PREDICHE QUARESIMALI (2020 – VI)

[P. P. Segneri S. J.: QUARESIMALE – Ivrea, 1844, dalla stamp. Degli Eredi Franco – tipgr. Vescov.]

XXXVI

NEL DI’ SOLENNE DI PASQUA

Oportet corruplibile hoc induere in corruptionem, et mortale hoc induere immortalitatem.

S. Paul. l. ad Cor. XV 53.

I. Tra quante religioni, o antiche o moderne, hanno fiorito fra’ popoli, niuna, fuor della cristiana, ritroverassi, che non sia stata singolarmente piacevole verso il corpo concedendogli tutti i piaceri onesti, e molto consentendogli ancora i vituperosi. La nostra sola gli si è mostrata perpetuamente sì rigida e sì ritrosa, che facilmente potrebbe credersi nata a perseguitarlo. Vien ella al mondo; e sfoderando incontanente una spada di dolorosissimo taglio: guerra, guerra, dic’ella; quest’è quel ch’io vengo a cercare fra’ popoli. Chi mi vuol per amica, non mi ragioni di morbidezze e di agi, di riposo e di ozio, perch’io protestomi apertamente che questo non è ‘l mio fine: non veni pacere mittere, sed gladium (Matt. X. 34). Quindi promulgando con ordine più distinto le sue determinazioni: olà, soggiungo, voi che sposaste così gran turba di mogli, licenziatele tutte, che al più sol una mi contenterò di lasciarvene; e questa di modoche non possiate abusarvene per impeto di libidine, ma sol valervene per desiderio di prole. Che se bramate di essermi più graditi, non vi sia grave rinunziar anche a questo gran privilegio, conceduto alla natura, di perpetuare voi stessi col propagarvi. Date volontario rifiuto ad ogni diletto, il quale abbia del sensuale; e se ribelle vi ricalcitri il senso, ascoltate me. Sottraetegli gli agi con la volontaria mendicità, diminuitegli il cibo con le frequenti astinenze, interrompetegli il sonno con le importune vigilie; e se non basta, rintuzzategli ancora con le sanguigne flagellazioni l’ardire. Evvi boscaglia spaventosa in Egitto? Correte lieti per mio consiglio ad ascondervi in quegli orrori. Allora mi sarete più cari, quando io vedrovvi aver per casa o gli scogli, o le sepolture. Là vi offerisco per compagnia fiere orribili, per vitto radiche amare, per bevanda acque insipide, per vesti setole acute, e per letto rottami tormentosissimi. E perché io so che, non ostante la vostra nota innocenza, avrete molti avversarj, che vi vorranno ostinatamente rimuovere dal mio culto, guardate bene, ch’io non voglio essere abbandonata da voi né per prieghi, né per promesse, né per terrori. Quando alcuno vi tratti di ribellione alla fede da voi giuratami, e voi per risposta offrite subito pronte le carni a’ graffi, i nervi alle torture, l’ossa alle seghe, i denti alle tenaglie, gli occhi alle lesine, e ‘l collo stesso alla scure. Vi mostreranno da un lato fornaci ardenti; e voi accettate d’entrarvi: vi additeranno dall’astro stagni gelati; e voi consentite di seppellirvici: né mai vi siano o precipizi sì cupi, o fiere così fameliche, o ruote sì tormentose, o saette sì acute, o graticole sì roventi, per cui timore voi ritrattiate pur uno di quegli articoli ch’io v’insegno. – Queste sono le pubbliche intimazioni che a’ suoi seguaci ha fatte fin da principio la nostra legge: nolite timere eos, qui occidunt corpus (Matth. X. 28). Ebbene che dite, uditori? Vi basta l’animo di porle in esecuzione? Parmi di vedervi a tal nuova, turbati e taciti, non osar di aprire la bocca per lo spavento. Ma allegramente, signori, si, allegramente, che presto alla ferita succede la panacea, e all’aconito nasce vicino ne’ prati stessi l’antidoto. Quella legge medesima, la qual ordina che si debba odiar questo corpo, e perseguitare, e percuotere, e sospendere ancora, se ciò bisogni, con quello del nostro Cristo su un duro tronco; questa medesima è la prima anche a trattar di restituircelo, come fu renduto oggi a Cristo, di lacero intero, d’infermo sano, di livido risplendente, di caduco immortale, e di affaticato impassibile: mentre, qual grano di frumento disfatto sotto la terra, è vero ch’egli morrà, ma per ravvivarsi; è vero ch’egli marcirà, ma per rifiorire; è vero ch’egli si perderà, ma per ricuperarlo nella ricolta più bello assai che non era, e più rigoglioso. Oportet corruplibile hoc induere in corruptionem, et mortale hoc induere immortalitatem. – Sarà pertanto questa sera mio debito di mostrarvi, ma brevemente, quanto sia giusto che venga chiamato anche egli a parte del premio nel paradiso chi a sì gran parte di patimenti è nel mondo; affinché voi siate corti, che se nel corso di questo sagratissimo tempo quaresimale avete molto nella carne patito, digiunando, disciplinandovi, macerandovi, dovrete poscia eternamente godere ancor nella carne, ma già gloriosa.

