DOMENICA X DOPO PENTECOSTE (2019)
Incipit
In nómine Patris, ☩ et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.
Introitus
Ps LIV: 17; 18; 20; 23
Dum clamárem ad Dóminum, exaudívit vocem meam, ab his, qui appropínquant mihi: et humiliávit eos, qui est ante saecula et manet in ætérnum: jacta cogitátum tuum in Dómino, et ipse te enútriet. [Quando invocai il Signore, esaudí la mia preghiera, salvandomi da quelli che stavano contro di me: e li umiliò, Egli che è prima di tutti i secoli e sarà in eterno: abbandona al Signore ogni tua cura ed Egli ti nutrirà.]
Ps LIV:2
Exáudi, Deus, oratiónem meam, et ne despéxeris deprecatiónem meam: inténde mihi et exáudi me. [O Signore, esaudisci la mia preghiera e non disprezzare la mia supplica: ascoltami ed esaudiscimi.]
Dum clamárem ad Dóminum, exaudívit vocem meam, ab his, qui appropínquant mihi: et humiliávit eos, qui est ante sæcula et manet in ætérnum: jacta cogitátum tuum in Dómino, et ipse te enútriet. [Quando invocai il Signore, esaudí la mia preghiera, salvandomi da quelli che stavano contro di me: e li umiliò, Egli che è prima di tutti i secoli e sarà in eterno: abbandona al Signore ogni tua cura ed Egli ti nutrirà.]
Oratio
Orémus.
Deus, qui omnipoténtiam tuam parcéndo máxime et miserándo maniféstas:
multíplica super nos misericórdiam tuam; ut, ad tua promíssa curréntes,
cœléstium bonórum fácias esse consórtes. [O Dio, che manifesti la tua onnipotenza soprattutto
perdonando e compatendo, moltiplica su di noi la tua misericordia, affinché
quanti anelano alle tue promesse, Tu li renda partecipi dei beni celesti.]
Lectio
Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Corínthios.
1 Cor XII: 2-11
Fratres: Scitis, quóniam, cum gentes essétis, ad simulácra muta prout ducebámini eúntes. Ideo notum vobisfacio, quod nemo in Spíritu Dei loquens, dicit anáthema Jesu. Et nemo potest dícere, Dóminus Jesus, nisi in Spíritu Sancto. Divisiónes vero gratiárum sunt, idem autem Spíritus. Et divisiónes ministratiónum sunt, idem autem Dóminus. Et divisiónes operatiónum sunt, idem vero Deus, qui operátur ómnia in ómnibus. Unicuíque autem datur manifestátio Spíritus ad utilitátem. Alii quidem per Spíritum datur sermo sapiéntiæ álii autem sermo sciéntiæ secúndum eúndem Spíritum: álteri fides in eódem Spíritu: álii grátia sanitátum in uno Spíritu: álii operátio virtútum, álii prophétia, álii discrétio spirítuum, álii génera linguárum, álii interpretátio sermónum. Hæc autem ómnia operátur unus atque idem Spíritus, dívidens síngulis, prout vult.
Omelia I
[A. Castellazzi: La scuola degli Apostoli – Sc. Tip. Vescov. Artigianelli, Pavia, 1920]
LE DIVERSE CONDIZIONI SOCIALI
“Fratelli: Voi sapete che quando eravate gentili correvate ai simulacri muti, secondo che vi si conduceva. Perciò vi dichiaro che nessuno, il quale parli nello Spirito di Dio dice: «Anatema a Gesù»; e nessuno può dire: «Gesù Signore», se non nello Spirito Santo. C’è, sì, diversità di doni; ma lo Spirito è il medesimo. Ci sono ministeri diversi, ma il medesimo Signore; ci sono operazioni differenti, ma è il medesimo Dio che opera tutto in tutti. A ciascuno poi è data la manifestazione dello Spirito, perché sia d’utilità. Mediante lo Spirito a uno è data la parola di sapienza, a un altro è data la parola di scienza, secondo il medesimo Spirito. A un altro è data nel medesimo Spirito la fede; nel medesimo Spirito a un altro è dato il dono delle guarigioni: a un altro il potere di far miracoli; a un altro la profezia; a un altro il discernimento degli spiriti; a un altro la varietà delle lingue, a un altro il dono d’interpretarle. Ma tutte queste cose le opera l’unico e medesimo Spirito, il quale distribuisce a ciascuno come gli piace”.
