DOMENICA XI DOPO PENTECOSTE (2019)
Incipit
In nómine Patris, ✠ et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.
Introitus
Ps LXVII: 6-7; 36
Deus in loco sancto suo: Deus qui inhabitáre facit unánimes in domo: ipse dabit virtútem et fortitúdinem plebi suæ.[Dio abita nel luogo santo: Dio che fa abitare nella sua casa coloro che hanno lo stesso spirito: Egli darà al suo popolo virtú e potenza.]
Ps LXVII: 2
Exsúrgat Deus, et dissipéntur inimíci ejus: et fúgiant, qui odérunt eum, a fácie ejus. [Sorga Iddio, e siano dispersi i suoi nemici: fuggano dal suo cospetto quanti lo odiano.]
Deus in loco sancto suo: Deus qui inhabitáre facit unánimes in domo: ipse dabit virtútem et fortitúdinem plebi suæ. [Dio abita nel luogo santo: Dio che fa abitare nella sua casa coloro che hanno lo stesso spirito: Egli darà al suo popolo virtú e potenza.]
Oratio
Orémus.
Omnípotens sempitérne Deus, qui, abundántia pietátis tuæ, et merita súpplicum excédis et vota: effúnde super nos misericórdiam tuam; ut dimíttas quæ consciéntia metuit, et adjícias quod orátio non præsúmit. [O Dio onnipotente ed eterno che, per l’abbondanza della tua pietà, sopravanzi i meriti e i desideri di coloro che Ti invocano, effondi su di noi la tua misericordia, perdonando ciò che la coscienza teme e concedendo quanto la preghiera non osa sperare.]
Lectio
Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Corínthios.
1 Cor XV: 1-10
“Fratres: Notum vobis fácio Evangélium, quod prædicávi vobis, quod et accepístis, in quo et statis, per quod et salvámini: qua ratione prædicáverim vobis, si tenétis, nisi frustra credidístis. Trádidi enim vobis in primis, quod et accépi: quóniam Christus mortuus est pro peccátis nostris secúndum Scriptúras: et quia sepúltus est, et quia resurréxit tértia die secúndum Scriptúras: et quia visus est Cephæ, et post hoc úndecim. Deinde visus est plus quam quingéntis frátribus simul, ex quibus multi manent usque adhuc, quidam autem dormiérunt. Deinde visus est Jacóbo, deinde Apóstolis ómnibus: novíssime autem ómnium tamquam abortívo, visus est et mihi. Ego enim sum mínimus Apostolórum, qui non sum dignus vocári Apóstolus, quóniam persecútus sum Ecclésiam Dei. Grátia autem Dei sum id quod sum, et grátia ejus in me vácua non fuit.”
Omelia I
[A. Castellazzi: La scuola degli Apostoli – Sc. Tip. Vescov. Artigianelli, Pavia,
LA RISURREZIONE DELLA CARNE
“Fratelli: Vi richiamo il Vangelo che vi ho annunziato, e che voi avete accolto, e nel quale siete perseveranti, e mediante il quale sarete salvi, se lo ritenete tal quale io ve l’ho annunciato, tranne che non abbiate creduto invano. Poiché in primo luogo vi ho insegnato quello che anch’io appresi: che Cristo è morto per i nostri peccati, conforme alle Scritture; che fu seppellito, e che risuscitò il terzo giorno, conforme alle Scritture; che apparve a Cefa, e poi agli undici. Dopo apparve a più di cinquecento fratelli in una sol volta, dei quali molti vivono ancora, e alcuni sono morti. Più tardi appare a Giacomo, e quindi a tutti gli Apostoli. Finalmente, dopo tutti, come a un aborto, appare anche a me. Invero io sono l’ultimo degli Apostoli, indegno di portare il nome d’Apostolo, perché ho perseguitato la Chiesa di Dio. Per la grazia di Dio, però sono quel che sono; e la sua grazia in me non è rimasta infruttuosa.” (1 Cor. XV, 1,10).
L’ultima questione di grande importanza a cui risponde S. Paolo nella prima lettera ai Corinti è quella della risurrezione dei morti. Questo domma, stimato assurdo dai pagani, ripugnava a molti cristiani di Corinto, i quali avevano difficoltà ad ammetterlo. S. Paolo prova la risurrezione dei morti argomentando dalla risurrezione di Gesù Cristo, e dimostrando le assurde conseguenze che verrebbero dalla negazione di questa verità. L’epistola di quest’oggi contiene la prova della risurrezione di Gesù Cristo. Parliamo anche noi della risurrezione dei morti, la quale:.
