LA GRAN BESTIA E LA SUA CODA (13)

LA GRAN BESTIA E LA SUA CODA (13)

LA GRAN BESTIA SVELATA AI GIOVANI

dal Padre F. MARTINENGO (Prete delle Missioni

SESTA EDIZIONE – TORINO I88O

Tip. E Libr. SALESIANA

VII.

IL GRAN CIARLATANO.

Giovani miei, già incomincio a sospettare che la Coda voglia riuscirmi più lunga della BESTIA. A dir vero, gli è un argomento quel che ho a mano, che dà luogo ad esempi ed applicazioni senza numero. D’altra parte vi confesserò una mia debolezza: quando parlo o scrivo a’ giovani….. non so… mi pare anch’io ringiovanire, mi s’allarga il cuore, mi s’affollano le idee, e le parole, v’assicuro, non si fanno tirare. Ma bisogna che mi moderi, che rifletta, che non mi lasci trascinare. Mi proverò tutto quel che posso. –  Vi parlai nel precedente libretto del mondo che a taluni fa tanta paura, e dietro la scorta d’un predicatore alla buona, vi ricordate a che l’abbiamo ridotto. Ora aggiungerò: ciò che il rende imponente e pauroso agli animi volgari, sapete che è? La serietà, la franchezza, la prosopopea magistrale con che divulga ed espone i suoi dettami e le sue massime. Vedete quel ciarlatano sulla piazza; quanta gente gli s’accalca d’attorno! – E vedete come tutti stanno fissi, attenti, colla bocca aperta, e vevono  e bevono… che cosa ? un fiume di ciance e d’imposture.. — Ma possibile; tanto allocchi … Che volete? e’ le sballa con tanta franchezza! … – Così è il mondo, e vi bisogna star bene all’erta; miei cari giovani: quelle  ch’egli spaccia con maggior solennità sono per lo più le più solenni castronerie. Qui più che mal fa mestieri discendere alla pratica. – Vi ricordate. ancora di. Quel giovanottino infelice, che vi feci vedere  nella mia lanterna magica battersi con quel villan barbuto e lasciarci misero! la vita?… Ebbene, chi gli ebbe imposto in sì giovane e bella età un sì duro sacrificio? Il gran ciarlatano; il mondo. E che dicevagli il mondo? Che il battersi così era da generoso e da forte; ricusarsi., da vigliacco. Dio buono! che. stravolgimento!…. Ma prima di credere e lasciarvi imporre di sì bestiali dottrine… l’avete voi la ragione? Ebbene adoperateci un po’ su la ragione, e vedrete. Forse che il sangue umano è tal liquido, che lavi le macchie dell’onore?…. O non è anzi vero che il contaminarsene le mani è la maggior dell’infamie?… Va là, omicida; mi metti orrore! che per una parola, per l’insulto d’un momento, che solo fossi un po’ filosofo, ti saria stato “Come l’insulto di villana ‘auretta.;, d’abbronzato guerriero in sulla guancia”, non hai dubitato piantar una lama nel cuore del fratello. Orrore; orrore! Viassù! pasciti nella vista dell’infelice tua vittima; or che l’hai atterrata a’ tuoi piedi. Vedi come caldo sbocca da larga ferita il sangue! Bevi, saziatene, omicida!… guata quel volto pallido, quelle chiome arrovesciate, quello sguardo errante, quel lento boccheggiare; quel rantolo…. Ma sta; sentesi uno strido., un urlo prolungato… Dio; Dio! è una madre, una sposa; son bamboli innocenti che gridano vendetta… Tu fuggi? Ah lo senti ora, disgraziato! lo senti che se’ diventato un Caino!…. Or va e credi al mondo.  Pure il mondo per sì poco non si sbigottisce, e dopo tanti fiumi di sangue che ha fatto spargere colle stolte sue massime, freddo e tranquillo pur ripete: chi non si batte infame. – Vo’ smentirlo con un bell’esempio, che lessi, non ha molto, nella strenna d’ogni mese, che si pubblica a Firenze da un bravo e valente amico de’giovani La sera del dì 15 settembre 1846 in un casino di campagna presso Santiago di Cuba, cenavano allegramente col capitano inglese Starldey parecchi americani e spagnoli, che dovevano partire al domani con lui per la Giamaica; e come il capitano recava a quel viaggio parecchi negri da lui fatti liberi, cosa che quegli americani, fautori della schiavitù, vedevano di mal occhio, vennero con lui a tal questione; che presto degenerò in animatissimo alterco; a mezzo quale certo il De Pastro avendo lanciata una villana ingiuria contro lai Regina d’Inghilterra che vieta la tratta de’ negri, il capitano Starkley non poté più contenersi, e levatosi in furia e dato di piglio ad un bicchiere, l’avventò contro il De Pastro, dicendogli: Sciagurato! così parli della mia regina?