Nei primi tempi della Chiesa, quando essa aveva maggior bisogno di prove esterne per affermarsi e dilatarsi, ai fedeli venivano concessi, visibilmente e in abbondanza, doni spirituali. Erano doni che dovevano servire non al vantaggio personale di chi li possedeva, ma per il bene generale della comunità cristiana. Nell’Epistola riportata, S. Paolo ne enumera nove. I Corinti, abbondantemente forniti di questi doni se ne insuperbivano. L’Apostolo per togliere tale abuso, stabilita la regola che, per conoscere se tali doni vengono da Dio o dal demonio, è da attendere se promuovono la fede in Gesù Cristo e il suo amore, insegna che, sebbene questi doni siano vari, distribuiti parte agli uni, parte agli altri; è lo stesso Spirito Santo che li distribuisce. Se sono molteplici e diversi i ministeri che si esercitano nella Chiesa; quelli che li esercitano sono tutti servi dello stesso Signore, Gesù Cristo. Se sono molteplici gli effetti prodotti da questi doni e da questi ministeri, è lo stesso Dio che opera in tutti. Il dono, poi, a chiunque sia stato concesso, è stato concesso per utilità degli altri. – La conseguenza da tirare è facile. I Corinti non avevano nessun motivo di orgoglio o di vanità per ì doni ricevuti. Quelli poi che avevano i doni più umili non dovevano invidiare quelli che avevano doni più eccellenti. Conseguenza pratica per noi: date le disuguaglianze che ci sono nella società:
1 I meno favoriti non devono rammaricarsi,
2 I più favoriti non hanno motivo di insuperbire,
3 Tutti devono cooperare a vivere in armonia.
1.
Quella distinzione di grazie, di attività, di misteri, che fa notare S. Paolo nel mistico corpo della Chiesa, può applicarsi alla società in generale. Anche questa, così varia nelle condizioni degli individui, vive una vita unica, a cui partecipano, come parte di un sol corpo, tutti i suoi membri. Ci sono ministeri diversi, ma il medesimo Signore. Altro è il ministero dell’Apostolo, altro quello del Vescovo, altro quello del sacerdote; ma è uno solo che dispensa questi ministeri: Dio. Nella società altra è la funzione di ehi governa e di chi è governato; altra quella del ricco e altra quella del povero; altra quella del pensatore e altra quella del bracciante: ina tutti hanno un compito che va a risolversi nell’armonia sociale voluta da Dio. – Si usa considerare la società come divisa in due campi: quello dei ricchi, dei gaudenti, dei parassiti, e quello dei diseredati, degli infelici, dei lavoratori. Naturalmente quelli d’una classe non hanno sempre sentimenti lodevoli verso quelli dell’altra. Ma non dovrebbe essere così. Cominciamo dalla classe dei meno favoriti. Vediamo i lavoratori. Generalmente il lavoro manuale viene considerato come un lavoro di poca considerazione, che avvilisce i lavoratori, mettendoli al disotto di coloro che non attendono a simili lavori. Se il lavoro manuale avvilisse, se mettesse i lavoratori in condizione di inferiorità di fronte agli altri, non si capirebbe come Gesù Cristo abbia lasciato gli splendori del cielo, la compagnia degli Angeli per sudare in una bottega. Quando in un lavoro si ha per compagno Gesù Cristo, chi può affermare che è un lavoro che disonora? Chi lavora, sia pure manuale il suo lavoro, può portar la testa alta come il grande pensatore. Ciò che disonora non è il genere di lavoro, è l’ozio. Vediamo coloro che nella società sono trascurati, non compresi, dimenticati, accanto a coloro che godono onori, posseggono titoli, gradi ecc. Anche questi non dovrebbero rammaricarsi, darsi alla tristezza. Le cose non continueranno sempre così. È questione di un po’ di pazienza. Sulla scena del teatro, chi rappresenta la parte di re, chi di suddito, chi di mecenate, chi di protetto, chi di padrone, chi di servo. Gli uni indossano abiti preziosi, gli altri portano abiti dimessi. Nessuno però, ha invidia della parte rappresentata da un altro, o degli abiti che indossa. Tanto è una scena di breve durata. Quando cala il sipario, tutte le grandezze scompaiono. Quando cala il sipario che chiude la nostra vita, tutti siamo eguali; nessuno porta di là blasoni, titoli, onorificenze. Ci sono i poveri di fronte ai ricchi. Qui il motivo di rammaricarsi è minore ancora. Sorge dalla falsa persuasione che ricchezza e felicità siano una cosa sola. S. Giuseppe Oriol, era chiamato dai suoi Catalani il «Santo allegro ». Un giorno fu visto in coro in preda a una certa inquietudine. Chiestogli da chi gli stava vicino che cosa gli fosse accaduto, rispose di aver in tasca un certo diavoletto che gli cagionava molto fastidio. E, uscito subito dal suo posto, diede a un povero, che trovò nella chiesa, la moneta che lo tormentava. Così riacquistò la sua tranquillità abituale (M. Carlo Salotti, Vita di S. Giuseppe Oriol; Roma, 1909). Si tratta di un Santo, direte; è vero. Ma persuadiamoci pure che le ricchezze turbano l’animo anche di chi non è santo. Per chi si lascia da esse dominare, le ricchezze sono «splendidi tormenti», come le chiama S. Cipriano» (Ad Donatum, 12). E, naturalmente, sono tormenti tanto più gravi, quanto più sono abbondanti. Ne abbiamo la prova ogni giorno. Chi sono quelli che si tolgono la vita, incapaci di resistere alle prove che l’accompagnano? Sono quasi sempre dei ricchi; e tra questi è preponderante il numero dei ricchissimi.
