DOMENICA DI SESSAGESIMA (2023)

DOMENICA DI SESSAGESIMA (2023)

(Messale Romano di S. Bertola e G. Destefani, comm. di D. G. LEFEBVRE O. S. B; L. I. C. E. – R. Berruti & C. Torino 1950)

Stazione a S. Paolo fuori le mura.

Semidoppio Dom. privil. di I cl. – Paramenti violacei.

Come l’ultima Domenica, e come le Domeniche seguenti, fino a quella della Passione, la Chiesa « ci insegna a celebrare il mistero pasquale, a traverso le pagine dell’uno e dell’altro Testamento ». Durante tutta questa settimana, il Breviario parla di Noè. Vedendo Iddio che la malizia degli uomini sulla terra era grande, gli disse: « Sterminerò l’uomo che ho creato… Costruisciti un’arca di legno resinoso. Farò alleanza con te e tu entrerai nell’arca ». E le acque si scatenarono allora sulla terra per quaranta giorni e quaranta notti. L’arca galleggiava sulle onde che si elevarono sopra le montagne, coprendole. Tutti gli uomini furono trasportati come festuche nel turbine dell’acqua » (Grad.). Non rimase che Noè e quelli che erano con lui nell’arca. Dio si ricordò di Noè e la pioggia cessò. Dopo qualche tempo Noè apri la finestra dell’arca e ne fece uscire una colomba che ritornò con un ramoscello freschissimo di ulivo, Noè comprese che le acque non coprivano più la terra. Dio gli disse: « Esci dall’arca e moltiplicati sulla terra ». Noè innalzò un altare e offri un sacrificio. E l’odore di questo sacrificio fu grato a Dio (Com.). L’arcobaleno apparve come un segno di riconciliazione fra Dio e gli uomini. – Questo racconto si riferisce al mistero pasquale poiché la Chiesa ne fa la lettura il Sabato Santo. Ecco come Essa l’applica, nella liturgia, a nostro Signore e alla sua Chiesa. « La giusta collera del Creatore sommerse il mondo colpevole nelle acque vendicatrici del diluvio, Noè solo fu salvo nell’arca; di poi l’ammirevole potenza dell’amore lavò l’universo nel sangue [Inno della festa del prezioso Sangue]. È il legno dell’arca che salvò il genere umano, e quello della croce, a sua volta, salvò il mondo. « Sola, dice la Chiesa, parlando della croce, sei stata trovata degna di essere l’arca che conduce al porto il mondo naufrago » [Inno della Passione]. La porta aperta nel fianco dell’arca, per la quale sarebbero entrati quelli che dovevano sfuggire al diluvio e che rappresentavano la Chiesa, è, come spiega la liturgia, una figura del mistero della redenzione, perché sulla croce Gesù ebbe il costato aperto e da questa porta di vita, uscirono i Sacramenti che donano la vera vita alle anime. Il sangue e l’acqua che ne uscirono sono i simboli dell’Eucaristia e del Battesimo » [7a lettura nella festa del prezioso Sangue].  « O Dio, che, lavando con le acque i delitti del mondo colpevole, facesti vedere nelle onde del diluvio una immagine della rigenerazione, affinché il mistero di un solo elemento fosse fine ai vizi e sorgente di virtù, volgi lo sguardo sulla tua Chiesa e moltiplica in essa i tuoi figli, aprendo su tutta la terra il fonte battesimale per rigenerarvi le nazioni » [Benedizione del fonte battesimale nel Sabato Santo]. Ai tempi di Noè, dice S. Pietro, otto persone furono salvate dalle acque; a questa figura corrisponde il Battesimo che ci salva al presente » [Epistola del Venerdì di Pasqua]. — Quando il Vescovo benedice, nel Giovedì Santo, l’olio che si estrae dall’ulivo e che servirà per i Sacramenti, dice: « Allorché i delitti del mondo furono espiati mediante il diluvio, una colomba annunziò la pace alla terra per mezzo di un ramo di Ulivo che essa portava, simbolo dei favori che ci riservava l’avvenire. Questa figura si realizza oggi, quando, le acque del Battesimo avendo cancellati tutti i nostri peccati, l’unzione dell’olio dona alle nostre opere bellezza e serenità ». Il sangue di Gesù è « il sangue della nuova alleanza » che Dio concluse per mezzo del suo Figlio con gli uomini. «Tu hai voluto, dice la Chiesa, che una colomba annunziasse con un ramoscello di ulivo la pace alla terra ». Spesso nella Messa, che è il memoriale della Passione, si parla della pace: « Pax Domini sit semper vobiscum ». « Il sacramento pasquale, dirà l’orazione del Venerdì di Pasqua, suggella la riconciliazione degli uomini con Dio ». Noè è in modo speciale il simbolo del Cristo a causa della missione affidatagli da Dio di essere « il padre di tutta la posterità » (Dom. di settuag., 6a lettura). Di fatti Noè fu il secondo padre del genere umano ed è il simbolo della vita rinascente. « I rami d’ulivo, dice la liturgia, figurano, per le loro fronde, la singolare fecondità da Dio accordata a Noè uscito dall’arca » (Benediz. Delle Palme). Per questo l’arca è stata chiamata da S. Ambrogio, nell’ufficio di questo giorno, « seminario » cioè il luogo che contiene il seme della vita che deve riempire il mondo. Ora, ancora più di Noè, Cristo fu il secondo Adamo che popolò il mondo di una generazione numerosa di anime credenti e fedeli a Dio. Ed è per questo che l’orazione dopo la 2a profezia, consacrata a Noè il Sabato Santo, domanda al Signore ch’Egli compia, nella pace, l’opera della salute dell’uomo decretata fin dall’eternità, in modo che il mondo intero esperimenti e veda rialzato tutto ciò che era stato abbattuto, rinnovato tutto ciò che era divenuto vecchio, e tutte le cose ristabilite nella loro primiera integrità per opera di Colui dal quale prese principio ogni cosa, Gesù Cristo Signor nostro » Per i neofiti della Chiesa — dice la liturgia pasquale — (poiché è a Pasqua che si battezzava) la terra è rinnovellata e questa terra così rinnovellata germinat resurgentes, produce uomini risorti » (Lunedi di Pasqua. Mattutino monastico). In principio, è per mezzo del Verbo, cioè della sua parola, che Dio creò il mondo (ultimo Vangelo). Ed è con la predicazione del suo Vangelo che Gesù viene a rigenerare gli uomini. « Noi siamo stati rigenerati, dice S. Pietro, con un seme incorruttibile, con la parola di Dio che vive e rimane eternamente. E questa parola è quella per la quale ci è stata annunziata la buona novella (cioè il Vangelo) » (S. Pietro, I, 23). Questo ci spiega perché il Vangelo di questo giorno sia quello del Seminatore, (« la semenza è la parola di Dio »). » Se ai tempi di Noè gli uomini perirono, ciò fu a causa della loro incredulità, dice S. Paolo, mentre mediante là sua fede Noè si fabbricò l’Arca, condannò il mondo e diventò erede della giustizia, che viene dalla fede » (Ebr. XI, 7). Così quelli che crederanno alla parola di Gesù saranno salvi. S. Paolo dimostra, nell’Epistola di questo giorno, tutto quello che ha fatto per predicare la fede alle nazioni. L’Apostolo delle genti è infatti il predicatore per eccellenza. Egli è il « ministro del Cristo » cioè colui che Dio scelse per annunziare a tutti i popoli la buona novella del Verbo Incarnato. « Chi mi concederà – dice S. Giovanni Crisostomo, – di andare presso la tomba di Paolo per baciare la polvere delle sue membra nelle quali l’Apostolo compì, con le sue sofferenze, la passione di Cristo, portò le stimmate del Salvatore, sparse dappertutto, come una semenza, la predicazione del Vangelo? » (Ottava dei SS. Apostoli Pietro e Paolo – 4 luglio). La Chiesa di Roma realizza questo desiderio per i suoi figli, celebrando, in questo giorno, la stazione nella Basilica di S. Paolo fuori le mura.

Incipit 

In nómine Patris,  et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Adjutórium nostrum in nómine Dómini.
R. Qui fecit cælum et terram.
Confíteor Deo omnipoténti, beátæ Maríæ semper Vírgini, beáto Michaéli Archángelo, beáto Joánni Baptístæ, sanctis Apóstolis Petro et Paulo, ómnibus Sanctis, et vobis, fratres: quia peccávi nimis cogitatióne, verbo et ópere: mea culpa, mea culpa, mea máxima culpa. Ideo precor beátam Maríam semper Vírginem, beátum Michaélem Archángelum, beátum Joánnem Baptístam, sanctos Apóstolos Petrum et Paulum, omnes Sanctos, et vos, fratres, oráre pro me ad Dóminum, Deum nostrum.
S. Misereátur nostri omnípotens Deus, et, dimíssis peccátis nostris, perdúcat nos ad vitam ætérnam.
R. Amen.
S. Indulgéntiam, absolutiónem et remissiónem peccatórum nostrórum tríbuat nobis omnípotens et miséricors Dóminus.
R. Amen.