II. Pirro, capitan celeberrimo nell’Epiro, sentendosi non so qual volta onorare da’ suoi soldati col nome di Aquila, per la velocità con cui egli volava, combatteva, abbatteva ogni suo nemico: è vero, rispose loro, ch’io sono un’aquila; ma voi, soldati miei, siete l’ale, su cui m’innalzo. L’istesso, s’io non m’inganno, l’istesso l’anima può affermar che a lei sieno tutte le membra del corpo, ciò che al capitano i soldati; che è come dire, l’ale che per lui stanno sempre in perpetuo moto, in agitazione, in faccenda. E vaglia la verità, qual è quell’operazione, quantunque minima, che possa fare ora l’anima senza il corpo? Non può dire parola, non può dar passo, non può formare un pensiero. Se afflitta vuol ella esprimere i suoi dolori, convien che prenda dal corpo in prestito le lagrime ed i sospiri; se lieta gode di palesare i suoi giubili, convien che il corpo ancor egli le somministri i risi e i tripudj. Invano per lei risplendono tante stelle nel firmamento, se il corpo negale occhi da vagheggiarle. Dal corpo ell’ha quel diletto che trae da’ cibi; dal corpo quel che le porgono le armonie: dal corpo quel che le rendono le fragranze; dal corpo quello che le offeriscono i giuochi; dal corpo quelle che le conciliano i sonni; e per restringere il tutto con Tertulliano in brevi parole: quem naturæ usura, quem mundi fructum, quem elementorum saporem, non per camera anima depascitur? (De resurr.carnis); – Or immaginatevi, che amorperò non prende subito l’anima a questocorpo, da cui si trova in progresso breve ditempo sì ben servita! Vien ella tosto ad affratellarsitalmente con esso lui, che nienteal mondo teme più del suo danno, o desidera del suo bene.Quanto difficilmente però contenterebbesi ella di soggettarlo a così gravi strapazzi, quali son quei che la nostra Religione o ne insegna, o ne ordina, o ne consiglia, se non datesse riportarne ancor egli qualche profitto! Considerate un magnanimo capitano. Vedrete che a lui non basta d’essere premiato egli solo per la vittoria che ha riportata pugnando; signori no; rea vuol che il premio ripartasi parimente a que’ guastatori ch’hanno scavate le mine: a quegli assalitori che son saliti su’ merli; a que’ sergenti ch’hanno schierate le file; a quelle scorte ch’hanno guidato l’esercito e sino a que’ fantaccini che sono stati a custodire oziosamente il bagaglio tra i padiglioni.  Così fece al certo Davidde d’allor ch’egli era capitano ancora privato. Uscì egli un giorno con seicento de’ suoi a perseguitare una truppa di Amaleciti, i quali gli avevano divampata la terra di suo ricovero con saccheggiarne le masserizie e gli armenti, e con rapirne le femmine ed i bambini; quando in arrivare a un certo torrente, dugento di quei soldati stanchi e scalmati si abbandonarono su le sponde di esso, né il vollero tragittare; gli altri quattrocento passati animosamente, colsero all’improvviso i nemici baldi e festosi per la fresca vittoria, li ruppero, gli sconfissero, li fugarono, e ne riportarono tutta intera la preda. E già volevano allegramente partirsela tra lor soli; quando: fermate (disse loro Davidde), ch’io mi contento che voi molto bene abbiate la parte vostra; ma dov’èla parte di quegli, i quali sono rimasti si lassi al fiume? Come (ripigliarono gli altri) di que’ codardi? E qual fatica è giammai stata la loro, se non giacersene, mentre noi pugnavamo, all’ombra degli alberi ed alla frescura dell’acque? Non accade altro (replicò tosto Davidde), io voglio che così sia. E così fin d’allora promulgò questo editto, rimasto tra gli Ebrei per legge inviolabile, che di qualsivoglia bottino fosse data eguale la parte e a quo’ soldati ch’eran discesi alla zuffa, e a quegli ch’eransi trattenuti al carriaggio. Æqua pars erit descendentìs ad prælium et remanentis ad sarcinas (1 Reg. XXX. 24). – Ora io v’argomento così: se è ragionevole che sia premiato chi al tempo della battaglia non altro fece che custodir fra le tende la munizione, perché in qualche modo può affermarsi di esso, che cooperò alla vittoria; non sarà giusto che sia premiato ancor egli chi ricevé le ferite, chi sparse il sangue, chi perdette le membra, chi die la vita? Ma queste son le parti del corpo ne’ gran conflitti che noi sosteniamo per la fede, o per la giustizia. Del corpo sono, del corpo quelle ferite che ci formano le zagaglie, non son dell’anima; del corpo è quel sangue, di cui s’inebbria il terreno; del corpo quelle membra, onde saziansi i leopardi; del corpo quella vita, che si consacra alla morte: e poi volete che il corpo solo rimanga senza mercede? Se così fosse, pare che l’anima non avria fronte a richiedere tanto da lui, e per conseguente pochi avrebbe la nostra religione, che la difendesser ne’ tribunali; pochi che la sostenessero nelle carceri; e pochi che con dispendio delie proprie comodità perpetuamente cercassero i suoi vantaggi. – Giustamente dunque ha Dio fatto a voler che corpo venga premiato eternamente ancor egli insieme con l’anima; sicché chi è stato così congiunto nell’opera, non resti poi separato nel guiderdone. Oportet, oportet corruplibile hoc induere in corruptionem, et mortale hoc induere immortalitatem. Ma perché oportet, se noi vogliamo stare al parere del Nazianzeno? (Orat. 10. in laud. Cæs.) se non perché è ragionevole che cum anima cognatam carnem receperit, eam quoque ad gloriæ cœlesiis hæreditatem secum admittat, et jucunditates suas cum ipsa comunicet, quæ ærumnarurn particeps fuit!