2.
A ciascuno poi è data la manifestazione dello Spirito, perché sia di utilità. Qui è dichiarato lo scopo di questi doni soprannaturali. Essi sono dati non in vista dell’individuo che è ne è fornito, ma in vista dell’utilità della Chiesa. Questi doni hanno un’unica origine, il Signore, hanno un unico fine, l’utilità della Chiesa. Sbagliano, quindi, quei Corinti che si lamentano per averne ricevuti meno che gli altri; e sbagliano quei Corinti che diventano orgogliosi per averne ricevuti di più. Anche rispetto alla società civile possiamo dire che sbagliano tanto quelli che si rattristano, perché si trovano inferiori agli altri, quanto quelli che vanno gonfi, perché si trovano superiori. Se tu hai beni, gradi, titoli che ti fanno superiore agli altri, non devi credere che dipenda tutto da te. Se il Signore non avesse benedetto le tue fatiche, i tuoi tentativi, se non ti avesse posto in particolari condizioni e in particolari circostanze, saresti povero, dimenticato, sconosciuto come gli altri. Quanti hanno sudato, pensato, osato più di te, e si trovano in condizione ben inferiore alla tua. Dove Dio aiuta ogni cosa riesce. Senza la benedizione di Dio, al contrario, tutte le fatiche e tutti i pensamenti degli uomini non riescono a nulla. «Se il Signore non edifica la casa, inutilmente vi si affannano i costruttori» (Ps. CXXVI, 1).Se ti trovi in condizioni sociali migliori di quelle degli atri, pensa che è anche maggiore la tua responsabilità. « A chi molto fu dato, molto sarà richiesto» (Luc. XII, 48) è scritto nel Vangelo. In certo modo, invece di disprezzare chi ti è inferiore, dovresti onorarlo, perché egli ha meno responsabilità della tua, e a lui sarà chiesto conto con meno rigore che a te. L’uomo si giudica dalle sue opere. Se tu con tutti i tuoi privilegi e i tuoi beni, non fai niente di buono; e un altro, povero, disprezzato compie delle buone opere; chi è più degno di stima di rispetto, di considerazione? Se poi entriamo nel campo spirituale, quello che tu stimi a te inferiore, può essere cento volte superiore a te. Chi più grande: S. Isidoro, agricoltore ; S. Giuseppe Benedetto Labre, pellegrino medicante ; S. Zita, domestica, o tanti fortunati del mondo, che passarono all’altra vita senza biasimo e senza lode? – Per quanto possono essere notevoli le disuguaglianze su questa terra, non dovrebbero essere motivo di tristezza o di orgoglio. «Tutte queste disuguaglianze possono essere uguagliate dalla grazia divina, perché quei che restano fedeli fra le tempeste di questa vita non possono essere infelici» (S. Leone M. Epist. 15, 10).
3.