V. Deus, tu convérsus vivificábis nos.
R. Et plebs tua lætábitur in te.
V. Osténde nobis, Dómine, misericórdiam tuam.
R. Et salutáre tuum da nobis.
V. Dómine, exáudi oratiónem meam.
R. Et clamor meus ad te véniat.
V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.

Introitus

Ps XLIII: 23-26

Exsúrge, quare obdórmis, Dómine? exsúrge, et ne repéllas in finem: quare fáciem tuam avértis, oblivísceris tribulatiónem nostram? adhæsit in terra venter noster: exsúrge, Dómine, ádjuva nos, et líbera nos.

[Risvégliati, perché dormi, o Signore? Déstati, e non rigettarci per sempre. Perché nascondi il tuo volto dimentico della nostra tribolazione? Giace a terra il nostro corpo: sorgi in nostro aiuto, o Signore, e líberaci.]

Ps XLIII: 2 – Deus, áuribus nostris audívimus: patres nostri annuntiavérunt nobis.

[O Dio, lo udimmo coi nostri orecchi: ce lo hanno raccontato i nostri padri.]

Kyrie

S. Kýrie, eléison.
M. Kýrie, eléison.
S. Kýrie, eléison.
M. Christe, eléison.
S. Christe, eléison.
M. Christe, eléison.
S. Kýrie, eléison.
M. Kýrie, eléison.
S. Kýrie, eléison.

Gloria

Glória in excélsis Deo. Et in terra pax homínibus bonæ voluntátis. Laudámus te. Benedícimus te. Adorámus te. Glorificámus te. Grátias ágimus tibi propter magnam glóriam tuam. Dómine Deus, Rex cæléstis, Deus Pater omnípotens. Dómine Fili unigénite, Jesu Christe. Dómine Deus, Agnus Dei, Fílius Patris. Qui tollis peccáta mundi, miserére nobis. Qui tollis peccáta mundi, súscipe deprecatiónem nostram. Qui sedes ad déxteram Patris, miserére nobis. Quóniam tu solus Sanctus. Tu solus Dóminus. Tu solus Altíssimus, Jesu Christe. Cum Sancto Spíritu ✠ in glória Dei Patris. Amen.

Oratio

Orémus.

Deus, qui cónspicis, quia ex nulla nostra actióne confídimus: concéde propítius; ut, contra advérsa ómnia, Doctóris géntium protectióne muniámur. – Per Dominum nostrum Jesum Christum, Filium tuum: qui tecum vivit et regnat in unitate Spiritus Sancti Deus, per omnia sæcula sæculorum.

[O Dio, che vedi come noi non confidiamo in alcuna òpera nostra, concédici propizio d’esser difesi da ogni avversità, per intercessione del Dottore delle genti. – Per il nostro Signore Gesù Cristo, tuo Figlio, che è Dio, e vive e regna con te, in unità con lo Spirito Santo, per tutti i secoli dei secoli. R. – Amen.]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Corínthios.

2 Cor XI: 19-33; XII: 1-9.

“Fratres: Libénter suffértis insipiéntens: cum sitis ipsi sapiéntes. Sustinétis enim, si quis vos in servitútem rédigit, si quis dévorat, si quis áccipit, si quis extóllitur, si quis in fáciem vos cædit. Secúndum ignobilitátem dico, quasi nos infírmi fuérimus in hac parte. In quo quis audet, – in insipiéntia dico – áudeo et ego: Hebraei sunt, et ego: Israelítæ sunt, et ego: Semen Abrahæ sunt, et ego: Minístri Christi sunt, – ut minus sápiens dico – plus ego: in labóribus plúrimis, in carcéribus abundántius, in plagis supra modum, in mórtibus frequénter. A Judaeis quínquies quadragénas, una minus, accépi. Ter virgis cæsus sum, semel lapidátus sum, ter naufrágium feci, nocte et die in profúndo maris fui: in itinéribus sæpe, perículis fluminum, perículis latrónum, perículis ex génere, perículis ex géntibus, perículis in civitáte, perículis in solitúdine, perículis in mari, perículis in falsis frátribus: in labóre et ærúmna, in vigíliis multis, in fame et siti, in jejúniis multis, in frigóre et nuditáte: præter illa, quæ extrínsecus sunt, instántia mea cotidiána, sollicitúdo ómnium Ecclesiárum. Quis infirmátur, et ego non infírmor? quis scandalizátur, et ego non uror? Si gloriári opórtet: quæ infirmitátis meæ sunt, gloriábor. Deus et Pater Dómini nostri Jesu Christi, qui est benedíctus in saecula, scit quod non méntior. Damásci præpósitus gentis Arétæ regis, custodiébat civitátem Damascenórum, ut me comprehénderet: et per fenéstram in sporta dimíssus sum per murum, et sic effúgi manus ejus. Si gloriári opórtet – non éxpedit quidem, – véniam autem ad visiónes et revelatiónes Dómini. Scio hóminem in Christo ante annos quatuórdecim, – sive in córpore néscio, sive extra corpus néscio, Deus scit – raptum hujúsmodi usque ad tértium coelum. Et scio hujúsmodi hóminem, – sive in córpore, sive extra corpus néscio, Deus scit:- quóniam raptus est in paradisum: et audivit arcána verba, quæ non licet homini loqui. Pro hujúsmodi gloriábor: pro me autem nihil gloriábor nisi in infirmitátibus meis. Nam, et si volúero gloriári, non ero insípiens: veritátem enim dicam: parco autem, ne quis me exístimet supra id, quod videt in me, aut áliquid audit ex me. Et ne magnitúdo revelatiónem extóllat me, datus est mihi stímulus carnis meæ ángelus sátanæ, qui me colaphízet. Propter quod ter Dóminum rogávi, ut discéderet a me: et dixit mihi: Súfficit tibi grátia mea: nam virtus in infirmitáte perfícitur. Libénter ígitur gloriábor in infirmitátibus meis, ut inhábitet in me virtus Christi.”

[“Fratelli: Saggi come siete, tollerate volentieri gli stolti. Sopportate, infatti, che vi si renda schiavi, che vi si spolpi, che vi si raggiri, che vi si tratti con arroganza, che vi si percuota in viso. Lo dico per mia vergogna: davvero che siamo stati deboli su questo punto. Eppure di qualunque cosa altri imbaldanzisce (parlo da stolto) posso imbaldanzire anch’io. Sono Ebrei? anch’io: sono Israeliti? anch’io; discendenti d’Abramo? anch’io. Sono ministri di Cristo? (parlo da stolto) ancor più io. Di più nelle fatiche; di più nelle prigionie: molto di più nelle battiture; spesso in pericoli di morte. Dai Giudei cinque volte ho ricevuto quaranta colpi meno uno. Tre volte sono stato battuto con verghe, una volta lapidato. Tre volte ho fatto naufragio, ho passato un giorno e una notte nel profondo del mare. In viaggi continui tra pericoli di fiumi, pericoli di briganti, pericoli da parte dei mei connazionali, pericoli da parte dei gentili, pericoli nelle città, pericoli del deserto, pericoli sul mare, pericoli tra i falsi fratelli; nella fatica e nella pena; nelle veglie assidue; nella fame e nella sete; nei digiuni frequenta nel freddo e nella nudità. E oltre le sofferenze che vengono dal di fuori, la pressione che mi si fa ogni giorno, la sollecitudine di tutte le Chiese. Chi è debole, senza che io ancora non sia debole? Chi è scandalizzato, senza che io non arda? Se bisogna gloriarsi, mi glorierò della mia debolezza. E Dio e Padre del nostro Signor Gesù Cristo, che è benedetto nei secoli, sa che non mentisco. A Damasco il governatore del re Areta, faceva custodire la città dei Damascesi per impadronirsi di me. E da una finestra fui calato in una cesta lungo il muro, e così gli sfuggii di mano. Se bisogna gloriarsi (certo non è utile) verrò, dunque, alle visioni e alle rivelazioni del Signore. Conosco un uomo in Cristo, il quale, or son quattordici anni, (se col corpo non so; se senza corpo non so; lo sa Dio) fu rapito in paradiso, e udì parole arcane, che a un uomo non è permesso di profferire. Rispetto a quest’uomo mi glorierò; quanto a me non mi glorierò che delle mie debolezze. Se volessi gloriarmi non sarei stolto, perché direi la verità; ma me ne astengo, affinché nessuno mi stimi più di quello che vede in me o che ode da me. E affinché l’eccellenza delle rivelazioni non mi facesse insuperbire, m’è stata messa una spina nella carne, un angelo di satana, che mi schiaffeggi. A questo proposito pregai tre volte il Signore che lo allontanasse da me. Ma egli mi disse: «Ti basta la mia grazia; poiché la mia potenza si dimostra intera nella debolezza». Mi glorierò, dunque, volentieri delle mie debolezze, affinché abiti in me la potenza di Cristo”]

P. G. Semeria: Le epistole delle Domeniche, Op. naz. Per il mezzogiorno d’Italia, Milano, 1939.

(Nihil obstat sac. P. De Ambroggi – Imprim. P. Castiglioni vic. Gen. Curia Arch, Mediolani, 1-3-1938)