…. Tutti si levarono in tumulto; il De Pastro faceva sangue dal viso: ma più che quella ferita gli cuoceva l’ingiuria; di che pensando satisfare all’onor suo, sfidò a duello il capitano. – Quella sfida parve a tutti (amici e devoti quali erano della BESTIA) la cosa più naturale del mondo, e non che opporsi, mostrando apertamente d’approvarla, chi si esibiva padrino, chi proponeva l’ora, il giorno, il luogo, fin l’armi. Anzi (a proposito dell’armi) vi fu lo zelante, che tratte fuori due pistole belle nuove e lucenti, le mise sulla tavola sotto gli occhi del signor Starkley. Il quale, mostrato il suo dispiacere d’avere in quell’impeto subitaneo ferito il De Pastro, e chiestogli scusa del suo trasporto: Quantoal duello, soggiunse, non posso accettare, perchè… perchè lo stimo, un delitto. — Perchè sei un vile! — gli ripicchiò furibondo l’avversario. A quest’insulto il capitano sentì come una vampa di fuoco salirgli alla testa, gli si oscurò un tratto la vista, e tremava come una foglia. Pur si contenne, e per quella sera non ne fu altro. Al domani egli era pronto sul suo vascello; il Nettuno, ad accogliere i passeggeri. Gli sfilavano davanti i commensali della sera innanzi e il guardavano con cert’aria di compassione. Il capitano dissimulava. Ma allorchè passando il De Pastro gli lanciò contro la seconda volta la parola vile, il capitano afferrollo pel braccio e con voce alta e concitata, che tutti e passeggieri e marinai poterono intendere: — Signor De Pastro (gl’intimò), vi prego a ricordarvi che qui son capitano; o rispettate la mia autorità, o vi metto agli arresti. – Di lì a poco dava il comando di salpare. Sul legno tutto era in ordine, regolarità, disciplina perfetta: il capitano era esperto del suo mestiere, e uso da lungo tempo a farsi obbedire. E già dopo pochi giorni di prospera navigazione, s‘avvicinavano all’ isola di Giamaica; quando di nottetempo, mentre i passeggeri tranquillamente dormivano, s’ode un grido: al fuoco! Al fuoco! — Tutti si levano in sussulto, salgono sulla tolda, veggono con spavento con ispavento levarsi da poppa globi di fumo misti a scintille; quindi un urlo prolungato, e pianto di femmine, e strillar di bambini, e correre qua e là, e chiedere l’un altro e cercarsi e urtarsi e chiamarsi. a vicenda … Ma ecco in buon punto farsi avanti il capitano Starkley, e con voce stantorea:— Fermi tutti; sentite. Il mozzo ubriaco appiccò il fuoco all’alcool; la stiva è in fiamme, né v’ha speranza d’estinguerlo; bisogna salvarci prima che il fuoco: giunca alle polveri. Qui un nuovo urlo di terrore. I marinai si slanciano alla scialuppa per fuggire. — Fermi, ho detto (ripiglia con voce tuonante il capitano); chi primo osa infrangere i miei ordini, una palla di piombo. — E mostrò la bocca della pistola: l’argomento fu efficace; i marinai tornarono al dovere. — Ora s’allestisca la scialuppa grande, ripigliò il capitano. E come fu pronta, piantatosi al luogo della calata con a foanco quattro de’ più robusti marinai: – vengano prime le donne, i vecchi ed i fanciulli. — I chiamati s’affollarono e mentre scendevano uno dopo l’altro n vietato nella scialuppa, s’ode in fondo al vascello un sordo scoppio e levarsi come lampo le fiamme. Tutti i passeggeri per un moto istintivo si precipitano verso la scala, il De Pastro tra i primi, che malamente urtando una fanciulla per poco non la trabalza nel mare. Il capitano lo respinse di forza con ambe le mani, e: — indietro, signor De Pastro! indietro tutti!…. Marinai, il primo che muove gettatelo in mare. – Così tornato l’ordine, aiuta a discendere le donne, e come la scialuppa fu piena: — tagliate la corda e andate al nome di Dio, voi siete salvi. Presto, l’altra scialuppa. — La scialuppa fu tosto pronta. — Vengano gli altri passeggieri. Signor De Pastro; venite pure, ora è la vostra volta. Il De Pastro gli passò davanti umiliato e confuso; i compagni che la sera avanti avean preso le sue parti, ora sfilavano davanti all’intrepido Starkley, quale stringendogli la mano, quale rallegrandosi con lui: — bravo, signor capitano! così va fatto. Voi siete un uomo! Ed egli: — non è tempo di complimenti. Lesti, scendete. E come vide piena e in salvo la seconda scialuppa: — Ora a noi (disse volto a’ marinai); è pronto lo schifo? — Pronto. — Scendete. Lo schifo era piccolo, i marinai vi capivano a stento. Potete ricevere ancora una persona? chiede loro il capitano. I marinai credendo dicesse di sé, benché lo schifo minacciasse far acqua: — Si, venga, signor capitano. — A queste parole Starkley si china, piglia di peso, come fosse un sacco, il mozzo briaco e addormentato che aveva appiccato il fuoco e porgendolo a’ marinai: — Giacché c’è posto, pigliate ancora questo disgraziato. — Consegnatolo; tira un respirone e: — Lodato Dio! tutti salvi. — E lei, signor capitano?…. gli chiedono i marinai impazienti di sferrare. — Basta; il mio peso vi farebbe pericolar tutti. Lesti, partite; e se incontrate qualche barca, avvertitela che qui ci ha ancor una vita da salvare. Lo schifo partì: il capitano rimase a guardar le fiamme che si levavano stridenti e vorticose all’altezza dell’albero, e sempre avanzandosi s’appressavano alla polveriera. S’aspettava da un istante all’altro il terribile scoppio, e raccomandavasi a Dio. Ma Dio vegliava sulla vita. del prode. Una barca che da lontano aveva scorto l’incendio giungeva in tempo a salvare l’intrepido capitano, che marinai passeggieri ed isolani accolsero con grida frenetiche alla spiaggia, come fosse un Dio salvatore. In quel momento certo non venne in mente a nessuno (neanche al De Pastro, ci scommetto) che il capitano Starkley fosse un vile. E voi, cari giovani, che ne pensate?

