DOMENICA IV DOPO PASQUA (2022)

DOMENICA IV DOPO PASQUA (2022)

(Messale Romano di S. Bertola e G. Destefani, comm. di D. G. LEFEBVRE O. S. B; L. I. C. E. – R. Berruti & C. Torino 1950)

Semidoppio. – Paramenti bianchi.

La liturgia di questo giorno esalta la giustizia di Dio (Intr., Vang.) che si manifesta col trionfo di Gesù e l’invio dello Spirito Santo. « La destra del Signore ha operato grandi cose risuscitando Cristo da morte » (All.) e facendolo salire al cielo nel giorno dell’Ascensione. È bene per noi che Gesù lasci la terra, poiché dal cielo Egli manderà alla sua Chiesa lo Spirito di verità (Vang.), per eccellenza, che viene dal Padre dei lumi (Ep.). Lo Spirito Santo ci insegnerà ogni verità (Vang., Off., Secr.), esso « ci annunzierà » quello che Gesù gli dirà e noi saremo salvi se ascolteremo questa parola di vita (Ep.). Lo Spirito Santo ci dirà le meraviglie che Dio ha operate per il Figlio (Intr., Off.) e questa testimonianza della splendida giustizia resa a Nostro Signore consolerà le anime nostre e ci sarà di sostegno in mezzo alle persecuzioni. Siccome, secondo quanto dice S. Giacomo, «la prova della nostra fede produce la pazienza e questa bandisce l’incostanza e rende le opere perfette », noi imiteremo in tal modo la pazienza del nostro Dio « e del Padre nostro », nel quale « non vi è né variazione né cambiamento » (Ep.), e « i nostri cuori saranno allora là dove si trovano le vere gioie » (Or.). Lo Spirito Santo convincerà inoltre satana e il mondo del peccato che hanno immesso mettendo a morte Gesù (Vang., Comm.) e continuando a perseguitarlo nella sua Chiesa.

Incipit

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Ps XCVII:1; 2
Cantáte Dómino cánticum novum, allelúja: quia mirabília fecit Dóminus, allelúja: ante conspéctum géntium revelávit justítiam suam, allelúja, allelúja, allelúja.

[Cantate al Signore un cantico nuovo, allelúia: perché il Signore ha fatto meraviglie, allelúia: ha rivelato la sua giustizia agli occhi delle genti, allelúia, allelúia, allelúia.]

Ps XCVII: 1
Salvávit sibi déxtera ejus: et bráchium sanctum ejus.

[Gli diedero la vittoria la sua destra e il suo santo braccio.]

Cantáte Dómino cánticum novum, allelúja: quia mirabília fecit Dóminus, allelúja: ante conspéctum géntium revelávit justítiam suam, allelúja, allelúja, allelúja.

[Cantate al Signore un cantico nuovo, allelúia: perché il Signore ha fatto meraviglie, allelúia: ha rivelato la sua giustizia agli occhi delle genti, allelúia, allelúia, allelúia.]

Oratio

Orémus.
Deus, qui fidélium mentes uníus éfficis voluntátis: da pópulis tuis id amáre quod prǽcipis, id desideráre quod promíttis; ut inter mundánas varietátes ibi nostra fixa sint corda, ubi vera sunt gáudia.

[O Dio, che rendi di un sol volere gli ànimi dei fedeli: concedi ai tuoi pòpoli di amare ciò che comandi e desiderare ciò che prometti; affinché, in mezzo al fluttuare delle umane vicende, i nostri cuori siano fissi laddove sono le vere gioie.]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Jacóbi Apóstoli
Jas I 17-21
Caríssimi: Omne datum óptimum, et omne donum perféctum desúrsum est, descéndens a Patre lúminum, apud quem non est transmutátio nec vicissitúdinis obumbrátio. Voluntárie enim génuit nos verbo veritátis, ut simus inítium áliquod creatúræ ejus. Scitis, fratres mei dilectíssimi. Sit autem omnis homo velox ad audiéndum: tardus autem ad loquéndum et tardus ad iram. Ira enim viri justítiam Dei non operátur. Propter quod abjiciéntes omnem immundítiam et abundántiam malítiæ, in mansuetúdine suscípite ínsitum verbum, quod potest salváre ánimas vestras.


[Caríssimi: Ogni liberalità benefica e ogni dono perfetto viene dall’alto, scendendo da quel Padre dei lumi in cui non è mutamento, né ombra di vicissitudine. Egli infatti ci generò di sua volontà mediante una parola di verità, affinché noi siamo quali primizie delle sue creature. Questo voi lo sapete, miei cari fratelli. Ogni uomo sia pronto ad ascoltare, lento a parlare e lento all’ira. Poiché l’uomo iracondo non fa quel che è giusto davanti a Dio. Per la qual cosa, rigettando ogni immondezza e ogni resto di malizia, abbracciate con animo mansueto la parola innestata in voi, la quale può salvare le vostre ànime.]

L’Apostolo S. Giacomo, detto il Minore, era venuto a conoscere che tra i Cristiani convertiti dal Giudaismo e disseminati fuori della Palestina serpeggiavano gravi errori, nell’interpretazione della dottrina loro insegnata, specialmente rispetto alla necessità delle buone opere. Inoltre, in mezzo alle tribolazioni cui andavano soggetti, c’era pericolo che riuscissero a farsi strada le vecchie abitudini. Per premunire contro l’errore questi suoi connazionali dispersi, e per richiamarli a una vita più austera, S. Giacomo scrive loro una lettera. In essa si insiste sulla necessità che alla fede vadano congiunte le buone opere. Si danno, poi, varie norme, perché tanto nella vita privata, quanto nelle relazioni sociali siano guidati da uno spirito veramente cristiano; e vengono confortati nelle loro tribolazioni. L’Epistola è tolta dal cap. 1 di questa lettera. Da Dio deriva ogni bene. Da Lui abbiamo avuto il dono inestimabile della vita della grazia, per mezzo della predicazione del Vangelo, parola di verità. Questa parola di verità ciascuno deve accogliere con prontezza, con semplicità, con spirito di mansuetudine.

Alleluja

Allelúja, allelúja.
Ps CXVII:16.
Déxtera Dómini fecit virtútem: déxtera Dómini exaltávit me. Allelúja.

[La destra del Signore operò grandi cose: la destra del Signore mi ha esaltato. Allelúia.]


Rom VI:9
Christus resúrgens ex mórtuis jam non móritur: mors illi ultra non dominábitur. Allelúja.

[Cristo, risorto da morte, non muore più: la morte non ha più potere su di Lui. Allelúia.]

Evangelium

Sequéntia +︎ sancti Evangélii secúndum Joánnem

Joannes XVI: 5-14

In illo témpore: Dixit Jesus discípulis suis: Vado ad eum, qui misit me: et nemo ex vobis intérrogat me: Quo vadis? Sed quia hæc locútus sum vobis, tristítia implévit cor vestrum. Sed ego veritátem dico vobis: expédit vobis, ut ego vadam: si enim non abíero, Paráclitus non véniet ad vos: si autem abíero, mittam eum ad vos. Et cum vénerit ille, árguet mundum de peccáto et de justítia et de judício. De peccáto quidem, quia non credidérunt in me: de justítia vero, quia ad Patrem vado, et jam non vidébitis me: de judício autem, quia princeps hujus mundi jam judicátus est. Adhuc multa hábeo vobis dícere: sed non potéstis portáre modo. Cum autem vénerit ille Spíritus veritátis, docébit vos omnem veritátem. Non enim loquétur a semetípso: sed quæcúmque áudiet, loquétur, et quæ ventúra sunt, annuntiábit vobis. Ille me clarificábit: quia de meo accípiet et annuntiábit vobis.

[In quel tempo: Gesú disse ai suoi discepoli: Vado a Colui che mi ha mandato, e nessuno di voi mi domanda: Dove vai? Ma perché vi ho dette queste cose, la tristezza ha riempito il vostro cuore. Ma io vi dico il vero: è necessario per voi che io me ne vada, perché se non me ne vado, non verrà a voi il Paraclito, ma quando me ne sarò andato ve lo manderò. E venendo, Egli convincerà il mondo riguardo al peccato, riguardo alla giustizia e riguardo al giudizio. Riguardo al peccato, perché non credono in me; riguardo alla giustizia, perché io vado al Padre e non mi vedrete più; riguardo al giudizio, perché il principe di questo mondo è già condannato. Molte cose ho ancora da dirvi: ma adesso non ne siete capaci. Venuto però lo Spirito di verità, vi insegnerà tutte le verità. Egli infatti non vi parlerà da se stesso, ma dirà tutto ciò che avrà udito: vi annunzierà quello che ha da venire, e mi glorificherà, perché vi annunzierà ciò che riceverà da me.]

OMELIA

(G. Colombo: Pensieri sui Vangeli e sulle feste del Signore e dei Santi; VI ediz. – Soc. Ed. Vita e pensiero.- Milano 1956.

« VADO A COLUI CHE MI HA MANDATO »

Finita la Cena, l’ultima Cena della sua vita terrestre, Gesù disse agli Apostoli tenerissime cose. E soggiunse: « Ed ora torno a Colui che mi ha mandato ». Non era la prima volta, quella sera, che il Maestro parlava di partire: durante la Cena, quando stavano mangiando l’agnello pasquale e poi dopo, al momento solenne in cui aveva consacrato il pane ed il vino, Gesù aveva lasciato capire che era giunta la sua ultima ora. Non aveva anzi mancato di accennare chiaramente che lo attendevano ore di persecuzione e di sangue. Eppure, nessuno dei suoi parlava. « Come? — disse Gesù — non parlate? Vi ho detto che vado a Colui che mi ha mandato e nemmeno uno di voi mi domanda: dove vai? ». Gli Apostoli erano tristi, molto tristi, perché presagivano cose oscure, ma nessuno di loro, neppure S. Pietro, neppur S. Giovanni, sapeva certo quello che stava per succedere; tuttavia, pareva non si dessero cura di conoscerlo dal loro Maestro. Era forse cosa da poco l’andare al Padre ed affrontare la morte? Per questo Gesù esce in un accento di dolce rimprovero; quella noncuranza lo feriva: almeno i suoi prediletti era giusto si interessassero della sua Persona! Gesù sapeva che non era una negligenza colpevole quella che rendeva gli Apostoli così taciturni: la eccessiva tristezza aveva fatto dimenticare quanto, in quegli istanti, era necessario chiedere. Noi, invece, proprio per colpevole negligenza ci dimentichiamo di chiedere a noi medesimi: « Dove vai? ». Anche noi, vedete, come Gesù, andiamo al Padre. Quando preghiamo, allorché ci rechiamo alla Chiesa e ci accostiamo ai Santi Sacramenti, siamo i figli che si avvicinano al Padre: la Chiesa, i Sacramenti sono fatti apposta per renderci sempre più figlioli degni del Padre Celeste. E questo è cosa da poco? Eppure quante volte andiamo in Chiesa, senza domandarci: « Quo vadis? ». Anche noi, come Gesù, siamo incamminati alla morte: e la morte è proprio cosa da nulla? Eppure, sono troppo rari i momenti in cui pensiamo ad essa. Quest’oggi il Signore vuol farci riflettere che alle cose importanti bisogna pensare di più. – ANDIAMO A DIO QUANDO CI RECHIAMO IN CHIESA. Mentre un reggimento di fanteria soggiornava ad Orléans, il parroco della Cattedrale aveva osservato che ogni giorno, nel pomeriggio, dalla una alle tre un soldato se ne stava, riverente ed immobile, in mezzo alla Chiesa. Dopo la genuflessione, era là ritto per due ore continue con lo sguardo al Tabernacolo. Si recò un giorno a visitar la Cattedrale un capitano, ed il curato gli raccontò la cosa. « Se aspetta pochi minuti, Ella stessa potrà vedere ». Scoccò l’ora, ed ecco giungere il buon soldato che si mette al suo posto. Il capitano lo guarda, lo riconosce, e chiamatolo a sè: « Che fai, a quel luogo? » « Due ore di sentinella al mio Dio » rispose con franchezza il soldato. « A Parigi i grandi Ministri hanno le loro guardie; qui il mio generale ne ha due, il colonnello una… e il Re dei re, Gesù Cristo, non ne avrà alcuna? Ci vengo io, per due ore, perché Gesù Cristo io Lo amo ». « Far la sentinella al Re dei re » ecco quanto dovremmo pensare quando ci rechiamo alla Chiesa. Proviamo a riflettere e forse dovremo dire che noi trattiamo Dio più male di una persona qualunque di questo mondo. Domandiamoci invece: « Dove vai? » e dall’interno del cuore ascoltiamo una voce identica a quella di Gesù: « Vado a Colui che mi ha mandato ». – Nella Chiesa, nel Tabernacolo c’è Iddio che mi ha creato a preferenza di molti altri che non videro e non vedranno mai la vita. Colui che ha fatto dal nulla tutte le cose, al quale ubbidiscono i cieli, la terra il mare è là nascosto sotto poche specie di pane. Ci vuole il rispetto! Ma soprattutto ci vuol l’amore, la confidenza, i sentimenti dei figli. Sì, perché le nostre Chiese racchiudono l’Amore infinito. Esse non devono sembrarci fredde ed oscure, ma calde e piene di soave raccoglimento, c’è il fuoco di Colui che è venuto per accendere la Vita; c’è la luce di Cristo che è Verità e Via ad ogni uomo che viene in questo mondo. Attorno agli altari di Dio pensiamo pure alle parole del Signore: « Tremate nel mio Santuario »; ma soprattutto pensiamo a Gesù che ci dice: « Venite a me, voi che siete affaticati! ». Saremo sentinelle di Cristo, non per forza, ma sempre solo per amore. – ANDIAMO A DIO, COLL’AVVICINARSI OGNI GIORNO ALLA MORTE. Si dice che a Pio IX sia capitato una volta di confessare un gran peccatore, che era venuto di lontano. Il Papa ascoltò difatti la sua confessione e fu edificato dall’esattezza che il penitente vi pose. Ma quando si trattò di dargli una penitenza, il forestiero non volle accettarne alcuna di quelle che il Santo Padre volle imporgli: nessuna gli andava a genio. Per digiunare era troppo debole; di leggere e di pregare non aveva tempo; gli affari poi gli rendevano impossibile qualunque pellegrinaggio. Il Papa allora ne pensò una bella. Aveva un anello d’oro con scritte queste parole: Memento mori! « Ricordati che devi morire! ». Lo volle regalare a quell’uomo ponendogli per penitenza che sempre lo portasse in dito ed almeno una volta al giorno leggesse e meditasse le parole che vi erano incise: « Ricordati che devi morire! » Contentissimo di una penitenza così leggera se ne andò quel penitente, ma di lì a non molto pensò lui stesso ad aggravare le sue mortificazioni. La vista di quell’anello lo penetrò talmente del pensiero della morte, che non cessava mai di dire: « Dal momento che sono condannato alla morte e dovrò presto ritornare a Dio, ciò che più importa è dunque fare una buona morte! Che cosa serve cercar di risparmiare ciò che la morte verrà presto a distruggere? ». Siamo stati creati da Dio ma qui sulla terra non dovremo starci sempre. Uno dopo l’altro andremo a finire nella terra del cimitero. Verrà un giorno che le campane suoneranno i mesti rintocchi per noi: una cassa, un funerale, qualche lagrima e poi … tutto quaggiù sarà finito. Ma se la morte fosse tutta qui ci sarebbe ben poco di male. Invece la morte ci porta al tribunale di Dio, e al cospetto di Cristo giudice dovremo rispondere di tutti i momenti della nostra vita. Saremo giudicati del male che abbiamo commesso e del bene che non abbiamo fatto. A quel Giudice giusto non sfuggirà neppure il minimo pensiero cattivo su cui fermiamo apposta la nostra mente; i peccati che avessimo stoltamente taciuto in confessione là saranno palesati e condannati. E la sentenza sarà irrevocabile: o l’Inferno per sempre, o il Paradiso per sempre. Se  è così perché non pensarci spesso? Perché non domandarci frequentemente: « Dove vai? ». Tant’è se la morte avanza inesorabile e, volere o no, bisognerà subirla: a che pro allontanarne il pensiero? Scriviamo allora se non sopra un anello d’oro, nella nostra mente: Ricordati che devi morire! Quando il desiderio dei danari tenterà di farti ribelle alla legge di Dio: Ricordati che devi morire! Se il fuoco delle passioni impure volesse bruciare qualche comandamento: Ricordati che devi morire. Se ti senti la smania di far bella comparsa e ti punge la brama di essere applaudito: Ricordati che devi morire! Soprattutto alla sera, quando, stanchi delle fatiche del giorno, ci corichiamo per prendere un po’ di riposo, ci accompagni il pensiero della morte. Verrà così spontaneo l’esame di coscienza sulle azioni della giornata e se mai ci fosse qualche cosa di male, un atto di dolore, un bacio al Crocifisso, il proposito di confessarci al più presto rinsalderà l’amicizia con Dio. Del resto noi siamo ancora nei gaudi pasquali: Cristo ha vinto, ha distrutto la morte. Ma questa vittoria non fu soltanto sua: con Cristo han vinto la morte coloro che gli sono uniti per mezzo della grazia: Se abbiamo nel cuore la grazia di Dio non abbiamo ragione di temere la morte. Essa è vinta; i vincitori siamo noi! – Quando saremo morti, ci porteranno qui, in chiesa, ed attorno al nostro cadavere i Sacerdoti ed i fedeli invocheranno la pace di Cristo e la preghiera dei Santi. Possano allora queste sante pareti parlar bene di noi al tribunale di Dio! Possa Gesù dal Suo Tabernacolo sorriderci ancora come nei giorni della nostra vita. Felici noi se in questa Casa di Dio avremo imparato la strada per giungere alla Reggia dei Cieli.

Quo vadis? Ogni Cristiano dovrebbe sempre rivolgersi questa domanda e poter dire con Gesù: « Io vado a Colui che mi ha mandato ». Invece quanti vivono senza mai pensare allo scopo principale della loro vita! Si dice che il poeta Aleardo Aleardi, dovunque andasse, portava con sé una bandiera per spiegarla ai piedi del letto ove dormiva, affinché i suoi occhi al primo svegliarsi potessero contemplare il simbolo del risorgimento italiano per cui egli aveva consacrato i suoi giorni e il suo ingegno. Se ogni mattina tutti i Cristiani richiamassero alla loro mente il fine della loro vita, anche le loro azioni sarebbero migliori. E se ogni giorno sventolasse davanti al loro occhi la bandiera dell’eternità a cui sono destinati, non perderebbero tanto tempo prezioso dietro alle vanità del mondo. Seneca, considerando l’affannoso correre degli uomini verso gli onori, i danari, i piaceri, quantunque non avesse fede, disse una saggia parola: « ludus formicarum ». E Salomone disse una parola più vera: « vanitas vanitatum ». E S. Paolo un parola più forte: « tutto ciò che non conduce al fine per me è una perdita, anzi è un’immondezza; io mi slancio verso la mèta segnata, e voi, fratelli, siate i miei imitatori ». Ad destinatum persequor (Filipp., III, 14). O Cristiani, avete meditato qual è il vostro fine? E se già lo conoscete, vi slanciate con tutte le forze, come dice l’Apostolo, trascurando ogni lusinga del mondo e sorpassando ogni difficoltà pur di raggiungerlo? Sono questi i due pensieri che sgorgano dal Vangelo e scendono oggi verso l’anima nostra: conoscere il nostro fine, tendere ad esso. Raccogliamoli. – CONOSCERE IL NOSTRO FINE. Quando Ottone III imperatore di Germania, sospinto dalla fama della santità straordinaria e dei miracoli che operava S. Nilo, si recò a visitarlo, gli offrì magnifici doni; ma il Santo, ringraziandolo umilmente, lo assicurò che nella sua povertà era così ricco da non bisognare di nulla. « Se non volete gradire i miei regali, — soggiunse allora l’imperatore, — almeno domandatemi qualche grazia, perché non si dica che un monarca sia venuto a chiedervi consiglio a mani vuote ». « Questo sì, — ripigliò il Santo, illuminandosi nel volto — questo sì! Ho una grazia, una sola e mi sta molto a cuore: pensate al vostro fine ». L’imperatore promise che avrebbe approfittato di quel ricordo. E fortunato lui, perché a ventidue anni appena, quando l’attendevano grandiosi trionfi politici, quando la sua promessa sposa, che veniva di Grecia, navigava verso l’Italia portandogli in dote tesori e terre, egli a Paternò moriva. Una grazia sembra che Gesù da questo Vangelo chieda a noi pure: pensiamo al nostro fine, perché troppo infelici saremmo se la morte ci sorprendesse mentre viviamo una vita senza scopo. Ma per conoscere il nostro fine è necessario prima conoscere il nostro principio. Donde veniamo? Questa vita chi ce la diede? Cento anni fa il mondo esisteva: ma vi erano gli uomini, le città, gli stati. Ma noi non eravamo ancora. Chi ci ha creati? Dio. «Le tue mani, o Signore, mi hanno fatto e plasmato tutto intiero ». Così è scritto anche nel libro di Giobbe (X, 8). Egli si è servito dei nostri genitori per darci la vita come si serve della terra per portarci, dell’aria per vivificare i nostri polmoni, dell’acqua per dissetarci. E infatti possono i genitori prolungare la vita dei loro figliuoli o impedirne la morte? No, perché non essi sono i creatori della vita. Ma se Dio è il nostro Creatore, noi siamo cose sue. L’utensile non è di colui che l’ha fabbricato con le proprie mani? E Iddio ci ha fabbricati con le sue mani dal fango della terra e ci ha soffiato sul volto un soffio di vita; perciò, Egli è il nostro padrone. Il campo non è di colui che l’ha comperato col proprio danaro e l’ha dissodato con il proprio sudore? E Dio appunto ci ha comperati col proprio sangue dalla schiavitù del demonio in cui eravamo caduti e ci ha santificati con la sua grazia; perciò, Egli è il nostro Salvatore. Ma perché Dio ha creato e redento l’uomo? Forse perché accumulasse ricchezze? L’avaro lo crede ma s’inganna. Forse perché insuperbisse negli onori? L’ambizioso lo pensa, ma cade in errore. Forse perché s’abbandonasse ai piaceri del senso? Il voluttuoso lo dice, ma si perde. No, Dio non ha potuto creare le cose che per se stesso. « Sono io il Signore — Egli dice — Io che ho creato i cieli e li ho distesi, che ho forgiato la terra e ciò che in essa germina; che dò il respiro a quelli che abitano in essa, e la vita a quelli che si muovono sopra di essa. Sono Io il Signore, tale è il mio nome, Io non darò la mia gloria ad un altro » (Is. XLII, 5). « Per me, per me solo opererò; ascoltami Giacobbe, ascoltami Israele! Sono io il primo e l’ultimo; io il principio, io la fine! » (Is., XLVII, 11-12). – Dunque l’uomo è creato per la gloria di Dio. Ma in qual modo possiamo noi dar gloria a Dio? Salvando l’anima nostra con l’osservanza dei comandamenti. Così, raggiungendo la nostra felicità eterna, noi raggiungiamo il fine ultimo che è la gloria di Dio. « Ascoltiamo tutti insieme, — dice lo Spirito Santo nell’Ecclesiastico, — l’ultima parola di ogni cosa: temi il Signore e osserva i suoi comandamenti perché questo è tutto l’uomo ». Hoc est enim omnis homo (Eccl., XII, 13). – TENDERE AL NOSTRO FINE. In una famiglia, il padre stava male. La madre angosciata manda il figlio di dieci anni a chiedere il medico. Il giovanetto parte. Mentre il malato si aggrava, si aspetta con ansietà, due ore, tre ore, quattro ore… e non arriva nessuno. Quando ritorna è già sera. « Figlio mio, — esclama la madre, — perché hai tardato tanto? È il medico, dov’è? ». « No, non l’ho veduto. — Risponde ingenuamente il figlio — Io ero partito per andare in cerca di lui; ma, strada facendo, ho veduto farfalle dalle ali bianche chiazzate d’oro e d’azzurro, e così belle che io non ho potuto trattenermi dal perseguirle di fiore in fiore, senza mai venire a capo. Per questo ho fatto tardi. Madre mia, quanto erano belle quelle farfalle! ». La condotta di questo fanciullo che si diverte a correre dietro alle farfalle, invece di cercare il medico per il padre agonizzante, ci desta un fremito d’indignazione. Ma ritorciamo contro di noi il nostro sdegno. Dio ci manda sopra la terra per trattare un affare importantissimo, anzi l’unico importante: si tratta di dare a Lui la sua gloria e di assicurare a noi la nostra felicità. Se ci comanda, è perché ne ha diritto, giacché noi Gli apparteniamo come cosa tutta sua. Orbene, che cosa facciamo noi spesse volte? Come quel fanciullo noi ci trastulliamo a correr dietro a farfalle tutta la giornata. In verità non sono come farfalle quei divertimenti, quei piaceri, quelle mode, quegli onori e tutti i beni effimeri di questa vita? Quo vadis? Dove vai? « A colui che mi ha mandato » rispose Gesù; e a Dio che ci ha creati, dobbiamo rispondere noi. Ma tende davvero al suo fine quel padre di famiglia che fa sentire tante cattive parole ai suoi figli nei momenti di collera, e che a loro non dà mai il buon esempio di accostarsi ai Sacramenti? Tende proprio al suo fine quella madre che alle figlie insegna più la vanità che il timore di Dio e che si fida di esse come se al mondo non vi fossero pericoli? Tende al suo fine quel giovane che non ascolta mai un po’ di parola di Dio e che non pensa ad altro fuor che a divertirsi nel giuoco e nei piaceri? Quo vadis? Ciascun di noi faccia i suoi conti, e interroghi se stesso, dove egli vada, correndo per quella strada che ha già intrapresa. –  Quando Loth doveva separarsi da Abramo, gli fu detto « Guarda tutta la terra d’intorno: tu sei padrone di scegliere la destra o la sinistra ». Loth alzò gli occhi e vide una contrada fertile, dolce, amabile, ridente, tal quale il suo cuore la sognava. Subito lasciò ad Abramo la regione che gli parve meno deliziosa ed egli con i suoi armenti discese in basso ad abitare i paesi di Sodoma. Et habitavit in Sodomis (Gen. XIII,12). Ben presto però, osserva S. Ambrogio, dovette pentirsi della sua imprudenza: sopra le sue terre vennero dei re nemici e lo fecero prigioniero; e appena riuscì a sfuggire dalle loro mani, ecco che una pioggia di fuoco discese dal cielo e distrusse le sue possessioni. È questo appunto che avverrà a molti Cristiani che nella vita han voluto scegliere la parte dorata e ridente dei piaceri e hanno trascurato la parte aspra del loro dovere. Il fuoco della morte distruggerà a loro ogni cosa. Se anche noi stiamo in questo numero e, dimenticando il fine per cui siamo stati creati, abbiamo soltanto pensato a vivere più comodamente che ci fosse stato possibile, oggi che la grazia di Dio ha aperto i nostri occhi, ripetiamo il gemito di Giobbe « … Signore! Dammi ancora un po’ di tempo perch’io pianga il mio sbaglio e lo ripari prima che mi tocchi d’andare senza ritorno nella regione tenebrosa e caliginosa della morte ». Antequam vadam et non revertar ad terram tenebrosam ed opertam mortis caligine.

