera, Signore, l’anima del tuo servo, come liberasti Pietro e Paolo dalle carceri.

E come liberasti la beatissima Tecla, Vergine e Martire tua, da tre atrocissimi tormenti, così degnati liberare l’anima di questo(a) servo(a) e farlo gioire con te dei beni celesti.

Non rammentare, Signore, le colpe ed ignoranze di sua gioventù, ma secondo la tua grande misericordia ricordati di lui (di lei) nello splendore di tua gloria, gli (le) si aprano i cieli, si allietino con lui (lei) gli Angeli. Accogli, Signore il tuo servo (la tua serva) nel tuo regno. Lo (la) riceva l’Arcangelo san Michele i l quale meritò il principato della milizia celeste. Gli (le) vengano incontro i santi Angeli di Dio, e lo (la) conducano nella città della celeste Gerusalemme. Lo (la) riceva il beato Apostolo Pietro, che ricevé da Dio le chiavi del regno celeste. Lo (la) soccorra l’Apostolo san Paolo, che meritò d’essere vaso d’elezione. Interceda per lui (lei) san Giovanni, il prediletto Apostolo di Dio, cui furono rivelati i segreti celesti. Preghino per lui tutti i santi Apostoli ch’ebbero dal Signore il potere di legare e sciogliere, intercedano per l lui (lei) tutti i santi ed eletti di Dio che sostennero tormenti in questo mondo pel nome di Cristo; affinché, sciolto (sciolta) dai vincoli della carne, meriti giungere alla gloria del regno celeste, con l’aiuto del nostro Signore Gesù Cristo: il quale col Padre e con lo Spirito Santo vive e regna nei secoli dei secoli. Cosi sia.

La clementissima Vergine Madre di Dio, Maria, piissima consolatrice degli afflitti, raccomandi al suo Figlio lo spirito del suo servo (a) N. N.; affinché egli (ella), per questa materna intercessione, non paventi i terrori della morte: ma lieto, in compagnia di Lei, arrivi al sospirato possesso della patria celeste.

R. Cosi sia.

A te ricorro, o S. Giuseppe, Patrono dei moribondi, e a te, al cui beato transito si trovarono presenti Gesù e Maria, per questo doppio carissimo pegno, raccomando caldamente l’anima di questo (a) servo (a) N. N. agonizzante, affinché col tuo aiuto sia liberato (a) dalle insidie del demonio e dalla morte eterna, e meriti di giungere ai celesti gaudi. Così sia.

ORAZIONE

O Dio, che condannandoci alla morte, ce ne avete nascosto il momento e l’ora, fate che io, passando nella giustizia e nella santità tutti i giorni della vita, possa meritare d’uscire da questo mondo nel vostro santo amore, per i meriti  di nostro Signore Gesù Cristo, che vive e regna con Voi nell’unità dello Spirito Santo. Così sia.]

DOMENICA X DOPO PENTECOSTE (2019)

DOMENICA X DOPO PENTECOSTE (2019)

Incipit

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Ps LIV: 17; 18; 20; 23
Dum clamárem ad Dóminum, exaudívit vocem meam, ab his, qui appropínquant mihi: et humiliávit eos, qui est ante saecula et manet in ætérnum: jacta cogitátum tuum in Dómino, et ipse te enútriet. [Quando invocai il Signore, esaudí la mia preghiera, salvandomi da quelli che stavano contro di me: e li umiliò, Egli che è prima di tutti i secoli e sarà in eterno: abbandona al Signore ogni tua cura ed Egli ti nutrirà.]
Ps LIV:2
Exáudi, Deus, oratiónem meam, et ne despéxeris deprecatiónem meam: inténde mihi et exáudi me.
[O Signore, esaudisci la mia preghiera e non disprezzare la mia supplica: ascoltami ed esaudiscimi.]
Dum clamárem ad Dóminum, exaudívit vocem meam, ab his, qui appropínquant mihi: et humiliávit eos, qui est ante sæcula et manet in ætérnum: jacta cogitátum tuum in Dómino, et ipse te enútriet.
[Quando invocai il Signore, esaudí la mia preghiera, salvandomi da quelli che stavano contro di me: e li umiliò, Egli che è prima di tutti i secoli e sarà in eterno: abbandona al Signore ogni tua cura ed Egli ti nutrirà.]