III.  Quind’io mi avanzo meglio ancora a discorrere in questa forma. Già voi sapete, uditori, che, mercé la gran dipendenza ch’abbiam da’ sensi, più ci sentiamo noi muovere dagli oggetti sensibili e pateriali, che dagli spirituali ed astratti. Esaminate pur voi la maggior parte degli uomini, ancora non popolari: vedrete che essi per lo più non intendono come possa uno ritrovar nello studio piacer sì grande, chea fin di chiudersi a conversare coi morti in un gabinetto, rinunzii a’ giuochi, sdegni le caccie, si dimentichi di mangiare, non pensi a bere; e quando essi odansi, per cagione di esempio, dir da un Plutarco, scrittore di tanto grido, ch’egli, benché morto di fame, lascerebbe il vero convito, imbandito sì lautamente nella Feacia per leggere il finto, descritto sì elegantemente da Omero, se ne fanno beffe, come d’una di quelle millanterie facili a dirsi, perché sono difficili ad impugnarsi. – Or posto ciò, come avrebbe mai Dio potuto ottenere da tanta moltitudine di uomini rozzi, indisciplinati, grossolanissimi, ch’essi venissero volentieri a privarsi per amor suo di tanti beni corporei, quali sono splendor di ricchezze, abbondanza di agi, molteplicità di delizie, se poi per contraccambio lor promettesse una tal sorte solamente di premj che, quantunque sublimi di qualità, non però fossero comprensibili a’ sensi? Perdonatemi, o mio Signore, s’io tanto ardisco d’inoltrarmi a parlare in questa materia. So ben io che la vera beatitudine, la quale in cielo renderà paghi gli eletti, sarà la vista svelata del vostro volto, e la notizia distinta de’ vostri arcani. Così voi concediate a questi occhi miei, che un dì vi possano vagheggiare a lor agio, com’io di null’altro bene mi curerò. Resterà subito il mio pensiero assorbito in quel vasto oceano di una grandezza infinita, ed ivi non ritrovando né spiaggia dove approdare, né fundo ove ghignerò, amerò di andare eternamente annegandomi in un giocondo naufragio di contentezza. Ammirerò quel Ternario ineffabile di Persone, che forma numero, e non moltiplica essenze. Contemplerò quelle tante sorte di relazioni, ma lungi da ogni subordinazione di dipendenza; quelle tante opposizioni di termini, ma esenti da ogni pericolo di discordia. Vedrò un Primo, che di un Secondo è principio; eppure non lo precede; scorgerò un Secondo, che da un Primo ha l’origine; eppure non ne dipende; mirerò un Terzo, che dal Primo trae l’esser col Secondo eppure né al Secondo è fratello, né figliuolo al Primo. Intenderò come possa essere che in Dio sia la fecondità sì perenne, mentre non può generarsi più di un figliuolo; come la facondia così perfetta, mentre non si può esprimere più di un Verbo; e di scorrendo per quel che di esso avrò letto nelle Scrittore, imparerò com’egli si penta, eppur non cambi volere; com’egli si attristi, eppur non provi afflizione; com’Egli si adiri, eppur non abbia contrasto; come Egli si parta, eppur non alteri sito; come, senza sentire alcun peso, il tutto sempre sostenga, e con un sol dito;come, senza patire alcun tedio, al tutto sempre provveda, e con un sol atto; come sia liberale, ma senza scapito; come libero, ma senza mutazione; come intendente, ma senza specie; come presente, ma senza luogo; come antico, ma senza tempo; come nuovo, ma senza incominciamento. Questo sarà, non lo nego, quel sommo bene, che, s’io sarò degno di tanto, mi renderà perpetuamente felice. – Ma qual concetto voi ne formate, uditori? Là uno sta dormendo; là un altro sta per dormire; e tra queste buone donne non mancano ancora alcune che, censurandomi, stanno quasi quasi per mettersi a dir tra loro ch’io vo tropp’alto. Né me ne meraviglio, vedete; perché io medesimo, il quale di tal bene vi parlo, non io capisco. Balbetto come fanciullo, accozzando termini, quanto tra sé per la opposizion più ammirabili, tanto da me per la profondità meno intesi. Figuratevi dunque ch’altra felicità non avesse Dio promessa in Cielo a’ suoi servi, di questa ch’è la maggiore; quam oculus non vidit, quam auris non audivit(1 ad Cor. II. 9); ahimè, ch’io temo che i più gli avrebbero detto  non la curiamo: nauseat anima nostra super cibo isto levissimo(Num. XXI. 5); e, come fecer gli Ebrei, non avrebbero per la manna voluto lasciar le starne, lasciare le coturnici; ch’è quanto dire, non avrebbero voluto per un tal bene, ch’è astruso ed impercettibile all’istesso intelletto, lasciarne tanti, che son chiari e palpabili ancora a’ sensi. – Che ha fatto però Dio pietosissimo in tollerare i difetti umani? Si è accomodato ad una tal debolezza d’inclinazione, ed ha voluto nel cielo apprestarci beni, i quali non solamente fossero pari per equivalenza a’ corporei, ma simili in qualità; sicché queste mani ancor, queste orecchie, queste nari, questo palato, questi occhi, abbian realmente il suo diletto distinto, con cui sfogare i loro innati appetiti. Oportet, oportet corruptibìle hoc induere in corruptionem, et mortale hoc induere immortalitatem; ch’è ciò che intese il beato Lorenzo Giustiniano, ove lasciò scritto, che caro, benché spiritualis effecta, contuttociò per omnes sensus suos multimtodis exuberavit deliciis(Lib. de discipi. perfect. monast.).