.- « Quando verrà lo Spirito Santo convincerà il mondo quanto al peccato, alla giustizia, al giudizio ».Queste severe parole — che or ora ho letto nel Vangelo, — Gesù le pronunziòche si faceva già sera, l’ultima sera di sua vita terrena. Nel cenacolo grande, ingiro alla mensa stavano gli Apostoli: il Figlio di Dio, nel mezzo, parlava tristemente. Non gli restavano che poche ore, e poi l’agonia, la cattura, il processo, lamorte. Egli sapeva tutto ed esclamò: « È meglio che me ne vada; perché se non vo, non discenderà lo Spirito Santo: appena me ne sarò andato, ve lo manderò. Maquando Egli verrà, convincerà il mondo quanto al peccato, alla giustizia, al giudizio »Il peccato era quello dei Giudei che invece di riconoscere in lui il Figlio di Dio, lo  chiamarono ossesso; la giustizia era quella che il Sinedrio e il Pretorio avrebbero. conculcato uccidendo barbaramente l’innocente Figlio dell’Uomo; il giudizio era l’infame sentenza con cui il tribunale di Caifa e di Pilato avrebbe condannato alla croce. Gesù Cristo, sentenza così infame che non poteva essere provocata se non da satana, principe di questo mondo. Ma egli è già giudicato (Cfr.: J. LAGRANGE, L’Evangelo di Gesù Cristo, Morcelliana, pag. 515). Disse ancora il Maestro divino: «Lo Spirito Santo ben saprà glorificarmi ». Ille me clarificabit. E con questo pensiero, senza esitare mosse incontro alla passione. crudele, alle umiliazioni brutali, agli insulti demoniaci che il mondo gli aveva. preparato.Il mondo e lo Spirito Santo! il primo disconosce, accusa, condanna Cristo; ma il secondo rovescerà il mondo in eterna rovina e Cristo, per Lui, sarà difeso, amato e glorificato dagli eletti. A meglio farvi comprendere le parole del Vangelo, mi son posto in cuore di svilupparvi due pensieri: che cosa è il mondo e perché dobbiamo. fuggirlo. – CHE COSA È IL MONDO. Ritornato Cristoforo Colombo dall’America, tosto si diffuse in tutta Europa la notizia di quella regione meravigliosa ove i frutti ingrossavano fino a schiantar le piante per troppo peso, ove ogni montagna nascondeva oro e ogni fanciullo si trastullava con perle. Accorsero allora uomini bramosi di godimento e di ricchezza. Con molte lusinghe avvicinavano gli indigeni e, ingannandoli, barattavano campanelli, specchietti, trastulli con verghe d’oro e d’argento. E se taluno, più accorto, non voleva cedere la sua ricchezza vera per quelle cianfrusaglie, con violenza veniva costretto ed ucciso. Il fremito d’indignazione che sentite a tali ignobili scaltrezze e crudeltà, vi può aiutare a comprendere che sia il mondo. Il mondo è un mercato diabolico. Satana conosce che per i meriti di Gesù Cristo Salvatore, noi siamo diventati possessori di inestimabili ricchezze; conosce anche la nostra ingenuità che spesse volte ci rende simili agli antichi selvaggi d’America, incapaci a valutare i nostri tesori. Ed egli, il maligno e il rapace, s’aggira sulla piazza del mondo per i suoi infernali baratti: quanti per la passione d’un momento gli cedono la gioia eterna! quanti per un piatto di lenticchie, per un pugno di orzo, per un bicchiere di vino, rinunciano al convito divino del Paradiso! Quanti ancora per l’amicizia con una donna pericolosa, con un uomo scostumato, si distaccano dall’amicizia di Gesù!… Povera gente, apri finalmente gli occhi! Non vedi che il mondo fin ora non ha fatto che illusi, infelici, vittime? Non vedi che te pure tradisce con i suoi specchietti, con i suoi campanelli, con le sue cianfrusaglie di cui non una ti verrà buona nel momento della morte? Ma se proprio vogliamo farci un’idea del mondo, ascoltiamo la parola di Gesù: Nel mondo non c’è verità. « Pregherò il Padre che mandi a voi lo Spirito della verità, che il mondo non può né ricevere, né conoscere » (Giov., XIV, 17). Non meravigliatevi dunque se vedrete tante frodi e tante ingiustizie, se udrete tante bestemmie e tante eresie. Nel mondo non c’è amore: « Siccome voi non siete del mondo, il mondo vi odia: egli non ama che i suoi » (Giov.; XV, 19). Ma anche i suoi ama per rovinarli eternamente. Nel mondo non c’è pace. « Dono e lascio a voi la mia pace: non io faccio come il mondo! » (Giov., XIV, 27). Provate, Cristiani, a pensare quando avete gustato la pace vera nella vostra vita dal giorno della prima Comunione: forse dopo i divertimenti del mondo, forse dopo aver ceduto ai desideri del mondo? No! ma solo quando lontani dal mondo, vi siete stretti a Gesù con una buona Confessione e Comunione. Nel mondo non c’è salvezza. È certo che nessuno si può salvare, se non per Gesù Cristo. Or bene Gesù Cristo ha escluso il mondo dalla sua redenzione. « Per il mondo io non prego!» (Giov., XVII, 9). Il mondo dunque non è la società in cui vivete, ma quella parte di società che vive nemica a Cristo e al suo Vangelo: dimentica di Dio, aggiogata alle passione, inebriata di piacere sensuale. A parlare propriamente il mondo è l’armento di satana: satana n’è il pastore e il principe. – FUGA DAL MONDO. S. Anselmo, rapito in estasi; vide un giorno un immenso fiume che travolgeva tutte le immondizie della terra, di modo che nessuna cloaca si trovò più schifosa di quella. Sulle nere e schiumose onde della fiumana, trasportati in rapina, biancheggiavano molti cadaveri di uomini, donne, ragazzi, ricchi, poveri, coi ventri rigonfi di melma. Avendo il Santo domandato che significasse quella visione, così gli fu risposto: «Il fiume è il mondo; e gli annegati sono i suoi amatori ». Vivesse ancora S. Anselmo, la sua visione non muterebbe, anzi si presenterebbe più spaventosa. Per questo è mio dovere alzare la voce, e ripetere il grido del profeta Geremia: « Fuggite da questa Babilonia, se volete salvare l’anima vostra » (LI, 6). In questa fuga, vi conforteranno i seguenti pensieri: 1) L’amore di Dio e l’amore del mondo non possono coabitare in uno stesso cuore; non si può con un occhio guardare l’azzurro del cielo e con l’altro il fango della terra. O il dovere glorioso o il piacere vergognoso! O Cristo o satana! S. Paolo, S. Giovanni, gli Apostoli e i loro successori hanno sempre predicato contro il mondo, i suoi teatri, le sue danze, le sue feste; con grande fermezza respingevano ogni neofito che non avesse voluto rinunciare ai piaceri del mondo. Quanta fede, quanta forza noi ammiriamo in quei primi Cristiani che rompevano assolutamente ogni relazione cogli idolatri, sfidavano l’odio dei tiranni, la rabbia dei carnefici! O secoli dei martiri, quanto siete lontani da noi! 2) Non basta fuggire il mondo, ma ciascuno deve industriarsi di mettere nell’amore di Dio e delle cose pudiche e sante quella smania che prima aveva per le cose mondane e peccaminose. « Risanate il vostro amore; — esclama S. Agostino –  e quell’impeto che prima vi spingeva al mondo, ora vi trasporti al Creatore del mondo » (In Ps., XXXIV). 3) Non scordiamoci di essere stranieri e pellegrini sulla terra: «Io vi avviso o fratelli, il tempo è breve: quelli adunque che sono sposati vivano mortificandosi come se non lo fossero; quelli che piangono come se non piangessero; quelli che godono come se non godessero; quelli che comprano cose come se non possedessero; quelli che si servono del mondo come non se ne servissero: tutto passa e svanisce come un’ombra » (I Cor., VII, 29-31). – La regina Elisabetta d’Inghilterra aveva tra i nobili della sua corte uno splendido ballerino di nome Tommaso Pondo. Come egli danzava, tutti, in un delirio di applausi, gridavano: « Replica ancora la danza! Almeno una volta ancora! ». Ma un giorno era così stanco, che le forze non lo ressero ad un altro sforzo. Eppure anche la Regina diceva: « Replica! Replica! ». E Tommaso per compiacerla danzò; ma negli ultimi giri, la vertigine l’incolse. E cadde. Tutti risero. E la Regina disse anch’essa: « Alzati bue! ». Egli udì l’insulto: si morse le labbra e s’alzò. Al giorno dopo fuggì a casa sua lontano tra i monti: e più nessuno lo vide alla corte. Le ricompense del mondo sono sempre simili a queste. Fin tanto che la giovinezza, l’ingegno, il danaro ci sorreggono, mille lodi e mille sorrisi: ma appena una disgrazia, una malattia, un dissesto finanziario ci abbatte, non altro dobbiamo aspettarci che l’abbandono e l’insulto amaro: « Alzati bue! ». – « O mondo! — diceva un’anima piena di nobile sdegno — tu prometti ogni bene e non dài che mali; assicuri vita e rechi morte; annunci gioia e concedi amarezza: offri dei fiori, ma sono fiori sgualciti che avvizziranno senza lasciare frutto. Guai a chi si confida in te! felice chi ti contrasta! più beato chi può lasciarti senza ferita! » (Serm., XXX, nelle Op. S. Aug.). – « È necessario per voi ch’io vada; perché s’io non vado, il Paracleto non verrà » — Lo Spirito Santo non poteva venire prima della morte di Cristo perché gli uomini erano ancora schiavi del peccato originale; era necessario che Gesù morendo ci redimesse, affinché lo Spirito Santo, che non abita in un corpo soggetto al peccato, potesse venire in noi. « È  necessario per voi ch’io vada: perché vi possa preparare un posto, e quando lo avrò preparato, ritornerò da voi, e vi prenderò con me; e starete per sempre dove sarò io ». Noi in Paradiso, prima della morte di Cristo, non potevamo andare: era necessario che Gesù morendo entrasse per il primo e ce lo aprisse, perché anche noi dietro a lui vi potessimo entrare. Dunque, com’è stato buono, più che una mamma, Gesù. con noi! Prima di partire ha pensato a noi, per la nostra vita e per. la nostra morte. Per la nostra vita ci ha promesso lo Spirito Santo; per la nostra morte ci ha promesso che tornerà Lui a prenderci e a portarci dove Egli sta. Ciò che importa, adesso, è sapere quello che dobbiamo fare perché lo Spirito Santo abiti in noi in questa vita, e perché nell’ora della nostra morte venga Gesù a prenderci e condurci in Cielo. – PERCHÈ LO SPIRITO SANTO ABITI IN NOI. La Vergine siracusana, santa Lucia, fu accusata al governatore Pascasio perché rifiutava la mano d’un giovane idolatra. Essa si difese e disse: « Non ho promesso fedeltà a nessun uomo, ma solo a Dio ». Il governatore, adirato, comandò: « Fra i tormenti la si costringa a tacere! A lui rispose Lucia: « Le parole non mancheranno mai sulle labbra dei servi di Dio. L’ha detto Gesù: Quando vi troverete davanti ai re ed ai magistrati, non angustiatevi per le cose che dovete dire; lo Spirito Santo che è in voi vi suggerirà tutto » – « Dunque, lo Spirito Santo è in te? ». « Sì: coloro che vivono casti e pii sono templi dello Spirito Santo ». Allora il governatore maligno aggiunse: « Penserò a farti cessare di essere casta e pia e non sarai più il tempio dello Spirito Santo ». Ma la vergine, levate le mani e gli occhi al cielo, pregava. Ecco, o Cristiani: perché lo Spirito Santo abiti in noi è necessario vivere pii e casti. Pii: con la frequenza dei Sacramenti, con la preghiera in casa ed in chiesa. Casto: con l’onestà della vita, con la fuga dalle occasioni cattive, con l’amore alla propria famiglia. È vicina la Pentecoste, la grande festa che ricorda la discesa dello Spirito Santo sopra gli Apostoli: prepariamo i nostri cuori con una vita casta e pia. E se alcuno sentisse pesare sulla sua coscienza una grave colpa, si purifichi con la santa Confessione, altrimenti lo Spirito Santo non verrà in lui e non sentirà gli effetti della sua presenza. « Quando verrà lo Spirito consolatore — ha detto Gesù — egli v’insegnerà ogni verità ». Beate le anime caste e pie, perché da Lui saranno consolate! In ogni dolore, in ogni croce proveranno una soave dolcezza, perché lo Spirito Santo presente in loro, ascolterà ogni gemito e preparerà per essi una ricompensa eterna. Beate le anime caste e pie, perché da Lui saranno ammaestrate, e comprenderanno come tutte le cose di quaggiù non sono altro che un inganno, e non val la pena d’attaccare il cuore nostro ad esse. – PERCHÈ GESÙ RITORNI NELL’ORA DI NOSTRA MORTE. L’ora più terribile della vita è quella di nostra morte. Soffrire i mali dell’agonia che ci strapperanno stille di freddo sudore; chiuder gli occhi e non riaprirli più a vedere le persone e le cose amate; andar via da questo mondo senza portar via niente con noi, neppure un soldo, neppure un frustolo di pane; e non sapere dove si va e come sarà… Al di là della morte chi verrà a prenderci? Gesù o il demonio? Oh, se fossimo sicuri che verrà Gesù a condurci dove Egli è, a star sempre con Lui, a non morir più, a godere eternamente, come sarebbe dolce la morte! Sarebbe il termine d’ogni dolore, anzi l’inizio della gioia senza confine. Ebbene, Gesù ha promesso che tornerà a prendere i suoi discepoli per dare ad essi quel posto che si sono guadagnati in Paradiso. Quando il cappellano entrò nella stanza della santa di Lisieux morente, cercò di confortarla ad accettar la morte con rassegnazione. « Padre! — rispose santa Teresa, — non c’è bisogno di rassegnazione se non per vivere. A morire io provo gioia: perché Gesù stesso verrà a prendermi. E quando si è con Gesù non si muore ma si entra nella vita ». Beati quelli che muoiono bene! Morire bene: ecco lo scopo di tutto il nostro vivere. Ma noi sappiamo che nulla s’impara se non con l’esercizio e con la pratica Come s’impara a fabbricare? fabbricando. Come s’impara a morire? morendo. « Ogni giorno io muoio », diceva San Paolo; ed ogni giorno moriva al mondo, ai piaceri, alle lusinghe del demonio e delle passioni. Da questo si spiega com’egli potesse scrivere: « Io bramo di morire per trovarmi con Cristo ». Cupio dissolvi et esse cum Christo. «Io bramo di morire perché la morte è un guadagno per me » (Filip., I, 21,23). Sulla tomba di Scoto, filosofo francescano, fu scritto « Semel sepultus bis mortuus ». Fu sepolto una volta sola e morì due volte: la prima, mentre viveva facendo penitenza e rinnegando se stesso. Se vogliamo morir bene, anche noi ogni giorno dobbiamo imparare a morire: devono morire nella nostra mente i cattivi pensieri; devono morire sulle nostre labbra le parole cattive di bestemmia, di impurità, di odio, di mormorazione; devono morire nella nostra vita le opere cattive, solo deve vivere in noi la volontà di Dio. Solo così Gesù ritornerà a prenderci nell’ora di nostra morte. – Moriva un bambino di sei anni: s’accorgeva di morire, ma non aveva paura. Volgendosi alla mamma che singhiozzava, ingenuamente le chiedeva: « Mamma, domani, quando sarò in cielo e mi verrà sonno, Gesù a dormire mi metterà nella cuna o mi prenderà sulle sue braccia? ». Sulle braccia di Gesù tu dormi ora, o piccolo innocente! Ma anche noi se sapremo conservare il nostro cuore buono e puro come quello di un bambino, anche noi Gesù prenderà sulle sue braccia, nell’ora di nostra morte. E sia così.

IL CREDO

Offertorium


Orémus.
Ps LXV:1-2; LXXXV:16
Jubiláte Deo, univérsa terra, psalmum dícite nómini ejus: veníte et audíte, et narrábo vobis, omnes qui timétis Deum, quanta fecit Dóminus ánimæ meæ, allelúja.

[Acclama a Dio, o terra tutta, canta un inno al suo nome: venite e ascoltate, tutti voi che temete Iddio, e vi narrerò quanto il Signore ha fatto all’ànima mia, allelúia.]

Secreta

Deus, qui nos, per hujus sacrifícii veneránda commércia, uníus summæ divinitátis partícipes effecísti: præsta, quǽsumus; ut, sicut tuam cognóscimus veritátem, sic eam dignis móribus assequámur.

[O Dio, che per mezzo degli scambi venerandi di questo sacrificio ci rendesti partecipi dell’unica somma divinità: concedici, Te ne preghiamo, che come conosciamo la tua verità, così la conseguiamo mediante una buona condotta.]

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

Joann XVI:8
Cum vénerit Paráclitus Spíritus veritátis, ille árguet mundum de peccáto et de justítia et de judício, allelúja, allelúja.

[Quando verrà il Paràclito, Spirito di verità, convincerà il mondo quanto al peccato, alla giustizia e al giudizio, allelúia, allelúia]

Postcommunio

Orémus.
Adésto nobis, Dómine, Deus noster: ut per hæc, quæ fidéliter súmpsimus, et purgémur a vítiis et a perículis ómnibus eruámur.

[Concédici, o Signore Dio nostro, che mediante questi misteri fedelmente ricevuti, siamo purificati dai nostri peccati e liberati da ogni pericolo.]

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (2)

ORDINARIO DELLA MESSA

LO SCUDO DELLA FEDE (203)

LO SCUDO DELLA FEDE (203)

DIO GI LIBERI CHE SAPIENTI!. CI VORREBBERO FAR PERDERE LA TESTA! (6)

PER Monsig. BELASIO

TORINO, 1878 – TIPOGRAFIA E LIBRERIA SALESIANA San Pier d’Arena – Nizza Marittima.

§ III.

Il terzo inganno è il voler darsi d’intendere che gli uomini sono nati dalle bestie molti secoli e secoli prima che li creasse con amore Dio benedetto.

 (I PREISTORICI).

(2)

La parola preistorico vuol dire esistente prima della storia. In questo senso si posson dire quegli abitatori in mezzo ai laghi, preistorici per loro: perché essi non voglion credere alla storia dell’origine di tutti gli uomini. Già per tutte le nazioni che non credono alla Parola santa di Dio, i primi uomini che le formarono, debbono essere tutti preistorici. Poiché senza il lume della nostra santa fede, intendetelo, tutte e tutte le origini delle nazioni del mondo antico sono involte nelle tenebre tra le nebbie di incredibili racconti favolosi: e quindi quegli uomini che esistettero prima che si scrivesse la loro storia, sono per loro preistorici. Per noi credenti, grazie a Dio, non vi sono uomini preistorici in quel senso. Perché Dio stesso si fece scrivere da Mosè nella Scrittura Sacra la Storia del principio di tutto il genere umano. È inutile vantarsi di non credere. Ormai tutti i più dotti uomini del mondo colla loro giudiziosa e sana critica riconoscono che la Scrittura Sacra nostra contiene le più antiche memorie e tradizioni di tutto il genere umano. Fatta scrivere dal Signore molto tempo prima di tutte le vere storie del mondo. Essa sola dà il filo in mano che guida i dotti a cavarsela dal laberinto della confusione di tanti errori favolosi (Lenormand nel — Manuale di storia antica dell’Oriente — Opera coronata dall’Accademia di Francia). Sicché la Sacra Scrittura è il Libro che contiene più verità storiche antiche che non tutti libri, storie, frammenti, di tutta l’antichità. Essa sola ha il racconto dell’origine del mondo che più soddisfa la ragione. Le scoperte poi delle scienze lo vanno sempre più confermando.

Spez. Finalmente intendo anche io come in fatto non vi sieno stati mai uomini preistorici, prima cioè dalla Storia Sacra fatta scrivere da Dio. Il primo uomo che fu creato è Adamo, di cui ci è dato di conoscere la vera storia. – Ora a noi: che cosa si ha da dire adunque di queste abitazioni che già da tanto tempo erano in mezzo alle acque; e che si chiamano lacustri?

Par. Vi dirò che corsi anch’io a visitare quei laghi; e dovetti, come chiunque, essere bene persuaso, che quegli uomini che le costruirono in lontanissimi tempi, erano tutt’altro che selvatici. Mi pare anzi che vivessero proprio nei tempi stessi delle nazioni, di cui noi conosciamo la storia, come vi dirò. Avreste a vedere come furono ben costruite. In alcuna, come nel Lago di Zurigo, si contano fino a quattro mila travi conficcate in fondo al lago tra macigni ben gettati come si fa dai nostri ingegneri nelle costruzioni dentro il mare, per formarvi i moderni porti; sicché resistettero per migliaia d’anni a tutte le burrasche. Potete ben immaginarvi come sopra quelle palafitte dovettero sicuramente aver formato le travate e i parapetti, perché fino i figliuoli: almeno non sprofondassero nelle acque. E pensare che quegli antichissimi non avevano i nostri ferri, né gli altri stromenti! dovremo dire che coloro diedero prova di perizia, e son più da ammirare che i costruttori delle antiche città che avevano tanti mezzi. Intanto vi dirò che se son da dire preistorici e selvatici quegli uomini, perché costrussero le loro abitazioni in mezzo ai laghi, si dovranno da lor dire preistorici e selvatici quei signori che fabbricarono le delizie delle isole Borromeo; preistorici e selvatici fino i Vescovi che edificarono il Seminario sul lago d’Orta; preistorici e selvatici poi fino quei prodi Italiani che nelle lagune della Venezia fabbricarono sulle palafitte quei marmorei palagi per difendersi dai barbari come quegli antichi per difendersi dalle fiere e dai nemici di quel tempo.

Spez. Eppure quei miserabili ridon di Mosè e della Santa Scrittura.

Par. Ma il ridere di ciò che non si vuole studiare, perché non si vuole conoscere per non volere far bene, è segno di superba ignoranza e di corruzione del cuore. Tenete sempre in mente poi quel che vi dissi già, che coloro che non vogliono credere in Dio col vagare orgogliosi dietro alle lor fantasie, vanno a terminare in un abisso di confusione da non intender più niente. Invece, per la santa Parola di Dio è dato ai dotti veri di conoscere in fondo alle false religioni in cui furono confusi coi favolosi racconti, gli avanzi della verità che Dio aveva in sul principio fatto rivelare a tutta l’umana famiglia. Siccome poi quando una inondazione passò attraverso a un edifizio e lo rovinò, se si levano via le ghiaie e il fango di mezzo, si vedono ancora i ruderi che mostrano coi loro avanzi in qualche modo qual doveva essere in prima il bell’edifizio; così se si levano via dalle false religioni, dai lor racconti favolosi tutto ciò che gli ingannatori e la superstizione vi misero dentro di falso e di cattivo o di irragionevole affatto, si viene a conoscere e si deve ammettere che è vero ciò che racconta la storia di Mosè nella Scrittura Sacra dettata da Dio medesimo. Ma il Signore faceva raccontare la storia del genere umano, affine di far conoscere la storia delle sue misericordie, con cui voleva salvare gli uomini col mandare il suo Figliuolo, il nostro Divino Gesù; perciò, quando ebbe raccontato come Egli, il Signore castigò l’orgoglio di quegli antichi che pretendevano innalzare una torre, stolti! per toccar fino al cielo, colla confusione delle lingue, a quel punto cessa la Parola di Dio di raccontare la storia delle altre nazioni, e parla solamente in modo particolare del popolo ebreo, a cui affidava la promessa di venire a salvare il mondo, nascendo uomo nella famiglia d’Abramo. Delle altre nazioni dice solo: che si divisero e andarono in dispersione per le varie parti della terra. Come però narra ancora che tutta la gran famiglia del genere umano era divisa in tre rami dai discendenti dei tre figliuoli di Noè di Sem, di Cam e di Iafet; così la Parola di Dio dà ancor un filo per giungere in quella oscurità di tempo a capir qualche cosa della storia delle altre nazioni antiche. Ora tutte le scoperte che si van facendo da tanti secoli, provano proprio che i discendenti di Sem restarono nell’interno dell’Asia intorno alla torre di Babele, la Babilonia. I discendenti di Cam dall’Asia andarono diffondendosi nell’Egitto e nelle altre parti dell’Africa; mentre i figliuoli di Iafet emigrarono nei più lontani paesi, per estendersi nell’Europa nostra. Eccovi la ragione, che par giusta, per cui, massime presso agli abitatori dispersi in Europa, erano in uso stromenti ed armi, utensili di osso e di pietra; mentre tra i discendenti di Sem, di Cam che là fermatisi formarono subito grandi nazioni, erano in quel tempo stesso in uso le armi e gli stromenti di bronzo e ferro.

Spez. Dica, dica che io la spiegherò ai miei, che spero farà loro piacere ad udirla; perché quei miei buoni amici dicono sol quel che lor si mette senza pigliarsi la briga di studiare se sia la verità.

Par. Ebbene vi dirò quel che pare solamente ragionevole assai, perchéne abbian tante prove. Adunque i figliuoli di Iafet emigrando in lontani paesi forse prima di aver conosciuto come si lavorassero già i metalli, certo là sulle creste degli altissimi monti che dividono l’Eutopa dall’Asia, non trascinavano seco le fucine per fondere, e lavorare i metalli, né poi là avevan in pronto le cave conosciute da estrarli.

Spez. Questo mi par ragionevole e mi fa già intendere una qualche cosa.