VII

DOPO IL DUELLO IL SUICIDIO.

Ora dirò d’un altro duello accaduto anni Domini in una città d’Italia nostra, che per dengi rispetti non si nomina.  Trovavansi a ciaramellare parecchi giovinotti in un caffè. Un bizzoso, di nome Federico, punto da non so che celia di Martino, lo sfida a duello, e Martino: — Accetto, risponde. Si fissa il dimani, ora, luogo, padrini… E l’armi? — L’armi, tocca a me la scelta (risponde Martino): le porterò dimani sul luogo. — Così intesi, si separano. Al dimani alle dieci del mattino in un pratello remoto chiuso di folti alberi all’intorno, irrigato da un canaletto d’acque limpide e freschissime, Martino se la passeggiava su e giù col padrino, aspettando il rivale; e novellavano tra loro di non so che, così lieti e spensierati, che nessuno avrebbe detto: son li per un duello. Di lì a poco arrivano parecchi compagni, anch’essi allegri e ridenti. Martino gli accoglie con festa li fa entrare in un folto di roveri li presso, e: — cheti (lor dice); appena vedrete rosseggiare «il primo sangue… siamo intesi. — Gli amici rispondono che sì, e s’appiattano. Martino si rifà daccapo a misurare passeggiando il campo, e non avea dato ancora due volte, che sì vide comparire, con al fianco il suo bravo, padrino, Federico; vestito a nero, con guanti bianchi, viso pallido, capelli rabuffati, occhi stravolti…. Poveraccio! ei non aveva chiuso occhio tutta la notte; agitato dal pensiero del duello, occupato a scriver lettere, ordinar suoi affarucci, stendere una specie di testamento e (cosa più ghiotta) certa letterina profumata…. che diceva così: — Un villano insulto da vendicare mi strascina a duello. Se soccombo, ricorda il tuo Federico, e che per non rendersi indegno di te, ha sacrificato all’onore la vita. — Giunto dunque sul luogo, e abboccatosi col rivale: — suvvia, l’armi! dimanda con feroce cipiglio. E Martino: — eccole!… e trae dalle tasche due salami lunghi un braccio. E come l’altro mostravasene scorrucciato; quasi di scherno: — Se queste non accetti (entra a mezzo il padrin di Martino) non potrai rifiutare quest’altre…. E presenta due bottiglie di Madera: — Oppure queste! Sottentra l’altro padrino, ch’era anche lui della cricca; e ne mette fuori due altre di Sciampagna. Federico, al vedersi così assalito, tradito dal suo stesso padrino, rimane allocco. I compagni nascosti, visto il segno del sangue, cioè il vino, saltano dalla macchia, traggono fuori anch’essi alla lor volta, chi pane, chi frutta, chi cacio, chi un bell’arrosto; e tutti dattorno all’eroe trasognato, si mettono a fare un diavoleto, che, volere o no, gli fu forza accettare quella nuova maniera di sfida; e così tutto finì con un’allegra merenda, sdraiati sull’erba, al rezzo delle piante, al canto degli uccelletti, al mormorar del ruscello… Che cosa volete di più poetico? non sarebbe proprio da farci un sonetto?… Provatevi; io ripiglio il mio discorso e dico che di certe massime storte la miglior cosa è farne commedia; e quanto più il mondo mostra spacciarle sul serio, più farsi animo a ridergliene sul muso. E quel che ho detto del duello s’ha ad intendere (chi ne dubita?) di quell’altra barbarie del suicidio, divenuta anch’essa, in questo che chiamano civilissimo secolo, purtroppo comune. E non dico già che l’umano rispetto ne sia la sola cagione: e c’entra senza dubbio e il bollimento delle passioni e la frenesia del godere, e il contagio dell’esempio, e l’estinguersi della fede… Che volete faccia, al sopravvenirgli di grave sventura, un miserabile, ché tenendosi bestia senz’anima immortale, aveva posto ogni sua beatitudine ne’ godimenti della vita? Davvero, dacché è infelice, o sel crede, non ha più ragione d’esistere costui: quindi padrone d’andarsene, la commedia è finita per lui. Ma il mondo in questo spaventoso moltiplicarsi di suicidi ci ha anch’egli la sua parte; che, oltre al predicar che fa: beati i ricchi! beati i godenti! e favorire le nuove dottrine che ci pareggiano al ciacco, applaude per lo più o il men che sia, scusa assai facilmente i vigliacchi che fan getto della vita. E apposta li chiamo vigliacchi, che non hanno coraggio a sostenere il peso della sventura; e li metto con que’ soldati che disertano il campo quando più ferve la battaglia, e incalza il pericolo. Questi soldati cosiffatti come li chiamate? vigliacchi e infami, non è vero? E infame e vigliacco è dunque il suicida. Domandatene a Virgilio, che addisse ad eterni cruciati coloro … Qui sibi lethum …. peperere mani, lucemque perosi, Proiecere animas. Domandatene. Dante che creava un cerchio del suo Inferno apposta per quelle anime feroci che da se stesse sî divelgono dal corpo, e le puniva incarcerandole in arbusti spinosi. Così la pensano i savi, così, d’ogni saviezza maestra, la Chiesa, che al suicida volontario, come a chi muore in duello, nega i pubblici suffragi e l’ecclesiastica sepoltura. Sebbene; quanto a Dante, se in leggendolo siete giunti almeno al principio del Purgatorio, vi avrà scandalizzato non poco, come accadde a me da ragazzo, quell’abbattervi nel suicida Catone, posto, lì dal poeta, quasi a guardia e custode del sacro monte. Ma non confondiamoci, giovani miei; l’idea che ha Dante dei suicidi si par chiara abbastanza dall’averli messi a dirittura tra’ dannati. Quanto a Catone, ci sta qui, non come persona reale, ma com’essere allegorico; convien quindi spiegarlo in conformità all’allegoria del poema; quell’allegoria, dico, cui Dante stesso accenna nella sua famosa lettera a Can Grande della Scala, quella che seguirono fedelmente gli antichi commentatori; ed è schiettamente religiosa e morale. Or secondo questa (ponete mente) Dante che, smarritosi nella selva selvaggia e aspra e forte n’esce con Virgilio a visitar l’inferno, ci significa l’uomo vizioso e peccatore, che atterrito alle funeste conseguenze del vizio, fa sforzo di levarsene per avviarsi al sentiero della virtù. Questo sforzo, il più bello e per avventura il più penoso che uom possa fare, ci è figurato in Dante medesimo, che tocco il basso fondo dell’inferno, s’appiglia alle vellute coste dell’immane Lucifero, e scende con Virgilio, … di vello in vello tra il folto pelo e le gelate croste; finché giunto all’anche del mostro, che rispondono al centro della terra quivi (vedete fatica di chi spogliasi il vizio e mutasi in altro uomo) … con pena e con angoscia, Volge la testa dove avea le zanche; e pur seguitando a salir pelo pelo, riesce all’emisfero di là, dove sorge il monte del Purgatorio, simbolo del cammino della virtù. Qui appunto a guardia del sacro monte, trova Catone, quel Catone, che, udita la vittoria di Cesare; né volendo soggiacergli, per amor di libertà si sciolse volontario dai legami del corpo. Di che potete facilmente scorgere, come questo suicidio catoniano ci sta qui, non propriamente per suicidio, ma come simbolo espressivo di quel nobile sforzo che ho detto, per cui l’uomo, dianzi vizioso, si libera dalla schiavitù del corpo e delle passioni, per volgersi a virtù e rivendicar. lo. spirito immortale alla vera libertà dei figli di Dio. – Menatemi buona questa digressione letteraria, a cui so io perché mi son lasciato andare, e mi rimetto tosto in careggiata.