IV. Ed ecco che Dio con questo è insieme venuto a rendere inescusabili tutti quei che non giungeranno a salvarsi. Perocché ditemi: che mi potete voi ora opporre, o Cristiani, quando in suo Nome io v’inviti a mortificarvi, ch’è giusto dire, a rinunziar que’ diletti che solete ora sfrenatamente concedere a’ vostri sensi? Potrete storcervi? me lo potrete negare? – Potrebbe, è vero, parervi cosa durissima il vietar ora a’ vostri orecchi il sollazzo ch’essi ricevono da quelle femminili armonie, di cui risuonano spesso i vostri teatri, o i vostri festini, o le vostre veglie, quando mai più voi non doveste provare un diletto simile. Ma mentre io vi assicuro che goderete questo gener medesimo di trastullo in maniera ancor più perfetta e più lusinghevole, né lo godrete sol per brev’ora, ma per tutta l’eternità con aver sempre ad ogni minimo cenno i musici ubbidienti, i sonatori pagati, e gli organi aperti; perché dovrà parervi ora tanto molesto, non dirò perderlo ma dirò differirlo? Non udiste più volte che il primo suono di un violino toccato per mani angeliche bastò ad affogare l’animo di Francesco febbricitante in un torrente di giubilo così alto, che, rotti gli argini, traboccò ancora nel corpo, e vi traboccò di maniera, che ne portò via rapidamente ogni specie d’infermità, benché contumace, ogni debolezza, ogni doglia? Or questo piacere appunto avranno cotesti medesimi vostri orecchi: e non l’avranno momentaneo e fugace, come fu quello, ma stabile e permanente. E non rinunzierete per esso, finché vivrete, a qualunque musica vana? Non voglio, o ghiotti, che vi priviate in eterno di quel diletto che voi provate fra tante varie saporose vivande; voglio che aspettiate anche un poco, finché finiscasi d’imbandir quella tavola, di cui avendo in un suo ratto gustato l’abate Salvi, masticava poi sempre i cibi nostrali, come aconiti tartarei. Non voglio, ogiovani, che rinunziate in eterno a quel godimento ch’or voi cavate dal vagheggiare una lusinghevol bellezza; voglio che induriate anche un poco, finché veniate introdotti a quelle conversazioni, di cui avendo in una sua visione partecipato l’abate Silvano, fuggiva di poi sempre le facce amane, come visaggi diabolici. Che potete a questo rispondermi? Voglio altr’io, se non che siate contenti di ricevere quello stesso che voi siete sì avidi di ottenere? Questa è la vera maniera di persuadere: esortarvi a quel medesimo appunto che voi vorreste. Vera ratio persuadendi est, cum id poscitur, ut impetremus a vobis quod concupiscitis, diceva il santo vescovo Eucherio (Ep. 1. paraen.); e diceva bene. – Voi vi vorreste saziar di gusti corporei: non è così? Ed io di gusti corporei voglio che vi saziate: con quest’unica differenza, che voi li desiderereste sozzi, ed io voglio darveli puri; voi li desiderereste manchevoli, ed io ve li voglio dare perfetti; voi li desiderereste caduchi, ed io voglio darveli eterni: hoc, quod exiguum amatis, insinuamus, ut ametis æternum. Questo è sol quanto discordiamofra noi: che voi vorreste il meno,e io vi offero il più. Vi par però questaofferta da non curare?