Par. Quando poi si trovarono tra le montagne dove abitarono in prima, tra quelle orride foreste di cui vi sono ancora gli avanzi, là in quelle selve dei nostri in mezzo a quelle belve feroci, fu una bella grazia per loro aver trovato le caverne da rifugiarsi dentro e farne le loro abitazioni. Là trovarono in pronto le ossa da poter lavorare, con le pietre focaie da formar ancor ben affilati stromenti. Di metalli non vi dovette neppur venire un pensiero. E mentre abitavano in quelle grotte nella pace delle loro famigliole, facevano in osso ed in pietre quei loro lavoretti. Se ne trovano armi e utensili di cucina, anzi fin oggetti di lusso così belli che è grazia a vederli ancora nei nostri musei. Si direbbe che furono diligentati con amore e buon gusto d’arti. Quasi si direbbe che sin d’allora lasciarono in eredità l’arte di far quei gentili lavori ai Germani e Svizzeri de’ nostri dì, in legno ed osso. Per vivere poi insieme quasi in piccole borgate studiaron bene di costruirsi in mezzo all’acqua al sicuro le loro abitazioni lacustri. Per poco che, visitandole, vi giriamo in quelle col pensiero, come s’aggirano ancora gli Europei su quelle abitazioni e giardini pénsili che i Cinesi vanno estendendo sull’acque del mare. Che ne dite or voi? Eran barbari questi uomini, eran selvatici come gli orsi e preistorici da milioni di secoli?

Spez. La ringrazio; ella mi dice cose, che questa gente che non pensa mai bene, poiché dimenticato il catechismo che hanno gustato da fanciulletti, bevon giù alla grossa ciò che gli increduli dan loro ad intendere.

Par. Voi dunque potete a loro far capire chiaramente, che poterono quegli antichi abitatori della montagna usare le pietre per formarsi i loro stromenti; sicché si può chiamare in buon senso quel tempo, l’epoca della pietra; mentre nell’istesso tempo nelle nazioni dell’Asia e nell’Egitto in Africa si lavoravan già tanto bene i metalli. – Ne abbiam le prove più chiare che questi usi erano contemporanei nel gran Libro delle verità storiche più sicure. Diffatto, si legge egli è vero, che Abramo comprò una grotta da seppellirvi la sua Sara; ma vi sborsò fin d’allora sicli d’argento ben sonanti. Sefora moglie di Mosè, poi Giosuè, usavan nel circoncidere i coltelli di pietra; ma Mosè nello stesso tempo scelse gli artisti più stimati per lavorare il bronzo, l’argento e l’oro pel Tabernacolo di Dio. Anche Davidde non sapeva usar altr’arme che i sassi del torrente; ma Golia aveva la spada con cui Davidde gli tagliò la testa. Eppoi eppoi anche ai di nostri, salite sulle cime degli Appennini, là vedrete. che quei buoni montanari han tutti gli utensili di legno, di osso e fino le pentole di pietra; ma dalla vetta dei loro monti potete veder Genova, in cui si lavora l’oro e l’ argento a finissima filigrana. Immaginatevi adesso che un figliuol di quei mandriani, mandato a Genova alle scuole, diventasse fino un gran ministro dello Stato. Se costui ritornasse poi al nativo monte per respirare aria più pura, la sua cugina pastorella, a lui solito a centellare il caffè in dorate porcellane, presenterebbe il latte con bel garbo in una ciottola di legno. Ebbene, potranno dire coloro che la pastorella è preistorica o almen selvatica?.. Però se avessi da dir io qual è fra questi due la persona di più pulita civiltà… non esiterei un sol momento!… Non è dunque da credere che le epoche della pietra, del bronzo e del ferro fossero divise da secoli l’una dall altra; quando abbiam tante prove che eran contemporanee.

Spez. Oh! che le spiegassero un po’ bene, massime nelle nostre Scuole Tecniche, queste cose, se però prima le avessero studiate i maestri! Verrebbe su la nostra gioventù ben più sodamente istruita, e quindi meglio educata! Ma son tanto nuove per noi queste osservazioni, che vorrei mi faceste ancor meglio intendere come queste tre epoche, che si menan sempre per bocca da chi meno profondamente studia, potessero esser vicine, anzi, come avete detto, contemporanee in diversi luoghi.

Par. Potrei darvene le tante prove; ma vi dirò che si provano ravvicinate queste epoche da tante scoperte, di cui mi accontenterò di accennarvi almeno le principali, fatte nella nostra Italia. La crosta terrestre continuamente si muta. Le alluvioni e le eruzioni dei vulcani ebber coperto le tante volte di nuovi strati di terra i terreni primitivi. Ebbene, nella caverna detta di Tiberio tra Imola e Faenza, sì eran trovati cocci di vasi mal composti e mal fatti; mentre sì sarebbe detto da chi ha la smania di gridar subito: ecco una prova contro la Storia di Mosè; ecco le prime prove di quegli uomini che cominciavano appena ad incivilirsi; poiché vi si son trovati fin cultri di selce. Ebbene si trovarono subito appresso antiche monete romane, anzi anche una statuetta di bronzo! Si direbbe poi che la Provvidenza abbia voluto conservare sotto depositi alluvionali vicino al lago Sabbatino un vero piccol museo, per mostrar come tanto si avvicinano le tre epoche tra loro. Si trovarono degli oggetti in ordine di tempo deposti. Dalle acque. In basso stromenti di selce lavorati, poi oggetti di bronzo, poi anche monete ben coniate, fin monete e vasi dei tempi dei romani imperatori. Ora dirassi che gl’imperatori romani fossero preistorici?… Però dovranno credere anche gl’increduli che sieno nati un qualche anno almeno dopo Adamo! – Tenetelo ben fisso in mente che tutte le scoperte col tempo vengono sempre a dimostrare la verità della nostra santa Religione; e così le vere scienze e il tempo vanno sempre a terminare per render più splendido il trionfo della nostra santa fede. Voglio aggiungere una osservazione tutta mia, ed è: che siccome nelle abitazioni lacustri, nelle alluvioni, e sotto le eruzioni vulcaniche si è trovato che l’uso della pietra, poi del bronzo e poi del ferro erano così vicini nel tempo: così quegli oggetti sono prova che i così detti tempi preistorici erano vicini assai agli storici contemporanei. Ecco un anello fra loro. Bene appare questo da una scoperta di un’abitazione lacustre in questa Lombardia, in cui si sono trovati fino ami, aghi, una spilla di ornamento. Laonde vorrei dire: che per la vicinanza della Toscana, queste nostre provincie, gli antichi abitanti delle montagne e dei laghi nostri furono dei primi ad avvicinarsi ai Pelasgi, e agli Etruschi. Tra lor trovato l’uso di quel metallo, se ne sarebbero provveduti degli oggetti più utili pei laghisti, gli ami e i primi oggetti di lusso per le lor donne. — Pregheremo il Signore di concedere che si vada innanzi nelle scoperte; perché è vicino il tempo in cui i loro tempi preistorici diverranno storici anche per loro, come sono storici per grazia della Parola di Dio tutti i tempi del genere umano. La santa Religione nostra sola ha la storia dell’umanità; e per saper qualche cosa bisogna cominciare a credere in Dio.

Spez. Permettetemi ancora questa. Mi mostrano stampato che ancora adesso vi sono degli uomini che restarono sempre selvaggi; e che quindi tali bestie-uomini sono di una razza alle bestie superiore appena per un grado: e che i tentativi di noi uomini per farli più civili finiscono collo sterminarli.

Par. Amico! fa troppo male al cuore che quei nostri a noi sì cari sempre lontani dalla Chiesa senza mai una parola che loro inspiri un buon pensiero, leggano tutto che si manda per le stampe a loro dinanzi, colla più fina astuzia preparato per ingannarli; e poi lo dicono su alla spensierata. Così le povere pecorelle lontane dal pastore pascolano le erbe avvelenate ed appestano anche le altre! Lasciatemi sfogar del cuore: mi salgono le fiamme dello sdegno al volto nel leggere in certi libri che si fan girare in mano a tutti, sotto una scienza apparente con maligna moderazione come si danno orribili insegnamenti. Anche voi lo avete detto, che si vuol far credere che vi sieno razze d’uomini selvaggi poco diverse dalle bestie, e di un grado appena superiore, e come una razza degli altri mammiferi un po’ più fina. Oh i tristi! altro che abolire ai nostri dì, si potrebbe metter su la schiavitù più dura; e questa loro teoria giustificherebbe le più atroci crudeltà! E perché i Romani credevano poter fare sgozzare a lor dinanzi nei conviti l’un coll’altro i loro servi? ed ahi! al misero che cadeva trafitto barcollando, dicevano col bicchiere in mano: «Fatti in là, bestia, che non mi brutti la tunica di sangue!… » È perché leggevano scritto nei loro libri, come in questi libri ai nostri di, che gli schiavi eran d’una razza diversa inferiore alla nostra! Perché quei pagani crudelmente cavavano fino gli occhi agli schiavi, affinché facessero girare più quieti le loro macine da mulino? E perchè insegnavano nelle scuole che gli schiavi erano cose, e come bestie da lavoro! Se quei poveri selvaggi fosser bestie solo d’una razza un po’ più fina, potranno dunque i celada (chiamano celada quei pezzi di galera, udite, udite, che me lo raccontano tante volte i moretti e le morette riscattati) potranno quegli orribili celada andare a dare loro la caccia tra le povere capanne e sulle rive dei ruscelli, abbrancar per la gola quei poveri fanciulletti, e pigiarli dentro un sacco per portarli a vendere sui mercati di carne umana! Eh via! che la scienza moderna di quei tali scrittori insegnerebbe che sono scimmie di una razza un po’ più fina! E quegli uomini scampa-forche, che si dicono mercanti della tratta degli schiavi, possono ancora sguinzagliare alla vita dei selvaggi i grossi cani, per raccoglierli a torme in sulle spiagge e stiparli nelle stive dei bastimenti, e così far buoni affari! Ahi! che l’intendon la lezione certi padroni che fan lavorare i poveri sudditi nelle campagne senza lasciare un dì di festa da sentirsi dire che anch’essi hanno ancora un Padre in cielo! E si Stampa sopra un libro: che questo è il risultato della scienza! Ah! maledetta questa scienza, con cui forse si vuol preparare il popolo a lasciarsi trattare come le bestie… Se questi empi la vincessero, non credendo né a Dio, né all’anima, né alla povera umanità, potranno ammazzarci come bestie! E potran fare!… (vel voglio dire: quel che fecero coloro che nella grande rivoluzione passata proclamarono che non esiste Iddio!…) potranno far conciare certe pelli!.. come più morbide di tutte quelle delle bestie di una razza alla nostra inferiore! E ci dicono che scrivono da filantropi per istruire il popolo!

Spez. DIO CI LIBERI DA QUESTI FILANTROPI!  FAN L’AMORE AI POPOLI.. COI DENTI! … Ma in quei libri si dà per certo che molte orde di selvaggi sono tali per natura sempre state per tutti i secoli selvatici d’allora che apparvero sulla terra.

Par. Vedete come la danno da bere a coloro che pretendono d’essere istruiti senza avere studiato, e credon tutto ciò che leggono nei libri stampati apposta per ingannarli! Le tradizioni, le storie, i monumenti e tutto dimostra, che quel miserabile stato di selvatichezza in cui si trovano, è uno stato di decadimento. – Questi poveri. popoli selvaggi conservano ancora le memorie dei loro antenati, che erano tanto più di loro civili: cui tengono sino come figliuoli dei loro sognati Dei. – I nomi poi conservati dalle storie degli antichi regni tanto fiorenti in quei paesi, in cui van ora vagolando misere nazioni mezzo selvatiche, mostrano che in prima furono fondati proprio fin dai figliuoli di Noè, come la santa Scrittura ricorda. I Persiani, detti anche Elamiti, discesero da Elam, gli Assiri da Assur, i Lidii da Lut, tre figlivoli di Sem. Da Canan gli antichi Cananei, da Misraim gli abitanti d’Egitto, detto anticamente Misraim; gli Etiopi, detti anche anche Cussiti, da Cus, figliuoli di Cam. I quali discepoli di Noè eran tutt’altro che selvatici, ma erano colti di quella civiltà primitiva, che si mostrò così grande nelle grandi opere eseguite subito nei primordi dei loro regni. Diffatto, in Asia nel nostro tempo i Persiani e gli Arabi nell’Africa, gli Etiopi ed anche molti Egiziani, van errando sui ruderi di antichissime città e rizzano le lor catapecchie sui palazzi e templi, le cui grandiose rovine si van tuttora scoprendo; e quando gli Europei scoprirono il Nuovo Mondo, si credeva che le orde di quegli indigeni fosser sempre state selvagge; ma si scoprirono e si scoprono ancora presentemente gli avanzi di antichissime città e dimostrano come gli Americani selvaggi, ora è ormai certo, discesero dagli Asiatici dell’antichissima civiltà. Questi, e si può dire tutti i popoli selvaggi, adunque sono decaduti da una primitiva ed antichissima civiltà.

Spez. Ma com’è adunque, mi diranno, che son diventati selvaggi così?

Par. Son contento che me lo domandate, poiché mi porgete occasione di dirvi cose che mi pesano sul cuore. Sono tre le cause che fecero e che farebbero diventar selvaggio tutto il genere umano, se non lo conservasse civile la bontà di Dio. La prima è pur troppo il perdere l’idea di Dio Creatore e Padre, che creò gli uomini per farli seco beati. La seconda, la tirannia dei conquistatori. La terza, la corruzione dei costumi. Voi siete uomo di buon giudizio; e lascio pensare a voi a queste tre cause se non fan diventare peggio che selvatici anche certi increduli dei nostri dî, che par sentano tanto la brama d’imbestialirsi, affannandosi a far credere che siamo figliuoli di bestie.

Spez. Ma perdonatemi; essi si mostrano filantropi e compiangono i poveri selvatici perché non si possa render migliore la lor condizione; poiché tutti i tentativi per civilizzarli, non fanno che sterminarli.

Par. Ah che dite? tutti i tentativi! Vi dirò io quali si fecero e si fanno tentativi da certi filantropi, per civilizzare i poveri selvatici! Quando questi filantropi mercanti toccano qualche spiaggia abitata da’ selvaggi, la prima cosa vi fabbrican i loro forti per pigliar di là il possesso del paese; e se quei miserabili abitanti accorrono a difender le loro terre, predicano loro la civiltà da’ fortilizii colla bocca dei cannoni. Con quei terribili catechisti, come v’ho detto, che sono i lor grossi mastini, invece di raccoglierli intorno ad una cappelletta (come facevano quei monaci nostri per ammansare i barbari in Europa che convertirono nelle più civili e floride nazioni del mondo) li spinsero sui bastimenti per poi venderli in sui mercati. Quando appena poterono comandare, a far subito leggi per togliere ai selvaggi il possesso dei loro terreni che coltivavano alla meglio… misero fino la taglia: « Avrà tanto di mercede chi porterà la testa d’un Indiano; »  e si spesero delle grandi somme per toglier quelle teste, invece di farle battezzare. Ah! sì, che vel dico io, che con questi tentativi non si fece che sterminarli. Deh! si lascino almeno andar in pace i Missionari di Gesù Cristo, e non si corra appresso a perseguitarli sin in mezzo alle Missioni! Dite anche ai vostri signori che li aiutino almeno colle loro preghiere. – Quando adunque vediamo stampato che, p. es., gli Indiani dell’America hanno un carattere selvaggio e fiero, che resistono a tutti i tentativi di civilizzazione, noi gridiamo altamente: è indegna questa ingiuria fatta a quei poveri nostri fratelli che sono ancora selvaggi. Se con certi tentativi non si fa che sterminarli, vi sono altri tentativi che danno i più consolanti risultati. Più che tutte le spedizioni commerciali e le scientifiche; più che tutte le colonie stabilite da avventurieri trafficanti, ha potuto un povero frate, san Francesco Solano. Ma egli non andava tra i selvaggi a rubare il loro oro, ma offriva tutto se stesso, e col coraggio da eroe per proteggere i suoi convertiti in un’invasione di altri selvaggi correva incontro a quelle orde col petto ignudo e col Crocifisso in mano: e ammansatili colla carità, li convertiva a milioni. Il dir che gl’Indiani d’America non possano rendere civili è una calunnia contro cui protestano tutti gli Americani inciviliti più che forse molti Europei. Ora mentre tutte le nazioni civili distruggono tutte le barriere che dividono l’umana famiglia sparsa sulla faccia della terra, per formare la gran famiglia nell’unione della civiltà cristiana Universale, si debbon ricordare quegli scienziati che stamparono questi libri ai nostri dì, che già altri scienziati in Europa tenevano le orde di abitanti del Paraguay in conto di uomini-bestie. Ebbene, pochi Gesuiti obbedendo alla Parola di Gesù Salvatore che comanda d’istruire tutte le genti per salvare tutti, si cimentarono tra quelle orde di feroci e li ammansarono colle industrie di carità. Essi là a lavorare per mostrare a lavorare, essi là a piantare alberi fruttiferi e coltivare erbaggi per lasciar cogliere ai selvaggi; essi là a conciar pelli, a tessere le lane; essi là mutati in sarti, calzolai, falegnami, fabbri, muratori; poi far da medici e sempre a far da padri con tutti. Così mentre gli scienziati qui disputavano seriamente se fosser uomini da battezzare, essi avevano quei selvatici educati a tal modello di civiltà, da far dire ad un letterato con una sublime espressione: «Ecco là nel Paraguay il Cristianesimo felice. » – Ancora adesso, mentre tanti Missionari di varii Ordini religiosi consumano la vita in ignorati benefizi e..riescono così bene nei tentativi benedetti da Gesù Cristo, udite ciò che mi scrivono gli amici Salesiani fino dai Pampas: « Oh quanto sono disposti, quanto sono capaci, anzi proprio desiderosi di diventare migliori e buoni cristiani, questi poveri selvaggi !… ».

Spez. Dio la rimeriti, mio buon signor Parroco! Mi pare proprio di esser con lei come.col padre della nostra grande famiglia, a trattare degl’interessi di tutti i nostri fratelli, anche di quelli che noi abbiamo tanto lontani! Ma io non posso capire quali ragioni possano avere ancora da far contro la fede in Dio?

Par. Mio carissimo, ne hanno due ragioni, contro cui non valgono le verità delle ragioni della fede: e sono l’orgoglio della mente e la corruzione del cuore che rendono gli uomini amanti sol di se stessi, nemici di Dio, e crudeli coi loro fratelli. Io ho il cuor troppo pieno, ed ho bisogno di sfogarmi con voi che m’intendete così bene. Ben vi ricorderete, che quando il demonio soffiò nell’orgoglio di quei superbi dell’antico tempo, che vollero costruire la grande Torre per tentare di elevarsi in cielo fino a Dio, essi tirarono sopra di sè il castigo della confusione delle lingue; e dovettero andare dispersi? Ora ecco che vi sono degli uomini altrettanto superbi, ma di coloro più vili, i quali, anch’essi dal diavolo, e maggiormente tentati di propria concupiscenza, così perdutamente guasti che tutt’altro che cercare di alzarsi al cielo sino a Dio, si abbassano ad avvoltolarsi nel fango, © tutti ingolfati in putridume, niente più agognano che d’imbestiarsi colle bestie, vantandosi di esser nati da loro. Però almen quegli antichi si mostrarono grandi fin nell’audacia del loro delitto; e con quel resto di sentimento della loro grandezza raggranellarono ancora i fratelli dispersi e formarono grandi nazioni da regnarvi quasi come déi: ma questi increduli moderni senza cuore e vili da schifo si studiano di sbrancare la famiglia umana quasi noi fossimo torme di bestie per poco dalle altre diverse. E che? vorranno forse tosarci come pecore matte e farne carne? Eh lo darebbero da sospettar col preparare come fanno l’Internazionale e la Comune! Così se quei superbi col tentare di farsi eguali a Dio fabbricarono la Babele della confusione delle lingue; questi vili coll’imbestiarsi vorrebbero buttarci nella Babele della distruzione. Pigliamo animo, o caro. Poiché se tutti che fanno guerra a Dio van vagabondando nella Babele, noi che l’amiamo come figliuoli, siamo nella Pentecoste; perché il miracolo della Pentecoste conrinua ancora per noi. Vi voglio partecipare una mia consolazione che provai proprio questo anno nel di di S. Giovanni in Torino. Nell’Oratori dei Salesiani, come gli apostoli nel Cenacolo raccolti intorno a Maria Ausiliatrice, quei buoni giovani per festeggiare il dì onomastico del loro pio istitutore accorrevano da tutte le parti a leggergli i più cari indirizzi, in tante lingue diverse; italiani, francesi, inglesi, irlandesi, scozzesi, tedeschi, polacchi, spagnoli, americani e fin cogli accenti dei selvaggi, degli Indii, Pampas e Patagoni: allora io in uno scoppio di pianto esclamava « ecco il miracolo della Pentecoste! » Ebbene, ebbene udii allora D. Bosco, questo uomo provvidenziale colle mani al cielo esclamare come il Salvatore: oh quanto è abbondante la messe! preghiamo il padrone ci mandi tanti operai: affinché si possa dare pane di vita eterna agli uomini nostri fratelli di tutti i colori che il Padre nostro invita al convitto del figliuol suo Gesù … ed io ripetevo singhiozzando: Oh, gran Padre della misericordia, affrettatevi a far di tutti gli uomini come un solo ovile di pecorelle sotto un solo buon Pastore! Oh amico, voi tante volte con ragione esclamavate: DIO CI LIBERI DA QUESTI SAPIENTI, DA QUESTI FILANTROPI!.. Deh! deh! Esclamate pregando con me: Dio salvi tutti gli uomini per Gesu Cristo suo Figliuolo unico Salvatore del mondo.

VITA E VIRTÙ CRISTIANE (Olier) 20

VITA E VIRTÙ CRISTIANE (20)

GIOVANNI G. OLIER

Mediolani 27-11 – 1935 Nihil obstat quominus imprimetur. Can. F. LONGONI

IMPRIMATUR: In Curia Arch. Mediolani die 27 – II – 1935 F. MOZZANICA V. G.

CAPITOLO XIII.

Dell’ obbedienza

Suppone il distacco dalle creature e soprattutto dal proprio spirito.

L’obbedienza è quella virtù che ci inclina a seguire in tutto la volontà di Dio. Il grande ostacolo a questa virtù è l’attacco alle creature, e soprattutto a noi medesimi, perché tali attacchi ci fermano e ci impediscono di correre nella via dei comandamenti di Dio. Per questo motivo, nell’ordine dei voti di religione, si incomincia dalla povertà e dalla castità e si finisce all’obbedienza, perché è necessario essere sciolti e liberi dai beni esteriori del mondo e dai piaceri della carne, per poter camminare liberamente nelle vie di Gesù Cristo Nostro Signore. Per questo ancora, S. Paolo ci avverte di offrire prima i nostri corpi come vittima e poi di prestare una ubbidienza ragionevole (Rom. XII, 1), così egli suppone che la morte al corpo e a tutti i piaceri del corpo, come cosa indispensabile, per la perfetta obbedienza. Oltre questo grande ostacolo all’ubbidienza che è l’attacco ai beni del mondo e ai piaceri della carne, ve n’è un altro ancora più funesto, ed è l’attacco allo spirito proprio, attacco che impedisce la volontà di sottomettersi agli ordini superiori. È questo ciò che Nostro Signore chiama la prudenza della carne, di cui parla per bocca dell’Apostolo, come della nemica giurata di Dio: La prudenza della carne è morte; essa è nemica di Dio; non è né può essere sottomessa alla legge di Dio (rom. VII, 6-7).

Motivi dell’obbedienza.

..perché creature; perché  figliuoli di Dio; — esempio di Gesù Cristo, che vivendo in noi vuole continuare in noi per mezzo nostro l’obbedienza al Padre suo; – perché schiavi redenti da Gesù Cristo cui apparteniamo; — perché vittime, essendo noi incorporati a Gesù Cristo; — perché templi dello Spirito Santo; — perché come Cristiani siamo in stato di morte.

Il primo motivo dell’ubbidienza è la nostra qualità di creature; perché in questa qualità, dobbiamo stare in un’intera dipendenza dalla volontà di Dio, che dà ad ogni cosa vita, movimento e esistenza (Act. XVII, 28). Dio, essendo /l’Essere universale e sovrano, governa tutto il mondo: tutto ubbidisce al suo Impero e alla sua voce. Bisogna dunque che ogni creatura sia sottomessa a Lui come all’Essere supremo. Quando noi si ubbidisce a qualche superiore, dobbiamo sempre tenere davanti agli occhi della fede l’Essere divino, rappresentato dalla creatura che ci parla e ci governa. Quando sentiamo qualche comando che ci viene fatto o troviamo qualche regola da osservarsi non dobbiamo sentite altre che la voce di Dio.

***

Il secondo motivo è la nostra qualità di figliuoli di Dio; è proprio d’un figlio ubbidire al padre suo, perciò Nostro Signore, come Figlio perfetto dell’Eterno Padre, gli ubbidì dal primo istante di sua vita sino alla sua morte (Fil. II, 8). Egli visse trent’anni nell’ubbidienza a S. Giuseppe ed alla sua santissima Madre, considerando l’uno e l’altra come immagini di Dio suo Padre. Il Vangelo non fa cenno per tutto quel tempo di nessun’altra virtù, in Gesù Cristo, che della sua sottomissione e della sua ubbidienza; Egli uscì dal mondo nel modo con cui vi era entrato: era entrato nel mondo e vi era vissuto per ubbidienza: per ubbidienza ancora ne uscì con la morte. Nostro Signore, nel rigenerarci, ci riempie del suo spirito e della sua vita; viene a vivere ed operare in noi alla gloria del Padre suo in quella stessa maniera che operava in sé medesimo; Egli viene a vivere in noi per muoverci secondo la direzione degli ordini del Padre suo e secondo il desiderio che vede nel Padre in riguardo a ciascuno di noî (Joan. V. 19). Nella sua vita mortale Egli teneva sempre l’occhio fisso in Dio suo Padre, e con la massima precisione aspettava i momenti della di Lui divina volontà. Orbene, il suo disegno è di continuare in noi la stessa esattezza, eseguendo con la medesima puntualità gli ordini del Padre suo. Egli vuole quindi tenerci soggetti al suo divino Spirito, onde operiamo sotto di Lui nella medesima dipendenza; perciò ci dà quello Spirito divino che ci fa operare, sotto la sua mozione, come veri figli di Dio.