Lo Spirito Santo distribuisce a ciascuno come gli piace. Nessuno, quindi, può domandargli conto o lamentarsi, se agli uni distribuisce doni più abbondanti che agli altri. Se lo Spirito Santo distribuisce a suo piacimento, non fa, però, una distribuzione capricciosa. Tutti i doni distribuiti debbono cooperare al bene comune della Chiesa; perciò, tra essi bisogna che ci sia quella comunicazione che c’è tra le varie membra di un sol corpo. Lo stesso possiam dire delle varie mansioni nella società. La natura della società, stabilita da Dio, è tale che le varie classi, sono collegate tra di loro in maniera che una non possa far senza dell’altra. Esse sono destinate ad armonizzare fra loro, in guisa da produrre un completo equilibrio. – Ci deve essere armonia tra padroni e dipendenti. I padroni, i superiori in genere, devono essere animati dal pensiero di procurare la felicità dei loro dipendenti. Proteggerli se deboli; difenderli, se vessati; procurare il loro benessere se bisognosi. Non devono dimenticarsi che i loro dipendenti hanno un’anima da salvare. Perciò devono facilitar loro il vivere secondo le leggi dell’onestà e secondo i comandamenti di Dio. Sull’animo dell’uomo, sia pure un dipendente, nessuno può aver un dominio maggiore di quello che ha Dio. Nessuno, quindi, può comandare ciò che è contrario ai comandi di Dio. Alla loro volta i dipendenti devono considerare i padroni e i superiori come quelli che sono stati da Dio destinati a curare il loro bene, a esser sostegno nelle difficoltà della vita, a esser guida nelle incertezze. E neppure ci deve essere contrasto tra il lavoro della mente e il lavoro della mano. È necessaria l’uno ed è necessario l’altro. Una macchina che proceda senza chi la guidi non potrà andare avanti bene. La sua forza, invece di produrre benefici, produce danni. Lavora tanto chi studia e dà l’indirizzo, quanto chi eseguisce il lavoro. L’importante è che lavorino tutti, poiché «chi non vuol lavorare non deve neppure mangiare» (2 Tess. III, 10). – Armonia ci dev’essere anche tra ricchi e poveri. La sollecitudine moderata di migliorare la propria condizione e di provvedere all’avvenire non è proibita, ma con tutte le sollecitudini e con tutte le provvidenze, non si chiuderà mai la porta alle miserie: queste si affacceranno sempre. E qui il ricco può colmarsi di meriti e di benedizioni: «Se hai dei beni terreni — scrive S. Agostino — usane in modo da far con essi molti beni e male nessuno» (Epist. 220, 11 ad Bonif.). Ti acquisterai vera gloria, poiché « gloria del buono è l’aver chi possa ricolmare dei suoi benefici » (S. Giovanni Grisostomo. In II Epist. ad Thess. Hom. 3, 12). Ti acquisterai la ricompensa delle preghiere dei beneficati, e farai un sacrificio molto accetto a Dio, come ti assicura l’Apostolo: «Non vogliate dimenticarvi di esercitare la beneficenza e la libertà, perché con tali sacrifici si rende propizio Dio» (Ebr. XIII, 16).
Graduale
Ps XVI: 8; LXVIII: 2
Custódi me, Dómine, ut pupíllam óculi: sub umbra alárum tuárum prótege me. [Custodiscimi, o Signore, come la pupilla dell’occhio: proteggimi sotto l’ombra delle tue ali.]
V. De vultu tuo judícium meum pródeat: óculi tui vídeant æquitátem. [Venga da Te proclamato il mio diritto: poiché i tuoi occhi vedono l’equità.]
Alleluja
Allelúja, allelúja
Ps LXIV: 2
Te decet hymnus, Deus, in Sion: et tibi redde tu votum in Jerúsalem. Allelúja. [A Te, o Dio, si addice l’inno in
Sion: a Te si sciolga il voto in Gerusalemme. Allelúia.]
Evangelium
Sequéntia ✠ sancti Evangélii secúndum S. Lucam.
Luc XVIII: 9-14.
“In illo témpore: Dixit Jesus ad quosdam, qui in se confidébant tamquam justi et aspernabántur céteros, parábolam istam: Duo hómines ascendérunt in templum, ut orárent: unus pharisæus, et alter publicánus. Pharisaeus stans, hæc apud se orábat: Deus, grátias ago tibi, quia non sum sicut céteri hóminum: raptóres, injústi, adúlteri: velut étiam hic publicánus. Jejúno bis in sábbato: décimas do ómnium, quæ possídeo. Et publicánus a longe stans nolébat nec óculos ad cœlum leváre: sed percutiébat pectus suum, dicens: Deus, propítius esto mihi peccatóri.Dico vobis: descéndit hic justificátus in domum suam ab illo: quia omnis qui se exáltat, humiliábitur: et qui se humíliat, exaltábitur.”
Omelia II
[A. Carmignola, Spiegazione dei Vangeli domenicali, S. E. I. Ed. Torino, 1921]
SPIEGAZIONE XXXVIII.
“In quel tempo disse Gesù questa parabola per taluni, i quali confidavano in se stessi come giusti, e deprezzavano gli altri: Due uomini salirono al tempio: uno Fariseo, e l’altro Pubblicano. Il Fariseo si stava, e dentro di sé orava così: Ti ringrazio, o Dio, che io non sono come gli altri uomini, rapaci, ingiusti, adulteri; ed anche come questo Pubblicano. Digiuno due volte la settimana; pago la decima di tutto quello che io posseggo Ma il Pubblicano, stando da lungi, non voleva nemmeno alzar gli occhi al cielo; ma si batteva il petto, dicendo: Dio, abbi pietà di me peccatore. Vi dico, che questo se ne tornò giustificato a casa sua a differenza dell’altro: imperocché chiunque si esalta, sarà umiliato; e chi si umilia, sarà esaltato” (Luc. XVIII, 9-14).