1. È un punto fondamentale della dottrina cattolica,
2. È basata sulla risurrezione di Gesù Cristo,
3. Avrà conseguenze diverse pei giusti e per i reprobi.
I.
Vi richiamo il Vangelo che vi ho annunziato, e che voi avete accolto, e nel quale siete perseveranti. Parole solenni con le quali S. Paolo si introduce a parlare della resurrezione dei morti. Per mezzo della fede nel Vangelo i Corinti perverranno all’eterna salvezza, se saranno costanti sino alla fine, e se crederanno nel Vangelo tal quale l’Apostolo l’ha predicato, senza togliere o travisare alcuna verità. Quei Corinti che non credono alla verità della risurrezione dei morti, credono invano. Al conseguimento dell’eterna salute a nulla giova credere le altre verità, se negano questa. La fede nella risurrezione dei morti è di grande efficacia nel sostenere il Cristiano in questa vita « Fiducia dei Cristiani è la risurrezione dei morti» (Tertull. De Resurr. carnis). Nella speranza della futura risurrezione i martiri trovano la forza di andar contro ai tormenti e alla morte. Se essi perdono, tanto volentieri la vita presente, è per la speranza di entrare nella vita futura. S. Ignazio martire che scongiura i Romani a non impedirgli il martirio, esclama: « È bello tramontare al mondo diretti a Dio per risorgere in Lui!» (ad Rom. 2). Senza l’immortalità dell’anima e la conseguente risurrezione del corpo, sarebbe irragionevole esporsi alla perdita della vita; bisognerebbe anzi cercar di prolungarla il più possibile. Le malattie, le privazioni, le fatiche, logorano questo nostro corpo continuamente; gli anni gli tolgono ogni vigore; la morte lo riduce in polvere. Chi può sottrarsi a un senso di grande tristezza e di noia della vita? Chi pensa alla risurrezione. Chi pensa che un giorno Gesù Cristo «trasformerà il nostro miserabile corpo, rendendolo conforme al suo corpo glorioso» (Filipp. III, 21). Chi pensa che questo stesso nostro corpo risorgerà immortale, e non sarà più soggetto alle debolezze e ai dolori. – Una delle più amare circostanze per l’uomo quaggiù, è la perdita dei suoi cari. Il dolore in quel momento è troppo giusto e legittimo. È impossibile sottrarsi alle lagrime. S. Ambrogio, parlando delle lagrime che aveva versato per la morte del fratello Satiro, osserva: «Ho pianto anch’io, si, è vero; ma pianse anche il Signore. Egli sopra un estraneo; io sopra un fratello» (De excessu. frat. sui. Sat. Lab. 1, 10). Ma al momentaneo tributo di lagrime, che pagano tutti, succede nei Cristiani un pensiero consolante: I nostri cari, partendosi da questo mondo, non ci lasciano, ma ci precedono. «Non vogliamo — scriveva l’Apostolo ai Tessalonicesi — che siate nell’ignoranza intorno a quelli che si sono addormentati, affinché non vi rattristiate come gli altri che non hanno speranza» (1 Tess. IV, 13). Se si sono addormentati, un giorno si sveglieranno. Quando Gesù, entrato nella casa di Giairo, vide gente che piangeva e ululava per la morte della figlia di questi, disse: «Perché v’affannate e piangete? La fanciulla non è morta, ma dorme» (Marc. V, 39). E, dette queste parole, la sveglia da quel breve sonno di morte. Quando s’apre la tomba per qualche persona amata la fede dice a ciascuno di noi: quella persona a te cara non è morta, ma dorme. I nostri parenti, i nostri amici, i nostri benefattori, dovunque abbiano avuto una sepoltura, non sono morti, ma dormono. Catene di monti, distese di mari divideranno i sepolcri d’una stessa famiglia; ma verrà il giorno in cui questi sepolcri si apriranno; i cadaveri riprenderanno nuova vita; e i beati riprenderanno in Dio quell’unione che la morte non ha potuto troncare che temporaneamente. –
II.