QUARESIMALE (II)

QUARESIMALE (II)
DI FULVIO FONTANA
Sacerdote e Missionario
DELLA COMPAGNIA DI GESÙ

(Venezia, 1711. – Imprim. Michel ANGELUS Præp. Gen. S. J. – Roma 23 Aprile 1709)

IN VENEZIA, MDCCXI (1711)


PREDICA SECONDA


Nella Feria quinta delle Ceneri.


Si mostra quanto meriti di rimprovero, e di castigo un Cristiano che non corrisponde ad un sì santo nome con le opere.

Filii autem Regni ejicientur in tenebras exteriores.
S. Matt. cap. VIII.

Mala nuova! R. A. Si protesta Iddio, che il popolo a lui fedele sarà punito con castigo il più severo, che abbia preparato a’ suoi ribelli la Divina Giustizia, che vale à dire con un’inferno di pene: Filii autem Regni ejicientur in tenebras exteriores. Tutto bene mio Dio, né v’è chi possa opporsi a’ vostri Santissimi Decreti; bramiamo sol sapere la cagione di tanto sdegno; e non vi par giusto, replica Iddio, che Io debba adirarmi, mentre ritrovo più fede nel cuor d’un Gentile, che d’un fedele? …non inveni tantam fidem in Israel: Il mancamento dunque di fede volete punire con pene eterne? Fortunati noi; sento ogn’un, che dice, tali castighi non faranno fulminati ai nostri danni, perché a noi non manca la vera fede, godiamo del nobil titolo di Cristiano. Piano, non così dico io, perché non basta godere un sì bel titolo, ma a questo vi vuole la corrispondenza delle opere, e allora sarete esenti da’ suoi giusti sdegni. Contentatevi dunque, che io questa mattina vi mostri, che quanto fate bene a gloriarvi d’un si bel nome di Cristiano, altrettanto meritate di rimprovero, se non corrispondete ad un sì santo nome con le opere. Rallegratevi pure , miei UU. giacché con fronte aspersa d’acque battesimali, vantate il bel nome di Cristiani; Ah sì, sì, non vi è lingua, né d’uomo, né d’Angelo, che possa abbastanza spiegare la grandezza di chi porta impresso indelebilmente nell’anima il nobile carattere di Cristiano. Cristiano, sapete quello che vuol dire? vuol dire esser Principe del Sangue, non di Principi, non di Regi, non d’Imperatori della terra, ma del Sangue Divino. O che titolo sublime, o che nome glorioso è mai quello di Cristiano, nome veramente, ardirò di dire, sopra ogni nome. Fu pur stolto Sapore re di Persia; mentre, con vanto, non meno arrogante che bugiardo, era salito intitolarsi discendente delle Stelle, fratello del Sole e della Luna. Così appunto s’intitolò, quando scrisse all’Imperatore d’Oriente, Sapor particeps Syderum, frater Solis, Lunae. O che vanto spropositato; ma quando anche fosse stato vero, che gloria farebbe mai esser fratello del sole e della luna, mentre una formica, perché vivente, è più nobile senza paragone di tutte le Sfere, e di quanti pianeti ornano i cieli; Ah, che il vero pregio è l’esser Cristiano, egli è fratello del vero Sole di Giustizia, che è Cristo, Ille meus frater, soror est. Ma quanto fu stolto, miei UU. Sapore Re di Persia, altrettanto fu savio San Lodovico Re di Francia , il quale tanto si gloriava del bel nome di Cristiano, che era solito di soscriversi Lodovico di Poisy, perché in quella nobile Città era stato battezzato. Deh miei UU. date adito alla luce del Cielo, perché vi scopra la nobiltà di questo gran nome di Cristiano. Ah, che se voi daste ad una tal luce la via aperta, non andreste più in cerca di titoli mendicati in questo mondo, e chi li possiede nulla li stimerebbe, ma solamente si prezzerebbe questo titolo di Cristo, e questo solamente farebbe la nostra nobiltà, la nostra gloria, l’antichità della nostra famiglia. Volete meglio conoscere la grandezza di chi è Cristiano: datemi mente. Voi ben sapete, che quel che rende sommamente riverito lo stato d’un Primogenito Reale, sono quelle due prerogative, la nobiltà della nascita, e l’eredità che attende; e questi appunto sono quei pregi che rendono venerabile fino agli Angeli un Cristiano. Qual è mai, Dio immortale, la nascita d’un Cristiano! Taci pure o Poeta adulatore, non mi stare a dire a Cesare, nate sanguine Divum, nato dal sangue degli dei, poiché il tuo parlare non è altro che una svergognata menzogna. Non può esser nato dal sangue degli dei chi è nato dal sangue di peccatore. Il Cristiano sì, che può dire con verità d’aver sortito da Dio medesimo i natali, mentre è rinato nel Santo Battesimo, qui non ex sanguinibus, sed ex Deo nati sunt … Né solo questo nome di Cristiano porta a voi un sì bel pregio d’una nascita sì sublime, quanto l’essere figli di Dio, Filios Dei fieri; ma di più vi dà il diritto il jus alla eredità del Paradiso. Si filii, bæredes, hæredes quidem Dei. O Dio, che pregio è mai questo del Cristiano, essere in stato d’ereditare il Paradiso … Ma, a che serve essere insignito d’un sì bel nome, se poi non si corrisponde con le opere? Questo è appunto come avere una patente d’onore senza soscrizione e senza sigillo. Christianum esse, grida ad alta voce San Pier Damiano, magnum est, non videri, è grande, è sublime, dice il Santo, la gloria del nome di Cristiano; ma non è né sublime, né grande quando non vi sia altro che il nome. Non si merita, no, nome di Fedele, chi non vive una vita degna della sua fede; e se voi, miei UU. ne porterete il nome senza le opere, vi tirerete addosso i rimproveri di tutta la Corte Celeste; giacché, come asserisce Salviano: atrocius sub tanti nominis professione peccator. Ecco dunque, che contro di voi o Cristiani di nome e non di fatti, esclamano i Santi Patriarchi, e vi dicono: Noi, quantunque nati prima di Cristo, fummo Cristiani, come asserisce Sant’Agostino, non di nome, ma di fatti, re non nomine, e come tali