***

Il terzo motivo è la nostra qualità di schiavi riscattati, per effetto della redenzione, dal giogo del peccato e dalla dominazione, del demonio. Nostro Signore nel redimerci, liberandoci da tale funesta e maledetta schiavitù, ci ha assoggettati al Padre suo e ci ha ristabiliti sotto il suo benefico dominio. Apparteniamo dunque a Gesù Cristo come a Colui che ci ha redenti. Non appartenete più a voi stessi, ha detto l’Apostolo, Jam non estis vestri (1 Cor. VI, 26). Siete, infatti, proprietà di Gesù Cristo che vi ha riscattati col prezzo del suo sangue, perciò non potete più pretendere di vivere indipendenti, perché non avete più diritti propri; da un dominio siete passati in un altro; dalla tirannia del demonio siete passati nel dominio di Gesù Cristo, essendo diventati familiari della sua casa e sudditi del suo Regno. Il Cristiano adunque, per l’inclinazione dello Spirito e della grazia di Gesù Cristo, deve star sottoposto alle leggi di Lui, che è il suo Re, e deve gloriarsi di esserne vassallo; perciò deve vivere per Lui e non per sé. Non sapremo, infatti, vivere per noi stessi, senza infedeltà, senza ingiustizia, senza fellonia, senza che Gesù Cristo abbia il diritto di muoverci severissimi rimproveri.

Il quarto motivo è la nostra qualità di vittime. Nel medesimo tempo, infatti, che Gesù Cristo Nostro Signore ci conquista a sé stesso, ci offre pure a Dio, ci dà al Padre suo e ci consuma con sé medesimo come vittime di Lui. Dimodoché in quella guisa che una vittima consacrata a Dio e destinata al sacrificio, perde ogni diritto sopra di sé medesima, noi pure non abbiamo più nessun diritto sopra di noi. Dal momento infatti che Nostro Signore ci ha legati a sé, ci ha incorporati in sé medesimo mediante il battesimo, noi siamo consacrati, in Lui, agli altari del Padre suo, siamo come morti a noi stessi e viventi a Dio in Gesù Cristo. – Consideratevi, dice Paolo, come morti al peccato, ma vivi a Dio in Gesù Cristo Signor nostro (Rom. VI, 11). Non apparteniamo dunque più a noi, ma solo a Dio, in attesa della immolazione e del sacrificio, in quella maniera che le vittime aspettavano dal sommo sacerdote il momento della loro morte e del loro sacrificio. Non abbiamo più nessun diritto su la nostra vita, né sul nostro essere; le nostre facoltà non sono più nostre né possiamo più usarne a nostro piacimento, ma devono essere come morte in noi; abbiamo anche perduto il diritto di usare dei nostri sensi. – Dio solo ha diritto a tutto quanto vi è in noi. Dio solo ha potere di usarne come vuole per il suo servizio, perché a Lui apparteniamo in virtù di una consacrazione particolare: Egli solo ha diritto di disporre di noi, come il sommo Sacerdote aveva diritto di disporre delle vittime.

***

Il quinto motivo è la nostra qualità di templi dello Spirito Santo. Solo lo Spirito Santo deve essere l’anima nostra e la nostra vita; solo deve muoverci e dirigerci (Rom. VIII, 14). Dobbiamo dunque rinunciare completamente alla nostra volontà propria e annientarla per lasciarne il posto allo Spirito Santo, affinché, nel suo potere supremo, Egli solo ci vivifichi e ci diriga come membri di Gesù Cristo. – Nostro Signore avendo scacciato lo spirito maligno del demonio dal suo tempio che siamo noi, ci ha riempiti dello Spirito Santo, perché la sua casa sia da Lui occupata e quel divino Spirito sia il governatore fedele di tale fortezza. Per mezzo dello Spirito Santo, il Cristiano diventa una nuova creatura; perciò quel medesimo Spirito distrugge e consuma la volontà per prenderne ed occuparne stabilmente il posto. Dimodoché, come Egli è la volontà personale di Dio, vuole pure riempire la volontà umana della sua presenza onde renderla divina, ed annientarvi così quella maledetta facoltà che è la micidiale rovina del Cristiano. La volontà propria è nemica giurata della salvezza; essa si mette al posto di Dio. Dio solo ha diritto di reggerci e la volontà invece vuole essa disporre di noi; così essa prende ed occupa davvero il posto di Dio.

***

Il sesto motivo è il titolo di morti che noi portiamo come Cristiani. Voi siete morti, dice S. Paolo; dobbiamo dunque essere morti a tutto il nostro essere proprio e soprattutto alla nostra volontà propria, la quale è la sorgente e la radice della vita di Adamo in noi. Questo ci fa intendere il grande obbligo che sopra tutto ci incombe di annientare la nostra volontà, perché dalla sua morte dipende la morte di tutte le nostre operazioni proprie. Con questa morte, tutto è vivente; senza di essa, nulla può vivere. Perciò dobbiamo esaminare senza posa i nostri desiderii propri onde annientarli, impedire che diventino attacchi. Il desiderio non costituisce l’attacco; ma se lo assecondiamo e volontariamente ci lasciamo andare a quelle cose esso ci porta, allora si trasforma in attacco. Se poi siamo indulgenti per l’attacco e lo rinforziamo con frequenti compiacenze, allora si forma l’abitudine; dimodoché la volontà si concentra e si perde in sé stessa come in un abisso, né potrà, senza grandi difficoltà, rialzarsi e trarsi fuori dal precipizio. – Bisogna dunque aver gran cura di soffocare i desideri che sono i primi attacchi della vita della volontà propria; appena nati, i desideri sono ancora deboli e senza vigore, e si possono facilmente distruggere perché non sono ancora cambiati in abitudini precise e forti. Le abitudini e gli attacchi trascinano la volontà e se ne impadroniscono a tal segno che essa non sa come difendersene; i desideri invece sono come bambini che essa soffoca a suo piacimento.

***

Il settimo motivo è la mostra qualità di peccatori, che ci obbliga ad essere senza volontà propria; perché, come penitenti, dobbiamo, con zelo di giustizia, distruggere quel posto dove venne commesso il  delitto di lesa Maestà. Nella giustizia umana, ai briganti si taglia la mano o la testa, si rasano le loro fortezze e i loro castelli. Così bisogna distruggere la volontà propria che è il luogo di rifugio per tutti i rivoltosi e i delinquenti, vale a dire per tutti i nostri desideri e tutte le nostre passioni. Essa è la potenza che ha commesso il delitto, che lo ha deciso, combinato e ordinato; quindi deve avere la testa tagliata. Essa è la madre che ha concepito tutti questi maledetti mostri, che sono i nostri desideri maligni; e questi, li dobbiamo ad ogni ora soffocare appena compaiono, e ciò sino alla terza ed alla quarta generazione. Chi non odia l’anima sua, vale a dire, la volontà propria, non può essere discepolo di Gesù Cristo (Luc. XIV, 26). Non v’ha nulla che dobbiamo temere e fuggire come la nostra volontà propria; essa tutto deruba a Dio perché in ciò che fa non può mai guardare a Lui. Sempre è rivolta a sé stessa e occupata di sé stessa; non produce nulla che per sé medesima. Lo Spirito Santo, il quale è quella volontà personale in Dio che incessantemente e inflessibilmente considera e cerca Dio, con la sua presenza in noi raddrizzerà la nostra volontà; Egli solo nella sua virtù la innalzerà sino a Dio. Dobbiamo dunque aver gran cura di lasciarci possedere e reggere da questo divino Spirito di rettitudine e di santità; dobbiamo lasciare che la nostra volontà si riempia della volontà di Gesù Cristo che abita in noi e dà vita all’anima nostra. Così noi adempiamo quanto dice l’Apostolo: Riformatevi col rinnovamento della vostra mente per ravvisare quale sia la volontà di Dio, buona, gradevole e perfetta (Rom. XII, 2). In Gesù Cristo noi adempiamo tutti i voleri di Dio, sia quelli che Dio ci manifesta coi suoi precetti, sia quelli che esprime coi suoi consigli, sia quelli che opera Egli medesimo nel suo proprio volere e nella sua propria volontà vivente in noi, la quale è la volontà perfetta.

VITA E VIRTÙ CRISTIANE (Olier) 21

LA VITA INTERIORE (25)

LA VITA INTERIORE E LE SUE SORGENTI (25)

Sac. Dott. GIOVANNI BATTISTA CALVI

con prefazione di Mons. Alfredo Cavagna Assistente Ecclesiastico Centr. G. F. di A. C.

Ristampa della 4° edizione – Riveduta.

TENEBRE DISSIPATE

IL DOLORE.

PERCHÈ IL DOLORE?

La parola « dolore » è, qui, generica: intendiamo, con essa, ogni sofferenza fisica, morale, spirituale; disdette, tribolazioni, contrasti, lotte, infermità, discordie, speranze infrante, abbandoni, mali di ogni genere, tutti i mali. Ogni dolore ci dovrebbe condurre a Dio, come ci suggerisce l’Apostolo Pietro: Christus passus est pro nobis, vobis relinquens exemplum, ut sequamini vestigia eius (S. Pierro, II, 21), e cioè: Gesù Cristo soffrì per noi, lasciandovi un esempio, affinché seguitiate le sue vestigia. — Ho detto: ci dovrebbe condurre a Dio; ma, in realtà, molte anime non si lasciano condurre a Dio; se ne allontanano, anzi, quanto più loro è possibile. Perché? Perché sotto la pressione del dolore, si ribellano a Dio, si rivoltano con tutte le loro energie, e non riuscendo a vincere l’origine e la causa del male che subiscono, si accasciano, si avviliscono e, Dio non voglia, si lasciano dominare dalla disperazione. Certo, questo contegno non è proprio delle anime che vogliono seguire Gesù. È volontà di Dio che ognuno cerchi di vincere, lottando e pregando, tutte le avversità. Ma quando abbiamo cercato di fare da parte nostra tutto ciò ch’era umanamente possibile, l’ostinazione contro il volere di Dio è superbia, è una resistenza inutile. « La nostra sorte non è nelle nostre mani, e ogni rivolta contro il corso degli avvenimenti si risolve sempre a nostro danno e scorno. Chi picchia del capo contro il muro, non spezza l’ostacolo, ma la testa ». Così, giustamente, un pio autore, il Gorrino, nella sua Vita interiore.

GLI INSEGNAMENTI DELLA FEDE.

Che mi accadrà quest’oggi, o mio Dio? Non lo so. Tutto quello che io so è che non mi accadrà nulla che voi non abbiate disposto da tutta l’eternità pel mio bene. Questo mi basta. Adoro i vostri disegni eterni ed impenetrabili… Sono riconoscente ad un’anima elettissima, già chiamata al premio celeste, se appresi e recitai, da molti anni, ogni mattina questa bellissima preghiera. Essa corrisponde pienamente alla più consolante realtà: la paterna bontà, la santa provvidenza di Dio a nostro riguardo. Tutto quello che ci può accadere, tutti gli avvenimenti, quanto ci riguarda, direttamente o indirettamente, è nelle mani di Dio: Deus meus es tu, in manibus tuis sortes meæ (Ps., XXX, 16); è disposto dalla divina Sapienza in numero, peso e misura: Omnia in mensura et numero et pondere disposuisti (Sap., XI, 21); ogni opera di Dio è piena di bontà: Opera Domini universa bona valde (Eccli., XXXIX, 21); Dio è buono e misericordioso con tutti: Suavis Dominus universis et miserationes eius super omnia opera eius (Ps.,CXLIV, 9).Perché, dunque, angustiarci? Dio pensa e dispone tutto solo pel nostro bene: Diligentibus Deum omnia cooperantur in bonum (Rom., VIII, 28). Dio è il Bene assoluto, l’Essere perfettissimo per eccellenza. Può da Dio, vero; sommo ed unico bene, venire il male? No. Ma… e allora? Allora quello che Dio permette, e che a noi sembra male,è solo un male esteriore, nell’aspetto, maè, al contrario, un vero bene…

ORIGINE DEL DOLORE.

Se Dio è il sommo Bene, s’Egli è veramente buono, se da Dio viene solo il bene, perché… tanto male, tanto dolore nel mondo? Perché tutta la vita umana è fasciata dal dolore, perché i brevi e pochi giorni della nostra vita sono avvolti da tante pene e amareggiati da tante lagrime? Perché? Questa domanda trova, purtroppo, una pronta, facilissima risposta: il male e i dolori di cui noi facciamo quotidianamente la più amara esperienza, hanno la loro origine nel vero ed urico male, il peccato. In rebus humanis nihil malum dicendum, nisi peccatum solum… « Ricordate: un poema d’amore apre la storia dell’umanità; l’uomo compare sulla terra, nel paradiso terrestre tra gli splendori, della natura tutta a lui soggetta, e della grazia che lo imparenta con Dio, rivestito del manto regale della giustizia originale che a lui procura l’integrità, la scienza, l’impassibilità, la immortalità; è collocato in un giardino di delizia, e Dio Padre scende a trattenersi visibilmente con lui come suo figlio adottivo. » Ma tutto ciò fu di breve durata: il poema è troncato, l’uomo fugge da Dio; è spogliato di ogni dono e grazia soprannaturale, è condannato al lavoro faticoso, al dolore e alla morte. » Chi ha fatto ciò? Non Dio certamente; fu il peccato che trasformò il paradiso terrestre in una valle di dolori e di lagrime, che portò nel mondo la fame, la pestilenza, la morte. » Quando noi gemiamo nel dolore, non rivolgiamoci a maledire Dio o a chiamarlo causa e origine delle sofferenze, malediciamo il peccato, questo odioso attentato contro la sovranità del Creatore e nostra sventura. » Il dolore, dunque, nasce con la colpa e la prevaricazione dei nostri progenitori; esso è la sorgente amara del fiume di lagrime che si è ingrossato per tutti i delitti dell’umanità attraversandone le interminabili generazioni » (G. Perardi, Vita cristiana, II, pag. 65-66.).

IL DOLORE NON È UN MALE.

Il dolore non è un male. Se in tutti gli avvenimenti umani il Signore cerca soltanto il nostro bene; se nel mondo niente dev’essere detto male all’infuori del solo peccato, quelli che noi diciamo mali, sofferenze, pene, e che non sono e non si identificano col peccato, si dicono mali impropriamente. Essi hanno una funzione di bene, e beni dovrebbero essere detti. – Ascoltiamo gl’insegnamenti della fede: Beato l’uomo che è castigato da Dio, disse Giobbe, il grande sofferente (V, 17); Beato l’uomo che è tentato perché, quando ha superato la prova, riceverà la corona della vita, confermò san Giacomo (Giac., I, 12); e Gesù con maggior precisione: Ego quos amo, arguo et castigo (Apoc., III, 19) e cioè: Io riprendo e castigo coloro che amo.Se questi sono gl’insegnamenti divini, perché noi dobbiamo temere tanto le pene, le sofferenze, i dolori di questa vita? Sono, essi, la fonte d’immensi vantaggi spirituali e spingono efficacemente la nostra anima alla ricerca di Dio, al possesso di Dio. Di più: i dolori, le prove di questa vita accettati e affrontati con serenità, rassegnazione, fiducia e confidenza in Dio ci liberano datanti altri mali.Dio ci ha voluti collaboratori efficaci dell’opera della nostra salvezza eterna. La volontà efficace nell’accettare le prove da Lui permesse ha valorizzato la nostra libertà. In questa libertà, con la volontà decisa per il Signore e per la sua gloria, noi saremo veramente provati ed approvati da Dio.

LA MISSIONE DEL DOLORE.

È il bene nostro, è la gloria di Dio. Non sarà coronato se non chi avrà combattuto secondo le leggi… Ecco l’obbligo, ecco la necessità dichiarata della lotta contro noi stessi, contro il mondo, contro il demonio. Questa triplice lotta è… un grande dolore. In questa lotta dobbiamo, invocata la divina assistenza, resistere e vincere. Dio ci ha assegnato la parte nostra nel portare il peso della Croce. Chi vuole venire dietro di me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce, mi segua. Ma: hilarem datorem diligit Deus, e cioè: il Signore ama chi dà con gioia, con allegria, con serenità. Si deve, dunque, trarre un’altra conclusione, questa: noi dobbiamo accettare le prove, i dolori, le sofferenze non solo con rassegnazione, ma anche con gioia. – Ascoltiamo la parola dell’apostolo Paolo: Superabundo gaudio in omni tribulatione (II Cor., VII, 4). Perché? Perché dalla tribolazione terrena vedeva scaturire la dolce acqua del premio celeste. Che cosa c’insegna la quotidiana esperienza? Che l’uomo accetta, anzi giunge a desiderare e a volere un male, quando sa che da esso potrà venirgliene un bene! Non è, forse, per questo che noi ci lasciamo tanto manipolare dal medico, e, specialmente, dai chirurghi? Un’operazione chirurgica non è, certo, cosa che possa farci molto piacere. Tuttavia, poiché ne speriamo un bene, la desideriamo, e, pure sapendo che ci farà soffrire, che ci costerà anche una somma di denaro non indifferente, noi ci rechiamo da uno o da parecchi chirurghi, e… ci abbandoniamo nelle loro mani. Non altrimenti opera Dio. V’è, però, una differenza sostanziale: il divino chirurgo è un operatore infallibile. Non così gli umani manipolatori delle nostre povere carni. Gesù ha disposto che sia il dolore a ricondurre il peccatore a Dio. Ha voluto, e vuole, che il dolore ci distacchi dalle cose create, dal mondo, dalla terra… e ci faccia desiderare il Cielo. Ha voluto, e vuole, Gesù, che il dolore espii su la terra il peccato, che purifichi e perfezioni la virtù, come il fuoco purifica l’oro. Infine, il dolore crea la nostra rassomiglianza morale con Gesù Cristo, nostro modello, ricordandoci la nostra incorporazione con lui nel Battesimo. Se Gesù, nostro capo, è crocefisso, possiamo noi, sue membra, pretendere di essere esonerati dalla nostra parte di dolore?

VITA E VIRTÙ CRISTIANE (Olier) 19

VITA E VIRTÙ CRISTIANE (19)

GIOVANNI G. OLIER

Mediolani 27-11 – 1935, Nihil obstat quominus imprimetur. Can. F. LONGONI

IMPRIMATUR: In Curia Arch. Mediolani die 27 – II – 1935 F. MOZZANICA V. G.

CAPITOLO XII

La castità

Somiglianza con gli angeli, con Gesù Cristo risorto, con Dio medesimo. -— Male dell’amor sensuale.

La castità è una partecipazione della sostanza di Dio, che è spirituale e semplice, ma risplendente di bellezza. L’anima casta è un Angelo, perciò Nostro Signore dice che in Cielo saremo come gli Angeli: Sicut Angeli Dei (Matth- XXII. 30). L’anima casta è un’anima che è risorta in ispirito ed è della stessa natura di Gesù risorto, il quale, dopo la sua risurrezione, non ha più nulla della materialità e della viltà della carne, ma è spirituale come l’Angelo, divino come Dio suo Padre (Æquales angelis sunt et filii sunt Dei, cum sint filii resurrectionis. Luc., XX, 86). L’anima casta partecipa alla perfetta santità di Gesù e a tutte le qualità divine di Lui, che la trasformano nel più intimo del suo essere e le dànno quelle stesse inclinazioni e quei medesimi sentimenti di cui era ripieno il Figlio di Dio nello stato della sua risurrezione. È cosa meravigliosa che una creatura materiale come l’uomo, possa fin da questa vita, possedere la grazia di essere in tal modo simile all’Angelo, più ancora, di entrare in una simile partecipazione di Dio. Ma è tale sublimità cui non si giunge, se non dopo di aver combattuto a lungo, nello Spirito di Nostro Signore, con fortezza e fedeltà. – L’amore sensuale è una delle peggiori malattie dell’anima. L’anima che si lascia trascinare da tale amore bestiale, non è più un’anima, ma un cadavere fetente non più capace d’agire, ma solo di corrompere e di infettare tutto quanto gli si avvicina. Un’anima così corrotta diffonde una tale infezione che non v’è nessun rimedio sicuro per esserne preservati, fuorché la fuga. È un veleno che uccide non solamente colui che l’ha in corpo, ma talvolta anche chi tenta di portarvi rimedio.

Rimedi contro le tentazioni d’impurità.

Buona volontà. — Direzione di un buon confessore che sappia adattare i rimedi alla causa delle tentazioni. –  Durante la tentazione; pregare, umiliarsi, rifugiarsi interamente in Gesù Cristo, fare atti di abominio, distrarre la mente, confidare unicamente nella grazia, evitare le occasioni, ritirarsi in Gesù Cristo presente nell’anima.

È necessario dapprima che l’anima oppressa da queste sorta di tentazioni, abbia buona volontà di convertirsi e di uscire da un tale stato pericoloso. Orbene, essa dimostra questa buona volontà quando abbraccia volentieri le mortificazioni che le vengono proposte; in tal caso, chi deve curarla deve procedere con fiducia, e ordinarle tutto quanto si conviene per aiutarla a conseguire la guarigione. – In secondo luogo è necessaria la direzione di un buon confessore, che esamini in Dio la causa del male. Dico in Dio, perché chi volesse portar rimedio alle anime nel suo proprio spirito e con la sua propria forza, non riuscirebbe che ad aggravare il loro male, perché le priverebbe di quel giovamento che potrebbe procurar loro se si lasciassero condurre dallo Spirito Santo; né da Dio egli riceverebbe i lumi necessari per confortarle. Non bisogna presumere di portar soccorso alle anime, fuorché nello spirito di proprio annientamento e di rinuncia al proprio sentimento, ed invocando lo Spirito Santo onde operare nella sua santa luce e sotto la mozione della sua verace direzione. Con tali disposizioni, il confessore dovrà considerare l’origine del male, e esaminare se viene dalla natura o dal demonio, oppure da una particolare disposizione di Dio. – Se la tentazione proviene soltanto dalla carne per la violenza del sangue o la pienezza degli umori, si potrà procurare un sollievo per mezzo di rimedi esterni e corporali. Se le tentazioni vengono dal demonio, ai rimedi esterni bisogna unire i rimedi spirituali. Questa sorta di demonii, ha detto Gesù, non si scaccia se non coll’orazione e col digiuno (Matth. XVII, 30). La parola orazione comprende qui qualsiasi esercizio spirituale di elevazione a Dio: il digiuno comprende tutto quanto serve ad abbattere il corpo, perché questo effetto si ottiene in modo particolare col digiuno. Perciò Nostro Signore, nel Vangelo dice che bisogna adorar Dio in ispirito e verità, perché bisogna unire lo spirito con la mortificazione e col sacrificio vero e reale della carne. Ché se le tentazioni vengono da una particolare disposizione di Dio, che le permette per castigo di qualche vizio o infedeltà, si dovrà esercitare l’anima a sradicare i suoi vizi che sono causa delle tentazioni. Un’anima, per esempio sarà infetta di superbia, ed avrà stima di sé stessa per la sua scienza, per la sua pietà ed altri doni di Dio; talora potrà trovarsi animata da confidenza in sé medesima. In modo da credere di poter da sé preservarsi dal peccato, e particolarmente da quello della carne. In tal caso, Dio che non può soffrire la superbia, umilierà quest’anima sino al fondo; geloso di farle riconoscere che da sé stessa nella sua propria debolezza, non ha nessuna sua forza, tanto per resistere al male come per perseverare nel bene, e che ogni virtù ed ogni forza viene unicamente dalla grazia. Egli permetterà che sia molestata da tali orribili tentazioni, e talvolta persino che vi soccomba, perché sono le più vergognose e causano la maggior confusione. S. Paolo, nell’abbondanza dei doni che aveva ricevuti, venne con queste tentazioni preservato dalla vana gloria, per cui diceva « Che lo stimolo della carne gli era stato dato, onde schiaffeggiarlo, affinché la grandezza delle rivelazioni non lo innalzasse nella vanità » (II Cor., XII). Con questa parola schiaffi, l’Apostolo esprimeva la sua afflizione, indicando così quanto siano vergognosi ed ignominiosi tali assalti, e quanto, nei disegni di Dio, sia umiliante questa via. Quando, adunque, il Confessore trova un’anima così infetta di superbia, deve lavorare ad umiliarla ed annientarla in Gesù Cristo Nostro Signore; deve esercitarla a riconoscere il proprio nulla e la propria debolezza, e basterà questo esercizio interiore per procurare a poco a poco la guarigione.

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Orbene, mi sembra che l’applicazione di questo rimedio interiore dipenda particolarmente da due o tre atti che l’anima dovrebbe compiere in ispirito e che le si potrebbero proporre nel modo che segue: appena l’anima si sente tentata contro la santa virtù di purità deve in qualunque tempo gettarsi subito in ginocchio e alzar le mani al Cielo per implorare l’aiuto di Dio. Dico che, bisogna alzar le mani al cielo. non solo perché questa positura da sé stessa è già una preghiera davanti a Dio, soprattutto quando vi si aggiunga la buona disposizione dello spirito; ma ancora perché bisogna dare all’anima tentata questa espressa penitenza di non toccarsi mai durante il tempo della tentazione e di soffrir piuttosto tutti i martiri interni, tutte le molestie della carne ed anche del demonio, piuttosto che toccar se stesso. Questo male ha le sue molestie e i suoi martirii specie quando c’entra il demonio. Orbene, il primo atto che, in tale stato, l’anima deve compiere è un atto di umiltà, gridando al Signore: « Dio mio, io non sono niente, non sono che polvere e cenere: Pulvis et cinis. Non sono che un verme della terra: Vermis et non homo (Ps. XXI, 7). Non posso difendermi senza il vostro soccorso, o mio Dio! Con tutta giustizia soffro questa violenza; Domine vim patior; è il giusto castigo dei miei peccati: Iuste pro peccatis nostris patimur.Il secondo atto è di rifugiarsi interiormente in Gesù Cristo, per trovare in Lui la forza di resistere e per accrescere in noi la bella virtù contro la quale siamo tentati, virtù che Egli ben sa quanto sia fragile innoi. Egli vuole che siamo tentati perché. conosciamo così la nostra debolezza e il bisogno che abbiano del suo soccorso e quindi ci rifugiamo in Lui per attingervi la forza che ci manca.Il terzo atto che l’anima deve produrre è un atto di rinuncia e di riprovazione di tutto quanto avviene in essa contro la sua volontà. Dopo aver impiegato tutti questi mezzi per resistere, essa può senza turbamento starsene sottomessa alla giustizia Di Dio per sopportare una tal pena e una tale afflizione in castigo dei suoi peccati.In tal modo l’anima si perfeziona e si fortifica nella virtù, in pari tempo che soffre maggiori infermità e risente maggior debolezza; perché essendo obbligata dalla propria impotenza a ricorrere a Gesù Cristo,essa in Lui trova tutta la sua forza e tutta la sua vita.