La lettura di questo lungo brano della seconda lettera di San Paolo ai Corinzi ci fa pensare alle orazioni più celebri del foro profano in difesa propria: Demostene, Cicerone. C’è tutto l’impeto di quei discorsi immortali. Nulla come un giusto amor di se stesso rende eloquente l’uomo. Ho detto giusto amor di sé, il che significa la fusione di due motivi della più singolare efficacia; l’egoismo, forza così pratica, e la giustizia, forza così ideale. Nella foga dell’autodifesa Paolo ricorda rapido, incisivo, travolgente i suoi martiri: « dall’abisso dei dolori di ogni genere che ho sofferto » si solleva ai doni celesti di che Dio lo ha letteralmente ricolmato. Quadro magnifico fatto di ombre e di luci ugualmente poderose. – Ma quando calmata la prima ammirazione che ci ha suggerito quel confronto con le pagine apologetiche anzi autoapologetiche più celebri della letteratura umana, ci si rifà a meditare il testo, si scopre una superiorità morale ineffabile dell’Apostolo sui profani oratori. Questi difendono, nelle loro arringhe fiammanti, ardenti i loro equi interessi. E l’equità toglie all’amor proprio ciò che da solo avrebbe di basso. Ma quando Paolo assume con un tono alto e sonoro, senza un’ombra di esitazione la sua difesa, egli difende una grande causa. Chiamato da Gesù Cristo a predicare il Vangelo nel mondo pagano, Paolo giudeo si gettò in questo apostolato a lui commesso con lo slancio della sua natura vulcanica, Paolo fu bersaglio immediato e poi via via crescente ai colpi di coloro che in quei giorni avrebbero voluto il Vangelo o tutto e solo o principalmente per i Giudei, e i Gentili o esclusi dal banchetto cristiano o ammessi ai secondi posti. Ire terribili come tutte le ire nazionali, che si scaldano per di più al fuoco delle religioni, roba incandescente. Per paralizzare un lavoro come quello di Paolo che essi credevano funesto, questi Cristiani rimasti più scribi e farisei che divenuti Cristiani veri, apponevano alla figura di Paolo, l’ultimo arrivato nel collegio apostolico, la figura veneranda dei veterani, dei compagni personali di Gesù Cristo, degli intemerati discepoli che non avevano come Paolo lordato mai di sangue le loro mani, sangue cristiano. Quelli erano apostoli, non costui; un aborto di apostolato. Colpivano l’uomo in apparenza; in realtà attentavano alla grande causa dell’apostolato cristiano, libero e universale. Un apostolato a scartamento ridotto essi volevano; un timido apostolato cristiano, schiavo del giudaismo, dal giudaismo tenuto alla catena. Non sentivano, né la vera grandezza della Sinagoga che era quella di mettersi tutta a servizio della Chiesa, né la vera grandezza della Chiesa ch’era quella di abbracciare il mondo. Tutto questo Paolo difende in realtà, difendendo, esaltando in apparenza se stesso. E perché tutto questo Egli difende, la sua apologia acquista un calore di eloquenza e una dignità di contenuto affatto nuovo. E perché d’orgoglio personale non rimanga neppure l’ombra, dopo che l’Apostolo ha parlato con un senso altissimo di dignità, rivendicando il suo giudaismo, dolori e glorie della sua attività apostolica, parla l’uomo. Un povero uomo egli è, e si sente, il grande Apostolo; pieno di miserie fisiche che si risolvono in umiliazioni morali. Quelle debolezze gli dicono ogni giorno ch’egli non è se non un debole strumento nelle mani del Forte, che lavora in lui per la santità interiore, per la sua apostolica propaganda, lavora la grazia di Gesù Cristo. Le sue maggiori glorie sono così le sue umiliazioni, documenti e prove del Cristo presente, « inhabitat in me virtus Christi».

Graduale

Ps LXXXII: 19; LXXXII: 14

Sciant gentes, quóniam nomen tibi Deus: tu solus Altíssimus super omnem terram.

[Riconòscano le genti, o Dio, che tu solo sei l’Altissimo, sovrano di tutta la terra.]

Deus meus, pone illos ut rotam, et sicut stípulam ante fáciem venti.

[V. Dio mio, ridúcili come grumolo rotante e paglia travolta dal vento.]

 Ps LIX: 4; LIX: 6

Commovísti, Dómine, terram, et conturbásti eam. Sana contritiónes ejus, quia mota est. Ut fúgiant a fácie arcus: ut liberéntur elécti tui.

[Hai scosso la terra, o Signore, l’hai sconquassata. Risana le sue ferite, perché minaccia rovina. Affinché sfuggano al tiro dell’arco e siano liberati i tuoi eletti.]

Evangelium

Sequéntia ✠ sancti Evangélii secúndum Lucam

Luc VIII: 4-15

“In illo témpore: Cum turba plúrima convenírent, et de civitátibus properárent ad Jesum, dixit per similitúdinem: Exiit, qui séminat, semináre semen suum: et dum séminat, áliud cécidit secus viam, et conculcátum est, et vólucres cœli comedérunt illud. Et áliud cécidit supra petram: et natum áruit, quia non habébat humórem. Et áliud cécidit inter spinas, et simul exórtæ spinæ suffocavérunt illud. Et áliud cécidit in terram bonam: et ortum fecit fructum céntuplum. Hæc dicens, clamábat: Qui habet aures audiéndi, audiat. Interrogábant autem eum discípuli ejus, quæ esset hæc parábola. Quibus ipse dixit: Vobis datum est nosse mystérium regni Dei, céteris autem in parábolis: ut vidéntes non videant, et audientes non intéllegant. Est autem hæc parábola: Semen est verbum Dei. Qui autem secus viam, hi sunt qui áudiunt: déinde venit diábolus, et tollit verbum de corde eórum, ne credéntes salvi fiant. Nam qui supra petram: qui cum audierint, cum gáudio suscipiunt verbum: et hi radíces non habent: qui ad tempus credunt, et in témpore tentatiónis recédunt. Quod autem in spinas cécidit: hi sunt, qui audiérunt, et a sollicitudínibus et divítiis et voluptátibus vitæ eúntes, suffocántur, et non réferunt fructum. Quod autem in bonam terram: hi sunt, qui in corde bono et óptimo audiéntes verbum rétinent, et fructum áfferunt in patiéntia.”

[« In quel tempo radunandosi grandissima turba di popolo, e accorrendo a lui da questa e da quella città, disse questa parabola: Andò il seminatore a seminare la sua semenza: e nel seminarla, parte cadde lungo la strada, e fu calpestata, e gli uccelli dell’aria la divorarono. Parte cadde sopra le pietre; e nata che fu, seccò, perché non aveva umido. Parte cadde tra le spine; e le spine, che insieme nacquero, la soffocarono. Parte cadde in buona terra; e nacque, e fruttò cento per uno. Detto questo, esclamò: Chi ha orecchie da intendere, intenda. E i suoi discepoli gli domandavano, che parabola fosse questa. Ai quali egli disse: A voi è concesso d’intendere il mistero di Dio; ma a tutti gli altri (parlo) per via di parabole, perché vedendo non veggano, e udendo non intendano. La parabola adunque è questa. La semenza è la parola di Dio. Quelli che (sono) lungo la strada sono coloro che la ascoltano; e poi viene il diavolo, e porta via la parola dal loro cuore, perché non si salvino col credere. Quelli poi che la semenza han ricevuta sopra la pietra, (sono) coloro i quali, udita la parola, la accolgono con allegrezza; ma questi non hanno radice, i quali credono per un tempo, e al tempo della tentazione si tirano indietro. La semenza caduta tra le spine, denota coloro i quali hanno ascoltato; ma dalle sollecitudini, e dalle ricchezze, e dai piaceri della vita a lungo andare restano soffocati, e non conducono il frutto a maturità. Quella che (cade) in buona terra, denota coloro i quali in un cuore buono e perfetto ritengono la parola ascoltata, e portano frutto mediante la pazienza »]

OMELIA

(G. Colombo: Pensieri sui Vangeli e sulle feste del Signore e dei Santi; VI ediz. – Soc. Ed. Vita e pensiero.- Milano 1956)