eravamo tutti viscere di pietà verso del nostro prossimo, come tali, non ritenevamo rancori nel nostro cuore, come tali eravamo staccati da ogni affetto terreno; ma voi, che siete venuti al mondo in tempi tanto più felici de’ nostri, nati in seno alla Chiesa, nutriti col latte della vera credenza, nulladimeno avete sì bruttamente tralignato detta vostra nascita, siete vissuti tra gli odj, vi siete immersi negli interessi, seppelliti nelle difonestà; sì, sì, noi fummo Cristiani, re non nomine, ma voi lo siete di solo nome. Ah, che se potessero alzare la testa dalla loro tomba i fedeli della primitiva Chiesa; o questi sì, che vedendovi insigniti di quel nome da loro tanto stimato, vi rimprovererebbero atrocemente, dicendovi: voi Cristiani? Noi altresì fummo Cristiani, ma quanto dissimili da voi. Noi all’udir solo nominare il nome di Cristo, ci struggevamo di devozione, e voi col nome di Cristo prendete à sfogar le vostre rabbie, ad autenticar le vostre frodi, à ricoprir le vostre ribalderie: noi eravamo sì lontani dalle impurità, che più gran tormento si stimava l’essere strascinato ai lupanari, che l’esser dato alle fiere; e voi con i vostri impuri costumi contaminate tutta la vostra vita .. Che direbbero quei Padri di famiglia della primitiva Chiesa: Noi si direbbe fummo veri Cristiani, perché fu somma la cura, che tenemmo de’ nostri figliuoli e figliuole, ma voi? Che direbbero i mercadanti della primitiva Chiesa; le nostre compere, le nostre vendite, i nostri traffici eran tutti sinceri, non si vendeva da noi con giuri, con spergiuri; ma voi? Che direbbero i nobili della primitiva Chiesa? La nostra nobiltà ci serviva per proteggere la virtù, per opprimere il vizio, per sollevare il povero; ma voi? Che direbbero le donne della primitiva Chiesa: Non v’era in noi vanità, tutto modestia era il nostro vestire, modeste per le strade, modestissime nelle Chiese; e voi? Che direbbero finalmente gli Ecclesiastici della primitiva Chiesa? Direbbero: Il principal nostro pensiero, se presedevamo alle anime, era condurle à Dio; del patrimonio Ecclesiastico se ne facevan tre parti, alla Chiesa, ai Poveri, a Dio; per noi la peggio, sempre ritirati da bagordi, sempre oranti nelle Chiese, penitenti nelle camere; e voi? Che rispondete a questo rimprovero? bisogna dichiararsi convinti, e asserire, che siete Cristiani di nome, e non di fatti; e quando ardiste negarlo, presto, presto sareste convinti dal fatto, interverrebbe a voi ciò, che in altro proposito intervenne al Vescovo Bellovacense; uditene l’Istoria. Mentre gli Inglesi combattevano già in Francia, questo Prelato dimenticatosi delle sue proprie armi, che erano le Orazioni, si armò da Capitano: e combattendo con gli altri, rimase prigione del Re d’Inghilterra: Giunta questa nuova in Roma, Celestino Terzo, Sommo Pontefice, scrisse lettera efficacissima al Re vincitore; acciocché si contentasse di liberare il Prelato dalla carcere. Or sapete, miei UU. qual fu la risposta che il Re diede al Pontefice? Eccola; gli mandò, per spedito a posta, l’Usbergo, la Corazza, l’Asta, il Cimiero, e tutti gli altri arredi de’ quali era fornito il Vescovo prigioniero, con l’aggiunta di queste poche parole: Vide utrum tunica Filii tui fit, an non … quasi volesse dire: Santo Pontefice, voi mi chiedete la liberazione dalla carcere di un Vescovo vostro Figlio, ma v’ingannate: Quello che è mio prigione, non è vostro Pastor sacro, è un Capitano d’esercito, Vide, utrum tunica Filii tui fit, an non? Ah miei UU. che tanto appunto si può dir di voi; se voi vorrete opporvi al processo, che contro di voi hanno formato i Santi, con dire, che siete Cristiani anche di fatti, ecco, che senza replica vi convinceranno con la numerazione di tanti vostri peccati, in pensieri, in parole, in azioni indegne, ecco, che vi convinceranno con quella robba, che malamente possedete, con quelle lettere cieche, con quei memoriali iniqui che stendeste, con quelle macchine che ordiste per rovinare il vostro prossimo, e rivoltati con sommo sdegno verso di voi, vi diranno: Tu dici d’esser Cristiano? Mira, se queste sono le armi proprie d’un Cristiano; è questa la sopravveste d’un Fedele? è questa quella stola di cui fu vestita l’anima tua nel Battesimo, Vide, utrum…  No, che non è, e però, o spogliati di quel bel nome di Cristiano, o cambia i tuoi scellerati costumi, aufer Cydarim, tolle coronam, vi dirò anche io col Poeta; altrimenti questa corona sì bella non ti ornerà di vantaggio di quella che orni un re da scena colà nel teatro: Sarai chiamato Cristiano, ma per verità non sarai. Né qui finiscono le vostre disgrazie, o Cristiani di nome e non di fatti, perché a rimproverarvi s’uniscono i lamenti di Chiesa Santa, e le querele di Dio: Poveri voi, e che sarà di voi? Ecco le parole di Rut. al cap. primo, Ne vocetis me Noemi, sed vocate me Mara; lo, dice Santa Chiesa, quantunque sempre bella, e sempre santa, per la santità del Capo, che è Cristo, e per la santità di molte membra, che fono i Santi, i quali di continuo mi vivono in seno; ed è pur vero, che per la vita scorretta di tanti Cristiani, che col Battesimo in capo vivono indegnamente, non posso più chiamarmi bella, ma addolorata, ne vocetis me Noemi, sed vocate me Mara. Tempo già fu che le mie chiese eran rispettate, e sol vi si entrava per orare; ma ora non vi si sentono che cicaleggi, che novelle. Tempo già fu, che i miei Sacramenti eran rispettati; ma ora tal’uno si porta a questi con coscienza rea. Tempo già fu, che le mie Feste erano rispettate; ma ora le vedo profanate