Vi è sopra di questa terra un mostro, che si avventa contro tutti gli uomini senza distinzione di età, di sesso, di condizione, che cerca di guastare tutte le loro opere e di ridurle al nulla, che corrompe in radice tutte le loro più belle azioni e le più grandi virtù, e che tuttavia, oh insensatezza umana! anzi che essere dagli uomini temuto, cercato a morte, combattuto, è dalla maggior parte di loro ricevuto allegramente in loro compagnia, tenuto volentieri al loro fianco, pasciuto dei migliori bocconi, accarezzato ben anche, trattato sempre come un idolo carissimo. – E qual è adunque mai questo mostro in sé così spaventoso e che pure arreca sì poco spavento? qual è? forse l’avrete già indovinato: esso è il mostro della superbia. Ed in vero non è forse la superbia il primo e il più fecondo dei peccati capitali? Non prendo esso il più gran posto nella vita umana? Vi ha forse vizio che più di questo estenda il suo impero? Se pertanto vi ha vizio che debba essere da noi combattuto è certamente questo. E poiché ad inspirare orrore per qualsiasi vizio giova assai il vedere la bruttezza e i danni, che esso arreca, questo appunto procureremo di fare in questa mattina, giacché ce ne porge occasione il Vangelo di questa domenica.
1. Dice adunque il Vangelo di oggi che nostro Signor Gesù Cristo raccontava un giorno questa parabola: Due uomini salirono al tempio a fare orazione: uno Fariseo e l’altro Pubblicano. Et reliqua. Or bene, quale fu lo scopo, che si prefisse Gesù Cristo nel raccontare questa parabola? Già lo si rileva dalla conclusione della parabola stessa, ma lo si conosce anche meglio dalla dichiarazione, con la quale il Vangelo ci fa sapere che Gesù disse questa parabola per taluni, i quali pieni di superbia confidavano in se stessi come giusti e disprezzavano gli altri. Adunque confidare in se stessi ecco il primo carattere della superbia. Il superbo con somma compiacenza fa l’inventario delle sue belle qualità. Egli trova di avere una grande intelligenza, una viva immaginazione, una felice memoria, di sapere assai; egli riconosce d’avere un cuore ben fatto e dotato delle più belle qualità. Sopra tutto egli sente di avere tutta la prudenza necessaria anche per governare un regno, epperò di sapersi regolare convenientemente in tutte le più difficili circostanze senza ricorrere al consiglio di alcuno. Così anzitutto fa il superbo, e così facendo non si abbandona egli ad un grave eccesso? Perché, se pure in lui vi ha qualche cosa di buono, non lo ha ricevuto da Dio? E perché se ne vanta come fosse suo? e ne rapisce a Lui la gloria? e disconosce così la padronanza che ha Iddio sopra di lui? Ecco adunque che il superbo per rispetto a Dio è un ladro, un cieco, un bugiardo, un ribelle; un ladro che ruba al Signore la gloria, che egli protesta di voler soltanto per sé; un cieco che volontariamente chiude gli occhi a non vedere i doni del Signore; un bugiardo che dice suo quel che è di Dio; un ribelle, che in sostanza dice al Signore: non voglio riconoscerti per mio sovrano. Or dunque, considerato anche nel suo primo carattere il peccato di superbia non è forse della massima malizia? Il secondo carattere della superbia è disprezzare e trattar male gli altri. Il superbo stabilisce un confronto fra sé e il suo prossimo e sempre dà il vantaggio a se stesso collocando gli altri al di sotto di sé fino al disprezzo. Difatti che diceva il superbo Fariseo? Mio Dio, vi ringrazio ch’io non sono come il rimanente degli uomini, che sono ladri, ingiusti, ed adulteri, e neppure come codesto Pubblicano. Egli adunque disprezza tutti gli altri uomini, li punge con le più sanguinose ingiurie, li pone tutti nello stesso grado, li giudica senza ragione e li condanna senza giustizia. Fa di tutta l’intera umanità un immenso cumulo di ingiusti, di ladri, di malvagi, e in mezzo a quella folla innumerevole di uomini viziosi, egli solo si proclama giusto ed innocente. E questo generale confronto non gli basta: ha bisogno di una vittima speciale, determinata; ed è contro il povero Pubblicano che egli si scaglia con un’altera parola, con un gesto sprezzante. Ecco adunque nella superbia il disprezzo degli altri spinto al più grave eccesso e per conseguenza la mormorazione, la calunnia, l’ingiustizia, ed