V. È vero che dovete aspettare ancor qualche poco a conseguire ì diletti da me promessivi. Patientia vobis necessaria est, (come già diceva l’Apostolo – ad Heb. X. 36) ut reportetis promissionem. Ma quando il cambio è molto più vantaggioso, chi non lo accetta, benché abbia a rimborsarsi al quanto più tardi? Se voi, per figura, vedeste alcun vignajuolo, che sul principio di agosto, quando ancor l’uva tutta è minuta ed acerba, vuol mettersi a vendemmiare, per aver quanto prima piene le grotte; e che però già chiama i vendemmiatori, già ripartisce i coltelli, già mozza i grappoli, già riempie le corbe, già fa gemere i torchi, già spreme il mosto; che gli direste? Approvereste Voi questa sciocca celerità? questa insensata. ingordigia? Ferma, gli direste: che fai, sconsigliatissimo economo de’ tuoi beni? E non è pur meglio riporre l’istesso vino alquanto più tardi, ma quando sarà già dolce, spiritoso, piccante, e così più atto a durare, che rimetterlo un poco prima, ma mentr’egli è ancora agrestino, fiacco, immaturo, e però più disposto ad infradiciarsi? Il simile voi direste ad un giardiniere, il quale volesse cogliere i pomi, ancora non coloriti; il simile a un mietitore, il quale volesse segare le spighe, ancora non bionde; il simile a un cacciatore, il qual volesse importunare le selve, ancora non popolate. E perché non poss’io dire il simile ancor a voi, mentre con tanto discapito vi volete nella vita presente anticipar que’ diletti che vi potreste alla futura serbar con tanto interesse? Giacché, come pur disse acutissimamente Filone ebreo: oblectamenta præsentis vitæ quid sunt, nisi furia delectationum vitæ futuræ? – Ma s’è così, rispondetemi ora, Cristiani miei: non vi par che Iddio con riserbar anche al corpo i suoi guiderdoni, ch’è appunto dire, con ammetterlo a parte di quella gloria, la qual fu oggi donata al corpo di Cristo; non vi par, dico, che gli abbia tolta ogni scusa, quand’egli nieghi di sottoporsi allo spirito, di cedere alla ragione, e di mortificarsi in onor dello stesso Cristo? Anzi io vi dico, ch’ha tolta ancora in questo modo ogni scusa a chiunque or tema codardamente la morte, non che la mortificazione; e non abbia per sommo de’ desiderj quel che si chiamava già l’ultimo de’ terrori. Ma perché lasciare questa volta al discorso le vele gonfie, sarebbe quasi un volere abusar quell’aura che mi concede la vostra benignità, contentatevi un poco che qui, benché quasi in alto, noi gettiamo l’ancore, finattantoché a favore de’ poveri possa farsi una buona pesca, una buona preda, e poi ci studieremo di prendere tosto terra.