con giochi, con balli, con bagordi. Tempo già fu che nelle Feste non si poneva mano al lavoro, ora, e si lavora, e si vedon talora spalancate le botteghe ad ogni contratto. Tempo già fu, che i miei digiuni erano osservati; è giunta l’ora, che del tutto sono strapazzati; non si voglion vigilie, non si vuol Quaresima; e con mendicati pretesti strappan di mano de’ medici le licenze surretizie; Nolite, nolite vocare me Noemi, sed Mara. Questi sono i lamenti della santa Chiesa contro chi è Cristiano solo di nome, e non di fatti. Più terribili sono però le querele di Dio, uditele dalla bocca del suo Profeta: si inimicus meus maledixisset me, sustinuissem utique; se un Turco, allevato nel porcile della vile setta di Maometto, che altro paradiso non ha in cuore che il paradiso delle bestie, se questi, dico mi strapazzerà, avrà qualche ombra di scuse, da quelle tenebre d’ignoranza, nelle quali nacque. Se un Irochese mi vilipenderà sarà in qualche modo degno di qualche scusa perché nacque tra le selve, e fu allevato dalla madre, più da fiera, che da uomo; ma tu o Cristiano, tu vero homo unanimis, qui simul mecum dulces capiebas cibos dux meus, et notus meus; ma che tu m’offenda, o Cristiano, non lo posso tollerare; tu, che succhiasti col latte la vera Fede; tu, che avesti questa gran sorte; che tu poi ti sia scordato della tua nascita, ti sia dimenticato della tua dignità, e perciò ti sia dato ai piaceri, agli interessi, alle vendette indegne; e per soddisfare a queste, abbia voltate le spalle al Cielo, al Paradiso, alla mia grazia, a me. O questo sì, che non l’intendo. Io non posso capire, che qui nutriebantur in croceis, amplexati sunt stercora. E quel che è peggio, ed è purtroppo vero, tu in questo fango di peccati non vi sei caduto à caso, per tua malasorte; ma perché vi sei voluto cadere, non una, ma mille volte; e tra questo fango ti ci sei immerso per delizia, te lo sei stretto al seno per felicità, amplexatus es stercora; onde è, che da niuno meriti compassione, e perciò niuno ti ajuterà, quis miserebitur tui Jerusalem, quis contristabit pro te, quis ibit ad rogandum pro te … niuno, niuno, dice Geremia. O va’ pure misero Cristiano di nome, vedi, se ti torna conto vivere senza opere di Cristiano, mentre contro di te vien formato un processo sì terribile da’ Patriarchi, da’ Fedeli, dalla Chiesa, da Dio. Che rispondi? Taci, che a tua confusione sarai ripreso dalli stessi Gentili, che privi d’ogni lume di fede, che poveri d’ogni grazia di Sacramenti non però commisero delitti pari ai tuoi. Io, dirà uno Spurina; quantunque illustre di sangue, e vago di volto, perché mi accorsi d’esser ad altri d’inciampo, non guardai à deformarmi con più ferite il volto, ove restarono alte le cicatrici, volendo più tosto riuscir men vago, che men casto. E voi Cristiani, che rispondete? dice Sant’Ambrogio, che ne riferisce il fatto, converrà diciate, che con abiti pomposi, contanti affettati abbigliamenti altro non faceste, che dare alle anime incentivi più veementi d’iniquità. S’alzerà dalla tomba Anassagora, il quale quantunque nulla possedesse, salvo, che un piccolo podere paterno, se ne spogliò, per esser privo di questo ingombro, e però più spedito all’acquisto delle scienze umane. E voi Cristiani, che direte? Voi, che tutto l’affetto ponete nella robba. Voi, che ogni vostro studio mettete in acquistar di qua, scordati affatto d’acquistare per di là. Sorgeva dalle sue ceneri Torquato, il quale non avendo altro amore in terra, salvo quello verso del suo figlio, e figlio Console, lo volle morto, non per altro, se non per aver violata la militar disciplina, quantunque con esito prospero, felice, e vittorioso. Padri di famiglia, madri di famiglia, capi di casa, ma vuoti di cervello, quali rimproveri non sentirete voi da Torquato, merceché, con amor disordinatissimo amando i vostri discendenti, gli lasciate con la briglia sul collo, sicché si ricreino per ogni prato, per ogni via, per ogni casa, ne’ bagordi, nelle veglie, ne’ balli, ne’ teatri. Ecco Focione sì rinomato tra Greci, il quale vi fa sapere, come egli, quantunque avesse illustrato il suo nome con opere egregie, fosse condennato à morte per invidia de’ suoi maligni; Ad ogni modo, prima di bere il veleno, che doveva ucciderlo, ricercato da’ suoi amici presenti allo spettacolo qual fosse quel ricordo che egli per bocca loro volesse lasciare al figlio lontano, rispose tutto cuore, e intrepido: questo è il ricordo, che io gli lascio, e diteglielo, che si scordi delle ingiurie fatte a me suo padre, e a chi mi preparò su di questa tazza il veleno renda bene per male. Guardami in fronte, o Cristiano temerario, e a confronto di Focione inorridisci. Tu, che vorresti con i tuoi medesimi denti sbranare il cuor de’ tuoi nemici; né contento d’esser solo ad odiarlo, vuoi, che teco s’unisca il parentado, e gli amici, e che la tua nemicizia passi per eredità ne ‘ tuoi discendenti. O che rossore sentirsi rimproverar da barbari: Tu nato in grembo alla Religione, tu fra tanti oracoli di scritture, fra tante dottrine de’ Padri, fra tanti esempi de Santi, vivesti come barbaro? E noi ciechi à tanti lumi vivemmo con massime di Cristiano; a ragione esclama Cristo per San Matteo, Viri Ninivite surgent in Judicio cum generatione ista, condemnabunt eam. Lamentatevi pure, o mio Dio, che ne avete ragione; mentre quelli che doverebbero gloriarsi del bel nome di Cristiano, sono arrivati a segno, che se ne vergognano; Si vergognano si d’esser stimati Cristiani, che perciò s’arrossiscono di esser veduti