Oratio

Orémus.
Deus, qui omnipoténtiam tuam parcéndo máxime et miserándo maniféstas: multíplica super nos misericórdiam tuam; ut, ad tua promíssa curréntes, cœléstium bonórum fácias esse consórtes.
[O Dio, che manifesti la tua onnipotenza soprattutto perdonando e compatendo, moltiplica su di noi la tua misericordia, affinché quanti anelano alle tue promesse, Tu li renda partecipi dei beni celesti.]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Corínthios.
1 Cor XII: 2-11
Fratres: Scitis, quóniam, cum gentes essétis, ad simulácra muta prout ducebámini eúntes. Ideo notum vobisfacio, quod nemo in Spíritu Dei loquens, dicit anáthema Jesu. Et nemo potest dícere, Dóminus Jesus, nisi in Spíritu Sancto. Divisiónes vero gratiárum sunt, idem autem Spíritus. Et divisiónes ministratiónum sunt, idem autem Dóminus. Et divisiónes operatiónum sunt, idem vero Deus, qui operátur ómnia in ómnibus. Unicuíque autem datur manifestátio Spíritus ad utilitátem. Alii quidem per Spíritum datur sermo sapiéntiæ álii autem sermo sciéntiæ secúndum eúndem Spíritum: álteri fides in eódem Spíritu: álii grátia sanitátum in uno Spíritu: álii operátio virtútum, álii prophétia, álii discrétio spirítuum, álii génera linguárum, álii interpretátio sermónum. Hæc autem ómnia operátur unus atque idem Spíritus, dívidens síngulis, prout vult.

Omelia I

[A. Castellazzi: La scuola degli Apostoli – Sc. Tip. Vescov. Artigianelli, Pavia, 1920]

LE DIVERSE CONDIZIONI SOCIALI

“Fratelli: Voi sapete che quando eravate gentili correvate ai simulacri muti, secondo che vi si conduceva. Perciò vi dichiaro che nessuno, il quale parli nello Spirito di Dio dice: «Anatema a Gesù»; e nessuno può dire: «Gesù Signore», se non nello Spirito Santo. C’è, sì, diversità di doni; ma lo Spirito è il medesimo. Ci sono ministeri diversi, ma il medesimo Signore; ci sono operazioni differenti, ma è il medesimo Dio che opera tutto in tutti. A ciascuno poi è data la manifestazione dello Spirito, perché sia d’utilità. Mediante lo Spirito a uno è data la parola di sapienza, a un altro è data la parola di scienza, secondo il medesimo Spirito. A un altro è data nel medesimo Spirito la fede; nel medesimo Spirito a un altro è dato il dono delle guarigioni: a un altro il potere di far miracoli; a un altro la profezia; a un altro il discernimento degli spiriti; a un altro la varietà delle lingue, a un altro il dono d’interpretarle. Ma tutte queste cose le opera l’unico e medesimo Spirito, il quale distribuisce a ciascuno come gli piace”.

Nei primi tempi della Chiesa, quando essa aveva maggior bisogno di prove esterne per affermarsi e dilatarsi, ai fedeli venivano concessi, visibilmente e in abbondanza, doni spirituali. Erano doni che dovevano servire non al vantaggio personale di chi li possedeva, ma per il bene generale della comunità cristiana. Nell’Epistola riportata, S. Paolo ne enumera nove. I Corinti, abbondantemente forniti di questi doni se ne insuperbivano. L’Apostolo per togliere tale abuso, stabilita la regola che, per conoscere se tali doni vengono da Dio o dal demonio, è da attendere se promuovono la fede in Gesù Cristo e il suo amore, insegna che, sebbene questi doni siano vari, distribuiti parte agli uni, parte agli altri; è lo stesso Spirito Santo che li distribuisce. Se sono molteplici e diversi i ministeri che si esercitano nella Chiesa; quelli che li esercitano sono tutti servi dello stesso Signore, Gesù Cristo. Se sono molteplici gli effetti prodotti da questi doni e da questi ministeri, è lo stesso Dio che opera in tutti. Il dono, poi, a chiunque sia stato concesso, è stato concesso per utilità degli altri. – La conseguenza da tirare è facile. I Corinti non avevano nessun motivo di orgoglio o di vanità per ì doni ricevuti. Quelli poi che avevano i doni più umili non dovevano invidiare quelli che avevano doni più eccellenti. Conseguenza pratica per noi: date le disuguaglianze che ci sono nella società:

1 I meno favoriti non devono rammaricarsi,

2 I più favoriti non hanno motivo di insuperbire,

3 Tutti devono cooperare a vivere in armonia.

1.