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Un altro rimedio eccellente contro le tentazioni d’impurità è l’esercizio dello spirito, non solamente per cercare in Dio la forza necessaria, ma ancora per occupare la mente e togliere quel vuoto di cui abusa il maligno allo scopo di insinuarsi nel cuore. Ora, per occupare utilmente il nostro spirito, bisogna esercitarlo ad annientarsi davanti a Dio, e a riflettere quanto sia scarso il nostro potere di resistenza contro il peccato; riconoscendo che solo lo Spirito di Dio può preservarcene e che solo in Lui troveremo la sicurezza e la vita. La carne da sé stessa è tutta portata al male e particolarmente all’impurità; solo lo Spirito di Dio, regnando in noi, può trattenerci dall’acconsentire ai sentimenti che da essa provengono. –  Dobbiamo perciò riconoscere che la castità è un dono di Dio, una grazia che unicamente possiamo aspettare dalla sua bontà; a Lui quindi dobbiamo lasciare la cura di tenerci alieni dal peccato e di allontanarcene, mantenendo vivo in noi l’orrore a questo mostro. Bisogna in questo abbandonarci completamente a Dio senza nulla presumere di noi medesimi, altrimenti tutto è perduto.

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Bisogna inoltre fuggire con gran cura le occasioni di inasprire in noi il male; altrimenti dimostriamo di aver confidenza in noi medesimi; c’inganniamo miseramente, mentre ci persuadiamo che ci rimane ancora il potere di resistere. Se ci esponiamo al pericolo delle occasioni, noi meritiamo che Dio ci abbandoni a noi stessi, e così ci faccia sperimentare la nostra debolezza. È certo e sicuro che appena saremo abbandonati a noi stessi, noi cadremo; non possiamo stare in piedi, a meno che Dio non ci sorregga per una bontà affatto particolare. Questa bontà ci farà riconoscere che da Lui soltanto siamo stati preservati, ma Dio non ci continuerà questo favore se non eviteremo l’occasione del peccato. Ché se, dopo aver evitato le occasioni, la tentazione non cessa, il vero modo di combatterla e di esserne vittoriosi, sarà come abbiamo detto, di rifugiarci interiormente in Gesù Cristo presente nell’anima nostra, il quale si compiace di rivestirci delle sue virtù quando noi ci ritiriamo in Lui. Questa maniera di combattere gli piace estremamente perché manifesta la nostra infermità e in pari tempo la fiducia che abbiamo unicamente in Lui. Egli permette queste tentazioni affinché lo cerchiamo, ed Egli possa accoglierci nella nostra pena e nella nostra afflizione. In tal modo, noi ci mettiamo al sicuro delle violenze del demonio; perché questo maligno spirito è costretto a smettere di tormentarci e a lasciarci in pace, vedendo che dalle sue tentazioni noi ricaviamo frutto e vantaggio più che pregiudizio. L’anima riconoscerà, per propria esperienza, quante Dio approvi questo modo di combattere: e vedrà, per la gran pace e per l’istruzione meravigliosa che ne ricaverà, quanto sia utile, in quella sorta di tentazioni, resistere con la fuga, rifugiandosi in Gesù Cristo. Riconoscerà che in tali occasioni essa abbisogna di grandi forze che solo può trovare in Gesù Cristo; perché in sé medesima e nella sua carne essa non è altro che debolezza, né può pretendere col solo proprio sforzo di dissipare le fantasie disoneste, né di soffocare i sentimenti impuri; i suoi sforzi sarebbero inutili e non servirebbero che a rovinarle la testa e riscaldarle il sangue. Questo modo di operare con la violenza dello sforzo rende la tentazione più forte e più sensibile. Perciò è necessario che l’anima si risolva di ritirarsi interiormente in Gesù Cristo, abbandonandosi alla giustizia di Dio per subire tutte le pene e tutte le afflizioni che a Lui piacerà di mandarle.

VITA E VIRTÙ CRISTIANE (Olier) 20

LA VITA INTERIORE (24)

LA VITA INTERIORE E LE SUE SORGENTI (24

Sac. Dott. GIOVANNI BATTISTA CALVI

con prefazione di Mons. Alfredo Cavagna Assistente Ecclesiastico Centr. G. F. di A. C.

Ristampa della 4° edizione – Riveduta.

TENEBRE DISSIPATE

L’INSTABILITÀ

LE PRIVAZIONI SPIRITUALI.

Abbiamo già ripetutamente notato che le anime desiderose di operare il bene, di darsi a Dio, in sul principio della loro dedizione sogliono essere amabilmente ricreate dalla bontà divina. Gioie spirituali, conforti divini, attrazione intensa… E, perciò, promesse su promesse di fedeltà, di attaccamento, di corrispondenza, di amore… Tutto questo, però, non può durare. In un attimo, mentre meno l’anima se la pensa, la scena cambia. Al fervore sensibile succede l’aridità, alla gioia la prova dolorosa, all’attrazione intensa… la noia, le tentazioni violente, le nausee quasi vorrei dire, di ogni forma di preghiera, di ogni manifestazione di pietà. Tutto questo, lo sappiamo, è la solita via delle anime. Ma questo stato di desolazione non dovrebbe essere temuto, essendo, per divina disposizione, ordinato al miglioramento e alla tempera della nostra volontà. Tuttavia, per molte anime, col sopraggiungere del tempo della prova, ha inizio lo scoraggiamento, l’intiepidimento, la freddezza, di più, la nausea. Perché? Per l’instabilità, per l’incostanza della volontà.

LA MONOTONIA…

È noto il detto: molti incominciano, pochi perseverano… Perché?… Perché si dimentica facilmente che è necessario rinnegare il nostro io, che occorre farsi violenza, che il regno di Dio può essere carpito solo da chi mostra vera energia. Energia: ecco la parola. Occorre energia di volontà per allontanare le tentazioni che ci vogliono far sembrare troppo noiosa, snervante, uniforme e perciò monotona la pratica della vita cristiana e, tanto più, la pratica della vita interiore. Intendiamoci: abbiamo già detto che, per raggiungere la vita interiore, l’anima deve allenarsi, ripetere esercizi sopra esercizi, e che solo a questa condizione l’ascesa potrà, poco a poco, essere vera, certa. Se poi in questo ripetersi di atti, di esercizi, si può provare noia, nausea… nessuna meraviglia. L’amore di Dio, il Paradiso costano sacrifizi… Ecco tutto. E se questa risposta sembrasse troppo semplicista, si consideri, per esempio, in quale modo lo studente cerca di riuscire promosso negli esami: e generalizzando, come trascorra la vita degli uomini su la terra. Non sono ore e ore e giornate e mesi di… studio continuo? Non sono, sempre, le stesse occupazioni, gli stessi argomenti, gli stessi doveri, le medesime contrarietà, per tutti…? Forse che noi tralasciamo i nostri doveri, le nostre conversazioni, i viaggi… perché sono sempre gli stessi? Che dovrebbe dire un viaggiatore di commercio che, tutti i giorni, col tempo, sì o no, favorevole, è costretto a ripetere lo stesso viaggio, dalla casa alla Stazione, dalla stazione alla stessa città? E che dovrebbe dire una mamma di famiglia, la quale, dalle stoviglie rigovernate, ai letti rifatti, alle orazioni ripetute, agli ammonimenti dati, vede tutto tingersi dello stesso colore da anni e anni…? Nessuna novità mai! E che per questo? Siccome sempre avviene nella vita ordinaria, così avviene pure nella vita dello spirito. Ma come nella vita quotidiana, la uniformità, la monotonia, la noia, la nausea non ostacolano l’adempimento del dovere, così, e tanto più, la freddezza, o la creduta freddezza, la noia, la stanchezza non debbono farci troncare le pratiche di pietà e lo sforzo per riuscire a raggiungere, possedere e conservare la vita interiore.

ASSENZA DEL CUORE.

Altro è dire uniforme, altro è dire monotono, noioso. Vogliamo dunque, dire che se la vita interiore può sembrare uniforme, non è affatto monotona e, tanto meno, noiosa. O meglio; potrà essere anche monotona e noiosa; ma allora si dovrà fare un’altra considerazione, questa: che dalla pseudo vita interiore è già assente il cuore coi suoi sentimenti e coi suoi affetti. Una delle due: o il cuore è presente, ed ecco più ragionate, ma care e dolci e soavi emozioni, nella ricerca dell’amore di Gesù, unica fonte del vero amore; o il cuore viaggia per conto suo, e allora gli affetti e i sentimenti sono dispersi e non trovano più il punto di accentramento, il quale non può essere altri che Gesù. Proviamoci a pensare e a tenere a posto il cuore nella contemplazione di Gesù! Oh! allora, sentiremo inondarci dell’amore di predilezione, e in quell’oceano infinito saremo costretti a ripetere a Gesù la proposta di Pietro sul Tabor: Domine, bonum est nos hic esse. Oh Gesù! quanto è bello per noi rimanere qui, così! Ma i momenti della Trasfigurazione furono pochi: dopo quelli, Gesù ritornò alla sua vita di sacrificio e di rinnegamento. Sacrifizio e rinnegamento necessari sempre contro le nostre inclinazioni naturali, le quali sono in contrasto con le aspirazioni spirituali. È tutto un continuo lavorio di purificazione e di rinunzia che l’anima deve affrontare con generosa disciplina in espiazione dei suoi peccati, abbracciando volentieri la sua croce, in unione, e per l’unione, con Gesù Cristo. Ma, per imparare questa rinuncia, che nel linguaggio cristiano è una specie di crocifissione e di morte, l’anima dovrà lottare energicamente contro l’orgoglio, contro la pigrizia e la noia, abituandosi allo spirito di preghiera e alla meditazione assidua delle sante verità. Sarà, allora, facile, al corpo e allo spirito allenarsi a quella mortificazione delle proprie inclinazioni naturali tanto necessaria per quelli che vogliono appartenere veramente a Cristo e viverne intimamente la vita. Camminate secondo lo spirito, e non andate dietro ai desideri della carne (Gal. V, 16); e ancora: I seguaci di Cristo hanno crocefisso la propria carne con le sue passioni e le sue concupiscenze (Gal., V, 24).

È UN AFFARE TROPPO LUNGO.

Ricordo il consiglio frequente di un indimenticato e indimenticabile Maestro: Procura di fare una cosa per volta, non due…; non preoccuparti del giorno passato che non ritorna, né del domani che non è certo; pensa soltanto a quest’oggi… Questo è il succo di tutta l’esperienza della vita interiore, e … della più sana filosofia. Age quod agis…: fa quello che fai, dicevano i maestri di spirito. Vivi alla giornata… L’avvenire è nelle mani di Dio. Per ogni giorno la sua croce. La fantasia che pretende prevedere per provvedere è, ordinariamente, catastrofica. Consideriamo ogni giorno come l’ultimo della nostra vita… Questa considerazione ci darà forza a resistere, a mantenere le nostre posizioni… a vivere nella vita interiore. Terminiamo con un saggio consiglio che S. Giovanni Bosco, il grande apostolo della gioventù, ha scritto per i suoi cari giovinetti, perché ci sembra che possa coronare bene quanto sopra abbiamo detto: « Il primo laccio che il demonio suol tendervi per rovinare l’anima vostra, è il presentarvi alla mente come sarà mai possibile che per quaranta, cinquanta, o sessant’anni che vi promette di vita, possiate camminare per la difficile strada della virtù, sempre lontani dai piaceri. » Quando il demonio vi suggerisce questo, voi rispondetegli: Chi mi assicura che io giunga fino a quell’età? La mia vita è nelle mani del Signore; può essere che questo giorno sia l’ultimo di mia vita. Quanti della mia età erano ieri allegri, pieni di brio e di salute, ed oggi sono condotti al sepolcro! Quanti miei compagni sono scomparsi da questo mondo nel fior degli anni! E non potrebbe accadere a me altrettanto? E quand’anche dovessimo faticare alcuni anni per il Signore, non ne saremo abbondantissimamente compensati da un’eternità di gloria e di piaceri nel paradiso? Del resto noi vediamo che quelli i quali vivono in grazia di Dio, sono sempre allegri, ed anche nelle afflizioni hanno il cuor contento. Al contrario coloro che si dànno ai piaceri, vivono arrabbiati, inquieti, e più si sforzano per trovare la pace nei loro passatempi, più si sentono infelici: Non est pax impiis, dice il Signore» (Da quel modello di libro di pietà scritto da S. Giovanni Bosco pei giovani, cioè: Il giovane provveduto.

VITA E VIRTÙ CRISTIANE (Olier) 18

VITA E VIRTÙ CRISTIANE (18)

GIOVANNI G. OLIER

Mediolani 27-11 – 1935, Nihil obstat quominus imprimetur. Can. F. LONGONI

IMPRIMATUR: In Curia Arch. Mediolani die 27 – II – 1935 F. MOZZANICA V. G.

CAPITOLO XI

Della povertà

VII

Altri motivi della povertà.

Dio è tutto il nostro bene. — Chi ha vera fede non può attaccare il cuore alle cose visibili. — I Cristiani non sono di questo mondo, ma seguaci di un Capo povero; — missione di Gesù Cristo.

– Dio è l’unico nostro vero bene; Egli in sé stesso è il bene universale che soddisfa e compie pienamente tutti i desideri di coloro che lo possiedono. Le adorabili persone della S. Trinità sono infinitamente ricche e beate nel possesso dell’Essenza divina. Gli Angeli e Santi del cielo, nel possesso di Dio sono perfettamente soddisfatti nei loro desideri che sono di una capacità immensa. Così avviene pure dei giusti sulla terra, i quali essendo riempiti della sovrabbondanza di Dio, sono pienamente contenti e saziati da un tale godimento. Dio è talmente il nostro bene che è tutto il nostro bene; posseduto in grado anche minimo, ci accontenta e ci sazia più di tutti i beni del mondo. Questi non hanno nessuna consistenza, e l’uomo non vi può trovare nulla che riempia e soddisfi pienamente il suo cuore. Il nostro cuore, infatti, è creato per Dio che è il suo vero bene, quindi fuori di Dio non trova che vacuità, vanità e inganno: Dio solo può perfettamente saziarlo. Dio è così perfetto e contiene con tale eminenza e pienezza tutti i pregi delle sue creature, che nel minimo possesso e godimento di Lui noi gustiamo ogni sorta di beni, dimodoché coloro che lo possiedono, sia sulla terra sia in cielo, trovano in Lui ogni gioia, ogni soddisfazione, ogni riposo e ogni felicità. –  Era questa la verità che Nostro Signore voleva farci intendere, quando diceva che se saremo poveri di spirito, vale a dire distaccati da tutto, il Regno dei Cieli sarà nostro; ora, il regno dei Cieli è Dio medesimo che include in sé la pienezza di tutti i beni. Il Figlio di Dio è disceso dal cielo e venuto sulla terra, non soltanto per distaccarci dai beni del mondo, ma pure al fin di procurarci i beni veraci, mediante la privazione di quei beni che sono tali solo in apparenza. – Perciò i figli della fede non possono più attaccarsi alle cose visibili di questo mondo e neppure considerarle con amore; perché  la fede, che è il principio della loro condotta e della loro vita, li porta alle cose invisibili e fa che unicamente amino queste. I figli della fede sono morti ai sensi e alla generazione del loro primo padre; non possono più attaccarsi alla terra né perdersi nelle creature, non possono più amare questo mondo che venne fatto per Adamo e i suoi figli. – La fede ci fa considerare Dio come il bene unico e sovrano che trovasi nascosto in tutto ciò che si vede; ci fa considerare tutte le cose nella verità, in Dio di cui sono effetti e immagini e in cui sussistono; quindi ci obbliga a dire a tutte le creature: « Voi non siete che menzogna »; e a Dio invece: « Voi siete tutta la mia verità e verrà giorno in cui distruggerete tutte queste figure, per comparire Voi solo, come il vero ed unico mondo dei fedeli ». Dio non è soltanto l’unico vero bene che possa arricchire gli uomini, ma vuole ancora dare sé medesimo ai Cristiani che sono distaccati da tutto. Ad Adamo si era dato, ma nascosto sotto le creature tutte; vedendo poi che queste creature erano un pericolo per l’uomo perché lo distraevano e lo trascinavano alla rovina, Dio si è compiaciuto di sciogliersi e spogliarsi di tutto, per darsi tutto solo, nel Cristianesimo, in possesso alle anime. – Egli vuole perciò che i Cristiani sì contentino di possederlo spoglio di tutto, che si portino a Lui come si dà Lui medesimo, in perfetta nudità spirituale, senza altro mezzo per abbracciarlo e possederlo che la sola fede. È questo lo stato più santo che può esservi, cioè possedere Dio in sé stesso, tal quale Egli è, senza nessun ostacolo, senza nulla tra Lui e noi che ci trattenga e possa essere di impedimento o di inganno. Quando ci troviamo in tal stato, Dio ci riempie pienamente e ci sazia senza che in noi rimanga né vuoto né nausea. Nel Cielo Dio si dà in possesso ai santi, senza nulla di mezzo e senza figura; così vuole che l’anima del Cristiano sia vuota di tutto e libera da ogni cosa creata, disposta così a riceverlo in nudità spirituale e povertà di spirito. Beata quell’anima che in tale distacco da ogni cosa conosce è gusta il suo Dio! Felice lo stato dei Cristiani, poiché tutti sono chiamati a questa grazia.

***

I Cristiani non sono di questa mondo.  De mundo non estis (Joann., XV, 19). Il battesimo, essendo una nuova nascita, li trapianta pure in un altro mondo, li fa diventar cittadini di un’altra città e membri di un altro regno. Questo regno è il regno di Dio, nel quale veniamo introdotti dalla Fede, che ci mostra altre ricchezze da possedere e un altro Re da servire ed onorare, altri piaceri da godere, altra terra da abitare, altra aria da respirare, altra luce per dirigerci. Ora, il primo articolo dello statuto di questo regno, la prima condizione» richiesta per entrarvi, è la povertà: Qui non renuntiat omnibus quæ possidet, non potest meus esse discipulus. Chi non rinunzia atutto ciò che possiede, non può essere mio discepolo (Luc. XIV, 83). Beati i poveri di spirito perché ad essi appartiene il Regno dei cieli! Il gran Re di questo nuovo mondo è Gesù Cristo, ma Gesù Cristo è povero. I Principi della sua corte, i Santi Apostoli, sono poveri; la Signora e Regina di questo regno, la Madonna, è povera. Tutti i cortigiani e tutti i nobili, vi sono poveri; anche gli Angeli, vi sono privi di tutto. Come si potrebbe vedere un ricco in mezzo a tanti poveri? – Se alla corte in cui tutti sono ricchi, si presentasse un povero, vi sarebbe odioso e sarebbe subito scacciato. Parimenti nel Regno di Gesù, dove i cortigiani sono poveri, un riccone non può entrare e neppur presentarsi alla porta, senza esserne scacciato e vergognosamente respinto (Questo va inteso dell’attacco alle ricchezze e non del possesso). Nostro Signore scaccerà dal suo banchetto colui che non è rivestito della veste nuziale e ordinerà di gettarlo, mani e piedi legati, nell’inferno. La veste nunziale è la santa povertà; è questa la santa livrea dello Sposo. Egli stesso dichiara che i ricchi non possono venire accolti e ammessi al suo banchetto e nel suo regno: Oh! quanto è difficile che i ricchi entrino nel regno dei cieli! L’Epulone non vi entra, ma i poveri vi sono ben accolti con Lazzaro perché a loro appartiene il regno dei Cieli. Il regno dei Cieli non è di questo mondo. Qui si stimano felici i ricchi (Beatum dixerunt populum cui hac sunt, Ps. CXLII), ma nel regno di Gesù Cristo, la cosa è ben diversa: Beati pauperes: Beati i poveri! Il regno del mondo è un regno da teatro; il regno di Gesù Cristo è regno verace, e vi si regna eternamente.

VIII.

Il male dello spirito di proprietà.

Effetti micidiali dell’amor proprio.

Non v’è nulla di più contrario al Cristianesimo che lo spirito di proprietà Il Cristianesimo, infatti ha la sua origine in Gesù Cristo; ma Gesù Cristo forma i suoi membri sul modello di sé medesimo; orbene, Gesù Cristo, mentre è uomo, non ha personalità umana, ma sussiste nel Verbo. Perciò lo spirito del Cristianesimo vuole che i Cristiani dal tronco di Adamo siano trapiantati e trasformati sul Verbo incarnato, e siano da Lui vivificati e come innestati in Lui, e così non siano più in sé medesimi, né più vivano della propria vita, ma operino soltanto in Lui. (Rom., XI, 24; Joann., XV, 6-7). Di nulla dunque dobbiamo avere orrore come dell’amor proprio; questo ci priva della pienezza del Verbo, della sua vita e della sua azione in noi, e ci rende membra inutili nell’ammirabile Corpo mistico di Gesù, membra che non sono adatte a nessun bene vero e solido. Con l’abnegazione di noi stessi invece, saremo stabiliti in Gesù Cristo, nel suo corpo saremo tutto e in Dio saremo capaci di tutto; Perciò Nostro Signore, nel Vangelo, ha posto l’abnegazione come il primo passo che bisogna fare nella vita cristiana: Se qualcuno vuol venire dietro a me rinunci a sé stesso; perché lo spirito proprio, l’attaccamento a sé stesso, chiude la porta a Gesù Cristo. Egli, infatti, non può entrare nell’anima ripiena di sé medesima, né riempirla della sua vita divina; quindi lo spirito proprio è sorgente inesauribile di ogni sorta di mali e di peccati. Adamo, nello stato di innocenza, non era attaccato a sé medesimo, ma era tutto rivolto a Dio; col suo peccato si è reso proprietario, ossia tutto dedito a sé stesso e quindi padre di ogni peccato; e i suoi discendenti, avendo ricevuto da lui col peccato lo spirito di proprietà, in questo trovano la sorgente di tutti i vizi e di tutte le impurità. – L’amor proprio è un mostro spaventoso, mare orrendo di ogni peccato, come l’abnegazione è il compendio della perfezione e il principio della vita e delle virtù cristiane. Colui che vive nell’abnegazione, nella rinuncia a sé medesimo, non è più attaccato a nulla; non ha più né prudenza umana, né falsa sapienza, non ha più né  desideri propri, né volontà propulsoreria; perfettamente docile alle leggi dello Spirito, si abbandona senza la minima resistenza alla santa direzione ed alla divina mozione dello Spirito medesimo; in una parola egli entra nel regno e nel dominio di Dio.

IX.

Effetti contrari dell’amor proprio e dell’abnegazione.

Il Cristiano mosso dall’amor proprio:

Il Cristiano che pratica l’abnegazione:

1. Non pensa che a sé: è egoista.

1. Esce fuori di sé medesimo e pensa agli altri.

2. È pieno di sé medesimo.

2. È vuoto di sé medesimo.

3. Confida in se stesso e si appoggia su se stesso.

3. Diffida di se stesso e confida in Gesù Cristo.

4. Si occupa sempre di sé.

4. Dimentica sempre se stesso,

5. Ha stima soltanto di sé.

5. Disprezza se stesso.

6. Vuole comparire ed emergere.

6. Si nasconde e sta ritirato.

7. Cerca le lodi e ne è invaghito.

7. Si confonde nelle lodi e le fugge.

8. Parla di sé.

8. Non parla mai di sé.

9. Sopporta a stento che si lodino gli altri,  non parla delle buone qualità del prossimo, o se ne parla, le diminuisce.

9. Gode delle lodi che si danno al prossimo e ne pubblica con piacere le buone qualità

10. Non può soffrire di essere contraddetto; non cede a nessuno.

10. Non è mai ostinato, ma si sottomette a tutti.

11. È fisso nel proprio sentimento; disprezza ogni consiglio, non ha deferenza che per il proprio parere.

11. Diffida sempre del proprio giudizio; apprezza e onora il sentimento altrui e vi accondiscende

12. Nelle opere, conta sulla propria virtù, senza curarsi della propria debolezza.

12. Opera sempre col pensiero del proprio nulla, unendosi alla virtù di Gesù Cristo.

13. Segue sempre la propria volontà e vuole essere indipendente da tutti.

13. Si mantiene sempre nella giusta dipendenza; nella volontà dei Superiori, considera, quella di Gesù Cristo.

14. Tutto riferisce a sé stesso, vuole tutto per sé, attira tutto a sé, non desidera alcun bene che a sé medesimo.

14. Non vuole nulla per sé e non desidera del bene che al prossimo.

15. In ogni cosa si appoggia alla propria virtù.

15. In ogni cosa opera nella virtù di Dio.

16. In ogni cosa ama e cerca la propria soddisfazione.

16. In ogni cosa ama e cerca il distacco da sé stesso.

17. È attaccato ad ogni cosa.

17. È libero e sciolto da ogni attacco.

18. Si singolarizza in tutto

18. Segue la via comune, interiormente ed esteriormente.

19. Sta male con tutti.

19. Sta bene con tutti.

20. Avendo stima di sè più di tutti gli altri, si ritira da tutti, si compiace di stare con sé medesimo e con quelli che lo stimano e l’approvano.

20. Stimando sé stesso meno degli altri, sta volentieri con tutti, come il più piccolo di tutti, senza curarsi di essere veduto, né stimato, né amato.

21. Attira il mondo a sé e lo attacca a sé; estende la sua personalità, unendo tutti gli altri a stesso, distaccandoli dagli altri per amor di se stesso.

21. È distaccato da tutto il mondo e cerca portare tutti a Gesù Cristo secondo l’ordine della società.

22. Vorrebbe riempire di se stesso il cuore e la mente di ogni creatura.

22. Vorrebbe riempire tutto il mondo dell’amore e della conoscenza di Gesù Cristo.

23. Ama la pietà quando prova consolazioni, quando si trova nell’abbondanza ed è stimato; lascia tutto quando si trova nell’aridità o nella desolazione, o è disprezzato.

23. È sempre uguale a se stesso nell’aridità e nell’abbondanza, che sia stimato o disprezzato; in qualsiasi stato non pensa né si occupa che di  servire Gesù Cristo.