LA PAROLA DI DIO

La seconda spedizione in Africa riuscì fatale a S. Luigi IX re di Francia. Accampato a nove miglia da Tunisi aveva di fronte un esercito assai superiore al suo. L’acqua mancava; la polvere del deserto toglieva il respiro; la peste mieteva i Cristiani chiusi nel campo e costretti alle difese. Il re, colpito dal morbo, si sdraiò sulle sabbie a morire, ma prima di chiudere gli occhi per sempre, chiamò il figlio ereditario e gli disse salutandolo per l’ultima volta: « Figlio mio, ascolta la parola di Dio e tienila in cuore ». Poi spirò. – Oh se quelle spiagge deserte ove il santo guerriero moriva avessero potuto parlare! Un giorno ivi fiorenti comunità cristiane, e dottori illustri, e santi e martiri formavano una delle più liete provincie della Chiesa Cattolica. Poi tutto isterilì e si fece il deserto. Perché? Perché la parola di Dio non era più discesa a fecondare di virtù i cuori degli uomini. E dove essa non cade, manca l’acqua e la rugiada necessaria ad ogni buona germinazione. Perciò San Luigi IX agonizzante volle come suprema parola dire al figlio suo Filippo erede del trono: — Ascolta la parola di Dio e tienila in cuore. Questa raccomandazione è il frutto più bello e utile che possiamo ricevere dalla parabola che Gesù ci racconta nel Vangelo odierno. « Ascolta la parola di Dio, che è sempre preziosissima, e tienila in cuore ove fruttificherà per la vita eterna ». – 1. ASCOLTA LA PAROLA DI DIO. « Dio… se lo vedessi! se lo sentissi! », dicono alcuni ripetendo le parole dell’innominato al Cardinale Federico « io ascolterei la sua parola, la metterei in pratica; ma dov’è questo Dio che parla? ». Cristiani, nella sua provvidenza Dio non ha voluto istruire gli uomini da se stesso, che è il primo lume; e neppure ha voluto istruirli per mezzo di Angeli, i quali sono come delle seconde luci; ma ha voluto istruire l’uomo per mezzo dell’uomo. Sarebbe una tentazione troppo superba pretendere di vedere e udire il Signore direttamente: Caveamus, — dice S. Agostino — tales tentationes superbissimas et periculosissimas. Ravviviamo la fede e ricordiamoci: 1) Parola di Dio è quella del Sacerdote sul pulpito e nel confessionale. Come il centurione Cornelio, benché vedesse un Angelo non fu dall’Angelo istruito, ma mandato a S. Pietro, così noi dobbiamo ricevere le parole che illuminano l’anima dei nostri Sacerdoti. 2) Parola di Dio è quella del Catechismo. In questo piccolo libro è raccolto muto l’insegnamento del Vangelo, l’insegnamento del Maestro unico e infallibile Gesù. Chi rifiuta la sua parola, rifiuta la vera sicurezza. Tutte le domeniche esso è spiegato ed insegnato nelle chiese ma quelli che assiduamente vengono ad impararlo sono pochi. Ai Cristiani del suo tempo S. Pietro (I Pet., III, 15) diceva che erano obbligati a rendere ragione della loro fede e della loro speranza a chiunque domandasse: ora troppi Cristiani non sanno più né quel che credono, né quel che sperano; e perciò prestano orecchio e battono le mani al primo ciarlatano che sbraiti le sciocchezze più assurde contro il Redentore e la sua Chiesa. 3) Parola di Dio è quella dei nostri superiori: e intendo dire del Papa, vicario di Gesù Cristo, e del nostro Vescovo. Quando essi parlano o scrivono, tutti i Cristiani bramano di raccogliere la loro parola, di comprenderla, di meditarla, di praticarla: si abbonano perciò a quei giornali e a quei fogli che la riferiscono stampata; la fanno conoscere a quelli che la ignorano; la difendono da quelli che la fraintendono. 4) Parola di Dio è quella che ci dicono o ci dicevano i nostri buoni genitori, specialmente la nostra madre. Se tutti i figlioli, benché adulti, ascoltassero sempre la loro mamma, quanta più religione ci sarebbe nel mondo! 5) Parola di Dio è quella dei buoni libri e dei giornali cattolici. Poche ore prima del suo martirio, il Beato Teofano Vénard dalla prigione così scriveva al fratello: « Quando, fanciulletto di nove anni, menavo al pascolo la mia capra sul poggio  di Bel-Air, io leggevo con trasporto il libro ove si narra la vita e la morte del vemerabile Carlo Cornay e mi dicevo: — Anch’io voglio andare al Tonchino, anch’io voglio essere martire… » E lo fu davvero. Ma voi intendete bene come Dio gli avesse parlato attraverso le parole di un buon libro. 6) Parola di Dio è quella della nostra coscienza, Talvolta è voce amara che ci rimorde; e la sentiamo improvvisamente destarsi in noi dopo una festa mondana, un ballo, un cinematografo, una passeggiata, un’ora di peccato, una giornata di vanità. Talvolta è voce buona di approvazione: e la sentiamo dopo una sincera confessione, un atto di carità, una fervorosa preghiera. Talvolta infine è voce di incitamento verso la perfezione: Dio passa accanto al cuore nostro e picchia: ci chiede forse di fare penitenza, di aiutare i poveri, di suffragare i morti, di beneficiare le missioni, di accettare volentieri una croce… – 2. TIENLA IN CUORE. Non basta che il divin Seminatore passi nel mondo a gettare a larghe manate il seme della sua parola; è necessario che la terra l’accolga bene, altrimenti invano aspetteremo i frutti. Se il seme è sempre ottimo, il terreno spesse volte è inospitale. Infatti, ci sono cuori dove la parola di Dio non può operare per tre difetti: la distrazione, l’incostanza, le cattive abitudini. – 1) I distratti. V’è della gente assidua alle prediche, alla dottrina cristiana, alla meditazione, eppure non ricava frutto: è distratta. Il seme divino cade, ma prima che i solchi del cuore lo accolgano già è beccato via dal demonio. Dice una bella leggenda che S. Antonio da fanciullo era stato incaricato di custodire un campo di spighe dalla voracità degli uccelli. Mentre adempiva con vigilanza l’ufficio suo, un suono di campane lo chiamava alla chiesa vicina. Come recarsi in chiesa, se i passeri divorano il frutto del campo? Un’idea gli balena in mente: batte le mani e a stormi gli uccelli devastatori seguono il minuscolo incantatore che corre verso una casuccia: li fa entrare per la porta spalancata che poi richiude in fretta, libero così d’andare a parlar con Dio. – Cristiani, ci sono uccelli voraci, i quali mentre cerchiamo d’ascoltare la parola di Dio, devastano ogni frutto nel nostro cuore: sono le distrazioni: stormi di pensieri terreni, di cure mondane, di affetti non celesti. Bisogna saperli rinchiudere in qualche casaccia, altrimenti invano cadrebbe su noi il seme divino. – 2) Gli incostanti. Vi sono altre persone che ascoltano attente la parola di Dio la trovano giusta e bella, si commuovono: ma poi, tornate alle loro occupazioni quando si tratta di metterla in pratica, esse non sanno sormontare le difficoltà e cedono alle prime tentazioni. Hanno sentito che Dio vuole da loro maggior preghiera, maggior purezza, maggior giustizia; hanno anche promesso di rinnovare la vita; ma poi non si sentono il coraggio di mantenere. Per tal modo la parola di Dio, che già era cresciuta su in pianticella, per mancanza d’amore avvizzisce prima d’emettere la spiga. Costoro sono simili a quelli che vanno al fonte per attingere acqua, ma ritornando con la brocca piena, la sentono pesare e la rovesciano per via. – 3) Gli schiavi delle passioni. C’è della gente, infine, che ascolta la parola di Dio ma col cuore intricato di spine. Essi hanno una relazione illecita che non vogliono spezzare, hanno roba o danaro altrui che non vogliono restituire, da anni commettono un peccato che non vogliono abbandonare. E allora, che frutto potrà in esse fare la parola di Dio? Il Signore, dice S. Agostino, fa piovere sulle messi e sugli spineti: ma la medesima acqua prepara le messi per il granaio e gli spineti per il fuoco. Così è della parola di Dio che cade sui cuori buoni, e su quelli schiavi delle passioni; prepara gli uni per il Paradiso, e gli altri per l’Inferno. – Ed ora ascoltate la parabola che Gesù racconta nel Vangelo di questa domenica e sentirete quanto è bella e quanto è vera! Ai suoi discepoli Gesù spiegò la parabola. Il seme è la parola di Dio: esso cade su certi cuori duri come la strada da dove le distrazioni lo beccano via prima che sia meditato; esso cade in certi cuori pietrosi dove attecchisce, ma per il loro temperamento mobile e facilmente scoraggiabile non può giungere alla spiga; esso cade anche in certi cuori che da tenaci rami di spine e di gramigne sono legati alle cose mondane, alle passioni, ai peccati. Ma quando la parola di Dio cade nei cuori di buona volontà, allora produce innumerevoli e meravigliosi frutti. Chi ha orecchio per intendere, intenda. — SEME BUONO E TERRA CATTIVA. È facile smarrirsi nel deserto. Sopra l’immensa distesa di sabbia del Sahara, il vento soffia terribile, cancella ogni pista sul suolo, trasporta le dune e muta l’aspetto dei luoghi. Il viaggiatore esterrefatto non sa più orizzontarsi, e si smarrisce cercando invano la via del ritorno. Per ciò, prima d’inoltrarsi in quel pauroso regno dei venti e delle belve, scrive le indicazioni necessarie sopra alcuni cartellini che semina nei posti più visibili, fermandoli con grosse pietre. La vita nostra può essere paragonata ad un viaggio nel deserto. Le passioni violente soffiano talvolta sul nostro cammino, sollevano davanti agli occhi il polverone e ci fanno perdere la giusta via. Ma Dio ha fatto spargere, nei luoghi più incerti, la parola del suo Vangelo, e la spiegazione della sua santa parola. Chi non si cura della parola del Signore cammina a casaccio, e finisce alla perdizione. A farci comprendere la preziosità della parola di Dio, Gesù Cristo narrò ad una grandissima turba di popolo, la parabola del seme: Eppure questo seme, benché divino, non sempre fa frutto: la colpa è della terra cui viene a cadere, che spesso è troppo dura, sassosa, rimboschita. – 1. IL SEME È BUONO. Nel cimitero di Friburgo v’era un tumulo con queste parole: « Proibisco, per sempre, che si tocchi la mia tomba. Il tempo e le intemperie vi avevano incavato un taglietto superficiale che, a stento avrebbe ricevuto una vespa. Dall’albero che stendeva la sua ombra e la sua frescura sopra il tumulo, cadde un piccolo seme che, scivolando per la lastra di marmo, si fermò nella breve incavatura. Nessuno s’accorse, tanto la cosa fu piccola e silenziosa. Dopo alcuni giorni però, videro la lapide che chiudeva il sarcofago spaccata in mezzo. Il seme inturgidito aveva avuto tanta forza da rompere il marmo. Semen est verbum Dei. Qualsiasi parola di Dio somiglia a questo seme: essa è divina e potente. Solo la parola di Dio ha tanta forza da spaccare il sepolcro del peccato in cui marciscono certe anime. Chi poteva fermare Paolo, quando con gli occhi infiammati dall’odio spronava disperatamente il cavallo sulla strada di Damasco? La parola di Dio. Chi poteva nel giorno della prima Pentecoste strappare al ritmo vorticoso del commercio una folla di tre mila uomini, d’ogni lingua e nazionalità, costringerli a tacere, ad ascoltare, a convertirsi? La parola di Dio, predicata da S. Pietro. V’erano Parti, Medi, Giudei; v’erano di Cappadocia, d’Asia, di Frigia, d’Egitto, di Libia, e piangevan tutti sulla pubblica piazza i loro peccati e domandavano la penitenza ed il Battesimo. Exiit qui seminat seminare semen suum. Quest’uomo che uscì a seminare e che semina un seme suo e non d’altri, è Gesù Cristo che cammina davanti a noi, e semina nella nostra vita, ad ogni momento e in mille guise, il seme della sua parola. Perché una parola così potente e così diffusa non produce che scarsi frutti? Perché la terra in cui cade è cattiva. – 2. LA TERRA È CATTIVA. Gli Angeli discesi a Sodoma entrarono nella casa di Loth. Fuori la gente folle d’impura passione urlava. Gli Angeli compresero come i Sodomiti s’erano affondati nel peccato fino all’ultimo livello e che per loro non v’era altro che il fuoco. Per ciò dissero a Loth: « Hai tu qualcuno dei tuoi, o genero, o figlio, o figlia? Menali via tutti da questa città, perché la distruggeremo. I peccati di Sodoma gridano vendetta. E il loro grido giunse fino a Dio che ci manda a sterminarla ». Loth uscì, e chiamò i suoi parenti e con nel cuore l’ansia del flagello imminente, disse a loro la parola degli Angeli, li scongiurò a cessare dai peccati, a fuggire dalla città maledetta. E quelli scoppiarono a ridere. Già il cielo si tingeva foscamente di rosso, già le prime fiamme passavano nell’aria sibilando e quelli credettero che Loth parlasse loro per burla. Et visus est eis quasi ludens loqui (Gen., XIX, 14). Quante volte i sacerdoti nelle chiese annunciano i castighi di Dio, e molti non ci fanno nemmeno caso, come se il Sacerdote parlasse per altri. Quante volte si predica l’infinito amore di Gesù Cristo per le anime nostre: la sua nascita in una stalla, la sua vita raminga e povera, la sua morte in croce, e nessuno pensa a ricambiare quest’amore, come se tutta la vita di Nostro Signore fosse una invenzione del Sacerdote che predica. È il seme della parola di Dio che cade in terra non buona. Dum seminat; aliud cecidit secus viam. La strada significa il cuore dell’impuro ove passano tutti: i cattivi pensieri, i desideri peccaminosi, le passioni e gli istinti più bassi. In questi cuori la parola del Signore non produce frutto alcuno. Che frutto ha prodotto la parola degli Angeli nel cuore impuro dei parenti di Loth? Et aliud cecidit supra petram. La terra pietrosa significa il cuore del superbo. La superbia fa il cuor duro, perché non vuol ricevere nessuna correzione. Se discende la pioggia sulla pietra, la bagna di fuori, ma dentro no, che resta arida. Così, se la pioggia della divina parola e della divina ispirazione cade su cuor superbo, lo tocca di fuori appena, che dentro non vi può andare. La terra spinosa significa il cuore dell’avaro. Le ricchezze si dicono spine perché tengono legata l’anima alla terra e la soffocano negli intrighi degli affari e delle mollezze della vita e nel desiderio d’onori mondani. Se infondi in un vaso pieno d’aceto una goccia di miele, tu perdi il miele e non muti l’aceto. Vasi d’aceto sono i cuori degli avari, pieni d’ansietà, dentro i quali la parola celeste si perde e l’ispirazione è soffocata. – Francesco Saverio, quando ancora gli sorrideva la speranza di un brillante avvenire, quando ancora gli si apriva una vita infiorata di piaceri e di denari, incontrò Ignazio di Lojola che gli disse: Figliuolo! Se non vi è altra vita che questa, né vi sono altri beni che i caduchi: tu sei saggio a goderli, io sono pazzo a privarmene. Mentre se vi è una vita futura e l’inferno e il paradiso, allora io sono saggio e tu stordito. Potrai essere felice, quaggiù, quarant’anni e qualcuno ancora: ma finiti anche questi ti aspetta l’inferno senza speranza. E l’inferno ti sembra un male da nulla, per non subire qualsiasi patimento ora, pur d’evitarlo? E il paradiso ti sembra un bene da nulla, per non rinunziare a qualsiasi gioia ma pur di raggiungerlo? « Ancora fluttui nell’incertezza e non decidi? ». Francesco ascoltò, meditò, e la parola di Dio produsse mirabile frutto. Partì per le Indie, convertì a Gesù Cristo cinquantadue regni, inalberò la croce su una vastissima regione, battezzò di sua mano un milione d’infedeli. Moriva nell’isola di Sanciano sospirando d’entrar nella Cina, che gli si stendeva davanti, e ch’egli benedisse nella tremula luce della sua agonia. In lui la parola divina aveva fruttificato il cento per uno.