Che cosa aveva insegnato San Paolo ai Corinti? Udiamolo da lui: In primo luogo vi ho insegnato quello che anch’io appresi: che Cristo è morto per i nostri peccati, conforme alle Scritture; che fu seppellito e che risuscitò il terzo giorno, conforme alle Scritture. Il racconto della Resurrezione di Gesù Cristo, fatto dai Vangeli, contiene quanto è necessario per ottenere fede indiscussa sulla realtà della risurrezione di Lui. Lo stupore e il dolore delle pie donne che trovano vuoto il sepolcro. Il timore là cui erano state prese, tanto da mettersi a fuggire e da non aver parola, sulle prime, per narrare quanto avevano veduto; l’Angelo che mostra il luogo preciso ove giaceva Gesù, il quale non va più cercato tra i morti, perché è risuscitato; l’apparizione a Maria Maddalena, dicono abbastanza perché uno che non sia dominato da preconcetti debba credere alla verità della risurrezione di Gesù Cristo. Ma v’ha di più. Dopo che alla Maddalena Gesù apparve a Cefa, e poi agli undici. Dopo apparve a più di cinquecento fratelli in una sol volta… Più tardi apparve a Giacomo, e quindi a tutti gli Apostoli. – È da notare che quando le pie donne annunciano agli Apostoli la risurrezione di Gesù Cristo, sono trattate da deliranti. Pietro entra nel sepolcro, vede i lenzuoli per terra, non trova più il corpo del Maestro, ne è meravigliato, ma non si decide ancora a credere alla risurrezione. La Maddalena annunzia agli Apostoli d’averlo visto risuscitato, d’aver parlato con Lui, « ed essi, avendo udito com’egli era vivo, e com’ella l’aveva visto, non credettero » (Marc. XVI, 11). È necessario che Gesù appaia a Pietro, appaia agli Apostoli e ai discepoli radunati insieme, e mostri loro le mani e il costato con le cicatrici gloriose, perché ogni dubbio sia tolto da loro. Davanti a prove così numerose e così palmari, anch’essi sono costretti a credere la risurrezione del divin Maestro, che predicheranno poi con una fermezza incrollabile. – Gli Apostoli danno principio alla predicazione insistendo sul fatto della risurrezione di Gesù Cristo. San Pietro rinfaccia ai Giudei: «Gesù di Nazaret… voi lo avete trafitto per mano d’empi, e ucciso… Dio l’ha risuscitato, avendo infranto i legami della morte» (Att. XXII-24) E questo si rinfacciava ai figli d’Israele pochi giorni dopo l’avvenimento; quando era facilissimo interrogare, controllare, vivendo ancora tutti o quasi tutti coloro a cui Gesù Cristo era apparso. E vediamo che i Giudei invece di fare obiezione alle parole di Pietro si compungono nei loro cuori, e gli domandano quel che han da fare. Non sappiamo se si possono desiderare prove più concludenti. Ne consegue che se risuscitò Gesù Cristo, risusciteranno anche i fedeli. Questi formano un sol corpo mistico con Lui. Gesù è il capo; e se il capo è risuscitato, non si spiega perché le membra debbano rimanere nel sepolcro. La risurrezione di Gesù Cristo ha introdotto un nuovo ordine di cose. Con Adamo era entrato nel mondo il dominio della morte. Con la risurrezione di Gesù Cristo questo dominio fu vinto. Egli lo ha vinto per sé e lo ha vinto per noi. E così «la morte del Figlio di Dio, che egli subì nella carne, distrusse in noi la duplice morte, quella dell’anima e quella del corpo, e la risurrezione della sua carne ci apportò la grazia della risurrezione spirituale e corporale » (S. Fulgonio Episcop. 17,16).