24. Sempre vuole comandare, parla con alterigia e ordinariamente ad alta voce.

24. Sempre si compiace di obbedire; a tutti parla con rispetto e dolcezza, e tutti considera come suoi superiori.

25. Vuole per sé ciò che vi è di migliore, sia negli abiti, come nel cibo o nell’alloggio ecc.

25. Si contenta in ogni cosa di ciò che vi è più semplice e più modesto.

26. Vuole comparire come l’autore di ogni cosa e brama che tutta la gloria ne sia unicamente resa a lui.

26. Non vuole comparire come l’autore, neppure del bene che fa e ne rinvia tutta la gloria agli altri.

27. Vuole essere considerato come indispensabile in tutto; e fa ogni sforzo perché il mondo ne sia persuaso e così abbia stima di lui.

27. Si sforza di aprir gli occhi al mondo perché riconosca che Dio è l’autore di ogni bene e quindi procura di annientarsi dappertutto al cospetto di Dio.

28. Sempre agitato, turbato, irrequieto; sempre affettato e impigliato, sempre timido, leggero e incostante.

28. Sempre tranquillo e uguale a se stesso, sempre pacifico, coraggioso e contento, sempre disinvolto e pronto a tutto.

29. Ordinariamente triste, cupo e preoccupato.

29. Sempre lieto, colviso aperto e la mentelibera da fantasie.

30. Diventa di cattivo umore per una minima parola, si offende di tutto e sospetta che tutto quanto si dice o si fa, si riferisca alla sua persona.

30. Non si offende di nulla; tutto sopporta senza che il suo cuore si agiti, non pensa mai che si sia occupati di lui né che si abbia intenzione di offenderlo.

31. Nei buoni successi del suo amor proprio e della sua superbia, si abbandona ad eccessiva gioia; è volubile e passa dalla gioia al malumore a seconda degli incidenti, cosicché talora è irriconoscibile.

31. Non considera le cose in riguardo a se stesso ma unicamente a Dio, in ogni evento sta sempre unito a Dio, quindi è sempre del medesimo umore.

VITA E VIRTÙ CRISTIANE (Olier) 19

UN’ENCICLICA AL GIORNO, TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI DI TORNO: S. S. PIO VII “EX QUO ECCLESIAM”

Breve Enciclica, questa “Ex quo Ecclesiam”, nella quale il Pontefice Pio VII, in sostituzione del regolare Giubileo, concede per due settimane da Venezia, ove si trovava per i noti fatti dell’epoca, l’indulgenza plenaria a tutti coloro che avrebbero praticato determinate pratiche di pietà. e questo per invocare l’intervento divino nei turbolenti avvenimenti dell’epoca, determinati – come sempre – da coloro che odiano Dio, il suo Cristo e il suo VICARIO in terra, la sua Chiesa e tutti gli uomini, compresi se stessi. Oggi ci troviamo in un tempo molto più nefasto, momento in cui il Lucifero-Corona (come è definito nelle sette che praticano la cabbala spuria) ha preso il sopravvento, sfruttando con furia il tempo esiguo che gli resta prima del secondo Avvento di Cristo. Il nostro Ponhtefice regnante è impedito dalla piovra massonica e cabalo-talmudica, per cui non può proclamare nè anni giubilari nè pratiche attuali di indulgenze, ma il pusillus grex può acquistarle con la relativa grazia, mediante le preghiere, le pratiche sacramentali in vigore nella Chiesa per questi tempi di “eclisse” e le opere di pietà e le elemosine, una volta ben radicato nel Corpo mistico di Cristo della Chiesa militante, cioè nella vera unica Chiesa Cattolica. Il Corpo mistico esclude ipso facto gli eretici (i conciliabori apostati del Vat. II, gli pseudotradizionalisti fallibilisti del cavaliere kadosh, tutte le conventicole sedevacantiste – eretiche autoreferenziate ed ultra-scismatiche – disseminate a caccia di pecore erranti, senza pastori e senza dottrina cristiana, cioè senza fede nè carità. Al pusillus grex cattolico non tocca altro che restare saldo nelle sue posizioni spirituali dogmatiche e morali, sicuro che ad un breve momento (modicum) di sofferenze, seguirà il giorno unico eterno di gaudio senza fine. Chi si troverà fuori dal Corpo mistico, sperimenterà lo stagno di fuoco nella eterna dannazione.

Pio VII
Ex quo Ecclesiam

Venezia, 24 maggio 1800

Enciclica

Il Papa Pio VII. A tutti i fedeli di Cristo che leggeranno questa lettera, salute e Apostolica Benedizione.

Da quando Dio ha affidato alla Nostra debolezza e fragilità il compito di sostenere e governare la sua Chiesa “acquistata con il suo sangue“e Ci ha costituiti pastore di tutte le sue pecore, non abbiamo mai smesso di pensare alla salvezza di tutti. A Noi, totalmente assorti giorno e notte in questo pensiero, viene sempre a mente ciò che Dio stesso dice al profeta Geremia: “Se all’improvviso io dirò nei confronti di un popolo e di un regno che lo sradicherò, lo distruggerò e lo disperderò; se quel popolo si pentirà di quella malvagità della quale ho parlato, anch’io mi pentirò del male che avevo pensato di procurargli, e tosto parlerò di quel popolo e di quel regno di come giovargli e farlo crescere” (Ger XVIII,7). Qui vediamo che è disponibile il rimedio per poter respirare in mezzo alle continue calamità, e conseguire finalmente la pace tanto desiderata. Dobbiamo prendercela con noi stessi e incolpare la nostra cattiveria e ostinazione se siamo ancora sbattuti e quasi sommersi dai flutti. Che cos’è, infatti, diletti figli, che ci trattiene dall’obbedire “alla bontà di Dio che ci spinge alla conversione? A quella conversione, dico, che non sia simulata, ma vera, per mezzo della quale “dovete rinnovarvi nello spirito della vostra mente“; e che sia duratura, per non sentirvi rinfacciare da uno dei profeti che essa “è come una nube del mattino, come la rugiada che all’alba svanisce. Non lo tollera, non lo permette il mio amore di padre per voi, né l’eccelso ministero che ho assunto. Tutto ciò sarà da me sempre ripetuto a vostro profitto e utilità per esortarvi, ammonirvi, pregarvi, scongiurarvi a ritornare in voi e a non fare più a lungo i sordi alla voce di Dio.

Vi indichiamo, con un altro profeta, “ciò che è buono e ciò che il Signore richiede da ciascuno di voi: praticare la giustizia, amare la pietà, camminare umilmente con il vostro Dio” (Mi VI, 8). Tutti dobbiamo sempre implorare e invocare la clemenza di Dio, placarlo con le lacrime, con i digiuni e con la generosità verso i bisognosi e i poveri secondo le proprie possibilità, e con le buone opere. Allora veramente “egli sorgerà per aver pietà di noi” (Is XXX, 18), come già da tempo ha dimostrato. Prendiamo come avvocata e mediatrice presso di Lui sua Madre, la sempre Vergine Maria, “per mezzo della quale – come disse Cirillo ai Padri nel Concilio di Efeso – ogni creatura viene a conoscere la verità, le Chiese vengono fondate in tutto il mondo e i popoli sono indotti alla conversione” (Or. 6 contro Nest.)Per decidervi a mettere in pratica con diligenza e prontezza tutte queste esortazioni, anche perché spinti dalla speranza prospettata di un più largo perdono, Ci sembra che attendiate che Noi “promulghiamo un anno di grazia del Signoresecondo l’esempio e l’insegnamento dei Nostri Predecessori. Che cosa potrebbe esserci di più gradito, di più desiderabile, di più bello per Noi che chiamare tutti voi, diletti figli, da tutte le parti alla Sede di Pietro, a quella dimora e rocca della vera fede, a quella fonte ricchissima di benefici celesti, godere della vostra presenza, compiacerci della vostra pietà, parlare davanti a voi, gioire con voi nel Signore? Purtroppo in un così forte strepito di armi, tra così grandi sconvolgimenti politici, siamo costretti a privarci di tale conforto: confidiamo di averlo fra breve. Perché tuttavia non rimaniate del tutto delusi, nel frattempo vogliamo che a tutti voi siano aperti, almeno per alcuni giorni, i tesori della Chiesa, l’elargizione dei quali è stata a Noi affidata da Dio. Perciò, confidando nella misericordia di Dio e nell’autorità dei santi Apostoli Pietro e Paolo, con il potere di legare e sciogliere che il Signore ha conferito a Noi, benché indegni, a tenore della presente lettera concediamo, come si suole concedere nell’anno del Giubileo, ed elargiamo l’indulgenza plenaria e la remissione di tutti i peccati a tutti e ai singoli fedeli dell’uno e dell’altro sesso, ovunque dimorino, purché: visitino almeno una volta con la dovuta devozione interiore e compostezza esteriore le Chiese o qualcuna delle Chiese, che gli Ordinari dei luoghi o i loro Vicari, o su loro mandato e in loro assenza coloro che hanno la cura delle anime, designeranno dopo che questa Nostra lettera sarà giunta a loro conoscenza; le visitino entro lo spazio di due settimane dalla pubblicazione delle Chiese da visitare fatta da parte degli Ordinari o dei loro Vicari o Ufficiali, o di altri, come è detto sopra; ivi preghino per qualche tempo per il trionfo della Santa Madre Chiesa Cattolica, per l’estirpazione delle eresie e per la pace e la concordia tra i Principi cristiani; digiunino il mercoledì, il venerdì e il sabato dell’una o dell’altra settimana sopra citate; dopo aver debitamente confessato i loro peccati, ricevano devotamente il Santissimo Sacramento dell’Eucaristia nella domenica immediatamente seguente, o in altro giorno della stessa settimana; diano ai poveri qualche elemosina, come suggerirà loro la devozione.

Parimenti concediamo e permettiamo che coloro i quali sono in viaggio per mare o per terra, appena tornati alle proprie case, una volta adempiute le condizioni prescritte e visitata la Chiesa Cattedrale o la Maggiore o la Parrocchiale del luogo della loro residenza, possano acquistare la stessa indulgenza.

Concediamo e permettiamo ai Regolari dell’uno e dell’altro sesso, anche di clausura perpetua, e a tutti gli altri laici o ecclesiastici, secolari o religiosi, anche se sono in carcere o in prigionia, o trattenuti da qualche infermità corporale o altro impedimento, e non potranno quindi ottemperare alle prescrizioni sopra indicate o ad alcune di esse: che il confessore, tra quelli già approvati dagli Ordinari dei luoghi prima della pubblicazione della presente lettera, o da approvarsi, possa commutare (o rimandare ad altro tempo vicino) tali opere di devozione in altre che i penitenti potranno compiere.

Inoltre a tutti e ai singoli fedeli dell’uno e dell’altro sesso, laici o ecclesiastici, secolari e religiosi di qualunque Ordine, Congregazione e Istituto in cui si trovano, concediamo la licenza e la facoltà di scegliersi il sacerdote confessore tra gli approvati, come è detto sopra, dagli Ordinari dei luoghi. Tale confessore potrà assolverli e liberarli dalla scomunica, dalla sospensione e dalle altre sanzioni ecclesiastiche; dalle censure irrogate dal diritto o inflitte per qualsiasi causa dal giudice; e da tutti i peccati, trasgressioni, crimini anche se gravi ed enormi e in qualunque modo riservati agli Ordinari dei luoghi, o a Noi e alla Sede Apostolica, anche se contenuti nella Bolla Cenae Domini o nelle altre Costituzioni Nostre o dei Romani Pontefici Nostri Predecessori, il tenore delle quali vogliamo che sia ritenuto come espresso dalla presente lettera. Il predetto confessore potrà assolvere anche dall’eresia, espressa con atti esterni, purché non ci sia l’intenzione di insegnarla e insinuarla ad altri, e il penitente faccia prima l’abiura almeno in segreto con la promessa di riparare agli scandali come e quando sarà possibile. Il confessore potrà assolvere e dispensare in foro interno, e solo in questa sede, da qualsiasi voto (eccetto quello dei Religiosi) e commutarlo in altre opere pie e salutari, imponendo a ciascuno, in tutti i sopraccitati casi, una salutare penitenza o altre mortificazioni a proprio arbitrio.

Perciò a tenore della presente lettera, in virtù della santa obbedienza, prescriviamo e ordiniamo rigorosamente a tutti e ai singoli Venerabili Fratelli, Patriarchi, Arcivescovi, Vescovi, e agli altri Prelati delle Chiese, a tutti gli Ordinari dei luoghi ovunque esistenti, ai loro Vicari e Ufficiali, o, in loro assenza, a coloro che hanno la cura delle anime, che, appena riceveranno gli estratti o gli esemplari anche stampati della presente lettera, subito, senza frapporre indugio, dilazione od ostacolo, li pubblichino e li facciano pubblicare nelle loro Chiese, Diocesi, Province, Città, Villaggi, Regioni e luoghi, e designino la Chiesa o le Chiese da visitare.

Non intendiamo, però, con la presente lettera dispensare da irregolarità pubblica od occulta, da defezione, da inidoneità o inabilità in qualunque modo contratta, o dare la facoltà di dispensare o abilitare e reintegrare nemmeno in foro interno. Né intendiamo che la presente lettera possa o debba favorire in alcun modo coloro che da Noi e dalla Sede Apostolica o da qualche Prelato o Giudice ecclesiastico sono stati scomunicati, sospesi, interdetti o altrimenti incorsi in sanzioni e censure o sono stati pubblicamente denunciati, a meno che nel tempo delle due settimane citate non riescano ad aggiustare la posizione o ad accordarsi con le parti.

E ciò nonostante le Costituzioni e le Regole Apostoliche, specialmente quelle dalle quali la facoltà di assolvere in certi ben determinati casi è così riservata al Romano Pontefice regnante, che concessioni simili, o dissimili, delle indulgenze non possono essere accordate a nessuno, a meno che in tali Costituzioni e Regole non si faccia un’espressa menzione o una speciale deroga; nonostante ancora la Nostra norma sulle indulgenze da concedere “ad instar“; nonostante anche le Costituzioni e le consuetudini di qualsiasi Ordine, Congregazione o Istituto, anche se confermate da un giuramento, da un’approvazione Apostolica o da una qualsiasi altra ratifica; nonostante anche i privilegi, gli indulti e le lettere Apostoliche in qualunque modo concessi, approvati e rinnovati agli stessi Ordini, Congregazioni e Istituti e singolarmente a membri di essi.

A tutte queste e singole concessioni, anche se ad esse o al loro contenuto fossero annesse una menzione speciale, specifica, espressa ed esclusiva, e clausole generali importanti, o fosse usata qualsiasi altra espressione o una particolare forma per tutelarle: Noi, ritenendo il loro tenore come sufficientemente espresso dalla presente lettera e salva sempre la forma loro data, per questa volta vi deroghiamo in modo speciale, nominativamente ed esplicitamente ad effetto di quanto premesso, nonostante qualsiasi disposizione contraria.

Affinché questa Nostra lettera, non potendo essere recapitata in ogni luogo, giunga più facilmente a conoscenza di tutti, vogliamo che agli estratti o alle copie di essa, anche stampati, firmati di mano di un pubblico notaio e muniti del sigillo di persona costituita in dignità ecclesiastica, in qualunque luogo e presso tutti i popoli si presti la medesima fede che si presterebbe alla presente se fosse esibita o mostrata.

Infine tutti coloro che apertamente o nel loro intimo avversano la Sede Apostolica, le sentenze e le Costituzioni della Santa Romana Chiesa, sappiano che sono indegni di partecipare alla grazia e al beneficio del Giubileo.

Dato a Venezia, dal Monastero di San Giorgio Maggiore, il 24 maggio 1800, nel primo anno del Nostro Pontificato.

(*) Il Pontefice neo eletto vorrebbe promulgare il Giubileo da celebrarsi in Roma, ma la tormentata situazione militare e politica non lo consente. Napoleone, rientrato in Francia dall’Egitto, nella primavera del 1800 attraversa le Alpi occidentali e ritorna in Italia. Il 18 maggio le sue truppe conquistano Aosta e si incamminano verso Milano, dove entreranno il 2 giugno.

Pio VII, tuttavia, per confortare i fedeli – ricalcando in parte le disposizioni che vengono solitamente impartite negli anni del Giubileo – il 24 maggio 1800 concede da Venezia, per due settimane, l’indulgenza plenaria e la remissione dei peccati a coloro che compiranno determinate pratiche di pietà.

DOMENICA III DOPO PASQUA (2022)

DOMENICA III DOPO PASQUA (2022)

Semidoppio. • Paramenti bianchi.

La Chiesa è nella gioia perché Gesù è risuscitato e ci ha fatti liberi (All.). Essa dà quindi gloria a Dio (Intr.) e ne canta le lodi (Off.). «Ancora un poco di tempo e non mi vedrete più, aveva detto Gesù nel Cenacolo, allora piangerete e vi lamenterete; ancora un poco di tempo e mi rivedrete e il vostro cuore si rallegrerà» (Vang.). Gli Apostoli, vedendo Gesù risuscitato, provarono quella gioia che risuona ancora nella liturgia pasquale; e come la Pasqua è un’immagine della Pasqua eterna, questa gioia è la stessa che avrà la Chiesa quando, dopo aver, nel dolore, generato anime a Dio, vedrà Gesù apparire trionfante nel cielo alla fine dei secoli, tempo assai breve, se paragonato all’eternità (Mattutino). « Egli allora cambierà la nostra afflizione in un gaudio che nessuno potrà più rapirci » (Vang.). Questo gaudio santo comincia già su questa terra, poiché Gesù non ci lascia orfani, ma viene a noi per mezzo dello Spirito Santo; e nella grazia sua siamo colmati di gioia nella speranza di una felicità avvenire. Non attacchiamoci ai vari piaceri del mondo, dice San Pietro, noi che siamo stranieri e viandanti avviati verso il cielo al seguito del divino Risuscitato, ma osserviamo i precetti tanto positivi, quanto negativi del Vangelo (Ep.), affinché, facendo professione di Cristianesimo, possiamo evitare quello che disonora questo nome e praticare quanto vi è conforme (Or.) e giungere cosi alla celeste Gerusalemme. «Uno dei sette Angeli mi disse: Vieni e ti mostrerò la novella sposa, la sposa dell’Agnello. E vidi Gerusalemme che scendeva dal cielo, ornata dei suoi monili, alleluia. Come è bella la sposa che viene dal Libano, alleluia » (Respons.). L’eucaristico e divino alimento delle anime nostre protegga i nostri corpi (Postcomm.), affinché mitigando in noi l’ardore dei desideri terrestri, ci faccia amare i beni celesti (Secr.).

Incipit

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Ps LXV: 1-2. Jubiláte Deo, omnis terra, allelúja: psalmum dícite nómini ejus, allelúja: date glóriam laudi ejus, allelúja, allelúja, allelúja.

[Giubila in Dio, o terra tutta, allelúia: innalza inni al suo Nome, allelúia: dà a Lui gloria con le tue lodi, allelúia, allelúia, allelúia.]

Ps LXV: 3 Dícite Deo, quam terribília sunt ópera tua, Dómine! in multitúdine virtútis tuæ mentiéntur tibi inimíci tui.

[Dite a Dio: quanto sono terribili le tue òpere, o Signore. Con la tua immensa potenza rendi a Te ossequenti i tuoi stessi nemici.]

Jubiláte Deo, omnis terra, allelúja: psalmum dícite nómini ejus, allelúja: date glóriam laudi ejus, allelúja, allelúja, allelúja.

[Giubila in Dio, o terra tutta, allelúia: innalza inni al suo Nome, allelúia: dà a Lui gloria con le tue lodi, allelúia, allelúia, allelúia.]

Oratio 

Orémus. –

Deus, qui errántibus, ut in viam possint redíre justítiæ, veritátis tuæ lumen osténdis: da cunctis, qui christiána professióne censéntur, et illa respúere, quæ huic inimíca sunt nómini; et ea, quæ sunt apta, sectári.

[O Dio, che agli erranti mostri la luce della tua verità, affinché possano tornare sulla via della giustizia, concedi a quanti si professano Cristiani, di ripudiare ciò che è contrario a questo nome, ed abbracciare quanto gli è conforme.]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Petri Apóstoli: 1 Pet II: 11-19

“Caríssimi: Obsecro vos tamquam ádvenas et peregrínos abstinére vos a carnálibus desidériis, quæ mílitant advérsus ánimam, conversatiónem vestram inter gentes habéntes bonam: ut in eo, quod detréctant de vobis tamquam de malefactóribus, ex bonis opéribus vos considerántes, gloríficent Deum in die visitatiónis. Subjécti ígitur estóte omni humánæ creatúræ propter Deum: sive regi, quasi præcellénti: sive dúcibus, tamquam ab eo missis ad vindíctam malefactórum, laudem vero bonórum: quia sic est volúntas Dei, ut benefaciéntes obmutéscere faciátis imprudéntium hóminum ignorántiam: quasi líberi, et non quasi velámen habéntes malítiæ libertátem, sed sicut servi Dei. Omnes honoráte: fraternitátem dilígite: Deum timéte: regem honorificáte. Servi, súbditi estóte in omni timóre dóminis, non tantum bonis et modéstis, sed étiam dýscolis. Hæc est enim grátia: in Christo Jesu, Dómino nostro.”

(“Carissimi: Io vi scongiuro che da stranieri e pellegrini vi asteniate dai desideri sensuali, che fanno guerra all’anima. Tenete una buona condotta fra i gentili, affinché, mentre sparlano di voi quasi foste malfattori, considerando le vostre buone opere, diano gloria a Dio nel giorno in cui li visiterà. Per amor di Dio siate, dunque, sottomessi a ogni autorità umana; sia al re, che è sopra di tutti, sia ai governatori come da lui mandati a far giustizia dei malfattori e a premiare i buoni. Poiché questa è la volontà di Dio, che, operando il bene, chiudiate la bocca all’ignoranza degli uomini stolti. Diportatevi da uomini liberi, che non fate della libertà un mantello per coprire la nequizia, ma quali servi di Dio. Onorate tutti, amate la fratellanza, temete Dio, rendete onore al re. Servi, siate con ogni rispetto sottomessi ai padroni, e non soltanto ai buoni e benevoli, ma anche agli indiscreti; poiché questa è cosa di merito; in Gesù Cristo Signor nostro”).

L’obbedienza e l’autorità come principio

(G. Semeria: Epistole della Domenica – Milano – 1939)

Tutta l’Epistola di questa domenica, terza domenica di Pasqua, è degna del suo autore umano e delle circostanze storiche in cui gli accadde di scrivere. San Pietro, Apostolo dell’autorità tratta precisamente dell’autorità per garantirne i diritti. Ma non si circoscrive nel suo mondo religioso, non chiede obbedienza solo ai pastori d’anime, va oltre ei direbbe guardi di preferenza, almeno a momenti, l’autorità civile. Certo egli pensa a quel mondo romano che dopo essere stato il mondo della violenza, volle essere il mondo della legge. E si preoccupa, il Pontefice, ormai romano anch’esso, di quel mondo in cui vive, se ne preoccupa in due modi, per due ragioni. Intanto quel mondo ha un suo valore spirituale, morale, vero e proprio in quanto non è pio e non vuol essere il mondo della violenza bruta e dell’arbitrio personale, quel mondo non bisogna guastarlo per pretesa, neppur per pretesi interessi spirituali superiori come certi fanatici sarebbero pronti a fare; bisogna conservarlo. Il Cristianesimo assume il suo ufficio di conservatore della civiltà. Conservarlo per se stesso, conservarlo anche per creare uno scandalo civile alle coscienze di fronte all’invito religioso del Vangelo. – Ma per conservare quel mondo civile bisogna custodire, rafforzare il principio, uno dei principi su cui regge, che è proprio l’autorità col suo correlativo: l’obbedienza. L’autorità principio unificatore, l’autorità rappresentanza dell’interesse collettivo di fronte alla somma degli interessi individuali, somma concorrente. – Il Cristianesimo per bocca dei suoi primi propagandisti più autorevoli, Pietro e Paolo, vi apporta il suggello di una vera e propria consacrazione, il paganesimo, in fondo, ha avuto – se è limitato al concetto di autorità per forza, o delle autorità entusiasmo – nell’un caso e nell’altro, un concetto personale dell’autorità, la persona del monarca (comunque poi si chiami chi comanda). Nel paganesimo, e dovunque il paganesimo, il laicismo civile risorge, comanda il più forte, in ragione ed in nome della sua forza. Il monarca è il potente, uomo o classe. – Che se poi si esce da questa situazione così precaria e avvilente, vuoi per chi comanda, vuoi per chi obbedisce, è per il rotto della cuffia dell’entusiasmo, il mito, il feticcio. Il monarca è Cesare, tutti lo acclamano e lo adulano. Di fronte alla sua autorità personale e mitologizzata l’obbedienza è servilità, una schiavitù dorata, schiavitù sempre. Il monarca nei due casi comanda, s’impone perché è lui. Il padrone sono me. Si fabbrica sull’arena mobile. Se la forza vien meno? Se l’entusiasmo si sgonfia? Che cosa succede? Dove va a finire la società di cui l’autorità è anima, vita, forza stabile, è verso la spersonalizzazione dell’autorità. L’autorità principio sostituita dall’autorità persona. E noi abbiamo di questo sforzo una formula magica nell’epistola di oggi. – « Obbedite ai vostri capi legittimi anche quando, anche se essi sono cattivi ». È l’ipotesi più terribile. La bontà e la qualità che sembra essenziale in chi comanda. Passi pure la mancanza di genio, d’ingegno, ma la bontà! La funzione del comando è proprio una funzione morale e moralizzatrice. E l’Apostolo è ben lontano dal negare in chi comanda l’utilità, la preziosità della bontà. Un buon monarca è il più grande dono di Dio a un popolo. Ma non bisogna edificare lì; neppur lì, su questa facoltà preziosissima. Guai! Si tornerebbe al personalismo; l’obbedienza è alla discrezione dei sudditi e possono giudicare le qualità personali. E perciò obbedite ai vostri capi sempre, perché sono capi, qualunque siano le loro qualità o i loro difetti… anche ai personalmente cattivi. Purché non comandino il male, purché non si erigano comandando né contro Dio, né contro la coscienza. – I Cristiani sono così i sudditi migliori, i più fidati dell’impero … d’ogni impero, d’ogni stato civile, diremmo oggi in linguaggio moderno. E perciò sono ciechi i governi che combattono il Cristianesimo; si danno la zappa sui piedi. Sono miopi i governi che accarezzano la religione per secondi fini, sono savi oltreché onesti, i governi che favoriscono senza ipocrisie, equivoci e sottintesi il Cristianesimo: lavorando in apparenza per la religione, lavorano in realtà abilmente ed efficacemente per sé.