IL CREDO

Offertorium

Orémus Ps XVI: 5; XVI:6-7

Pérfice gressus meos in sémitis tuis, ut non moveántur vestígia mea: inclína aurem tuam, et exáudi verba mea: mirífica misericórdias tuas, qui salvos facis sperántes in te, Dómine.

[Rendi fermi i miei passi nei tuoi sentieri, affinché i miei piedi non vacillino. Inclina l’orecchio verso di me, e ascolta le mie parole. Fa risplendere la tua misericordia, tu che salvi chi spera in Te, o Signore.]

Secreta

Oblátum tibi, Dómine, sacrifícium, vivíficet nos semper et múniat.

[Il sacrificio a Te offerto, o Signore, sempre ci vivifichi e custodisca.]

Præfatio

V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.
V. Sursum corda.
R. Habémus ad Dóminum.
V. Grátias agámus Dómino, Deo nostro.
R. Dignum et justum est.

de sanctissima Trinitate

Vere dignum et justum est, æquum et salutáre, nos tibi semper et ubíque grátias ágere: Dómine sancte, Pater omnípotens, ætérne Deus: Qui cum unigénito Fílio tuo et Spíritu Sancto unus es Deus, unus es Dóminus: non in uníus singularitáte persónæ, sed in uníus Trinitáte substántiæ. Quod enim de tua glória, revelánte te, crédimus, hoc de Fílio tuo, hoc de Spíritu Sancto sine differéntia discretiónis sentímus. Ut in confessióne veræ sempiternǽque Deitátis, et in persónis propríetas, et in esséntia únitas, et in majestáte adorétur æquálitas. Quam laudant Angeli atque Archángeli, Chérubim quoque ac Séraphim: qui non cessant clamáre quotídie, una voce dicéntes:

[È veramente degno e giusto, conveniente e salutare, che noi, sempre e in ogni luogo, Ti rendiamo grazie, o Signore Santo, Padre Onnipotente, Eterno Iddio: che col Figlio tuo unigenito e con lo Spirito Santo, sei un Dio solo ed un solo Signore, non nella singolarità di una sola persona, ma nella Trinità di una sola sostanza. Cosí che quanto per tua rivelazione crediamo della tua gloria, il medesimo sentiamo, senza distinzione, e di tuo Figlio e dello Spirito Santo. Affinché nella professione della vera e sempiterna Divinità, si adori: e la proprietà nelle persone e l’unità nell’essenza e l’uguaglianza nella maestà. La quale lodano gli Angeli e gli Arcangeli, i Cherubini e i Serafini, che non cessano ogni giorno di acclamare, dicendo ad una voce:]

Sanctus, Sanctus, Sanctus Dóminus, Deus Sábaoth. Pleni sunt cæli et terra glória tua. Hosánna in excélsis. Benedíctus, qui venit in nómine Dómini. Hosánna in excélsis.