III
S. Paolo aggiunge che Gesù Cristo apparve anche a lui l’ultimo degli Apostoli. Tanto egli poi, l’ultimo degli Apostoli, già persecutore della Chiesa, a cui Gesù apparve sulla via di Damasco, quanto gli altri Apostoli, ai quali Gesù risorto apparve prima di salire al cielo, hanno sempre predicato la stessa cosa: la risurrezione di Gesù Cristo. «Cristo è risuscitato, primizia dei dormienti !» esclama più innanzi S. Paolo, con un grido come di vittoria (I. Cor. XV, 20). – Non si può parlar di primizia senza supporre il seguito della messe. Quando compare la primizia, la messe è garantita. Gesù Cristo risorge pel primo a vita immortale: primo per ordine di tempo, di dignità, di merito. Dopo di Lui, a suo tempo, quando Egli comparirà di nuovo su questa terra. resusciteranno tutti i giusti. – Anche i reprobi resusciteranno? La parola di Gesù Cristo non lascia dubbio alcuno. «Verrà un tempo — dice il Redentore — in cui tutti quelli che sono nei sepolcri udiranno la voce del Figliuolo di Dio, e usciranno fuori quelli che hanno fatto opere buone risorgendo per vivere: quelli poi che avranno fatto opere malvage, risorgendo per essere condannati» (Giov.V, 28-29). « La maniera della resurrezione sarà duplice. La prima è quella dei santi i quali, radunati con distintivo reale, al primo suono della tromba ricevono, con grande trionfo, il regno della beatitudine sotto Cristo, re eterno: la seconda è quella che assegna alla pena eterna gli empi assieme con i peccatori e con tutti gli increduli» (S. Zenone, L. 1, Tract. 16, 11). Il corpo dei giusti fu unito all’anima nel fare il bene; riceva, dunque, con essa il premio eterno. Il corpo dei cattivi cooperò con l’anima a fare il male: riceva con essa il meritato castigo. A ciascuno il suo. La società non è composta né esclusivamente di buoni, né esclusivamente di cattivi. Come in un campo frammischiata al buon grano si trova la zizzania, così, nella società, frammisti ai buoni si trovano i cattivi. E come al tempo della raccolta si lega la zizzania in fastelli per essere bruciata e il grano vien radunato nei granai, così succederà alla fine del mondo. Verranno gli Angeli e separeranno i cattivi dai giusti, «e getteranno quelli nella fornace di fuoco: ivi sarà pianto e stridore di denti. Allora i giusti splenderanno come il sole nel regno del loro Padre» (Matt. XIII, 42-43). È chiaro che un tal giorno infonda coraggio ai buoni che l’attendono come il giorno del trionfo finale, e rechi sgomento ai peccatori, che lo temono come il giorno della finale rovina. Questo timore sarebbe salutare, se servisse a trattenerli dal peccato, o meglio a farli uscire dallo stato di peccato. S. Agostino narra di sé stesso: « Né altro mi richiamava dal profondo abisso dei piaceri carnali, che il timor della morte e del giudizio avvenire: il qual timore,… non si partì mai dal mio petto » (Conf. L. 6, 16,). Se non ci dimenticheremo del giorno della risurrezione della carne, e del giudizio che vi avrà luogo, sarà facile la riforma di noi stessi. Chi teme quel giorno comincia a vegliare sulle proprie passioni, a guardarsi dall’avarizia, dall’impurità, dall’odio. Per vincer gli assalti del demonio comincia a mortificar se stesso con la custodia dei sensi. Le buone opere che prima gli erano pesanti diventeranno una necessità. I doveri del proprio stato gli saranno molto leggeri da compiere, e finirà per desiderare ciò che prima temeva: la seconda venuta di Cristo, nella speranza, di risalire con Lui in cielo a godere nel regno della gloria.
Graduale
Ps XXVII: 7 – 1
In Deo sperávit cor meum, et adjútus sum: et reflóruit caro mea, et ex voluntáte mea confitébor illi. [Il mio cuore confidò in Dio e fui soccorso: e anche il mio corpo lo loda, cosí come ne esulta l’ànima mia.]
Alleluja
V. Ad te, Dómine, clamávi: Deus meus, ne síleas, ne discédas a me. Allelúja, allelúja [A Te, o Signore, io grido: Dio mio, non rimanere muto: non allontanarti da me.]
Ps LXXX: 2-3
Exsultáte Deo, adjutóri nostro, jubiláte Deo Jacob: súmite psalmum jucúndum cum cíthara. Allelúja.
[Esultate in Dio, nostro aiuto, innalzate lodi al Dio di Giacobbe: intonate il salmo festoso con la cetra. Allelúia.]
Evangelium
Sequéntia ✠ sancti Evangélii secúndum Marcum.
R. Gloria tibi, Domine!
Marc VII:31-37
In illo témpore: Exiens Jesus de fínibus Tyri, venitper Sidónem ad mare Galilaeæ, inter médios fines Decapóleos. Et addúcunt ei surdum et mutum, et deprecabántur eum, ut impónat illi manum. Et apprehéndens eum de turba seórsum, misit dígitos suos in aurículas ejus: et éxspuens, tétigit linguam ejus: et suspíciens in coelum, ingémuit, et ait illi: Ephphetha, quod est adaperíre. Et statim apértæ sunt aures ejus, et solútum est vínculum linguæ ejus, et loquebátur recte. Et præcépit illis, ne cui dícerent. Quanto autem eis præcipiébat, tanto magis plus prædicábant: et eo ámplius admirabántur, dicéntes: Bene ómnia fecit: et surdos fecit audíre et mutos loqui.
Omelia
II
[A. Carmignola, Spiegazione dei Vangeli domenicali, S. E. I. Ed. Torino, 1921]
SPIEGAZIONE XXXIX.