Alleluja

Allelúja, allelúja. Ps CX: 9 Redemptiónem misit Dóminus pópulo suo:alleluja.

[Il Signore mandò la redenzione al suo pòpolo. Allelúia.]

Luc XXIV: 46 Oportebat pati Christum, et resúrgere a mórtuis: et ita intráre in glóriam suam. Allelúja.

[Bisognava che Cristo soffrisse e risorgesse dalla morte, ed entrasse così nella sua gloria. Allelúia.]

Evangelium

Joannes XVI: 16; 22

“In illo témpore: Dixit Jesus discípulis suis: Módicum, et jam non vidébitis me: et íterum módicum, et vidébitis me: quia vado ad Patrem. Dixérunt ergo ex discípulis ejus ad ínvicem: Quid est hoc, quod dicit nobis: Módicum, et non vidébitis me: et íterum módicum, et vidébitis me, et quia vado ad Patrem? Dicébant ergo: Quid est hoc, quod dicit: Modicum? nescímus, quid lóquitur. Cognóvit autem Jesus, quia volébant eum interrogáre, et dixit eis: De hoc quaeritis inter vos, quia dixi: Modicum, et non vidébitis me: et íterum módicum, et vidébitis me. Amen, amen, dico vobis: quia plorábitis et flébitis vos, mundus autem gaudébit: vos autem contristabímini, sed tristítia vestra vertétur in gáudium. Múlier cum parit, tristítiam habet, quia venit hora ejus: cum autem pepérerit púerum, jam non méminit pressúræ propter gáudium, quia natus est homo in mundum. Et vos igitur nunc quidem tristítiam habétis, íterum autem vidébo vos, et gaudébit cor vestrum: et gáudium vestrum nemo tollet a vobis.”

 (“In quel tempo Gesù disse ai suoi discepoli: Un pochettino, e non mi vedrete; e di nuovo un pochettino, e mi vedrete: perché io vo al Padre. Dissero però tra loro alcuni dei suoi discepoli: Che è quello che egli ci disse: Non andrà molto, e non mi vedrete; e di poi, non andrà molto e mi vedrete, e me ne vo al Padre? Dicevano adunque che è questo che egli dice: Un pochetto? non intendiamo quel che egli dica. Conobbe pertanto Gesù che bramavano d’interrogarlo, e disse loro: Voi andate investigando tra di voi il perché io abbia detto: Non andrà molto, e non mi vedrete; e di poi, non andrà molto, e mi vedrete. In verità, in verità, vi dico, che piangerete e gemerete voi, il mondo poi godrà: voi sarete in tristezza, ma la vostra tristezza si cangerà in gaudio. La donna, allorché partorisce, è in tristezza, perché è giunto il suo tempo, quando poi ha dato alla luce il bambino, non si ricorda più dell’affanno a motivo dell’allegrezza, perché è nato al mondo un uomo. E voi dunque siete pur adesso in tristezza; ma vi vedrò di bel nuovo, e gioirà il vostro cuore, e nessuno vi torrà il vostro gaudio”.).

OMELIA

(G. Colombo: Pensieri sui Vangeli e sulle feste del Signore e dei Santi; VI ediz. – Soc. Ed. Vita e pensiero.- Milano 1956.

GIOIA TRISTE E TRISTEZZA LIETA

Il Vangelo questa volta ci riferisce un momento dell’ultima sera che Gesù, prima di muovere incontro alla sua agonia sanguinosa, volle passare nell’intimità degli amici più caramente diletti. Il cuore di tutti era occupato dalla prossima fine del Signore, il quale la vedeva con certezza e precisione di particolari, mentre i discepoli la presagivano con timore e confusione. « Ancora un poco, e non mi vedrete più; ma dopo un altro poco mi vedrete ancora ». Queste parole misteriose significavano la vicina morte e sepoltura che avrebbe sottratto al loro sguardo l’amato Maestro; sottratto per poco però, perché sarebbe risorto al terzo giorno per non più morire. Ma nessuno le comprese a pieno, onde si misero tutti in ansia. Gesù per calmarli dolcemente aggiunse: « Vi dico che voi gemerete e piangerete, mentre il mondo se la godrà. Ma come la donna quando giunge l’ora della sua maternità è presa da tristezza, poi dimentica ogni angoscia per la gioia d’avere un bambino, così voi: ora che me ne vado siete presi da tristezza, ma quando tornerò a vedervi, il vostro cuore godrà. E nessuno vi potrà allora strappare la vostra gioia » – Questo è il brano evangelico che commenteremo. Una volta un pagano di nome Petronio e di soprannome « arbitro delle eleganze », tra i canti e le lusinghe di un festino, bevve l’ultimo sorso di una splendida coppa. Poi disperatamente la scagliò sul pavimento ove s’infranse, indi si ritirò nel suo bagno a segarsi le vene. Ancora si suonava: e si rideva, ed egli moriva dissanguato. Così è la coppa del mondo: riso e festa e liquore inebriante, e poi in fine l’amarezza e da ultimo la disperazione della morte. Invece Gesù disse una volta a Giacomo e Giovanni, i due figli di Zebedeo: « Potete voi bere il mio calice? ». Era il calice della umiliazione, del rinnegamento, del martirio. Essi risposero: « Lo possiamo ». E dietro l’amarezza, i figli di Zebedeo vi trovarono la pace e l’amore ardente e puro, vi trovarono da ultimo la vita e la gioia eterna. Dunque, Gesù e il mondo si presentano a noi, ciascuno col suo calice, e c’invitano a bere. Il calice del mondo dà la gioia al primo contatto ma una gioia esteriore e breve e poi lascia uno sgomento intimo e infine un dolore eterno. Il calice di Gesù dà la sofferenza al primo contatto, ma una sofferenza esterna e breve: e poi diffonde una dolce serenità nel cuore e infine un gaudio immenso ed eterno. A quale calice appresseremo le nostre labbra avide di felicità? a quello della tristezza lieta o della gioia triste? – IL CALICE DELLA GIOIA TRISTE. Per due motivi la gioia del mondo è triste: perché è esteriore, perché dura poco. – a) Un grande scrittore norvegese descrive un naviglio poderoso e sicuro che porta di mare in mare uomini, mercanzie, ricchezze. La ciurma è gaia e baldanzosa, ed anche i passeggeri sono presi nel gorgo di quella allegria. A bordo si agitano mille bandierine, si balla, si suona, si cantano le giulive canzoni della terra nativa. Improvvisamente, un giorno, senza alcun palese motivo, un’ansia strana sbianca la faccia di qualche uomo. Che è successo? C’è una falla nella chiglia? Minaccia carestia? È caduto qualcuno in mare? No, no. Solo, da poppa a prua, circola una voce: « C’è un morto nella stiva… ». (Ibsen, Epistola poetica a Georg Brandes). – Simile alla gioia di quel naviglio è quella del mondo. Cercate sotto a tante illusioni di felicità, dopo tante ore di stordimento, dopo tanti giorni vissuti nella dissipazione e troverete un cadavere: l’anima soffocata, l’anima infracidita. La coscienza di essere rovinati nell’intimo è come una macchia nera che affiora sulla gioia vana dei mondani e l’amareggia tutta. E poi, il mondo offre la gioia nelle cose secondarie, e non risponde agli interessi più importanti. « Vieni con me — ci dice — che ti faccio godere ». « Volentieri: ma dove mi conduci? dove mi troverò? » « Non pensare a queste cose: adesso godi ». Ma si può veramente godere in mille bazzecole, senza aver prima conchiuso sicuramente gli affari principali, quelli che riguardano la propria esistenza? Eppure, la gioia sia del mondo è fatta così. – b) Non solo è fatta così, ma, quel ch’è peggio, essa è passeggera e ci abbandona in breve. Il profeta Giona fuori delle mura di Ninive aveva trovato un luogo meraviglioso per riposarsi e dormire i suoi sonni. Un’edera fronzuta aveva formato una specie di pergola, così densa che non lasciava passare i brucianti raggi del sole, né soffi caldi del vento: con gran sollievo si cacciò sotto quella frescura e dormì. Nella notte però un invisibile vermicciuolo rosicchiò la radice dell’edera, che accartocciò le foglie e si seccò. Al giorno dopo cominciò a soffiare un vento caldo opprimente, e il sole dardeggiava ferocemente sul capo di Giona ormai senza riparo. Il profeta soffocava e gemeva: « Meglio per me morire che vivere sfortunato così » (Giona, IV, 5-8). E quand’anche un uomo potesse assicurarsi onori, piaceri, danari per tutta la vita, non potrà certo assicurarsi contro il verme insonne del tempo che gli divora la stessa vita. Chi può godere spreoccupatamente in una casa, le cui fondamenta sono rose da un fiume sotterraneo? Se pensa che forse fra un anno, fra sei mesi franerà, che forse in una notte mentr’egli dorme sarà travolto, un’inquietudine assillante gli rende triste ogni gioia. Ebbene, la gioia del mondo è fatta così. – IL CALICE DELLA TRISTEZZA LIETA. Per due motivi la tristezza del calice di Gesù è lieta: perché è passeggera e superficiale; perché ci conduce a un gaudio immenso ed eterno. – a) La tristezza del Cristiano è passeggera, poiché egli sa di essere in viaggio. « Mi spiace, signore, che ella debba restare in piedi » dicevano ad un viaggiatore sul treno: ed egli sorridendo rispose: « Non si cruccino per me: è tanto breve il mio percorso! ». In questa vita noi siamo come su di un treno in corsa. Dobbiamo però stare in piedi e vigili contro il demonio, contro le nostre passioni, contro il mondo, qualche volta poi dobbiamo stare in piedi perché ci mancano i mezzi di star comodi, o perché qualche angoscia non ci permette di restare tranquilli. Ma che importa! Noi sappiamo che il nostro percorso è breve: poi scenderemo alla nostra città, entreremo nella nostra casa dove tutto è preparato per accoglierci secondo il nostro desiderio. Anzi, meglio ancora. Inoltre, la tristezza del Cristiano è superficiale. Quando egli soffre o per resistere al male, o per fare il proprio dovere, o per accettare la volontà misteriosa di Dio, egli sente in fondo al suo cuore percosso dal dolore scaturire un’onda di pace. È la certezza di diventare migliore, di assomigliare di più a Gesù Cristo di cui è seguace, di piacere di più a Dio, d’essere da Lui più amato. – « Ho 72 anni, — diceva quel caro vecchio di S. Leonardo da Porto Maurizio — e non sono stato infelice neppure un’ora ». Forse che gli erano mancati affanni e croci? tutt’altro. Ma la tristezza del vero Cristiano è irrigata da una sorgente di pace e di letizia che a poco a poco la sommerge. « Ho 72 anni, — esclamò invece il grande poeta Goethe, — e non sono mai stato un’ora felice ». Eppure non gli era mancata né la ricchezza, né l’applauso di re e di popoli, né l’esperienza di tanti piaceri. Ma la gioia mondana è irrigata da una sorgente amara. – b) Ma ciò che fa più lieta la tristezza del Cristiano è il gaudio immenso ed eterno che sta dietro di essa. È la vita felice scevra di pene e travagli, di dolorî e timori; è la vita pienamente felice sotto lo sguardo di Dio, in compagnia di Dio, derivata da Dio; è la stessa vita di Dio eternamente felice. Tutto ciò a cui s’è rinunziato, tutto ciò che abbiamo sacrificato per essere buoni, per essere di Cristo, si ritrova ancora tutto infinitamente aumentato nella vita eterna in Cristo. Omnia autem vestra sunt: vos autem Christi. Ora la certezza e la grandezza del premio rende dolce la fatica che ce lo merita, sopportabile la via spinosa che ad esso ci porta, accettabile la lotta che ce lo conquista. – L’operaio che lavora in mezzo ai gas e ai rumori dell’opificio canta per la speranza della paga. Il viandante che cammina per regioni deserte e pericolose, sotto l’acqua o sotto il sole, di notte o di giorno, nonostante la stanchezza, canta perché s’avvicina alla sua casa, ai suoi. Il soldato che combatte nella trincea, tra una battaglia e una battaglia, canta per la gioia di fare una patria più libera e più forte. Ma una speranza assai più grande di tutte queste nasce dalla sofferenza del Cristiano e la fa lieta. Perciò egli fatica e canta; cammina e canta, combatte e canta.

– « Un poco ancora e poi non mi vedrete più: un poco ancora e poi mi rivedrete ». Udendo queste parole che indicavano la prossima sua morte e resurrezione, gli Apostoli non ne afferrarono il senso; e camminando a fianco dietro a Lui bisbigliavano tra loro e dicevano: « Che cosa vuol dire il Maestro? Che è mai questo: un poco ancora? ». Il Signore s’accorse di quella incomprensione e spiegò amorevolmente il suo pensiero così: « In verità, in verità! voi gemerete, voi piangerete mentre il mondo godrà. Ma un poco ancora e poi la tristezza vostra diverrà allegrezza che più nessuno vi potrà rapire ». In queste parole di Gesù Cristo notate una dolcissima verità. Egli annuncia i gemiti e i pianti della sua morte imminente, ma subito conforta l’anima dicendo che dureranno poco: « Un poco ancora e poi mi rivedrete per sempre ». Così nella nostra vita noi gemeremo e piangeremo, ma i pianti e i gemiti dureranno poco, perché verrà il Paradiso a portarci un’allegrezza senza fine. Un poco ancora! In questa parola è racchiuso tutto il motivo della nostra rassegnazione nei dolori, tutto il motivo della nostra perseveranza nella virtù. – RASSEGNAZIONE. Ogni mattino, quando ci alziamo, ci troviamo di fronte a delle croci. Ecco in famiglia c’è una persona cara gravemente ammalata. Ogni rimedio è inutile, ogni cura è vana: di ora in ora ella se ne va lontano lontano, e ci sentiamo morire con lei. Forse ci siamo appena tolto dal braccio una striscia di crespo nero, che siamo costretti a metterne un’altra come una benda che copra una nuova ferita, quando l’altra non s’è ancora rimarginata. Ahimè! la ferita non è al braccio, ma al cuore. – Ecco negli affari, dopo tante fatiche, dopo tanti viaggi e notti insonni, siamo ridotti in terribili contingenze; l’avvenire ci si prospetta davanti a colori foschi; i nostri figliuoli ci chiedono pane ed educazione, e non possiamo prevedere che cosa daremo a loro. – Ecco nei campi, dopo tanti sudori e tante spese per lavori e concimi, una tempesta, una brinata, una siccità dissolvono le nostre speranze come il vento sparpaglia le nubi. Ecco nella società, dove ci sforziamo di essere onesti e generosi, una persona cattiva ci fa del male, ci attenta nell’onore, ci tradisce, ci rende lo zimbello del vicinato. Insomma, si chiamerà dolore domestico, triste peso del presente, timore dell’avvenire, pena per vedere tormentati i nostri cari, astio vicendevole, separazione, malattia, speranza delusa, ma la croce ci accompagna sempre nella nostra vita. Credere di trovare una casa, un focolare senza queste ferite più o meno profonde, è una illusione. E allora? Allora ricordiamo la dolce parola di Gesù che va alla morte: « Un poco ancora ». Pazienza un poco ancora, o Cristiani; voi che siete tribolati, voi che dopo una tribolazione ne trovate un’altra, pazienza un poco ancora, che passerà tutto. Che cosa è la nostra vita? Un soffio; per quanto doloroso, sarà sempre breve. Perciò unite le vostre sofferenze a quelle del Crocifisso, sopportate in dolce rassegnazione, e acquisterete un gaudio senza fine. – PERSEVERANZA. Fare una buona confessione a Pasqua, fare degli ottimi propositi è abbastanza facile; difficile invece è perseverare nel bene. Facile è dire: « Sono superbo, sarò umile ». Ma appena qualcuno ci schiaccia la coda, subito dalla pianta dei piedi fino alle tempie il sangue rigurgita, e non ne possiamo più. « Fino a quando, o Signore, dovrò umiliarmi? » Pazienza, ancora un poco. – Facile è dire: « Sono voluttuoso, sarò casto ». Ma quando nello studio, nell’officina, si è costretti ad ascoltare discorsi immondi, avvicinare persone tentatrici, quando per giorni interi i pensieri disonesti fanno guerra nella nostra anima, ne non ne possiamo più e ci vien fatto d’esclamare: « Fino a quando dovrò lottare così? » Pazienza, ancora un poco. È facile dire: « Sono violento, sarò dolce ». Ma se in casa la moglie non è attenta, ma se un figlio commette uno sbaglio, ma se lavorando si guasta un arnese, subito ci viene tra i denti una bestemmia e ci sforza le labbra per uscire, ma subito una forza terribile vuole agitarci come ossessi. Nello sforzo duro di contenerci, che ci fa sudare, noi ci sentiamo stanchi. « Fino a quando, o Signore, dovrò comprimermi così?» Pazienza, ancora un poco. Gran Dio, che lotta e che guerra crudele! Ci sono dentro noi due uomini di cui uno deve necessariamente morire: ma attenti, non è tanto facile ucciderlo, essendo da una parte sostenuto dall’inferno e dall’altra dal mondo. E di giorno e di notte saranno già dieci mesi, dieci anni, vent’anni forse che dura questo duello a morte. ed ohimè, quante ferite, e che dolori, ma fortunatamente anche quante vittorie! Ma fino a quando dovremo durarla così? La vita è breve; pazienza, ancora un poco. – Ricordate gli Israeliti nel deserto. Per lo spazio di quaranta giorni si trattenne Mosè con Dio sul monte Sinai per ricevere le tavole della legge. Ed essi aspettavano ogni dì la sua discesa, e l’aspettarono con desiderio per trentacinque giorni, mantenendosi fedeli a Dio, osservanti dei riti, ubbidienti ad Aronne. Ma poi non vedendolo tornare, si stancarono d’attenderlo: « Fino a quando — dicevano — dovremo noi rimanere in aspettativa? ». E allora come avevano veduto fare in Egitto, cambiata la modestia in dissolutezza, la pietà in gioco, la religione in idolatria, si fabbricarono un vitello d’oro e con matta insolenza l’adorarono. Dopo nemmeno cinque giorni arrivò, raggiante di fulgore, Mosè; stritolò quel vitello infame, spezzò le tavole e comandò che a fil di spada fossero passati tutti gli idolatri: ne restarono uccisi ventitré mila. Disgraziati Israeliti, avessero avuto pazienza di aspettare ancora cinque giorni! Ma più disgraziati quei Cristiani che, stanchi di lottare contro le passioni, si abbandonarono al demonio; essi per avere cinque giorni di falso godimento si procurarono una eternità di pene atroci. – Quando Filippo, padre d’Alessandro il grande, vide il modello della città d’Atene che cento ambasciatori gli presentavano, se ne invaghì tanto che proruppe in quella risoluzione: « O col ferro o con l’oro questa città deve essere mia ». Ecco che Gesù Cristo in questo brano di Vangelo ci presenta il modello della Città celeste del Paradiso: « Dopo questo po’ di tristezza — ci dice — io vi vedrò di nuovo e godrà il vostro cuore, e nessuno vi potrà più rapire la vostra gioia! » O giorno meraviglioso quando entreremo in cielo! I nostri occhi vedranno il Salvatore, le nostre orecchie udranno le armonie angeliche, i nostri cuori gusteranno dolcezze eterne, la nostra anima abiterà dimore splendenti e olezzanti. Nel conquistare questa città ci lasceremo spaventare da quel « poco ancora » di rassegnazione alle croci e di perseveranza nelle virtù, che è necessario? « Costi quel che costi — diciamo noi pure insieme a Filippo re — costi quel che costi, ma il Paradiso deve essere mio! ».