Preparatio Communionis

Orémus: Præcéptis salutáribus móniti, et divína institutióne formáti audémus dícere:

Pater noster

qui es in cælis. Sanctificétur nomen tuum. Advéniat regnum tuum. Fiat volúntas tua, sicut in cælo et in terra. Panem nostrum quotidiánum da nobis hódie. Et dimítte nobis débita nostra, sicut et nos dimíttimus debitóribus nostris. Et ne nos indúcas in tentatiónem:
R. Sed líbera nos a malo.
S. Amen.

Agnus Dei

Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: dona nobis pacem.

Panem cæléstem accípiam, et nomen Dómini invocábo.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

Ps XLII:4

Introíbo ad altáre Dei, ad Deum, qui lætíficat juventútem meam.

Mi accosterò all’altare di Dio, a Dio che allieta la mia giovinezza.]

Postcommunio

Orémus.

Súpplices te rogámus, omnípotens Deus: ut, quos tuis réficis sacraméntis, tibi étiam plácitis móribus dignánter deservíre concédas.

[Ti supplichiamo, o Dio onnipotente, affinché quelli che nutri coi tuoi sacramenti, Ti servano degnamente con una condotta a Te gradita.]

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (2)

ORDINARIO DELLA MESSA

APPARIZIONE DELLA BEATA VERGINE MARIA A LOURDES – 11 FEBBRAIO (2023)

11 FEBBRAIO 2023 – APPARIZIONEDELLA VERGINE MARIA A LKOURDES

Hymnus {ex Proprio Sanctorum}


Te dícimus præcónio,
Intácta Mater Núminis,
Nostris benígna láudibus
Tuam repénde grátiam.

Sontes Adámi pósteri
Infécta proles gígnimur;
Labis patérnæ néscia
Tu sola, Virgo, créderis.

Caput dracónis ínvidi
Tu cónteris vestígio,
Et sola glóriam refers
Intaminátæ oríginis.

O gentis humánæ decus
Quæ tollis Hevæ oppróbrium,
Tu nos tuére súpplices,
Tu nos labántes érige.

Serpéntis antíqui potens
Astus retúnde et ímpetus,
Ut cǽlitum perénnibus
Per te fruámur gáudiis.

Jesu, tibi sit glória,
Qui natus es de Vírgine,
Cum Patre et almo Spíritu,
In sempitérna sǽcula.
Amen.

[Ti celebriamo con canti,
o Immacolata Madre di Dio,
tu benigna le nostre lodi
ricambia colla tua grazia.

Posterità colpevole di Adamo,
nasciamo tutti colpevoli;
dalla macchia del nostro progenitore tu sola,
o Vergine, nasci immune, come ne insegna la Fede.

La testa dell’invidioso dragone
tu schiacci col piede,
e sola hai la gloria
d’intemerata origine.

O decoro dell’uman genere,
che di Eva togli l’obbrobrio,
tu soccorrici, te ne supplichiamo,
tu rialzaci nelle nostre cadute.

Potente qual sei,
dell’antico serpente rintuzza le insidie e gli assalti,
affinché per te partecipiamo
alle gioie eterne degli abitatori celesti.

O Gesù, sia gloria a te,
che sei nato dalla Vergine,
insieme col Padre e collo Spirito Santo,
per i secoli eterni.
Amen.]

Quattro anni dopo la definizione dommatica della immacolata Concezione della beata Vergine, sulla sponda del fiume Gave presso il borgo di Lourdes, delta diocesi di Tarbes in Francia, la stessa Vergine si fece vedere più volte nell’insenatura d’una roccia nella grotta di Massabielle a una fanciulla chiamata volgarmente Bernadetta, poverissima sì ma ingenua e pia. La Vergine immacolata appariva di aspetto giovane e benevolo, ricoperta d’una veste e d’un velo bianco come la neve, e cinta d’una fascia celeste; una rosa d’oro ne adornava i piedi. Il primo giorno dell’apparizione, che fu l’11 Febbraio dell’anno 1858, insegnò alla fanciulla a far bene e con pietà il segno della croce e, facendo scorrere nella mano la corona che prima le pendeva dal braccio, l’eccitò, col suo esempio, alla recita del santo rosario: cosa che ripeté pure nelle altre apparizioni. Ma il secondo giorno dell’apparizione, la fanciulla temendo, nella semplicità del suo cuore, un’insidia diabolica, gettò sulla Vergine dell’acqua benedetta; ma la beata Vergine, dolcemente sorridendo, le si mostrò con volto ancor più benevolo. Nella terza apparizione poi invitò la fanciulla alla grotta per quindici giorni. D’allora le parlò più spesso, e la esortò a pregare per i peccatori, a baciar la terra e a far penitenza; quindi le ordinò di dire ai sacerdoti che edificassero ivi una cappella, e di venirvi alla stessa guisa con solenni processioni. Di più le ordinò di bere dell’acqua della fonte, ch’era ancora nascosta sotto la sabbia ma sarebbe subito sgorgata, e di lavarsi con essa. Finalmente la festa dell’Annunziazione, domandando la fanciulla istantemente il nome di lei, che s’era degnata di apparirle tante volte, la Vergine, portate le mani sul petto ed alzati gli occhi al cielo, rispose: Io sono l’Immacolata Concezione. – Crescendo la fama dei benefizi, che si asseriva aver ricevuto i fedeli nella grotta, aumentò ogni dì più il concorso degli uomini attirati alla grotta dalla venerazione del luogo. Ond’è che il vescovo di Tarbes mosso dalla fama dei prodigi e dal candore delta fanciulla, quattro anni dopo le cose narrate, dopo giuridica inquisizione dei fatti, riconobbe con sua sentenza, che i caratteri dell’apparizione erano soprannaturali, e permise nella stessa grotta il culto alla Vergine immacolata. Subito vi si edificò una cappella: da quel giorno sono quasi innumerevoli le folle di fedeli che vi accorrono ogni anno per ragione di voto e di supplica dalla Francia, dal Belgio, dall’Italia, dalla Spagna e da altre regioni d’Europa e fin dalle lontane Americhe, e il nome dell’Immacolata di Lourdes diviene celebre in tutto l’universo. L’acqua della fontana, portata in tutte le parti del mondo, rende la sanità agl’infermi. E l’orbe cattolico, riconoscente di tanti benefici, v’ha eretto intorno meravigliosi monumenti sacri. Innumerevoli vessilli, mandati là dalle città e popoli quali testimoni dei benefici ricevuti, formano al tempio della Vergine una decorazione meravigliosa. In questa sua quasi dimora la Vergine immacolata è venerata continuamente: di giorno con preghiere, canti religiosi e altre solenni funzioni; di notte invece con quelle sacre processioni nelle quali turbe pressoché infinite di pellegrini con ceri e torcie sfilano cantando le lodi della Vergine. –

Omelia di san Bernardo Abate
Omelia 2 su Missus


R
allegrati, padre Adamo, ma tu soprattutto, madre Eva, esulta: come foste i progenitori di tutti, così di tutti foste pure la rovina; e, quel ch’è più deplorevole, prima rovina che progenitori. Consolatevi, la dico a tutti due, per questa figlia, e per tale figlia; ma principalmente a quella che fu la prima cagione del male, il cui obbrobrio s’è trasmesso a tutte le donne. Infatti si approssima il tempo in cui ormai sarà tolto l’obbrobrio, e l’uomo non avrà più di che accusare la donna: né cercando esso impudentemente di scusare se stesso, non dubitò di accusarla crudelmente, dicendo: «La donna, che m’hai data, m’ha dato del frutto, ed io l’ho mangiato» Gen. 3,12. O Eva, corri dunque a Maria; o madre, corri a tanta figlia; risponda la figlia per la madre; liberi lei la madre dall’obbrobrio; lei soddisfaccia al padre per la madre: perché se l’uomo è caduto per la donna, egli ora non si rialza che per la donna. – Che dicevi, o Adamo? «La donna che m’hai data, m’ha dato del frutto, e io l’ho mangiato» Gen. 3,2. Queste sono parole maliziose, colle quali aggravi anziché diminuire la tua colpa. Nondimeno la Sapienza ha vinto la malizia, perché ella ha trovato nel tesoro della sua inesauribile bontà quell’occasione di perdono che Dio, interrogandoti, cercò, ma non poté cavare da te. Infatti invece della prima donna ci è data un’altra donna, una prudente, invece di una stolta, una umile, invece di una superba; la quale invece d’un frutto di morte, ti dia a gustare un frutto di vita, e in cambio di quell’amaro e velenoso alimento, ti procuri la dolcezza d’un frutto eterno. Muta, dunque, le parole della stolta scusa in voci di azioni di grazie, e di’: Signore, la donna che m’hai data m’ha dato del frutto (dell’albero) della vita, e io l’ho mangiato; ed esso è più dolce alla mia bocca del miele, perché per esso m’hai reso la vita. Ed ecco perché l’Angelo fu mandato alla Vergine ammirabile e d’ogni onore degnissima! O donna singolarmente veneranda, ammirabile più che tutte le donne, riparatrice dei tuoi progenitori, sorgente di vita per l’intera posterità! – Qual’altra donna ti sembra aver Dio preannunziato, quando disse al serpente: «Porrò inimicizia fra te e la donna» Gen. 3,15. E se dubiti ancora avere egli inteso di Maria, ascolta quel che segue «Ella ti schiaccerà la testa». A chi è riservata questa vittoria, se non a Maria? Ella senza dubbio ha schiacciato la testa velenosa, ella ha ridotto a niente ogni suggestione del maligno sia ch’esso tenti colla seduzione della carne o con l’orgoglio dello spirito. E qual altra cercava Salomone quando diceva «Chi troverà la donna forte?» Prov. 31,10. Conosceva infatti quest’uomo sapiente l’infermità di questo sesso, la fragilità del suo corpo, la volubilità del suo spirito. Ma siccome egli aveva letto la promessa fatta da Dio, e gli pareva conveniente che colui che aveva vinto per una donna fosse vinto per mezzo di essa, sommamente meravigliato, esclamava: «Chi troverà la donna forte?». Ch’è quanto dire: Se dalla mano d’una donna dipende così e la nostra comune salvezza e la restituzione dell’innocenza, e la vittoria sul nemico; è assolutamente necessario di trovare una donna forte che possa essere capace di tanta opera.