Quella distinzione di grazie, di attività, di misteri, che fa notare S. Paolo nel mistico corpo della Chiesa, può applicarsi alla società in generale. Anche questa, così varia nelle condizioni degli individui, vive una vita unica, a cui partecipano, come parte di un sol corpo, tutti i suoi membri. Ci sono ministeri diversi, ma il medesimo Signore. Altro è il ministero dell’Apostolo, altro quello del Vescovo, altro quello del sacerdote; ma è uno solo che dispensa questi ministeri: Dio. Nella società altra è la funzione di ehi governa e di chi è governato; altra quella del ricco e altra quella del povero; altra quella del pensatore e altra quella del bracciante: ina tutti hanno un compito che va a risolversi nell’armonia sociale voluta da Dio. – Si usa considerare la società come divisa in due campi: quello dei ricchi, dei gaudenti, dei parassiti, e quello dei diseredati, degli infelici, dei lavoratori. Naturalmente quelli d’una classe non hanno sempre sentimenti lodevoli verso quelli dell’altra. Ma non dovrebbe essere così. Cominciamo dalla classe dei meno favoriti. Vediamo i lavoratori. Generalmente il lavoro manuale viene considerato come un lavoro di poca considerazione, che avvilisce i lavoratori, mettendoli al disotto di coloro che non attendono a simili lavori. Se il lavoro manuale avvilisse, se mettesse i lavoratori in condizione di inferiorità di fronte agli altri, non si capirebbe come Gesù Cristo abbia lasciato gli splendori del cielo, la compagnia degli Angeli per sudare in una bottega. Quando in un lavoro si ha per compagno Gesù Cristo, chi può affermare che è un lavoro che disonora? Chi lavora, sia pure manuale il suo lavoro, può portar la testa alta come il grande pensatore. Ciò che disonora non è il genere di lavoro, è l’ozio. Vediamo coloro che nella società sono trascurati, non compresi, dimenticati, accanto a coloro che godono onori, posseggono titoli, gradi ecc. Anche questi non dovrebbero rammaricarsi, darsi alla tristezza. Le cose non continueranno sempre così. È questione di un po’ di pazienza. Sulla scena del teatro, chi rappresenta la parte di re, chi di suddito, chi di mecenate, chi di protetto, chi di padrone, chi di servo. Gli uni indossano abiti preziosi, gli altri portano abiti dimessi. Nessuno però, ha invidia della parte rappresentata da un altro, o degli abiti che indossa. Tanto è una scena di breve durata. Quando cala il sipario, tutte le grandezze scompaiono. Quando cala il sipario che chiude la nostra vita, tutti siamo eguali; nessuno porta di là blasoni, titoli, onorificenze. Ci sono i poveri di fronte ai ricchi. Qui il motivo di rammaricarsi è minore ancora. Sorge dalla falsa persuasione che ricchezza e felicità siano una cosa sola. S. Giuseppe Oriol, era chiamato dai suoi Catalani il «Santo allegro ». Un giorno fu visto in coro in preda a una certa inquietudine. Chiestogli da chi gli stava vicino che cosa gli fosse accaduto, rispose di aver in tasca un certo diavoletto che gli cagionava molto fastidio. E, uscito subito dal suo posto, diede a un povero, che trovò nella chiesa, la moneta che lo tormentava. Così riacquistò la sua tranquillità abituale (M. Carlo Salotti, Vita di S. Giuseppe Oriol; Roma, 1909). Si tratta di un Santo, direte; è vero. Ma persuadiamoci pure che le ricchezze turbano l’animo anche di chi non è santo. Per chi si lascia da esse dominare, le ricchezze sono «splendidi tormenti», come le chiama S. Cipriano» (Ad Donatum, 12). E, naturalmente, sono tormenti tanto più gravi, quanto più sono abbondanti. Ne abbiamo la prova ogni giorno. Chi sono quelli che si tolgono la vita, incapaci di resistere alle prove che l’accompagnano? Sono quasi sempre dei ricchi; e tra questi è preponderante il numero dei ricchissimi.

2.

A ciascuno poi è data la manifestazione dello Spirito, perché sia di utilità. Qui è dichiarato lo scopo di questi doni soprannaturali. Essi sono dati non in vista dell’individuo che è ne è fornito, ma in vista dell’utilità della Chiesa.  Questi doni hanno un’unica origine, il Signore, hanno un unico fine, l’utilità della Chiesa. Sbagliano, quindi, quei Corinti che si lamentano per averne ricevuti meno che gli altri; e sbagliano quei Corinti che diventano orgogliosi per averne ricevuti di più. Anche rispetto alla società civile possiamo dire che sbagliano tanto quelli che si rattristano, perché si trovano inferiori agli altri, quanto quelli che vanno gonfi, perché si trovano superiori. Se tu hai beni, gradi, titoli che ti fanno superiore agli altri, non devi credere che dipenda tutto da te. Se il Signore non avesse benedetto le tue fatiche, i tuoi tentativi, se non ti avesse posto in particolari condizioni e in particolari circostanze, saresti povero, dimenticato, sconosciuto come gli altri. Quanti hanno sudato, pensato, osato più di te, e si trovano in condizione ben inferiore alla tua. Dove Dio aiuta ogni cosa riesce. Senza la benedizione di Dio, al contrario, tutte le fatiche e tutti i pensamenti degli uomini non riescono a nulla. «Se il Signore non edifica la casa, inutilmente vi si affannano i costruttori» (Ps. CXXVI, 1).Se ti trovi in condizioni sociali migliori di quelle degli atri, pensa che è anche maggiore la tua responsabilità. « A chi molto fu dato, molto sarà richiesto» (Luc. XII, 48) è scritto nel Vangelo. In certo modo, invece di disprezzare chi ti è inferiore, dovresti onorarlo, perché egli ha meno responsabilità della tua, e a lui sarà chiesto conto con meno rigore che a te. L’uomo si giudica dalle sue opere. Se tu con tutti i tuoi privilegi e i tuoi beni, non fai niente di buono; e un altro, povero, disprezzato compie delle buone opere; chi è più degno di stima di rispetto, di considerazione? Se poi entriamo nel campo spirituale, quello che tu stimi a te inferiore, può essere cento volte superiore a te. Chi più grande: S. Isidoro, agricoltore ; S. Giuseppe Benedetto Labre, pellegrino medicante ; S. Zita, domestica, o tanti fortunati del mondo, che passarono all’altra vita senza biasimo e senza lode?Per quanto possono essere notevoli le disuguaglianze su questa terra, non dovrebbero essere motivo di tristezza o di orgoglio. «Tutte queste disuguaglianze possono essere uguagliate dalla grazia divina, perché quei che restano fedeli fra le tempeste di questa vita non possono essere infelici» (S. Leone M. Epist. 15, 10).