“In quel tempo Gesù, tornato dai confini di Tiro, andò por Sidone verso il mare di Galilea, traversando il territorio della Decapoli. E gli fu presentato un uomo sordo e mutolo, e lo supplicarono a imporgli la mano. Ed Egli, trattolo in disparte della folla, gli mise le sua dita nelle orecchie, e collo sputo toccò la sua lingua: e alzati gli occhi verso del cielo, sospirò e dissegli: Effeta, che vuol dire: apritevi. E immediatamente se gli aprirono le orecchie, e si sciolse il nodo della sua lingua, e parlava distintamente. Ed Egli ordinò loro di non dir ciò a nessuno. Ma per quanto loro lo comandasse, tanto più lo celebravano, e tanto più ne restavano ammirati, e dicevano: Ha fatto bene tutte lo cose: ha fatto che odano i sordi, e i muti favellino!”
(Marc. VII, 31-37)
Il divin Salvatore, al principio del terzo anno della sua predicazione, aveva lasciato la Giudea per andarsene ai confini di Tiro e di Sidone; e colà, dietro l’umile e confidente preghiera d’una povera donna pagana, chiamata Cananea dal Vangelo, perché era discendente dalla stirpe dei Cananei, ne aveva guarita la figlia posseduta dal demonio. Il Salvatore avrebbe potuto prolungare il suo soggiorno in quel paese idolatra, ma i Giudei erano facili a scandalizzarsi: epperò se il Salvatore avesse più a lungo avuto commercio coi gentili, i Giudei si sarebbero levati contro di Lui, l’avrebbero accusato di mancare alla legge mosaica e l’avrebbero trattato come un prevaricatore. Gesù pertanto ritornò in Galilea E fu nel suo ritorno a quella regione, che operò il miracolo narratoci dal Vangelo di questa domenica, quello cioè della guarigione di un sordomuto.
1. Dice adunque il Vangelo di oggi: In quel tempo Gesù tornato dai confini di Tiro, andò per Sidone verso il mare di Galilea, traversando il territorio della Decapoli. Quivi gli fu presentato un uomo sordo e muto, e lo supplicarono di imporgli la mano. Le malattie che affliggono il corpo, o miei cari, sono come i segni delle malattie spirituali, che assai più gravemente travagliato le anime. E quell’infelice sordo-muto, che non può né udir la voce dei suoi simili, né esprimere i pensieri della sua mente e i sentimenti del suo cuore, è l’immagine di coloro, che sono sordi alla voce di Dio e muti quando trattasi di parlare a gloria di Dio e a bene delle anime. Ed oh quanto sono brutte e gravi queste malattie della sordità e del mutismo spirituale. Ed in vero la sordità del corpo è una infermità certamente penosa, poiché il farsi ripetere cento volte una cosa, esser di peso agli altri, esser privo della parola di Dio, dei canti della Chiesa, del suon delle musiche, dei concerti degli uccelli, e vivere come straniero alla società degli uomini, è senza dubbio una vita ben triste. Ma finalmente uno si avvezza, e l’abitudine di un male fa rassegnati a patirlo. E poi mentre la sordità nulla toglie al ben essere corporale, può essere molto utile alla salute dell’anima; imperocché il sordo non sente le bestemmie contro la Religione, le calunnie e le maldicenze contro il prossimo, e tutte quelle facezie non sempre buone, che alimentano le conversazioni mondane. Ma invece quanto più deplorevole è la sordità dell’anima! Per essa il peccatore, smarrito per i sentieri dell’iniquità, non ascolta più le ispirazioni di Dio, né i consigli di chi lo ama e lo vuole strappar dall’abisso; non sente più nulla; i giudizi di Dio non lo spaventano più, e se nell’ultima ora non viene un colpo inaspettato della grazia a destarlo da quel fatale assopimento, sen muore nell’impenitenza finale. Il furore dei traviati, dice il Santo re Davide, è simile a quello dell’aspide e del serpente che si rende sordo col turarsi le orecchie, e non vuol più sentire la voce del magico incantatore, che usa astuzia per incantarlo (Ps. LVII, 5, 6). E non è adunque una grave disgrazia l’essere colpiti dalla sordità spirituale? E non ci sarebbe qui tra di noi qualcuno già affetto da tale infermità! Che chiude le orecchie alla voce di Dio, a quella dei sacerdoti, dei genitori, de’ suoi superiori? Ah! per carità, mentre è ancor in tempo apra le sue orecchie ed obbedisca alla voce di chi vuole soltanto il suo bene; del resto gli potrebbe capitare la disgrazia di non intenderla più. – Ma se è tanto grave la malattia della sordità