lungamente genuflessi avanti gli Altari, ond’è che vi stanno con l’irriverenza d’un sol ginocchio piegato; peggio, con le spalle voltate al Santissimo; si vergognano d’esser veduti con l’officio, con la corona in mano, e perciò passano le ore nella Chiesa ciarlandovi. Si vergognano di frequentare i Santissimi Sacramenti, e perciò passano i mesi, per non dir gli anni, che non si prostrano a’ piedi d’un Confessore, e non si accostano à cibarsi del Pane degl’Angeli. Dio immortale, il turco non si vergogna a vivere da turco, l’eretico da eretico, il gentile da gentile, l’ebreo da ebreo, solo il Cristiano si vergogna di comparire da Cristiano. Non così fecero i Santi, che per comparir veri Cristiani diedero la vita. Lasciossi pure arrostir nella graticola un Lorenzo; tollerò pure un’Agata le mammelle recise; sopportò pure l’atrocità del ferro una Lucia, per apparir per quei Cristiani, che erano. Per tale pure volle comparire a costo di sangue svenato quella grande Eroina Santa Solangia, di cui ne narra l’Istoria il Padre Eschenio. Era questa una povera pastorella, priva bensì de beni di fortuna, ma tanto più ricca de’ doni della grazia, nata d’umili vignajoli nelle vicinanze di Berri d’Aquitania, ma di tal venustà, che difficilmente se ne poteva trovare una pari; più bella però era nell’anima, perché innocentissima, e ritirata da ogni ombra di vanità, devota oltremodo, ma specialmente verso la Madonna, a cui aveva consacrata la sua verginità. Guidava questa verginella un picciol branco di pecorelle, e allorché queste si pasturavano, ella, genuflessa sull’erba, s’immergeva nelle orazioni, e ben spesso s’udiva replicare Gesù Sposo mio, à voi consacro questo core. Una tanta luce di venustà e di virtù non poté star nascosta, e arrivò a notizia di Bernardo Conte di Berri, il quale fingendo di portarsi alla caccia, giunse al prato, ove la donzella, non molto lungi dalla sua gregge, genuflessa orava, e appena la vidde, che ne restò preso: scese prontamente da cavallo, salutolla cortesemente, e gli soggiunse, che ella non meritava sì vil mestiere; vi voglio contessa di Berri, vi voglio per mia sposa: dite, parlate. L’innocente donzella s’impallidì, si raccapricciò; indi con parole pesate, rispose: il mio Sposo è Gesù, maggior d’ogni re terreno. S’inasprì il Conte al rifiuto delle sue nozze, e la donzella si pose in fuga; seguilla il Conte, la prese, la gettò sul collo del cavallo; indi montato, dato di sprone, già la conduceva. Raccomandavasi in tanto a Dio la donzella; quando ecco, che nel passar d’un fiume, allorché il Conte pensieroso attendeva al guado, ella bramando più la verginità che la vita, si gettò nelle acque, e via guazzando si rimise in fuga; quand’ecco il perverso cavaliere infierito, disse: giacché non mi vuoi per consorte, m’avrai per carnefice: la raggiunte, e datogli un colpo sul collo, gli troncò la testa. Rimase in piedi quella verginella cosi decapitata, e prese in mano la tronca testa, e così la portò con egual prodigio di San Dionigi à depositarla nella Chiesa di San Martino, ove sepolta, fu glorificata da Dio con stupendi miracoli. Or questa sì, che volle comparir per Cristiana. Se bene, a che stancarmi per persuaderli a voler comparir per Cristiani; mentre nella mia udienza vi saranno di quelli che non solo non vogliono comparire per Cristiani, ma vogliono comparire a tanta forza per eretici, per Maomettani, per Ebrei, per Gentili; e di loro si può dire, fideliter credunt, gentiliter vivunt, perché vivono come se non vi fosse ne Inferno, né  Paradiso, né Giudizio, né  Anima, né  Dio; fideliter credunt, aggiungerò io, et Hebraice vivunt, perché sempre tra le usure, sempre con traffici illeciti, Fideliter credunt, et hebraice vivunt; si strapazzano le Chiese con enormi discorsi, si prendono sacrilegamente i Sacramenti, si vilipendono i Ministri dell’Altare, Fideliter credunt, et Maumetane vivunt, vivono da Turchi, con licenza brutale, senza guardare né  a sesso, né a condizione, né ad età. Passo avanti, e qui non mi fermo; e dico che Fideliter credunt, et diabolice vivunt, credono come Cristiani ed operano da diavoli. Piacesse al Cielo, che qui non vi fosse persona di tal sorte: quante volte avete distolto dal bene quel giovine; dissi poco, quante volte l’avete condotto al male; quante volte con perversi artifizi avete rovinata quell’anima. O Dio, Dio, che sarà di voi con un processo sì formidabile contro di voi. Le vostre scuse già le sento, non suffragano. Voi subito adducete ignoranza e fragilità; l’ignoranza non suffraga, perché à voi non son mancati predicatori evangelici, non libri, non padri spirituali; lo stesso Dio di continuo v’ha picchiato al cuore; se poi adducete fragilità, non nego che nella nostra creta, questa non vi sia, ma, perché non vi siete servito di ciò che poteva stabilirla, perché non siete stati lontani dalle occasioni, perché non avete frequentato i Sacramenti, perché non avete letto qualche buon libro? Siete voluti cadere a forza di volontà perversa; le vostre difese non valgono; onde non potete aspettarvi che sentenza di perdizione. Ricordatevi di quel che San Girolamo racconta di se stesso, che portato al Divino Giudizio, gli fu domandato chi era; rispose: Christianus sum, e sentì replicarsi, non è vero, Ciceronianus es; e per questo ne riportò percosse. Cristiani miei, allorché comparirete al Tribunal di Dio, e direte son Cristiano, no, sentirete rispondervi, perché non perdonaste le ingiurie; no, perché viveste tra tanti vizi; no, e così ne riceverete dannazione eterna.