3.

Lo Spirito Santo distribuisce a ciascuno come gli piace. Nessuno, quindi, può domandargli conto o lamentarsi, se agli uni distribuisce doni più abbondanti che agli altri. Se lo Spirito Santo distribuisce a suo piacimento, non fa, però, una distribuzione capricciosa. Tutti i doni distribuiti debbono cooperare al bene comune della Chiesa; perciò, tra essi bisogna che ci sia quella comunicazione che c’è tra le varie membra di un sol corpo. Lo stesso possiam dire delle varie mansioni nella società. La natura della società, stabilita da Dio, è tale che le varie classi, sono collegate tra di loro in maniera che una non possa far senza dell’altra. Esse sono destinate ad armonizzare fra loro, in guisa da produrre un completo equilibrio.Ci deve essere armonia tra padroni e dipendenti. I padroni, i superiori in genere, devono essere animati dal pensiero di procurare la felicità dei loro dipendenti. Proteggerli se deboli; difenderli, se vessati; procurare il loro benessere se bisognosi. Non devono dimenticarsi che i loro dipendenti hanno un’anima da salvare. Perciò devono facilitar loro il vivere secondo le leggi dell’onestà e secondo i comandamenti di Dio. Sull’animo dell’uomo, sia pure un dipendente, nessuno può aver un dominio maggiore di quello che ha Dio. Nessuno, quindi, può comandare ciò che è contrario ai comandi di Dio. Alla loro volta i dipendenti devono considerare i padroni e i superiori come quelli che sono stati da Dio destinati a curare il loro bene, a esser sostegno nelle difficoltà della vita, a esser guida nelle incertezze. E neppure ci deve essere contrasto tra il lavoro della mente e il lavoro della mano. È necessaria l’uno ed è necessario l’altro. Una macchina che proceda senza chi la guidi non potrà andare avanti bene. La sua forza, invece di produrre benefici, produce danni. Lavora tanto chi studia e dà l’indirizzo, quanto chi eseguisce il lavoro. L’importante è che lavorino tutti, poiché «chi non vuol lavorare non deve neppure mangiare» (2 Tess. III, 10). – Armonia ci dev’essere anche tra ricchi e poveri. La sollecitudine moderata di migliorare la propria condizione e di provvedere all’avvenire non è proibita, ma con tutte le sollecitudini e con tutte le provvidenze, non si chiuderà mai la porta alle miserie: queste si affacceranno sempre. E qui il ricco può colmarsi di meriti e di benedizioni: «Se hai dei beni terreni — scrive S. Agostino — usane in modo da far con essi molti beni e male nessuno» (Epist. 220, 11 ad Bonif.). Ti acquisterai vera gloria, poiché « gloria del buono è l’aver chi possa ricolmare dei suoi benefici » (S. Giovanni Grisostomo. In II Epist. ad Thess. Hom. 3, 12). Ti acquisterai la ricompensa delle preghiere dei beneficati, e farai un sacrificio molto accetto a Dio, come ti assicura l’Apostolo: «Non vogliate dimenticarvi di esercitare la beneficenza e la libertà, perché con tali sacrifici si rende propizio Dio» (Ebr. XIII, 16).

Graduale

Ps XVI: 8; LXVIII: 2
Custódi me, Dómine, ut pupíllam óculi: sub umbra alárum tuárum prótege me.
[Custodiscimi, o Signore, come la pupilla dell’occhio: proteggimi sotto l’ombra delle tue ali.]
V. De vultu tuo judícium meum pródeat: óculi tui vídeant æquitátem.
[Venga da Te proclamato il mio diritto: poiché i tuoi occhi vedono l’equità.]

Alleluja

Allelúja, allelúja

 Ps LXIV: 2
Te decet hymnus, Deus, in Sion: et tibi redde tu votum in Jerúsalem.
Allelúja. [A Te, o Dio, si addice l’inno in Sion: a Te si sciolga il voto in Gerusalemme. Allelúia.]