Hódie gloriósa cæli Regína in terris appáruit; hódie pópulo suo verba salútis et pígnora pacis áttulit; hódie Angelórum et fidélium chori immaculátam Conceptiónem celebrántes gáudio exsúltant.

V. Dignáre me laudáre te, Virgo sacráta.
R. Da mihi virtútem contra hostes tuos.

Orémus.
Deus, qui per immaculátam Vírginis Conceptiónem dignum Fílio tuo habitáculum præparásti: súpplices a te quǽsumus; ut, ejúsdem Vírginis Apparitiónem celebrántes, salútem mentis et córporis consequámur.
Per eúmdem
….

[Dal Messale Romano]

LO SCUDO DELLA FEDE (239)

LO SCUDO DELLA FEDE (239)

LA SANTA MADRE CHIESA NELLA SANTA MESSA (7)

SPIEGAZIONE STORICA, CRITICA, MORALE DELLA SANTA MESSA

Mons., BELASIO ANTONIO MARIA

Ed. QUINTA

TORINO, LIBRERIA SALESIANA EDITRICE, 1908

CAPO II

L’OFFERTA DEL SACERDOTE.

Accompagniamo ora il Sacerdote, e vediamo con qual rito presenti a Dio l’offerta del pane e del vino. Il suddiacono si copre del gran velo umerale; e questo velo, che riccamente scende giù dalle spalle, serve all’uopo come di pezzuola, per non toccare colle mani l’offerta; al modo stesso che ogni inserviente, che assiste alle mense non ardirebbe con mani nude presentar cibo o checchessia ad uomo civile. Serve anche ad involgere e coprire l’offerta, affine di rappresentarla con garbo e venire a scoprirla dinanzi al Sacerdote. Con questo velo adunque prende egli dalla credenza il calice colla patena, e sopra di questa il bianchissimo pane azzimo, volgarmente detto l’ostia. La patena, col pane sopra essa, presenta al diacono, il quale alla destra del Sacerdote scopre l’offerta, la prende dalle mani del suddiacono, e baciando il sacro vaso, che la porta, la rimette con riverenza nelle mani del Sacerdote. Questi l’innalza davanti al petto, e tenendola sollevata verso il cielo, al cielo alza gli occhi e comincia l’orazione, che diremo appresso. In quest’atto si fa l’offerta. Il popolo sospende il canto, e sta silenzioso e prostrato a piè dell’altare. Quando una densa nube copriva il Sinai, e tra il balenar dei lampi, e il rombar dei tuoni andava in fiamme la vetta, e traballava in sussulto tutto quel monte, come per terrore alla presenza di Dio, gli Israeliti pavidi alle radici del monte si prostravano colla faccia nella polvere, e gridavano timorosi: « Non parlateci voi, o Signore; ché noi cadremmo morti, sfolgorati dalla vostra maestà! Parlate al vostro servo Mosè, ed egli ci ridica i vostri comandamenti. Come essi, il popolo cristiano manda sull’altare il suo condottiero, il santo del Signore a trattar con Lui i suoi interessi: mentre egli resta appiè prostrato, e si spande in gemiti di umiltà. Il Sacerdote, novello Mosè, alza le palme stese sotto la patena; e vedendosi innanzi agli occhi, nell’offerta, il cuore di tutti i fedeli, come Mosè (Exod. 33, 18), collo sguardo al cielo pare che con uno slancio di confidenza chieda a Dio di lasciarsi vedere. In quell’istante, gli ha un ufficio da compiere assai onorevole, egli ha da presentargli un offerta, ed ha il presentimento, che troppo ben accetta riuscir gli debba (Card. Bona; Rerum liturg.. lib. 2, Cap. 9, n.3). Posto là sotto la croce, prende conforto da quell’immagine del sacrificio, che sta per fare in realtà. In questo pensiero, cogli occhi alzati al suo Dio Padre, lo supplica coll’orazione che verremo commentando nell’esporla.

L’Orazione: Suscipe, sancte Pater.

« O Padre onnipotente, eterno Iddio degnatevi di accogliere quest’ostia immacolata, che io vostro servo di offerirvi non son degno…… » — Ma qui il povero Sacerdote, infelice! si ricorda di essere uomo peccatore, e ben sapendo ciò che disse Giobbe, « che solo, quando è la tua mano monda da ogni iniquità, allora potrai levare la faccia confidente innanzi a Dio » (Iob. XI, 14.), ei si corregge subito dal suo ardimento. Abbassa lo sguardo umiliato, e come all’umile pubblicano, non gli basta l’animo di tenere gli occhi alzati a mirare in volto il Signore che sa d’aver offeso pur troppo. Però tenendo le mani sollevate innanzi alla croce, e chini gli occhi a terra quasi non voglia più levarli (Luc. XVIII, 15) si affretta a dire continuando: « Quest’offerta offro a Voi, Dio mio, vivo e vero per gli innumerabili miei peccati e per le offese e negligenze mie, per tutti i fedeli Cristiani, vivi e defunti, affinché a me e a tutti essa torni a profitto di vita eterna. » – Fa il segno di croce sulla mensa. Qui abbassa, tenendola fra le mani, la patena, e così segna con essa sul corporale la croce, e sul luogo segnato di croce depone il pane offerto. Il corporale, o candido lino, consacrato per deporvi sopra il santissimo Sacramento, significa il lenzuolo di lino, in cui fu involto il Corpo di Gesù Cristo (Beda Hom. in Mase. 13 et Ben. XIV, lib. 1, cap. 5, n. 4, De sac. Miss.). Il segno di croce, su cui depone l’offerta sopra l’altare, significa, che li sull’altare, come sul Calvario, in questa mistica Croce si rinnoverà quel sacrificio medesimo, che fece di se Stesso Gesù, Pontefice immortale, e vittima eterna (Durandus, lib. 4, cap. 30. n. 17, et Honorius in Gent. Anim., lib. 1, cap. 96). – Il diacono intanto infonde il vino nel calice, ed il suddiacono presenta l’acqua per essere benedetta dal Sacerdote.

ART. I.

LA BENEDIZIONE DELL’ACQUA ED INFUSIONE DI ESSA NEL CALICE

Antichissimo è l’uso di mischiare un po’ di acqua nel vino da consacrarsi, e secondo la regola di s. Agostino, non essendovi canone di alcun Concilio, né ordinazione di Pontefice, che mostri il principio dell’istituzione, si deve conchiudere essere questa una pratica dai santi Apostoli insegnata, e tratta dall’esempio di Gesù Cristo, che si crede avere, secondo 1’uso della Palestina, infusa l’acqua nel vino nella cena della santa istituzione (Durandus, 4 Diss. IX, q. 5, Conc. Trid. sess. XXII, Cap. 7). Cerchiamo ora di questo rito la significazione. Sempre è da ricordare che nel Sacrificio della santa Messa si rappresentano intorno al Corpo reale e divino tutti i misteri della passione e morte del divin Salvatore. – Ora quando il divin Redentore fu dalla lancia trafitto sulla croce, mandò fuori dalla ferita Acqua insieme col sacratissimo Sangue, ed il santo Pontefice Alessandro I (Ep. Ad Cæcil.), comandando che si continuasse l’uso di mischiare l’acqua nel calice, come sempre si è fatto, dichiara, che questo poco d’acqua significa appunto l’Acqua, che sgorgò dal santo petto di Gesù trafitto. – L’acqua poi nella santa Scrittura si usa pure per esprimere il popolo; « e così dice san Cipriano, vedendo noi nell’acqua intendersi il popolo, e significarsi nel vino il Sangue di Gesù Cristo; quando nel calice l’acqua si mischia col vino, il popolo si aduna in Cristo, e la plebe dei credenti sì unisce, e si congiunge a Lui, in cui credette. E come l’unione dell’acqua col vino si fa nel calice in modo da non potersi l’una dall’altro disgiungere, così il popolo in Chiesa costituito, perseverante fedelmente in ciò che crede, non potrà mai da Cristo essere disgiunto » (Durandus.). Si uniscano adunque qui i fedeli a Gesù, come le membra al loro capo, e con Esso si offeriscano sull’altare. Il Sacerdote poi non benedice al vino, perché il vino esprime Gesù, e Gesù non ha bisogno di benedizioni (Gavantus. Com. ad Rubric. Miss. p. 2. t. 7 et Durandus). L’acqua invece, che rappresenta il popolo, si benedice col segno della croce, perché gli uomini, per essere degni di comunicare con Dio, hanno bisogno della grazia, che in loro si trasfonde per i meriti della Passione divina. Nella Messa dei defunti l’acqua non si benedice, perché  il popolo benedetto di coloro che dormono nella pace del Signore, è già in grazia (S. Cirill, Cath. De Bapt.). – Finalmente vi è una terza ragione, per cui così nell’offerta l’acqua al vino sì mischia; ed è che l’acqua significa la mondezza; e tutte le volte, che l’uomo ha da trattare con Dio, ha bisogno di purificarsi, per non offendere la santità dello sguardo divino (Daniel 2. 39.). Ond’è, che l’acqua viene sempre nelle benedizioni adoperata, e si frammette sempre tra Dio e gli uomini, vero simbolo di umiltà; perché, servendo essa in natura a purificare dalle sozzure ì materiali oggetti, col cospergere che facciamo col l’acqua le nostre persone e le cose nostre, esprimiamo desiderio vivissimo di purificarci, per non offendere la maestà divina. – Il suddiacono presenta l’acqua, dicendo al Sacerdote: « benedite, o reverendo padre; » ed il celebrante alza la mano, e la benedice, facendo il segno di croce. Mentre il suddiacono nella Messa solenne, e nella privata il celebrante, infonde l’acqua, egli recita la seguente orazione, che le premesse osservazioni faranno intendere pur bene.