SECONDA PARTE

VI. Ben pare adunque che tra noi più non meriti scusa alcuna chi sa di dovere un giorno col Redentore gloriosamente risorgere a miglior vita, e contuttociò segue ancora a temer vilmente, non pur la mortificazione, ma ancor la morte. Catone il forte, veggendo ormai vicino a spirare nella sua romana repubblica quel quasi fiato  sapremo di Libertà che ancora vi rimaneva, deliberò di finir prima la vita, per dimostrare che non potevan sopravvivere o Catone, mancata la libertà, o la libertà, mancato Catone. Si die pertanto una mortal pugnalata con quella mano che fin allora aveva serbata purissima d’ogni sangue; e perché molti incontanente vi accorsero a trattenerlo, poterono bensì questi levargli il ferro e chiudergli la ferita, ma non però sminuirgli punto l’ardire. Perocché, rimasto alfin solo, raccolse subito quell’estremo di forze che gli restavano, ed adirato quanto dianzi con Cesare, tanto allora con sé, che non aveva saputo presto morire a quel primo colpo, si strappò tutte furiosamente le fasce della ferita, ed al suo spirito, disprezzator d’ogni cosa, ancor di se stesso, non permise l’uscita, gli die la spinta: non emisit, sed ejecit. Forsennato ardimento, non può negarsi; né io pretendo qui di recarlo come lodevole, mentre so che tanto empio è voler morire a dispetto della natura, quanto sarìa voler vivere. Ma se voi chiederete a Seneca, come mai Catone avvalorasse il suo petto di tal coraggio, e ‘l suo braccio di tanta lena, che far potesse sì grave insulto alla morte con provocarla, udirete dirvi, che tutto quanto egli fece leggendo quel si bel libro, intitolato il Fedone, cioè quel libro, in cui Platone dimostra l’immortalità dell’anima umana (Ep. ik. lib. 33). Il ferro fece ch’egli potesse morire, Platone ch’egli volesse: Ferrum fecit ut mori posset; Plato ut vellet. Perocché mentre egli rimaneva persuaso che l’anima non moriva insieme col corpo, stimò facile il perdere di se stesso una sola parte; massimamente allor ch’egli, col divenire prigion di Cesare, la dovea tra poco o lasciare a’ piè di un carnefice, o ricevere in dono da un inimico. Or dite a me: se tanto poté Catone animarsi con tal pensiero, che sarìa stato s’egli avesse creduto che neppur quella qualunque parte di sé egli perdeva propriamente; ma che, lasciandola alla terra in deposito, piuttosto che in abbandono, doveva un dì ripigliarsela assai più bella ed assai più vigorosa, ch’allor non era? Non vogliam credere che gli avrebbe aggiunto gran forze, promettersi ancor del corpo quella immortalità, quella gloria, quel godimento, che dell’anima si prometteva? Matanto è quello che noi possiamo prometter a noi medesimi, massimamente da che risorto in questo dì noi vediamo il nostro Gesù, e temeremo, non dirò già di provocare la morte insolentemente, quando Dio ce la nieghi, ma di accettarla quando Dio ce la mandi? Oh codardia! oh debolezza! oh viltà! – Io so che voi vi sarete messi più volte con gran diletto a mirar l’ecclissi del sole. Eppure, oh se voi sapeste che confusione è mai quella che allor succede tra alcuni popoli semplici del Perù, voi vi stupireste! Tosto tra le donne si leva un pianto sì alto, sì dirotto, sì mesto, sì universale, come se non più dovess’esserci sole al mondo. Si squarcian vesti, si strappano capelli, si graffian gote; ed a fin di smorzare quella grand’ira che stimano accesa in cielo, tutte salassansi acerbamente le vene con acute spine di pesce, facendone a gara piovere largo sangue. Laddove noi ci ridiamo di’ tanto affanno, e nelle ecclissi che accadono, ancorché strane, non temiamo, non ci turbiamo, anzi, a fin di mirarle più attentamente, caviamo subito fuori le conche d’acqua, e quivi, come in laghetti, tanto più limpidi, quanto meno agitati, andiamo a parte a parte osservando ne’ riflessi fedeli ogni moto d’esse, i principj, le declinazioni, i progressi, i decrescimenti; né dubitiamo di chiamare altri in gran numero a contemplare, con ardir simile al nostro, gli scolorimenti funesti di un sì bel volto, e a considerarne i languori. E perché franchezza sì grande? Perché per la molta perizia la quale abbiamo de’ rivolgimenti celesti, sappiam che fra poco d’ora ritornerà agli oscurati pianeti la lor chiarezza, e ch’essi stanno nascosti, non son perduti. L’istesso noi, morendo, sappiamo de’ nostri corpi, e temeremo come iGentili medesimi, che non hanno speranza alcuna di vita eterna, né di resurrezione corporale? Et contristabimur sicut et cæteri, qui spem non habent? (ad Thessal. IV. 13)