Evangelium

Sequéntia ✠ sancti Evangélii secúndum S. Lucam.
Luc XVIII: 9-14.
In illo témpore: Dixit Jesus ad quosdam, qui in se confidébant tamquam justi et aspernabántur céteros, parábolam istam: Duo hómines ascendérunt in templum, ut orárent: unus pharisæus, et alter publicánus. Pharisaeus stans, hæc apud se orábat: Deus, grátias ago tibi, quia non sum sicut céteri hóminum: raptóres, injústi, adúlteri: velut étiam hic publicánus. Jejúno bis in sábbato: décimas do ómnium, quæ possídeo. Et publicánus a longe stans nolébat nec óculos ad cœlum leváre: sed percutiébat pectus suum, dicens: Deus, propítius esto mihi peccatóri.Dico vobis: descéndit hic justificátus in domum suam ab illo: quia omnis qui se exáltat, humiliábitur: et qui se humíliat, exaltábitur.” 

Omelia II

[A. Carmignola, Spiegazione dei Vangeli domenicali, S. E. I. Ed. Torino,  1921]

SPIEGAZIONE XXXVIII.

 “In quel tempo disse Gesù questa parabola per taluni, i quali confidavano in se stessi come giusti, e deprezzavano gli altri: Due uomini salirono al tempio: uno Fariseo, e l’altro Pubblicano. Il Fariseo si stava, e dentro di sé orava così: Ti ringrazio, o Dio, che io non sono come gli altri uomini, rapaci, ingiusti, adulteri; ed anche come questo Pubblicano. Digiuno due volte la settimana; pago la decima di tutto quello che io posseggo Ma il Pubblicano, stando da lungi, non voleva nemmeno alzar gli occhi al cielo; ma si batteva il petto, dicendo: Dio, abbi pietà di me peccatore. Vi dico, che questo se ne tornò giustificato a casa sua a differenza dell’altro: imperocché chiunque si esalta, sarà umiliato; e chi si umilia, sarà esaltato” (Luc. XVIII, 9-14).

Vi è sopra di questa terra un mostro, che si avventa contro tutti gli uomini senza distinzione di età, di sesso, di condizione, che cerca di guastare tutte le loro opere e di ridurle al nulla, che corrompe in radice tutte le loro più belle azioni e le più grandi virtù, e che tuttavia, oh insensatezza umana! anzi che essere dagli uomini temuto, cercato a morte, combattuto, è dalla maggior parte di loro ricevuto allegramente in loro compagnia, tenuto volentieri al loro fianco, pasciuto dei migliori bocconi, accarezzato ben anche, trattato sempre come un idolo carissimo. – E qual è adunque mai questo mostro in sé così spaventoso e che pure arreca sì poco spavento? qual è? forse l’avrete già indovinato: esso è il mostro della superbia. Ed in vero non è forse la superbia il primo e il più fecondo dei peccati capitali? Non prendo esso il più gran posto nella vita umana? Vi ha forse vizio che più di questo estenda il suo impero? Se pertanto vi ha vizio che debba essere da noi combattuto è certamente questo. E poiché ad inspirare orrore per qualsiasi vizio giova assai il vedere la bruttezza e i danni, che esso arreca, questo appunto procureremo di fare in questa mattina, giacché ce ne porge occasione il Vangelo di questa domenica.