LIMOSINA.
Chi è Cristiano, sa per fede, date et dabitur vobis, fate limosina, e non dubitate; e noi ci crediamo; appunto; si fanno limosine rarissime volte, quantunque la limosina sia di precetto in chi può farla, e non di consiglio. La vostra fede è morta, e non è viva.

SECONDA PARTE.

Quanti qui vedo, tutti siete bagnati d’acque battesimali, e perciò tutti Cristiani; e pure son costretto dire con quel nobile Cartaginese, allevato da giovine in Roma, allorché adulto vi tornò Ambasciatore per la sua patria; merceché trovando la virtù Romana decaduta dal suo antico decoro, esclamò, Romam video, sed mores Romanorum non video, vedo di nuovo Roma ma non vedo più i costumi de’ Romani; Christi fidem video, esclamo ancor io; sed mores Christianorum non video, trovo la fede di Cristo, ma non trovo la fede degli antichi Cristiani. Questi disprezzavano quanto era nel mondo di ricco, di specioso, di nobile, di dilettevole; e voi Cristiani d’oggidì, che fate tutto l’opposto, si vuole ogni contento, spassi, balli, ricchezze, e volete unire ancora alla Fede di Cristo le opere da demonio, che vale a dire sozzi piaceri, traffici illeciti; Christifidem video, sed mores Christianorum non video. – La fede, miei UU. ci fa Cristiani, ma le opere ci fanno buoni Cristiani. In Paradiso non ci vanno quelli che solamente sono Cristiani; ma bensì quelli che sono buoni Cristiani; è parola di Cristo, non omnis, qui dicit Domine Domine intrabit in Regnum Celorum, non entrerà in Paradiso, chi solamente invocherà il nome di Dio, sed qui fecerit voluntatem Patris mei; ma bensì chi farà la volontà di mio Padre, che vale a dire chi opera. O quanti sono quelli, che dicono molto, e nulla fanno; s’odono sempre le loro voci, ma non si vedono le loro opere; sciolgono la lingua, ma non le mani. A voi dunque, che avete la Fede di Cristo sol nella lingua, sol nella apparenza, e non nelle opere, predico la vostra perdizione, se non vi mutate; e ve la predico, come Tiburtio Senatore Romano profetizzò la dannazione di Torquato, quando rivolto a’ seguaci di Cristo disse loro: Voglia Dio, o Fedeli, che io non sia indovino: Torquato non morirà Cristiano; la sua fede è troppo discorde dalla sua vita; Egli è inimico delle astinenze, de’ digiuni, invece del Vangelo legge libri profani e dannosi, tutto è dedito al gioco, alle disonestà: Insomma, o fedeli; non vorrei essere indovino: Torquato non morirà Cristiano, perché la sua vita troppo discorda dalla sua fede; e infatti così fu, perché Torquato senza aspettare la violenza de’ tormenti, spontaneamente rinnegò Cristo; sicché, cacciato dalla comunione de’ Fedeli, morì apostata nelle braccia de’ demonj. – Voglia Dio, miei UU. che io non sia indovino di quanti qui siete, molti non moriranno nelle braccia di Cristo, ma si danneranno perché la loro vita è troppo discorde dalla fede che professano. Non morirà nelle braccia di Dio quella donna, che ad altro non attende che ad abbellire il corpo con ornamenti, ed ad imbrattar l’anima con vizj, che comporta, e lascia star la figlia con gli amanti, ma perirà tra i  demonj, se non si ravvede per tempo, e questo tempo non è nelle mani sue, ma in quelle di Dio, seco adirato; quanto dunque può temere di non averlo, se indugia; Perirà tra le braccia di Satanasso quell’uomo, che sta attaccato a quella mala pratica; perirà quel disonesto, quell’interessato, quel vendicativo, quello irreverente nelle Chiese, quel sacrilego, se non corrono ai piedi del Confessore con un vero pentimento, con un vero dolore. Perirà insomma ognuno, che avverrà i costumi simili a Torquato, perché simili nel vivere, simili altresì gli faranno in morte. Disingannatevi miei UU. Confessar Cristo con le parole, e poi negarlo con i fatti, è un mettersi nel numero infelicissimo di quelli che confitentur senosse Deum, factis autem negant; ed intendetela con San Gregorio, chi in Dio veramente crede, quello, che opera secondo quello che crede, ille solùm veraciter credit, qui exercet operando, quod credit.

QUARESIMALE (III)