VII. Oh quanto inescusabile in noi sarebbe una simile codardia! – Che però vediamo oggidì che femmine imbelli, che teneri fanciulletti si son recati a vergogna di temer punto i visaggi ancor della morte più spaventosi; edo su lecroci han cantati Salmi digiubilo, come Mammete e Vito, bambini amabili; o nelle fiamme hanno spiccati salti ancor di trionfo, come Apollonia e Lucia, donzelle innocenti: per non favellar di un Lorenzo, che su l’istessa graticola ardì scherzare, edoffrire le sue carni arrostite per liuto pascolo a’ suoi tiranni voraci. Ne læteris, inimica mea, super me; sentile come i  giusti sibeffano della morte con quell’insulto bellissimo che impararono dal profeta Michea (VII, 8); ne laeteris, inimica mea, super me, quia cecidi. Lascia pure, o morto, di andare di me superba, quasi che tu m’abbia atterrato. Consurgam, cum sedero in tenebri* (Ibid.) Dappoiché sarò stato per alcun tempo a giacere tra l’alte tenebre d’un sepolcro, sorgerò, sorgerò. Dominus lux mea est(Ibid.). E non so io che il mio Signore ha da essere quel bel sole che mi ravvivi? Iram Domini portabo, quoniam peccavi ei(Ib. VII, 9). Porterò, comepeccatone, ilsuo giusto sdegno, coll’andardi presente disciolto in cenere. Ma ciòfin a quanto? Donec causam meam judicet Sino al didel Giudizio; non più, non più.E allor che sarà? Educet me in lucem(ìb.), educet me in lucem. Oh che gioja, oh che giubilo, o che trionfo! Educet me in lucem.Verrò tratto allor dal sepolcro a goderla luce, non già più corruttibile, ma immortale. Et videbo justitiam ejus(Ibid.);e vedrò quanto Dio sia giusto in premiarenel corpo stesso chiunque avrà punto patitoper amor suo. Chi dunque non ammiracome savissima la determinazione del nostroDio, mentre ha voluto che non sial’anima sola a godersi in cielo la propria immortalità e la propria beatitudine, ma che nesia fatto egualmente partecipe ancora il corpo; e però lo rende oggi a Cristo per avvivare, nella trionfale resurrezione di Lui, le speranze nostre? – Se tanto viene a prometterci, può da noi tutti la nostra fede richiedere quanto vuole. Patisca pure questo misero corpo, si maceri, si mortifichi, e con atti ancora più orribili si distrugga; beato lui! Ben intendiamo che non è crudeltà togliere dai granai la semente,  ed esporla all’acque, a’ venti, alle brine,a’ ghiacci, alle vampe, ed a tutte le ingiuriedella campagna; mentre quel frumentomedesimo che marcisce, quel frumentomedesimo ha a rifiorire; né potrìarifiorire, se non marcisse.

Autore: Associazione Cristo-Re Rex regum

Siamo un'Associazione culturale in difesa della "vera" Chiesa Cattolica.