1. Dice adunque il Vangelo di oggi che nostro Signor Gesù Cristo raccontava un giorno questa parabola: Due uomini salirono al tempio a fare orazione: uno Fariseo e l’altro Pubblicano. Et reliqua. Or bene, quale fu lo scopo, che si prefisse Gesù Cristo nel raccontare questa parabola? Già lo si rileva dalla conclusione della parabola stessa, ma lo si conosce anche meglio dalla dichiarazione, con la quale il Vangelo ci fa sapere che Gesù disse questa parabola per taluni, i quali pieni di superbia confidavano in se stessi come giusti e disprezzavano gli altri. Adunque confidare in se stessi ecco il primo carattere della superbia. Il superbo con somma compiacenza fa l’inventario delle sue belle qualità. Egli trova di avere una grande intelligenza, una viva immaginazione, una felice memoria, di sapere assai; egli riconosce d’avere un cuore ben fatto e dotato delle più belle qualità. Sopra tutto egli sente di avere tutta la prudenza necessaria anche per governare un regno, epperò di sapersi regolare convenientemente in tutte le più difficili circostanze senza ricorrere al consiglio di alcuno. Così anzitutto fa il superbo, e così facendo non si abbandona egli ad un grave eccesso? Perché, se pure in lui vi ha qualche cosa di buono, non lo ha ricevuto da Dio? E perché se ne vanta come fosse suo? e ne rapisce a Lui la gloria? e disconosce così la padronanza che ha Iddio sopra di lui? Ecco adunque che il superbo per rispetto a Dio è un ladro, un cieco, un bugiardo, un ribelle; un ladro che ruba al Signore la gloria, che egli protesta di voler soltanto per sé; un cieco che volontariamente chiude gli occhi a non vedere i doni del Signore; un bugiardo che dice suo quel che è di Dio; un ribelle, che in sostanza dice al Signore: non voglio riconoscerti per mio sovrano. Or dunque, considerato anche nel suo primo carattere il peccato di superbia non è forse della massima malizia? Il secondo carattere della superbia è disprezzare e trattar male gli altri. Il superbo stabilisce un confronto fra sé e il suo prossimo e sempre dà il vantaggio a se stesso collocando gli altri al di sotto di sé fino al disprezzo. Difatti che diceva il superbo Fariseo? Mio Dio, vi ringrazio ch’io non sono come il rimanente degli uomini, che sono ladri, ingiusti, ed adulteri, e neppure come codesto Pubblicano. Egli adunque disprezza tutti gli altri uomini, li punge con le più sanguinose ingiurie, li pone tutti nello stesso grado, li giudica senza ragione e li condanna senza giustizia. Fa di tutta l’intera umanità un immenso cumulo di ingiusti, di ladri, di malvagi, e in mezzo a quella folla innumerevole di uomini viziosi, egli solo si proclama giusto ed innocente. E questo generale confronto non gli basta: ha bisogno di una vittima speciale, determinata; ed è contro il povero Pubblicano che egli si scaglia con un’altera parola, con un gesto sprezzante. Ecco adunque nella superbia il disprezzo degli altri spinto al più grave eccesso e per conseguenza la mormorazione, la calunnia, l’ingiustizia, ed aggiungiamo pure l’invidia, la collera, la vendetta, la disonestà, l’apostasia dalla fede, perché a tutto questo porta il disprezzare gli altri. Ed in vero è per superbia che Lucifero si ribellò a Dio volendo essere simile a Lui. È per superbia che Adamo ed Eva disobbedirono al precetto del Signore, desiderando di arrivare a conoscere come Dio il bene ed il male. È persuperbia che Caino ucciso Abele, vedendolo a sé superiore nell’estimazione di Dio. È per superbia che Faraone oppresse gli Ebrei, per superbia che questi mormoravano contro Mosè, per superbia che Saulle attentò più volte la vita di Davide, per superbia che Davide cadde nella disonestà, per superbia che Nabucodònosor, Antioco, Erode si diedero a perseguitare gl’innocenti, per superbia che S. Pietro negò il Divin Redentore, per superbia che gli imperatori romani fecero tante vittime, per superbia che gli eresiarchi recano tanto danno alla Chiesa, insomma fu ed è tuttora per la superbia, che si commettono la maggior parte dei peccati, o più esattamente non vi è peccato alcuno, nel quale non vi entri la superbia. Lo Spirito Santo dice chiaro che la superbia è il principio d’ogni peccato: Initium omnis peccati superbia (Eccli. X. 15); e Cornelio Alapide la chiama centro, da cui partono i raggi di ogni malvagità. – Ma questo vizio ha un terzo carattere che non dobbiam passare sotto silenzio, e che è designato dal Vangelo che meditiamo. L’orgoglioso ostenta il poco di buone opere che compie, e ne trae argomento di vanagloria. Ascoltate di bel nuovo il Fariseo: Io digiuno due volte la settimana e pago la decima di tutti i beni che possiedo. Qui è ben vero, o miei cari, che trattasi di opere eccellenti, e la cui pratica è lodevole assai. Tuttavia queste opere di espiazione e di carità devono esser fatte con la mira di piacere a Dio e non con l’intenzione d’essere stimati dagli uomini. Or ecco come la superbia non è solamente il principio d’ogni peccato, ma ancora la rovina di ogni virtù: poiché, come osserva S. Agostino, tende insidie a tutte le opere buone, affinché periscano. E di fatti dove va il merito delle preghiere, delle elemosine, dei sacramenti, delle pratiche di pietà, quando siano fatte per superbia o dalla superbia siano contaminate? Colui che opera il bene per questo fine di comparire dinanzi agli altri, al termine della vita si sentirà a dire da Dio medesimo: Hai già ricevuto la tua mercede. Oh quanto è brutto adunque, e quanto grave danno arreca il peccato della superbia!