spirituale, non lo è meno quella del mutismo. Ed in vero quando vedete un tale che è privo della favella, non ne sentite pietà? Senza dubbio, perché il muto è privo dell’organo più essenziale all’uomo, animale socievole, quello col quale esprime il suo pensiero e lo comunica ai suoi simili, e se col linguaggio convenzionale, che s’è inventato, si fa intendere da qualcuno, non è men vero che vive isolato in mezzo al mondo. Cosa ben triste anche questa! Eppure per essa quante colpe si schivano! Le calunnie, le maldicenze, le parole disoneste, le delazioni, le bugie, i motteggi, i discorsi contro la carità, per non dire di tanti altri, sono tutti peccati, che fa commettere la lingua. – Ma per altra parte non sono minori quelli che produce il mutismo spirituale, per cui si compromette la propria coscienza in più modi. Per esempio: è un peccato il tacere del continuo le lodi del Signore e il non invocare di tanto intanto il suo aiuto col lasciare la recita delle preghiere del buon Cristiano. È un peccato il tacere, quando vedendo altri a commettere un’azione cattiva e noi avendo sopra di loro autorità non ci facciamo colle nostre riprensioni a giustamente sgridarli. È un peccato il tacere, quando potendo con la nostra parola difendere chi è attaccato dalla calunnia e dalla maldicenza, e salvare un innocente, rimuovere alcuno da un grave pericolo, preservarlo da una disgrazia, non lo facciamo. È un peccato il tacere, quando avendo la capacità di dare altrui un consiglio, che lo libera da un dubbio, che lo induce ad un’opera buona, noi lasciamo di dirglielo. È un peccato il tacere quando potendo insegnare qualche cosa buona ed utile a chi la ignora, non ci diamo pensiero di farlo. È un peccato tacere quando richiesti da qualche nostro offensore di perdono noi ci ostiniamo a negarlo, come è un peccato il non voler aprir bocca per riconciliarci con chi abbiamo offeso. Così quando taluno tacendo rifiuta di mostrarsi apertamente Cristiano in faccia a quelli, che si vantano di non essere tali, ei pecca, perché allora appunto bisognerebbe manifestare i sentimenti che si han nel cuore, avendo detto Gesù Cristo: Guai a chi arrossirà di confessarmi al cospetto degli uomini! E finalmente vi è ancora una specie di mutismo spirituale, più colpevole e pericoloso di tutti, ed è quello che si tiene in confessione, tacendo qualche colpa grave per un ingiusto timore, per una malintesa vergogna. Tacere volontariamente le colpe nel tribunale di penitenza è silenzio sacrilego. Si, in tutti questi casi, ed in altri ancora, il tacere è peccato, perché in tutti questi casi noi siamo obbligati dalla legge del Signore di parlare. Epperò quel Dio, che nel dì del giudizio ci giudicherà su ogni parola oziosa da noi profferita, ci giudicherà altresì del silenzio, che abbiamo tenuto allora che dovevamo parlare. – Ecco adunque il nostro stretto dovere: tacere e parlare secondo che la carità verso Dio e verso il prossimo ci impone o di tacere o di parlare. – Epperò studiamoci per una parte di amare e praticare anche più perfettamente il silenzio, stando più che possiamo ritirati dai convegni e dalle conversazioni, e non solamente da quelle colpevoli, in cui si tengono discorsi osceni, irreligiosi, di maldicenza, e si cantano canzoni sconce, ma anche da quelle che non servono ad altro che a dissipare il nostro spirito e ad allontanarlo dal pensiero di Dio. La ritiratezza, il raccoglimento ed il silenzio sono ornamenti vaghissimi per un Cristiano e a tutti riescono di utilità immensa per fuggire il peccato e farsi santi, giacché è nella tranquillità e nel silenzio che il Signore parla più intimamente ed efficacemente al Cristiano e più amorosamente lo trae a gustar le delizie del suo amore. Per altra parte poi, presentandosi l’occasione, pieni di santo zelo per la gloria di Dio e per il bene delle anime, non tralasciamo di parlare, anche allora che non abbiamo stretto obbligo, e così noi praticheremo con grande nostro vantaggio il precetto incluso in quelle parole dell’Arcangelo Raffaele a Tobia: È ben fatto di tener nascosti i segreti dei re, ossia tacere quando si deve; ma è cosa lodevole di rivelare ed annunziare le opere di Dio: Sacramentum regis nascondere honum est; opera autem Dei revelare et confiteri honorificum est (Tob. XII, 7).