aggiungiamo pure l’invidia, la collera, la vendetta, la disonestà, l’apostasia dalla fede, perché a tutto questo porta il disprezzare gli altri. Ed in vero è per superbia che Lucifero si ribellò a Dio volendo essere simile a Lui. È per superbia che Adamo ed Eva disobbedirono al precetto del Signore, desiderando di arrivare a conoscere come Dio il bene ed il male. È persuperbia che Caino ucciso Abele, vedendolo a sé superiore nell’estimazione di Dio. È per superbia che Faraone oppresse gli Ebrei, per superbia che questi mormoravano contro Mosè, per superbia che Saulle attentò più volte la vita di Davide, per superbia che Davide cadde nella disonestà, per superbia che Nabucodònosor, Antioco, Erode si diedero a perseguitare gl’innocenti, per superbia che S. Pietro negò il Divin Redentore, per superbia che gli imperatori romani fecero tante vittime, per superbia che gli eresiarchi recano tanto danno alla Chiesa, insomma fu ed è tuttora per la superbia, che si commettono la maggior parte dei peccati, o più esattamente non vi è peccato alcuno, nel quale non vi entri la superbia. Lo Spirito Santo dice chiaro che la superbia è il principio d’ogni peccato: Initium omnis peccati superbia (Eccli. X. 15); e Cornelio Alapide la chiama centro, da cui partono i raggi di ogni malvagità. – Ma questo vizio ha un terzo carattere che non dobbiam passare sotto silenzio, e che è designato dal Vangelo che meditiamo. L’orgoglioso ostenta il poco di buone opere che compie, e ne trae argomento di vanagloria. Ascoltate di bel nuovo il Fariseo: Io digiuno due volte la settimana e pago la decima di tutti i beni che possiedo. Qui è ben vero, o miei cari, che trattasi di opere eccellenti, e la cui pratica è lodevole assai. Tuttavia queste opere di espiazione e di carità devono esser fatte con la mira di piacere a Dio e non con l’intenzione d’essere stimati dagli uomini. Or ecco come la superbia non è solamente il principio d’ogni peccato, ma ancora la rovina di ogni virtù: poiché, come osserva S. Agostino, tende insidie a tutte le opere buone, affinché periscano. E di fatti dove va il merito delle preghiere, delle elemosine, dei sacramenti, delle pratiche di pietà, quando siano fatte per superbia o dalla superbia siano contaminate? Colui che opera il bene per questo fine di comparire dinanzi agli altri, al termine della vita si sentirà a dire da Dio medesimo: Hai già ricevuto la tua mercede. Oh quanto è brutto adunque, e quanto grave danno arreca il peccato della superbia!
2. Ma la gravezza di questo peccato possiamo ancora rilevarla dai castighi con cui Iddio lo punisce. E come dunque si compie anche quaggiù la giustizia di Dio contro la superbia? Dio primieramente la fa servire a coprire il superbo di onta e di confusione: Gloriam eorum in ignominia commutabo (Ose. IV, 7). Guardate là in quelle basse pianure di Seunaar. Che cosa fanno quei molti là insieme radunati? Ecco quali sono i loro propositi: “Edifichiamo una città, rizziamo una torre, la quale colla cima aggiunga insino al cielo e così facciamo che grande ed eterna sia la ricordanza del nostro nome”. Eccoli adunque a murare con mattoni e con bitume per fabbricare una nuova città ed una gran torre. Ma Iddio si sdegna di quella superbia e viene ad abbatterla. Ora, Egli dice, questo è un sol popolo, ed hanno tutti la stessa lingua, ma io discenderò e confonderò il loro linguaggio, sicché l’uno non capisca più il parlare dell’altro. Come Dio volle, così avvenne. Chiamavano gli architetti e venivano i giornalieri, chiedevano pane per i lavoranti e si portavano pietre per il lavoro, volevano archipendoli e si porgevano picconi; si credettero derisi, cominciarono ad adirarsi gli uni cogli altri, senza che intendessero la cagione delle loro risse, e così smarriti, confusi, smemorati lasciarono in abbandono il superbo attentato, e perduto l’aiuto della comune favella, e quindi rotto il fortissimo legame della società, cominciarono a disgregarsi, andando chi da una parte, chi dall’altra e spargendosi in diversi paesi. Così Iddio in poco tempo ebbe volta in perpetua vergogna la grande superbia di coloro. – In secondo luogo Iddio resiste al superbo. Come coi piccoli ciottoli della spiaggia arresta gli spumanti marosi del mare furibondo, così