Orazione nell’infondere l’acqua nel calice,

« O Dio, che la dignità dell’umana sostanza mirabilmente componeste, e riformaste più ancora mirabilmente, pel ministero di quest’acqua e di questo vino, a noi concedete di poter essere consorti della divinità di Colui, che si è degnato di esser partecipe dell’umanità nostra, Gesù Cristo, vostro figliuolo, Signor nostro, che nell’unità dello Spirito Santo con Voi vive e regna Dio per tutti i secoli dei secoli. Così sia. » – Il Sacerdote poi alza fra le mani, come fece della patena, il calice; al cui piede tenendo la mano il diacono, questo ministro aiuta il Sacerdote a sostenere l’offerta, come dai ministri si sostenevano le braccia a Mosè, che pregava per la vittoria del popolo; e così mentre l’accompagnava co’ suoi voti innanzi a Dio, dicono insieme cogli occhi alzati al cielo la seguente orazione.

Orazione dell’offerta del calice.

« Noi offriamo a voi, nostro Signore, il calice salutare, supplicando la vostra clemenza, ché in odore di soavità ascenda nel cospetto di vostra divina Maestà per la salute nostra e di tutto il mondo. » Segna qui pure di croce col calice il luogo, dove lo depone; poi lo copre coll’animetta o palla, per rispetto e pulitezza. – Presentata in tal modo l’offerta, il diacono rimette la patena vuota al suddiacono, a cui appartiene la custodia dei vasi sacri. Ed esso copertola col ricco velo, che li pende dagli omeri, scende giù a piè dell’altare, e vi sta in atto di guardia, per tenere discosta dall’altare la calca, sicché non turbi l’ordine del luogo santo; rimane come servo che attende i cenni del maggior ministro, pronto a presentargli all’uopo nel Sacrificio il vaso che tien sollevato sul petto.

ART. II.

ORAZIONE: IN SPIRITU HUMILITATIS.

Nella santa Messa mai non è da dimenticarsi di Gesù Cristo, perché, mentre si offre il sacrifizio del suo corpo, nei vari riti, giova ripeterlo, si fa memoria dei misteri della sua vita, e massime della sua passione. Il santo profeta David, illuminato dallo Spirito del Signore, prediceva che il Figliuol di Dio fatto uomo, così parlerebbe al suo Padre divino: « Sacrifizi, oblazioni non volendo voi più, m’avete fatto adatto questo mio corpo. Ecco che io vengo ad offrirvelo. » Questo sacifizio di sé compiutolo sul Calvario, provvide si rinnovasse nella santa Messa. Ora il Sacerdote suo rappresentante ha preparata la materia, come doveva, e sta per prestar l’opera al sovrano Pontefice in cielo, che offrirà ancora per mezzo suo il gran Sacrifizio divino. Ma qui egli, sollevato all’altezza di così sublime ministero, non può a meno di sentire il peso non solamente delle proprie ma delle iniquità di tutto il popolo: per lui non vi ha miglior consiglio, che salvarsi in umiltà e ripararsi sotto la croce, (e questo esprime coll’inchinarsi). Perché un cuor contrito ed umiliato non sarà sprezzato da Dio (Salm. 50.); non potendo far altro, confessa in gran contrizione il peccato, e, mentre sta per rinnovare il mistero di redenzione per espiarlo, si mette sotto le piaghe di Gesù Cristo. Questo fa, quando s’inchina a’ pié della croce innanzi all’offerta, ponendo sulla mensa le mani giunte in atto di deporre se stesso, ed il popolo, come vittima legata, e supplicando, che sia ricevuta in olocausto insieme col Sacrificio tanto accettevole a Dio, che sta per offrire. Recita perciò in quest’atto l’orazione:

In spiritu humilitatis,

« In ispirito di umiltà, ed in animo contrito veniamo accolti da Voi, o Signore, e il sacrifizio nostro così sia fatto, che si meriti di essere ben accolto nel vostro cospetto. »

È questa la preghiera medesima, che recitavano quei tre generosi giovanetti israeliti in Babilonia, allorché avendo rifiutato di piegar il ginocchio innanzi alla statua del re Nabucodonosor (Daniel. III, 38.), erano stati gettati vivi ad ardere nella fornace. Il Sacerdote fa quest’orazione nell’istante in cui sta per compiere il gran Sacrificio, per dire con essa: Signore, non confondeteci, ributtando l’offerta che facciamo; ma adoperate con noi secondo la vostra clemenza, nella misura delle vostre misericordie, che non han fine. » Compiuta la preghiera, si rizza, ed alza gli occhi alla croce, e su per questa scala di paradiso va a fare l’invito allo Spirito Santo di discendere in sull’altare coll’orazione, che segue.

Art. III.

VENI SANCTIFICATOR.

Orazione.

« Venite, o Santificatore, onnipotente, eterno Iddio, e benedite a questo sacrificio al vostro santo nome preparato. »

Esposizione.

Abbiamo detto invita lo Spirito Santo, benché non lo nomini personalmente. Giova qui osservare, che le sante Scritture, per essere comprese dagli uomini, si adattano nelle loro espressioni alla piccolezza dell’umana capacità; e che nel linguaggio delle medesime, trattandosi colle due Persone, il Figlio e lo Spirito Santo, bene si pregano, invitandole a discendere dal cielo; ma non mai così col Padre, prima Persona, sommo Principio della Divinità (Ben. XIV, De suo. s., lib.1, cap. 10, n, 21). Egli si prega non già mai che venga; ma bensì, o che mandi lo Spirito suo, Emitte spiritum tuum, o che mandi ai suoi il Redentore, e l’agnello, che toglie i peccati del mondo; Mitte nobis redemptorem. Mitte agnum qui tollit peccata mundi. Se qui adunque si fa preghiera a Dio di discendere come autore di santificazione, intendere si deve, che s’inviti lo Spirito Santo. Egli, che con prodigio d’amore divino creò dal Sangue purissimo di Maria Vergine quel corpicciuol animato nel Bambino celeste; Egli rinnovi il prodigio di quella verginale maternità; e le sostanze del pane e del vino, restandovi pur le apparenze sensibili di pane e di vino, che sono le specie, trasmuti nella sostanza del Corpo e del Sangue di Gesù Cristo (Bossuet, Expl. de la Mess.), ed infonda l’anima della carità nella Chiesa, che gli si ha da incorporare (S. Fulgen. ad Mon., lib 2, cap. 9). Così fin qui gli uomini prima hanno sull’altare deposto tutto che per loro si poteva: poi col Sacerdote si son messi come altrettante vittime nelle mani di Dio; e finisce qui l’opera loro. Essi non operano più in là: hanno esaurita, per dir così, tutta la loro potenza. Adesso non rimane altro a far loro, che stare aspettando, che Dio voglia intervenire coll’opera sua. Ma qual sarà quell’uomo, che potrà fare che intervenga l’opera divina? Il Sacerdote, il quale dagli uomini assunto, viene per gli uomini costituito a trattare quelle cose, che devono essere trattate con Dio (Ad Hebr. V, l et seq.). Egli si prostrò già insieme col popolo in ispirito di umiltà e di contrizione; ora alza la sua voce, che sarà in cielo esaudita per la riverenza che si merita (Ibi.) il rappresentante di Gesù Cristo; e invoca lo Spirito Santo onnipotente, eterna virtù di Dio ad operare il gran prodigio. Fatta tale invocazione, nell’istante che attende l’opera di Dio, mette mano a profumare l’altare, ardendogli d’intorno i santi timiami per preparare, come può meglio il luogo, che deve essere onorato dalla presenza divina.