2. Ci dice in seguito il Vangelo che Gesù tratto in disparte dalla folla quel sordo-muto, gli mise le sue dita nelle orecchie, e collo sputo toccò la sua lingua: e alzati gli occhi al cielo, sospirò, e dissegli: Ephpheta, parola che vuol dire: apritevi. E immediatamente se gli aprirono le orecchie, e si sciolse il nodo della sua lingua, e parlava distintamente. Or bene tutte queste particolarità, con cui Gesù Cristo accompagnò il miracolo della guarigione di questo sordo-muto, sono di tale importanza, che meritano di essere considerate ad una ad una. – Gesù comincia dal trarre l’infelice in disparte fuori della turba. E qui impariamo subito che quando siamo per praticare delle opere buone, dobbiamo come nasconderci ed evitare gli sguardi altrui, fuorché in certe circostanze, in cui siamo in obbligo di edificare i nostri fratelli. Per certo nei doveri che sono imposti a tutti, sarebbe da biasimare chi si nascondesse per adempierli: ad esempio chi pe’ suoi natali, per il suo stato, per le sue doti o per la sua condizione potesse esercitare una salutare influenza sugli altri, e cercasse la solitudine per fare la sua Pasqua, ed anche per frequentare i sacramenti, sotto pretesto dell’umiltà e della modestia, questi intenderebbe male le sue obbligazioni; egli più di ogni altro deve dare buon esempio, poiché con la sua fedeltà al dovere cristiano può incoraggiare i deboli, e servire anche a ricondurre sul buon sentiero quei che sono sviati. Ma fuori di queste occasioni non cerchiamo mai la piena luce per compiere le buone opere. Avremmo a temere, che la nostra intenzione non avesse tutta la purezza, che domanda Iddio. Quando poi Gesù Cristo ebbe condotto in disparte il sordo-muto, gli mise dapprima le sue dita nelle orecchie: e a questo proposito il venerabil Beda dice: Le dita di Dio poste nelle orecchie di quel sordo sono i doni dello Spirito Santo, per mezzo dei quali Egli dispone i cuori, che sono nell’ignoranza d’ogni verità, a conoscere la scienza della salute. Quindi allorché vediamo un uomo finora impenitente ed indurato, divenir ad un tratto penitente e fedele, diciamo: « Qui v’ha il dito di Dio! » Ed il Salvatore in altro luogo dice, che pel dito di Dio vengono cacciati i demoni. Ma se è vero che per l’azione dello Spirito Santo il Salvatore sanò la sordità esteriore di quell’uomo, è altresì vero che vi ha aggiunto un’azione esteriore e sensibile; pose le dita nelle orecchie di quel sordo quasi per farci intendere, che se il peccatore non può esser guarito che per l’efficacia della grazia, Iddio non lascia però di servirsi sovente dell’opera degli uomini, e soprattutto di quella dei sacerdoti per compiere i prodigi di sua misericordia: epperò fortunati coloro, che ne ascoltano la predicazione ed i consigli con un cuor docile. – Mise poi il Salvatore della sua saliva sulla lingua del mutolo. E secondo l’insegnamento dello stesso venerabile Beda, la saliva figura la sapienza che deve slegare la lingua del peccatore ed inspirargli l’umile e salutare confessione delle sue colpe, ed insegnargli a pregare e cantare le lodi del Signore. Poscia Gesù, levando gli occhi al cielo, diede un sospiro, e disse: Ephpheta, che significa: Apritevi. Ed eccolo qui agire propriamente da Dio ed usare della suprema sua potenza. Apritevi: questo è il comando espresso dal suo sovrano potere. A questa parola nulla resiste, perciocché è la parola istessa, con la quale nella creazione del mondo diceva: Si faccia la luce, e la luce fu fatta. Epperò quando ebbe fatto quel comando le orecchie del sordo-muto si aprirono e si snodò la sua lingua per modo, che parlava distintamente. Così quando Iddio tocca con la sua grazia un povero peccatore, subito si aprono le orecchie del suo spirito ad intendere la voce di Lui, della coscienza, della Chiesa, anzi delle creature stesse, che lo invitano ad amare il Signore; e la sua lingua si snoda per lodare, ringraziare, e benedire in mille guise Colui, che con la sua destra onnipotente ha operato in lui quel grande mutamento. Voi vedete adunque come tutte le particolarità di questo miracolo non erano a caso, ma per dare a noi importanti ammaestramenti, e farci conoscere sopra tutto quanto sia difficile uscir dallo stato di peccato, e che per sottrarsi alla sua trista e lamentevole servitù vi vogliono molti sforzi, penitenti sospiri e fervorose preghiere.