alle volte con l’onnipotenza, di cui Egli dispone, manda in fumo tutti quanti i disegni del superbo, e fiacca la sua alterigia. Mosè a nome di Dio si presenta a Faraone e gli dice: Il Signore Iddio d’Israele mi manda a dirti che lasci partire il suo popolo, acciocché vada ad offrirgli sacrifici nel deserto. Ma Faraone, pieno di orgoglio, risponde: Chi è questo Signore, alla cui parola io debba obbedire, e pel quale io debba lasciar partire Israele? Non conosco questo Signore e Israele non partirà. Lo stolto si ostina nel suo rifiuto, e Iddio successivamente percuote il suo regno con terribili castighi. Moltitudine incredibile di rane, numero infinito di insetti, nembo di molestissime mosche e tafani, orribile peste, enfiature ed ulceri dolorosissime, uragani con tuono, fuoco e grandine sterminatrice, immensità di locuste, orrore di tenebre, morte di tutti i primogeniti, ecco le dieci piaghe, che colpirono l’Egitto a cagione della superbia del re. Eppure ciò non bastò a piegare quell’ostinato, tanto il mostro della superbia acceca coloro, che cadono tra i suoi artigli. Lascia è vero, partire gli Ebrei, ma appena partiti, si pente d’averli lasciati in libertà, allestisce prestamente un esercito ed egli medesimo alla testa di esso li insegue. Già li ha raggiunti e visto aperto il mar Rosso, pel quale a piede asciutto erano ormai passati gli Ebrei, vi entra e si avanza egli pure. Ma là lo aspetta la collera di Dio. Al tocco della verga di Mosè le acque sospese ritornano con spaventevole fracasso al luogo primiero, coprono e sommergono il superbo Faraone, i cavalieri, i cavalli e i carri, seppellendo ogni cosa negli abissi. Finalmente Iddio punisce l’orgoglioso sottraendogli la sua grazia, abbandonandolo alle sue impure passioni, permettendo talora che faccia delle vergognose cadute, che lo disonorino interamente, e lo compromettano innanzi a tutti coloro, cui studiavasi di piacere, e la cui stima e protezione era da lui ricercata con una febbre ardente: Tradititi illos Deus in passiones ignominiæ (Rom. I, 20). Non avete mai riscontrato delle prove di quanto asserisco? Non avete talvolta udito di qualche famosa caduta, da cui un uomo mai non si rialza? Fu la punizione inflitta a colui che ha voluto innalzarsi a detrimento della divina gloria, per cui, bentosto ha veduto verificarsi la minaccia del divino Maestro: Chiunque si esalta, sarà umiliato. Ecco i castighi con cui anche quaggiù vien punita la superbia, senza nulla dire della terribile morte che minaccia il superbo, della vergogna a cui andrà soggetto nel dì dell’universale giudizio, e delle umiliazioni eterne che proverà nell’inferno.
3. Pertanto, o miei cari, comprendiamo l’importanza di fuggire questo vizio e di esercitare la virtù che ad esso si oppone. L’umiltà con la quale si vince la superbia è di tale importanza che Gesù Cristo istesso ce ne ha dato il più ammirabile esempio. L’Apostolo S. Paolo parlandoci dei grandi misteri della incarnazione, passione e morte di Gesù Cristo li presenta alla nostra considerazione come misteri di impicciolimento e di umiliazione. Iddio, egli dice, si è esinanito, prendendo la forma di servo: exinanivit semetipsum formam servi accipiens. Gesù Cristo, soggiunse, si è umiliato facendosi obbediente fino alla morte e morte di croce: Humiliavit semetipsum factus ooediens usque ad mortem, mortem autem crucis. Di fatti che misteri del più profondo abbassamento? Epperò Gesù Cristo medesimo insegnando un ammaestramento da prendere per eccellenza da Lui disse: Imparate da me che sono umile di cuore: discite a me quia humilis sum corde. Notate bene – spiega qui S. Agostino – nostro Signore non ci dice: Imparate da me a fabbricare il mondo, ad operare miracoli e a risuscitare i morti, ma bensì ad essere umili di cuore. E come si presentò Egli stesso a nostro modello per eccellenza di umiltà, così si può dire che volle ancora quasi compendiare nell’umiltà tutta quanta la sua morale. Il mondo dice: Bisogna farsi onore, bisogna salire in alto, non bisogna permettere che alcuno vi umilii. Il mondo stima chi occupa i primi posti, le dignità, le cariche, chi comanda, ma non chi umilmente ubbidisce. Il mondo disprezza chi fugge gli onori o lo guarda almeno con aria di compassione quasi