2. Ma la gravezza di questo peccato possiamo ancora rilevarla dai castighi con cui Iddio lo punisce. E come dunque si compie anche quaggiù la giustizia di Dio contro la superbia? Dio primieramente la fa servire a coprire il superbo di onta e di confusione: Gloriam eorum in ignominia commutabo (Ose. IV, 7). Guardate là in quelle basse pianure di Seunaar. Che cosa fanno quei molti là insieme radunati? Ecco quali sono i loro propositi: “Edifichiamo una città, rizziamo una torre, la quale colla cima aggiunga insino al cielo e così facciamo che grande ed eterna sia la ricordanza del nostro nome”. Eccoli adunque a murare con mattoni e con bitume per fabbricare una nuova città ed una gran torre. Ma Iddio si sdegna di quella superbia e viene ad abbatterla. Ora, Egli dice, questo è un sol popolo, ed hanno tutti la stessa lingua, ma io discenderò e confonderò il loro linguaggio, sicché l’uno non capisca più il parlare dell’altro. Come Dio volle, così avvenne. Chiamavano gli architetti e venivano i giornalieri, chiedevano pane per i lavoranti e si portavano pietre per il lavoro, volevano archipendoli e si porgevano picconi; si credettero derisi, cominciarono ad adirarsi gli uni cogli altri, senza che intendessero la cagione delle loro risse, e così smarriti, confusi, smemorati lasciarono in abbandono il superbo attentato, e perduto l’aiuto della comune favella, e quindi rotto il fortissimo legame della società, cominciarono a disgregarsi, andando chi da una parte, chi dall’altra e spargendosi in diversi paesi. Così Iddio in poco tempo ebbe volta in perpetua vergogna la grande superbia di coloro. – In secondo luogo Iddio resiste al superbo. Come coi piccoli ciottoli della spiaggia arresta gli spumanti marosi del mare furibondo, così alle volte con l’onnipotenza, di cui Egli dispone, manda in fumo tutti quanti i disegni del superbo, e fiacca la sua alterigia. Mosè a nome di Dio si presenta a Faraone e gli dice: Il Signore Iddio d’Israele mi manda a dirti che lasci partire il suo popolo, acciocché vada ad offrirgli sacrifici nel deserto. Ma Faraone, pieno di orgoglio, risponde: Chi è questo Signore, alla cui parola io debba obbedire, e pel quale io debba lasciar partire Israele? Non conosco questo Signore e Israele non partirà. Lo stolto si ostina nel suo rifiuto, e Iddio successivamente percuote il suo regno con terribili castighi. Moltitudine incredibile di rane, numero infinito di insetti, nembo di molestissime mosche e tafani, orribile peste, enfiature ed ulceri dolorosissime, uragani con tuono, fuoco e grandine sterminatrice, immensità di locuste, orrore di tenebre, morte di tutti i primogeniti, ecco le dieci piaghe, che colpirono l’Egitto a cagione della superbia del re. Eppure ciò non bastò a piegare quell’ostinato, tanto il mostro della superbia acceca coloro, che cadono tra i suoi artigli. Lascia è vero, partire gli Ebrei, ma appena partiti, si pente d’averli lasciati in libertà, allestisce prestamente un esercito ed egli medesimo alla testa di esso li insegue. Già li ha raggiunti e visto aperto il mar Rosso, pel quale a piede asciutto erano ormai passati gli Ebrei, vi entra e si avanza egli pure. Ma là lo aspetta la collera di Dio. Al tocco della verga di Mosè le acque sospese ritornano con spaventevole fracasso al luogo primiero, coprono e sommergono il superbo Faraone, i cavalieri, i cavalli e i carri, seppellendo ogni cosa negli abissi. Finalmente Iddio punisce l’orgoglioso sottraendogli la sua grazia, abbandonandolo alle sue impure passioni, permettendo talora che faccia delle vergognose cadute, che lo disonorino interamente, e lo compromettano innanzi a tutti coloro, cui studiavasi di piacere, e la cui stima e protezione era da lui ricercata con una febbre ardente: Tradititi illos Deus in passiones ignominiæ (Rom. I, 20). Non avete mai riscontrato delle prove di quanto asserisco? Non avete talvolta udito di qualche famosa caduta, da cui un uomo mai non si rialza? Fu la punizione inflitta a colui che ha voluto innalzarsi a detrimento della divina gloria, per cui, bentosto ha veduto verificarsi la minaccia del divino Maestro: Chiunque si esalta, sarà umiliato. Ecco i castighi con cui anche quaggiù vien punita la superbia, senza nulla dire della terribile morte che minaccia il superbo, della vergogna a cui andrà soggetto nel dì dell’universale giudizio, e delle umiliazioni eterne che proverà nell’inferno.