3. Finalmente ci dice il Vangelo, che, operato il miracolo, Gesù, dandoci una grande lezione di umiltà, insegnandoci cioè a fuggire gli applausi e le lodi degli uomini, ordinò a tutti quelli che gli erano d’intorno a non dir nulla a nessuno. – Ma quella gente nel comando di Gesù Cristo non vedendo altro che l’ammirabile modestia del benefattore, per quanto loro lo comandasse, tanto più lo celebravano, e tanto più ne restavano ammirati, e dicevano: Ha fatto bene tutte le cose, ha fatto che odano i sordi, e i muti favellino. Ecco, o miei cari, l’elogio più eloquente: Bene omnia fecit; ha fatto bene ogni cosa. Ora, perché Gesù fece bene ogni cosa? Perché lo scopo di tutte le azioni, dal principiar di sua vita sino al Calvario, fu la gloria di Dio e la santificazione degli uomini. Non cerco la mia gloria, Egli diceva, ma quella di Colui, che mi ha mandato (Ioan. V. 3.). Così noi faremo bene ogni cosa, quando agiremo in tutto per la gloria di Dio e per la santificazione dell’anima nostra ed altrui. Adempiamo adunque i nostri doveri, qualunque siano, con l’intenzione di piacere a Dio e di salvarci. Ma osserviamo infine che quel bene omnia fecit, che di Gesù Cristo ci dice il Vangelo, significa ancora che tutte le opere, cui Egli pose mano, furono da Lui compiute con tutta proprietà ed esattezza. E ciò Egli fece altresì per dare a noi un grande ammaestramento intorno al modo di compiere le nostre azioni. Intendiamolo bene adunque, o miei cari; non è necessario di fare cose strepitose, che chiamino l’altrui attenzione e attraggano gli altrui sguardi; quello che massimamente importa è applicarsi a far bene le cose più ordinarie. Quando perciò ci dedichiamo al santo esercizio dell’orazione, preghiamo con tutta l’anima nostra, sotto lo sguardo di Dio e col desiderio d’esser intesi; quando siamo al lavoro, adempiamo il nostro compito con coraggio ed energia, come se Dio in persona ce lo avesse affidato; quando pigliamo il nostro nutrimento, portiamo con ogni semplicità alle labbra il pane quotidiano, pensando a Dio che ce lo dà; quando gustiamo le dolcezze del sonno, ristoriamo le nostre forze sotto lo sguardo di Colui, che su di noi veglia notte e giorno. Insomma, qualunque sia la cosa che ci occupa, facciamola con purità d’intenzione e con esattezza di modo. E così anche noi avremo fatto bene ogni cosa.
Credo …
Offertorium
Orémus
Ps XXIX: 2-3
Exaltábo te, Dómine, quóniam suscepísti me, nec delectásti inimícos meos super me: Dómine, clamávi ad te, et sanásti me.[O Signore, Ti esalterò perché mi hai accolto e non hai permesso che i miei nemici ridessero di me: Ti ho invocato, o Signore, e Tu mi hai guarito.]
Secreta
Réspice, Dómine, quǽsumus, nostram propítius servitútem: ut, quod offérimus, sit tibi munus accéptum, et sit nostræ fragilitátis subsidium. [O Signore, Te ne preghiamo, guarda benigno al nostro servizio, affinché ciò che offriamo a Te sia gradito, e a noi sia di aiuto nella nostra fragilità.]
Communio
Prov III: 9-10
Hónora Dóminum de tua substántia, et de prímitus frugum tuárum: et implebúntur hórrea tua saturitáte, et vino torculária redundábunt. [Onora il Signore con i tuoi beni e con l’offerta delle primizie dei tuoi frutti, allora i tuoi granai si riempiranno abbondantemente e gli strettoi ridonderanno di vino.]
Postcommunio
Orémus.
Sentiámus, quǽsumus, Dómine, tui perceptióne sacraménti, subsídium mentis et córporis: ut, in utróque salváti, cæléstis remédii plenitúdine gloriémur. [Fa, o Signore, Te ne preghiamo, che, mediante la partecipazione al tuo sacramento, noi sperimentiamo l’aiuto per l’ànima e per il corpo, affinché, salvi nell’una e nell’altro, ci gloriamo della pienezza del celeste rimedio.]
Per l’odinario vedi:
https://www.exsurgatdeus.org/2019/05/20/ordinario-della-messa/