– Era l’ultima volta che Gesù parlava a’ suoi discepoli prima di morire. Guardandoli con la tenerezza di un padre che sta per partire, li mette in guardia dai pericoli del mondo, e dalle illusioni di un roseo avvenire. Diceva: « Tra poco e non mi vedrete; un altro poco e mi rivedrete ». Gesù alludeva alla sua morte vicina, e alla sua resurrezione. Gli Apostoli non capivano nulla e Gesù, che leggeva a loro negli occhi, aggiunse: « In verità vi dico che voi gemerete e piangerete; il mondo invece godrà ». Non scandalizzatevi; Cristiani, se Dio ha spartito le cose del mondo così che ai cattivi toccassero le gioie e ai buoni rimanessero soltanto le lacrime e i dolori. Non scandalizzatevi perché nel Vangelo d’oggi c’è una parola che spiega tutto: « Modicum! ». Spesso ci capita d’ascoltare i Cristiani a lamentarsi: « A questo mondo più s’è cattivi e più si ha fortuna. C’è della gente che non va in Chiesa, non rispetta nessuna legge, eppure è sempre beata: non malattie in casa; non odiosità fuor di casa; hanno roba; hanno danaro; hanno tutto. Noi invece non possiamo mai tirare avanti liberamente: è la morte, è una disgrazia, è un affare che va a male, e sempre c’è da piangere… ». Ricordiamoci della parola del Signore: « Modicum »: poco. Quaggiù tutto dura poco. Poco il dolore e poco la gioia. Non dobbiamo attaccare quindi il nostro cuore a cose che durano tanto poco; ma dobbiamo cercare il nostro bene dove durerà sempre: in Paradiso. Meditiamo la parola di Gesù, e ne otterremo conforti e speranze per il travaglio duro della nostra vita. – VOI PIANGERETE MENTRE IL MONDO GODRÀ. Quando noi osserviamo la vita pagana delle nostre città, e nei giorni di festa anche nei piccoli paesi, così buoni una volta, ci par di riudire il canto dei voluttuosi, come è scritto nel libro della Sapienza: « Circondiamo le nostre tempia di rose prima che marciscano: non ci sia piacere da noi non provato, non ci sia peccato da noi sconosciuto ». Coronemus nos rosis! È una folla di uomini, di donne, di giovanetti che, a coronarsi di queste rose, si riversano ogni giorno nelle sale dei teatri, dei cinematografî, dei balli… E dentro si vede, si ascolta, si ride, si salta; e si vende l’anima al diavolo. Intanto si perde l’amor della propria casa, dei propri figli; i figli sono spine per questi gaudenti, e allora li rifiutano conculcando ogni legge umana e divina. Coronemus nos rosis! È un’altra folla di persone che avida legge i libri, riviste, giornali. Sono romanzacci dove le infamie più vergognose riempiono le pagine; sono novelle fetide di corruzione e di incredulità; sono figure impudiche che ridestano nei sensi il fuoco delle passioni. A quelle letture la mente si popola di fosche immagini, il cuore si accende a desideri impuri, la notte è profanata da sogni brutti. L’anima è invasa da una nebbia grassa che non lascia intravedere Dio: e non si prega più. Coronemus nos rosis! È un’altra folla ancora che vive soltanto per il gioco, e nel gioco consuma il tempo e magari tutto il denaro della famiglia. Per il gioco commettono ingiustizie, si tralascia il rosario in famiglia, si perde la Messa e la dottrina cristiana. Quanta gioventù sciupa tutta la festa negli sports! Che cosa ci potranno dare, domani se non hanno mai sentito parlare della loro anima, dei loro doveri? La rosa del piacere si vuole e non la spina del dovere. Voi, invece, o buoni Cristiani, voi soffrite nella mortificazione del vostro corpo e delle vostre passioni, voi soffrite nell’osservanza della legge di Dio. Ed è giusto che sia così, ce lo dice Tertulliano: « Nostræ cœnæ, nostræ nuptiæ nondum sunt » (De Spect., 28). Il tempo dei nostri festini e delle nostre nozze non è giunto ancora, per ciò non possiamo gioire coi mondani. Quaggiù siamo in viaggio: e quando si cammina non ci si può fermare a divertirsi, altrimenti non si arriva più alla mèta. Quaggiù abbiamo dei grandi affari: amare Dio, salvare l’anima. Ma se qualcuno ha la testa nei divertimenti, non può combinare nessun affare buono. Quaggiù è tempo di battaglia: i soldati che in guerra s’abbandonano alle mollezze, come quelli d’Annibale a Capua, non avranno forza per vincere. Consoliamoci però, non sarà sempre così. Anzi questo tempo è breve: Modicum. Un poco, e poi le rose dei mondani marciranno, e le nostre spine fioriranno un’eterna primavera. – IL VOSTRO PIANTO DIVERRÀ GIOIA. Un giorno a S. Giovanni fu concesso di contemplare i Santi in gloria. Stavano nella luce, nella gioia, nel canto, davanti al trono dell’Agnello. Vestivano con lunghe stole bianche ed agitavano nelle mani palme stupende. S. Giovanni rimase estatico. Uno di essi, vedendo senza dubbio lo stupore dell’Apostolo, gli domandò: « Questi che vedi vestiti di bianche stole, chi sono? Donde vennero? ». E Giovanni dovette confessare la propria ignoranza. « Sappi, gli fu detto allora, che essi sono venuti da una grande tribolazione ». Venir dalla tribolazione! Ecco il miglior titolo per godere in Paradiso. Rallegratevi tutti voi che soffrite, perché siete sulla via del gaudio; tra poco ogni vostra lacrima sarà un sorriso; ogni vostra pena una eternità di gioie. È sulla via della gioia quel giovane onesto che, mentre vede i suoi compagni correre ai divertimenti, frequenta la Chiesa e l’oratorio. È sulla via della gioia quel buon padre di famiglia che è pronto a patir anche la fame, pur di non violare la legge del Signore! È sulla via della gioia quella buona donna, dimenticata da tutti, forse disprezzata anche da quelli che tanto ama, che tutto riceve dalle mani di Dio e soffre con rassegnazione. – Vediamo ora un’altra scena del Vangelo. La scena è divisa in due. In basso un orribile abisso pieno di fuoco; e nel fuoco un uomo brucia e urla: « Abramo! Abramo! » In alto una regione purissima di luce, di melodie. In quella luce, tra quei fiori, tra le musiche, vi è un altro uomo che beatissimo gode. « Abramo! Abramo! », si urla disperatamente dall’abisso ardente. Abramo ascolta quel pianto lungo e straziante. « Abramo, abbi pietà di me. Mandami Lazzaro e digli che col suo dito mi lasci cadere una goccia d’acqua sulla lingua, ché son tutto una fiamma ». E Abramo a lui: « Ti ricordi quando tu vestivi di porpora e bisso e banchettavi ogni giorno nel tuo palazzo? Allora Lazzaro pieno di ulceri giaceva sulla tua porta, e bramava le briciole cadute dalla tua mensa per placare la sua fame. Ma nessuno gliene dava: solo i cani gli lambivano le piaghe cancrenose. Sappi dunque ché tu in vita avesti le gioie, e Lazzaro ebbe i dolori. Ora, e per sempre, Lazzaro godrà e tu soffrirai ». Ecco, o Cristiani, i due destini dell’uomo: goder per pochi anni e soffrire per tutta l’eternità, oppure, soffrir per pochi anni e godere per tutta l’eternità. Quale scegliete per voi? – La sponda è fiorita e dolce è il pendio. In lontananza si estende radioso il sole che tramonta, un vasto strato d’acqua che somiglia ad uno specchio. Sopra una barchetta abbellita da nastri, dei giovani in abito festivo si divertono graziosamente cantando. Sulla riva, un fanciullo sorride e tende le braccia. « Vieni! Vieni! », dicono i gitanti. « Sì, Sì! ». E nel momento in cui il piccolo legno tocca il lido, nel momento in cui il fanciullo si slancia, un braccio vigoroso lo trattiene e lo porta via. È suo padre. « Cattivo! » dice il fanciullo tentando di svincolarsi. Il giorno dopo, una barca vuota e sbattuta dalle onde venne a cozzare contro la sponda. Il fanciullo ancor triste e di cattivo umore, a quella vista comprese la disgrazia a cui era sfuggito; e gettandosi al collo del padre, lo baciò, singhiozzando di tenerezza: « Grazie, Grazie! ». Quante volte ancor noi, mentre sognavamo giorni tranquilli, affari deliziosi, onori, gioie, mentre sognavamo di slanciarsi in barca a traversare, cantando, il lago della vita, abbiamo sentito un braccio vigoroso strapparci dalle nostre illusioni. Era una disgrazia, una malattia, una calunnia, la miseria, l’umiliazione… O meglio, era la vigorosa mano del nostro Padre celeste. Noi in quel momento abbiamo imprecato contro Dio, e forse ancora oggi imprechiamo… Ma verrà un giorno in cui sapremo il perché d’ogni nostra pena e comprenderemo come sarebbe stata la nostra rovina, quella gioia che noi tanto agognavamo. Allora anche noi, come il fanciullo della leggenda, getteremo le braccia in collo a Dio, e piangendo di riconoscenza, gli diremo: « Grazie, buon Dio, d’avermi fatto soffrire! ». – IL DOLORE CRISTIANO. Mundus gaudebit; vos autem contristabîmini, sed tristitia vestra vertetur in gaudium. S. Agostino dice che due amori hanno fatto due città del mondo: Civitates duas fecerunt amores duo.L’uno è l’amore di Dio che ha formato la città dei buoni, i quali vivono nel dolore e nel rinnegamento d’ogni passione. L’altro è l’amore dell’io che vuol la soddisfazione delle proprie voglie ed ha formato la città del mondo che ama la pazza gioia. Mundus gaudebit.Ma perché Gesù ha voluto serbare il dolore per i buoni? Ecco: dal giorno che Adamo e Eva si ribellarono per superbia a Dio, nella nostra natura, ferita dal morso del demonio, si levò un istinto peccaminoso che prepotentemente ci spinge verso ciò che è proibito.Sul nostro occhio è venuto come un velo di polvere che ci fa piacere ciò che ci dovrebbe far paura, che ci tinge di bei colori ciò che in realtà è assai brutto. L’inganno di cui si sentiva vittima anche San Paolo quando scriveva: « Non comprendo quel che faccio: poiché il bene ch’io voglio non lo compio, mentre il male che non vorrei lo faccio ».Per vincere quest’inganno è necessaria un’acqua che deterga quella polvere dai nostri occhi, che ci faccia vedere le cose secondo la fede e non secondo il mondo.Quest’acqua misteriosa sono le lacrime: il dolore. Allora non lamentiamoci della nostra croce, ma portiamola con gioia dietro a Gesù Cristo che ce ne ha dato il primo e insuperabile esempio.Il dolore è la medicina amara che ci guarisce: esso ci stacca dalle cose mondane e ci merita il Paradiso. – CI SI STACCA DALLE COSE VANE DEL MONDO. A Cortona viveva una donna assai ricca. Il suo nome era tristamente famoso: Margherita. Ella non aveva altra ambizione che quella di apparire, null’altra brama che di godere. Chissà quanti richiami Dio aveva già lanciati al suo cuore ardente: ma sempre invano. Deus quos amat castigat. Una sera Iddio la chiamò col dolore. L’uomo, col quale conviveva, non era tornato come al solito, colle prime ombre della notte: eppure dall’alba era partito col suo cane per la caccia. Margherita s’impensierì, poi si agitò, poi non ebbe più pace in quell’aspettativa crudele. Finalmente s’udì un lungo latrare: era il cane fedele, ma col pelo arruffato, ma con macchie di sangue sul pelo. E con più giri circondò la padrona e coi guaiti le significò che l’invitava a seguirlo. Era notte. E Margherita corse nel buio, per viottoli sassosi e spinosi dietro alla bestia che abbaiava incessantemente. Quando il cane si fermò, nel folto dei cespugli, la donna intravvide il cadavere intriso di sangue. Urlò di dolore, pianse, si stracciò le vesti come una pazza. Ma da quella sera i suoi capelli furono cosparsi di cenere, le sue gote rigate di pianto, le collane e le perle vendute per i poveri, gli abiti di seta cambiati con sacco, la sua splendida dimora abbandonata per la nuda cella del convento. E cominciò a pregare, a vegliare, a macerarsi, ad amar Dio con l’ardenza dei Serafini. La gaudente divenne la penitente, la peccatrice si fece una santa. Chi ebbe tanta forza da strapparla così decisamente dalla sua perduta via? Il dolore. – Ed anche noi possiamo vedere ai nostri giorni queste belle trasformazioni operate dal dolore e dalla croce. Chi ha persuaso quell’uomo, che da molti anni non faceva la Pasqua, ad accostarsi ai sacramenti? La morte di una sua bambina; un disastro finanziario; un’umiliazione in società. Quand’è che quella donna è tornata modesta, seria? Dopo la morte di suo marito, dopo quella malattia che l’ha condotta in fin di vita, dopo quella tribolazione in famiglia. Le disgrazie, le croci ci privano delle gioie quaggiù. Ma che cosa sono questi beni terreni? Sentiamo Salomone: « Ho detto allora a me stesso: godiamo di tutti i beni, andiamo in mezzo a tutte le delizie…; mi feci palazzi e giardini, limpidi laghi bagnavano al basso le mie foreste; possedevo numerosi greggi e le mandrie più belle d’Israele; avevo vasi d’oro e d’argento; avevo servi ed ancelle, cantori e cantatrici. Avevo tutte le delizie degli uomini. Niente ho negato alle brame degli occhi miei, nessuna voluttà ho negato al mio cuore. Chi più di me ha divorato tutto il fremito gioioso dei piaceri, e l’ebbrezza dei sensi? Ed ho veduto che il riso è una menzogna e la gioia un inganno. Niente sotto il sole ha valore: tutto è vanità e amarezza dell’anima ». Il cuore dello stolto sogni la gioia! Mundus gaudebit. Il cuore del sapiente ha cara la tristezza! Vos autem contristabimini. Se il dolore non fa altro che distaccare da una falsa felicità, non lamentiamoci più contro la divina Provvidenza, ma baciamo con riconoscenza quella mano che ci percuote per nostro bene. – CI MERITA IL PARADISO. In una chiesa di Pisa, Cristo apparve a S. Caterina da Siena, mostrandole due corone: l’una d’oro, l’altra di spine. E le diceva: « Tu devi portare queste due corone ma in tempi differenti: se porti ora quella d’oro, quella di spine l’avrai per tutta l’eternità ». Caterina rispose: « O Signore, voi sapete che la mia scelta è fatta da lungo tempo… ». E stendendo le braccia, prese la corona di spine, la baciò e se la pose in capo. Ecco perché i santi, che sono i veri sapienti della vita, hanno portato con gioia la croce; anzi l’hanno cercata con desiderio. Il fratello di S. Pietro Apostolo era giunto nelle sue peregrinazioni apostoliche fin nell’Acaia, ove s’attirò le ire del proconsole. Fu rinchiuso in un carcere e poi condannato al supplizio della croce. Ma quando, accompagnato dagli sgherri, legato, battuto, egli vide da lontano comparire la sua croce, le protese le braccia ed eruppe in un cantico stupendo: « Salve, crux! quæ diu fatigata, requiescis exspectans me suscipe me, et redde Magistro meo ». Salve, o croce, bramata da lungo tempo! prendimi nelle tue braccia e rendimi a Gesù.Questi devono essere i sentimenti dei veri Cristiani davanti alle tribolazioni della vita. Senza patire non si entra nel regno eterno della gioia. Per multas tribulationes oportet nos intrare in regnum Dei (Atti, XIV, 21).Il Paradiso è l’eredità dei figli di Dio. E non si è figli di Dio, se non si è fratelli di Gesù Cristo, unico Figlio naturale di Dio.Ma come si può pretendere di essere fratelli di Cristo, quando cerchiamo la corona di rose mentre Egli è coronato di spine? Quando ci rifiutiamo di portar, come lui, la nostra croce? Si quis vult post me venire abneget semetipsum, tollat crucem suam. Prendiamo dunque la nostra croce da portare, ed il pensiero del premio che ci aspetta c’infonderà coraggio: Quia non sunt condignæ passiones huius temporis ad futuram gloriam. – Suor Teresa del Bambino Gesù aveva avuto l’incarico di assistere una suora vecchia e inferma. Tutte le sere alle sei meno dieci doveva interrompere la sua meditazione per condurla in refettorio. Questo servizio le costava assai, perché sapeva la difficoltà o meglio l’impossibilità di contentare la povera inferma. Quando la vedeva scuotere l’orologio a polvere doveva armarsi di santo coraggio e cominciare una sequela di cerimonie. Doveva smuovere e tirare una panca, ma sempre al medesimo modo, sorreggerla per la vita e accompagnarla leggermente. Se per disgrazia le sfuggiva un passo falso, subito si sentiva un aspro rimbrotto « Ma buon Dio, andate troppo lesta, così mi fate rovinare ». Se poi andava piano « Muovetevi dunque, non sento più la vostra mano. Lo dicevo che eravate troppo giovane per accompagnarmi! ». Una sera d’inverno, che faceva freddo ed era buio, mentre compiva questo penoso ufficio, la piccola santa udì venir da lontano il suono armonioso di molti strumenti: e subito si presentò alla sua fantasia la ricca sala dorata, le luci, i profumi, il fruscìo delle vesti di seta e le mille cortesie. Mundus gaudebit! Ed ella era là, sola: nel freddo, nel buio, nello squallore ruvido del chiostro; ella che era pur giovane e ricca; ella che era stata abituata alle squisitezze d’una soave famiglia signorile: era là con gli occhi pieni di lacrime accanto a quella vecchia monaca crucciosa che la tormentava… Vos autem contristabimini! Ma ora la piccola santa non soffre più. Ora ogni cuore le offre un palpito, ogni Chiesa un altare. Ed ella è beata e gloriosa tra le armonie degli Angeli ed il sorriso del suo Sposo diletto Gesù. Così sarà pure dei nostri dolori, se sapremo accettarli come Cristiani. Tristitia vestra vertetur in gaudium.

IL CREDO

Offertorium

Orémus

Ps CXLV: 2 Lauda, anima mea, Dóminum: laudábo Dóminum in vita mea: psallam Deo meo, quámdiu ero, allelúja.

[Loda, ànima mia, il Signore: loderò il Signore per tutta la vita, inneggerò al mio Dio finché vivrò, allelúia.]

Secreta

His nobis, Dómine, mystériis conferátur, quo, terréna desidéria mitigántes, discámus amáre coeléstia.

[In virtú di questi misteri, concédici, o Signore, la grazia con la quale, mitigando i desiderii terreni, impariamo ad amare i beni celesti.]

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

Joannes XVI: 16 Módicum, et non vidébitis me, allelúja: íterum módicum, et vidébitis me, quia vado ad Patrem, allelúja, allelúja.

[Ancora un poco e non mi vedrete più, allelúia: ancora un poco e mi vedrete, perché vado al Padre, allelúia, allelúia.]

Postcommunio

Orémus.

Sacramenta quæ súmpsimus, quæsumus, Dómine: et spirituálibus nos instáurent aliméntis, et corporálibus tueántur auxíliis.

[Fai, Te ne preghiamo, o Signore, che i sacramenti che abbiamo ricevuto ci ristòrino di spirituale alimento e ci siano di tutela per il corpo.]

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

LO SCUDO DELLA FEDE (202)

LO SCUDO DELLA FEDE (202)

DIO GI LIBERI CHE SAPIENTI! CI VORREBBERO FAR PERDERE LA TESTA! (5)

PER Monsig. BELASIO

TORINO, 1878 – TIPOGRAFIA E LIBRERIA SALESIANA San Pier d’Arena – Nizza Marittima.

§ III.

Il terzo inganno è il voler darsi d’intendere che gli uomini sono nati dalle bestie molti secoli e secoli prima che li creasse con amore Dio benedetto.

 (I PREISTORICI).

(1)

Spez. Ma che costoro s’abbiano tra loro data la parola da dire dappertutto tante empie bestialità?… e che vogliano mettersi d’accordo per trattarci alla maniera come cose da farne quel che vogliono, e menarci come le bestie col bastone?… Basta basta, li sentiamo che cominciano a dirci, che noi veniamo dalle bestie!… Abbia la bontà di lasciarmi dire. Essi vanno ricantando che tutto quello che abbiamo di buono viene dallo sviluppo del progresso. E li raccontano, come se l’avessero veduto, che i primi uomini vennero fuori dalle selve irsuti come gli orsi e che mano mano diventarono civili. E studia e studia! L’hanno| poi fatta la gran bella scoperta: che sono certe quali bestie che cominciarono a diventar uomini!.. Benché ancora non hanno ben sognato di quale specie di scimmioni siano i nostri venerandi genitori. Però dicono essi: che trovarono le ossa di queste bestie-uomini; e che sanno essi come quegli uomini bestiali vivessero selvatici insieme colle fiere; e trovarono tante cose…

Par. Adagio adagio, mio buon amico, ne dicon tante, ne dicon troppe… Voi state sempre sull’avviso, non lasciando a loro passare confusamente tante bestiali ed empie falsità. Avvertite che gl’increduli sono come i furfanti, i quali troppo van facendo i loro interessi nelle oscurità e nelle confusioni. Cercano confondere i poco intelligenti collo sciorinare loro dinanzi quasi fosse verità e tutto oro da coppella quello che inventano o vogliono intendere a modo loro; e  per tutte buone ragioni basta solo che lo dican essi; ché debba valer più che se l’avesse detto Iddio. – Abbiate pazienza. di ripetermi ad uno ad uno gli errori che udite, affinché possa io darvi con calma in risposta le ragioni che ne mostrano le falsità.

Spez. La ringrazio; e voglio cavarmeli dalla testa coll’esporli qui a lei. In prima dicon là, senza ragione alcuna, che nacquero da non san dire neppur essi quali bestie, i primi non so che; se siano nati più bestiolini o più bambini.

Par. Ma deh! oh rispondete loro che non la dican così sconcia! È impossibile che un bambino sia nato bestiolino, e che nato un bambino alla bestiale, potesse vivere di poi. Il bambino ha bisogno d’una madre che se lo pigli in seno, lo levi sopra tutti gli animali, e subito subito con un bacio e gli occhi al cielo gli faccia intendere ch’egli è nato per sollevarsi dalla terra al Creatore, al Padre, a Dio che lo aspetta. Ha bisogno d’una madre e di un padre che sel piglino tra loro, e col dono della parola gli mostrino a conoscere le cose e ragionare. Qui poi è pur da fermarsi a ben considerare che i primi genitori stessi se fossero anche stati creati bambini, non avrebbero potuto vivere senza le cure d’una madre e di un padre. Questo prova come è vero quanto insegna la dottrina, che il Signore ebbe creati Adamo ed Eva in fior di vita, capaci a ragionare e provvedere a se stessi e poi ai loro figliuoli, tra le belve prepotenti. Pigliateli anzi in parola, quando dicono che l’uomo è l’ultima evoluzione della terra, dite loro: Se il primo uomo fosse stato formato lì ancor bimbo senza l’uso della ragione, poverino quell’infantuccio! senza una piuma e senza un pelo che lo coprisse, senza un dente e senza artigli per difendersi e mantenersi nella vita, senza forza e senza saper che fare, sarebbe stato subito dalle belve divorato! Eh via via! dite loro che lo dice fin Voltaire: che se si dimanda donde veniamo e come fummo noi creati, ne sa più il fanciulletto che l’impara al catechismo, che non tutti quei che si credono sapienti e lo inventano da sé. Basta solo pensare a questo, che se l’uomo fosse apparso bambino sulla terra, non avrebbe potuto vivere per dover credere che i primi nostri genitori furon creati in pieno sviluppo di vita e di ragione per poter vivere la vita umana. Sì si, che quel che insegna la dottrina cristiana della creazione degli uomini è quello solo che soddisfa la ragione e fa bene al nostro cuore. — È una cara verità di Dio che noi siamo creati per conoscerlo, per amarlo, per esser sempre con Lui beati. Se poi vi piacesse mostrare loro chiaramente che ne san meno dei fanciulli questi che non hanno fede, fate loro queste tre dimande sole: La prima: Non è vero che come noi siamo qui, né ci siam fatti da noi stessi; così noi intendiam subito che una cosa che è fatta, è stata fatta da qualcuno? Dunque pure intendiamo subito che vi debba essere un Creatore onnipotente che poté far tutto così bene. Tutti i popoli del mondo perciò credono, pregano e in qualche modo così adorano un Creatore. Or via, mi dite: se fra tutte le bestie che esistono da mille e mille anni, vi sarà mai stata anche una scimmia sola che abbia dette le orazioni o innalzato un solo altare?… Salterebbero su sino i fanciulli: « O no no, perché sono bestie! » – La seconda: Non è vero che tutti gli uomini san formarsi ed adoprarsi gli stromenti per far bene quel che vogliono?… Or via, mi dite: vi sarà mai stato uno scimmione così destro, che abbia aguzzato un solo palo per coltivarsi un campicello ?… « Oh no no, risponderebbero sino i bimbi, i scimmioni sono bestie. » – Fate lor questa terza dimanda: Se non è vero che tutti gli uomini, quando vedono far del male ad altri e rubargli ciò che è suo, essi, sentono che il malfattore meriti di essere castigato?… Or via, mi dite: se mai vi saranno state scimmie che gridassero di far un po’ di giustizia e se avran rizzato un tribunale?… « Oh oh, risponderebbero tutti i bimbi sghignazzosetti colle loro alte vocine, sono bestie… e le bestie non sanno che cosa sia far bene o male! » Dunque î bambini del catechismo mostrano di aver maggior giudizio di coloro che non credono e si vantano scienziati. Or mi direte, quali son le grandi scoperte di queste ossa di bestie umane come essi vanno sognando?

Spez. Dicon essi che fu trovato in Neanderthal il più bestiale, il più scimmiesco cranio d’uomo, e fino, pensate! una mascella a Moulin Quignon… un vero tesoro da museo. È vero che non vi erano più denti. Che peccato! erano stati venduti ad uno scienziato che buono buono li pagava troppo bene. Or di un cranio frantumato e di una mascella senza denti con poche altre ossa se ne servono per combattere tutta la storia della creazione e tutta la grand’opera di Dio.

Par. Oh!… e con quale ragione quei frantumi di una testa e con quella povera mascella volevano dire che erano di un uomo scimmiesco? Solo perché erano mal conformati? Con questo modo di ragionare, udite, udite che ci potranno dire quelle cime di teste così dotte. Se dimani un povero cretino (un di que’ meschini che per loro malattia, detta cretinismo, han la testa grossa grossa; conficcata tra le spalle quasi senza collo) girando alla stordita cadesse poverino! in un precipizio, e venisse dalle acque. in una piena trasportato dentro un buco della montagna; se lo troveranno poi dopo qualche anno tra le fanghiglie indurite come calce; to, che diranno subito che quel cretino nostro era un uomo scimmione prima d’Adamo? Che se poi dicono che quel cranio era molto antico e preistorico di molti secoli, perché voglion proprio che fosse di antica formazione quel terreno in cui si è trovato, dite a loro che nello stesso tempo si è trovato in Eugis, in un terreno detto da loro più antico, un altro cranio così bene conformato che mostrava come l’uom che si dovrebbe riconoscere da loro pel più antico del mondo, doveva avere una testa bella come quelle dipinte da Raffaello.

Spez. L’ho capito; ma che potrò rispondere, se nei musei detti preistorici mostrano tante schegge di pietre che tengon preziose, perché le dicon armi di quegli uomini ancor selvatici.

Par. A proposito di quelle pietre, corsi anch’io ad esaminarle negli scaffali di museo; e proprio là dovetti dire ad uno scienziato che aveva ancor buon senso: « Signor mio, se si vogliono di schegge così mal spezzate, ne trovate delle carra pei letti dei torrenti; tra montagne, poiché le schegge della silice trasportate giù dalle acque s’arrotondano a forma ovale, e sbattute trai macigni sì frantumano e sì sfogliano a mo’ di lancia. Eh meglio ancora che non son quelle là stampate in quel libro di quel signore il quale vuol far vedere lucciole per lanterne a coloro che egli tiene gonzi per lui.

Spez. Eh, ma dicon poi che si trovarono ossa di uomini nelle caverne miste a quelle delle belve, preistoriche cioè antichissime, tanto che non se ne trovano più al mondo; e conchiudono che quegli uomini selvatici vivevano insieme colle fiere.

Par. Che si siano trovate tali ossa miste insieme, certamente non prova che quegli uomini si passassero la vita in comunella colle fiere. Dite pure francamente che proprio a confondere questi pretendenti, dove si trovarono ossa umane, sì trovano, si può dire, sempre appresso a loro lavoretti fatti di ossa delle belve, e strumenti per lavorarli, armi ed ami e utensili di cucina; è a vederli già che di quanto bello lavoro!.. Oh, ma si dovrebbe dire mai, che quegli antichi uomini stesser là nelle caverne colle fiere a lavorare le loro ossa, e con loro se la facesser così bene! E come le nostre damigelle si divertono agucciando in ricami colle loro sorelline nel salotto della mamma, essi pure intagliando finemente quelle ossa si divertissero con quegli enormi orsacci e tigri e iene dette appunto delle caverne, perché più orribili dei viventi ai nostri tempi, oh oh se quelle care sorelline li avranno accarezzati cogli unghioni e baciati con quei denti a forma di grande stocco! «Anche qui, se dal trovarsi insieme ossa d’uomini e di antichissimi animali mostruosi si dovesse conchiudere che quegli uomini e quelle fiere vivessero tra loro da buoni amici; il ciel non voglia che un uragano sorprenda qualche Russo od Inglese, ricercatori d’avorio ai nostri di in Siberia tra gli avanzi degli elefanti, e dei mammouth; perché, trovate poi commiste le loro ossa, direbbero che i poveri nostri europei erano gli amiconi dei mammouth, e preistorici. avanti ad Adamo da chi sa quanti mila anni.

Spez. Ma assicurano che quegli uomini abitavano e seppellivano i morti nelle caverne.

Par. Lo credo anch’io che quando quegli antichi disperdendosi, come dice la Parola santa di Dio, si allontanarono dai grandi regni che si formavano fin d’allora; e per le alture delle montagne vennero i primi ad abitare tra i monti dell’Europa dei nostri dì, là in mezzo a tante fiere fu per loro vera grazia ritrovare delle caverne ed abitarle come case. Là le mura eran già fatte e ben solide e sicure; un buon lastrone di sasso incastrato alla bocca dell’antro li teneva sicuri nel lor rifugio, in cui godevano la tenerezza delle lor famiglie. Là difatti si trovano ancora e le mense pur di sasso e le ceneri dei focolari e gli strumenti di cucina. Insomma, dove si trovano segnali che là abitassero degli uomini; là sono sempre gli argomenti che erano uomini come noi. Là pur potevano deporre i lori morti come in luoghi più sicuri per salvare quei cari avanzi dagli unghioni e dalle zanne delle belve. – Trovarono adunque: che quegli antichissimi selvatici, come essi dicono, non solo abitavano; ma nelle caverne, come in quella famosa di Aurignac, seppellivano l’un presso all’altro i loro morti: anzi, aggiungono che alla bocca di quell’antro sì trovarono eziandio avanzi di cenere di mensa e di altare. Oh oh, che quegli non so che, se più bestie o più uomini degli increduli creati a fantasia, pregassero fino d’allora pei lor morti? E si raccogliessero a convito davanti ai loro sepolcri? Vorranno dunque i nostri signori, che pur credono niente, fare credere a noi che quelle bestie ancor, né ancor uomini fatti, facessero piamente i funerali ai loro padri bestie un grado indietro più di loro! Se seppellivano così bene i loro morti, erano ben uomini pietosi! Se poi volessero ostinarsi a dire che erano selvatici, perché frequentavano le caverne, noi vorremmo loro rispondere: che ancora adesso da quella cara e santa grotta di Betlemme, alle spelonche dei santi solitari e sino alle devote grotte dei nostri santuari, anche noi usiamo frequentare quegli antri; eppur noi non siamo selvatici e. molto meno preistorici: né lo sono i cittadini di Modica, abitanti nelle grotte in quella città ancora presentemente.

Spez. Ma se sapeste, ne trovan sempre delle nuove! e fino in fondo dei laghi scopersero degli avanzi di abitazioni; e gl’increduli a far gazzarra, e cantare e ricantare che in mezzo a quelle acque vi dovettero abitare uomini selvatici certamente preistorici, in tre epoche diverse che chiamano della pietra, del bronzo e del ferro.

Par. Ve lo voglio ancora ripetere: Non lasciatevi ingannare dagli increduli che qui cercano di confondere i poco istruiti coll’usare la parola in senso confuso. Ora vi darò io il vero senso della parola preistorico, che menano tanto per bocca. Attendete. [1. Continua…]