3. Pertanto, o miei cari, comprendiamo l’importanza di fuggire questo vizio e di esercitare la virtù che ad esso si oppone. L’umiltà con la quale si vince la superbia è di tale importanza che Gesù Cristo istesso ce ne ha dato il  più ammirabile esempio. L’Apostolo S. Paolo parlandoci dei grandi misteri della incarnazione, passione e morte di Gesù Cristo li presenta alla nostra considerazione come misteri di impicciolimento e di umiliazione. Iddio, egli dice, si è esinanito, prendendo la forma di servo: exinanivit semetipsum formam servi accipiens. Gesù Cristo, soggiunse, si è umiliato facendosi obbediente fino alla morte e morte di croce: Humiliavit semetipsum factus ooediens usque ad mortem, mortem autem crucis. Di fatti  che misteri del più profondo abbassamento? Epperò Gesù Cristo medesimo insegnando un ammaestramento da prendere per eccellenza da Lui disse: Imparate da me che sono umile di cuore: discite a me quia humilis sum corde. Notate bene – spiega qui S. Agostino – nostro Signore non ci dice: Imparate da me a fabbricare il mondo, ad operare miracoli e a risuscitare i morti, ma bensì ad essere umili di cuore. E come si presentò Egli stesso a nostro modello per eccellenza di umiltà, così si può dire che volle ancora quasi compendiare nell’umiltà tutta quanta la sua morale. Il mondo dice: Bisogna farsi onore, bisogna salire in alto, non bisogna permettere che alcuno vi umilii. Il mondo stima chi occupa i primi posti, le dignità, le cariche, chi comanda, ma non chi umilmente ubbidisce. Il mondo disprezza chi fugge gli onori o lo guarda almeno con aria di compassione quasi per dirgli: Eh folle! non sai quel che importa. Ma Gesù Cristo insegna tutto il contrario. Ecco che cosa Egli dice: « Se alcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua. Guardatevi bene dal fare le vostre buone opere per essere veduti e lodati dagli uomini, altrimenti non potrete pretendere verun premio dal Padre vostro, che è nei cieli. Se alcuno vuol essere il primo, si faccia l’ultimo, il servo di tutti. Quando avrete fatto tutto bene con esito felice, riconoscete da Dio ogni prospero evento e dite: Siamo servi inutili ed abbiam fatto il nostro dovere. Non vogliate i primi posti; chi si esalta sarà umiliato e chi si umilia sarà esaltato. In verità, in verità vi dico, se non diventerete come fanciulli non entrerete nel regno dei cieli ». Ecco la morale del divin Maestro. E questa è la morale che noi dobbiamo praticare imitando la condotta del povero pubblicano. Egli se ne stava lontano, perché l’umiltà induce a nascondersi sempre, anche allora che si fa un po’ di bene, eseguendo incessantemente la massima dell’Imitazione di Cristo: Ama nesciri et prò nihilo reputavi. Dunque teniamoci volentieri in disparte anche noi, e non portiamo mai invidia a coloro che sono più abili di noi alle cariche, agli onori, alle dignità. Il pubblicano non osava levare gli occhi al cielo, perché chi è umile non pretende privilegi o favori speciali da Dio, ma si accontenta delle grazie ordinarie e si studia di ben corrispondere alle medesime. Così facciamo ancor noi. Finalmente il pubblicano percotendosi il petto si confessava con sincerità povero peccatore. Ed ecco: darsi al sentimento della compunzione e della penitenza; alzare a Dio gli accenti della contrizione e del pentimento; ecco ancora la vera umiltà. Il superbo non vuol saperne di manifestare i suoi falli, il dogma della confessione lo rivolta e lo spaventa; non vuol chieder grazia per le colpe, giacché egli stoltamente si vanta d’esser innocente. Così pensa, così parla l’orgoglioso. Ma l’umile invece si china, si prostra, geme, implora, confessa di meritare tutti i rigori, chiede grazia, sollecita la misericordia; egli riconosce di non aver alcun diritto al perdono e fa un appello alla pietà divina. Tale, o miei cari, è l’umiltà verace, sincera, quella che trovò il Salvatore nel pubblicano del Vangelo, ch’Egli lodò in presenza della turba, ed alla quale disse esser toccata la ricompensa della giustificazione, quella grazia che racchiude tutte le altre e senza della quale tutte le altre sarebbero un nulla: Descendit hic iustificatus in domum suam. Coraggio adunque: qui bisogna decidersi: o essere umili con Gesù Cristo, o essere superbi col mondo. Quale sarà pertanto la nostra scelta? Ricordiamoci che il regno dei cieli patisce violenza e che lo conquisteranno solamente coloro che attendono a combattere le proprie passioni e che, se con Gesù Cristo e per Gesù Cristo, saremo umili sopra di questa terra, alla fine saremo con Lui esaltati in cielo, perché se è verissimo che chi si esalta sarà umiliato, è pure certissimo che chi si umilia sarà esaltato.

Credo…

Offertorium

Orémus
Ps XXIV: 1-3
Ad te, Dómine, levávi ánimam meam: Deus meus, in te confído, non erubéscam: neque irrídeant me inimíci mei: étenim univérsi, qui te exspéctant, non confundéntur.
[A Te, o Signore, ho innalzata l’anima mia: o Dio mio, in Te confido, che io non abbia ad arrossire: che non mi irridano i miei nemici: poiché quanti a Te si affidano non saranno confusi.]

Secreta

Tibi, Dómine, sacrifícia dicáta reddántur: quæ sic ad honórem nóminis tui deferénda tribuísti, ut eadem remédia fíeri nostra præstáres. [A Te, o Signore, siano consacrate queste oblazioni, che in questo modo volesti offerte ad onore del tuo nome, da giovare pure a nostro rimedio.]

Communio

Ps L: 21.
Acceptábis sacrificium justítiæ, oblatiónes et holocáusta, super altáre tuum, Dómine. [Gradirai, o Signore, il sacrificio di giustizia, le oblazioni e gli olocausti sopra il tuo altare.]

Postcommunio

Orémus.
Quǽsumus, Dómine, Deus noster: ut, quos divínis reparáre non désinis sacraméntis, tuis non destítuas benígnus auxíliis.
[Ti preghiamo, o Signore Dio nostro: affinché benigno non privi dei tuoi aiuti coloro che non tralasci di rinnovare con divini sacramenti.]

Per l’ordinario vedi:

Ordinario della Messa – ExsurgatDeus.org.