per dirgli: Eh folle! non sai quel che importa. Ma Gesù Cristo insegna tutto il contrario. Ecco che cosa Egli dice: « Se alcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua. Guardatevi bene dal fare le vostre buone opere per essere veduti e lodati dagli uomini, altrimenti non potrete pretendere verun premio dal Padre vostro, che è nei cieli. Se alcuno vuol essere il primo, si faccia l’ultimo, il servo di tutti. Quando avrete fatto tutto bene con esito felice, riconoscete da Dio ogni prospero evento e dite: Siamo servi inutili ed abbiam fatto il nostro dovere. Non vogliate i primi posti; chi si esalta sarà umiliato e chi si umilia sarà esaltato. In verità, in verità vi dico, se non diventerete come fanciulli non entrerete nel regno dei cieli ». Ecco la morale del divin Maestro. E questa è la morale che noi dobbiamo praticare imitando la condotta del povero pubblicano. Egli se ne stava lontano, perché l’umiltà induce a nascondersi sempre, anche allora che si fa un po’ di bene, eseguendo incessantemente la massima dell’Imitazione di Cristo: Ama nesciri et prò nihilo reputavi. Dunque teniamoci volentieri in disparte anche noi, e non portiamo mai invidia a coloro che sono più abili di noi alle cariche, agli onori, alle dignità. Il pubblicano non osava levare gli occhi al cielo, perché chi è umile non pretende privilegi o favori speciali da Dio, ma si accontenta delle grazie ordinarie e si studia di ben corrispondere alle medesime. Così facciamo ancor noi. Finalmente il pubblicano percotendosi il petto si confessava con sincerità povero peccatore. Ed ecco: darsi al sentimento della compunzione e della penitenza; alzare a Dio gli accenti della contrizione e del pentimento; ecco ancora la vera umiltà. Il superbo non vuol saperne di manifestare i suoi falli, il dogma della confessione lo rivolta e lo spaventa; non vuol chieder grazia per le colpe, giacché egli stoltamente si vanta d’esser innocente. Così pensa, così parla l’orgoglioso. Ma l’umile invece si china, si prostra, geme, implora, confessa di meritare tutti i rigori, chiede grazia, sollecita la misericordia; egli riconosce di non aver alcun diritto al perdono e fa un appello alla pietà divina. Tale, o miei cari, è l’umiltà verace, sincera, quella che trovò il Salvatore nel pubblicano del Vangelo, ch’Egli lodò in presenza della turba, ed alla quale disse esser toccata la ricompensa della giustificazione, quella grazia che racchiude tutte le altre e senza della quale tutte le altre sarebbero un nulla: Descendit hic iustificatus in domum suam. Coraggio adunque: qui bisogna decidersi: o essere umili con Gesù Cristo, o essere superbi col mondo. Quale sarà pertanto la nostra scelta? Ricordiamoci che il regno dei cieli patisce violenza e che lo conquisteranno solamente coloro che attendono a combattere le proprie passioni e che, se con Gesù Cristo e per Gesù Cristo, saremo umili sopra di questa terra, alla fine saremo con Lui esaltati in cielo, perché se è verissimo che chi si esalta sarà umiliato, è pure certissimo che chi si umilia sarà esaltato.
Credo…
Offertorium
Orémus
Ps XXIV: 1-3
Ad te, Dómine, levávi ánimam meam: Deus meus, in te confído, non erubéscam: neque irrídeant me inimíci mei: étenim univérsi, qui te exspéctant, non confundéntur. [A Te, o Signore, ho innalzata l’anima mia: o Dio mio, in Te confido, che io non abbia ad arrossire: che non mi irridano i miei nemici: poiché quanti a Te si affidano non saranno confusi.]
Secreta
Tibi, Dómine, sacrifícia dicáta reddántur: quæ sic ad honórem nóminis tui deferénda tribuísti, ut eadem remédia fíeri nostra præstáres. [A Te, o Signore, siano consacrate queste oblazioni, che in questo modo volesti offerte ad onore del tuo nome, da giovare pure a nostro rimedio.]
Communio
Ps L: 21.
Acceptábis sacrificium justítiæ, oblatiónes et holocáusta, super altáre tuum, Dómine. [Gradirai, o Signore, il sacrificio di giustizia, le oblazioni e gli olocausti sopra il tuo altare.]
Postcommunio
Orémus.
Quǽsumus, Dómine, Deus noster: ut, quos divínis reparáre non désinis sacraméntis, tuis non destítuas benígnus auxíliis. [Ti preghiamo, o Signore Dio nostro: affinché benigno non privi dei tuoi aiuti coloro che non tralasci di rinnovare con divini sacramenti.]
Per l’ordinario vedi: