DOMENICA III DOPO PASQUA (2022)
Semidoppio. • Paramenti bianchi.
La Chiesa è nella gioia perché Gesù è risuscitato e ci ha fatti liberi (All.). Essa dà quindi gloria a Dio (Intr.) e ne canta le lodi (Off.). «Ancora un poco di tempo e non mi vedrete più, aveva detto Gesù nel Cenacolo, allora piangerete e vi lamenterete; ancora un poco di tempo e mi rivedrete e il vostro cuore si rallegrerà» (Vang.). Gli Apostoli, vedendo Gesù risuscitato, provarono quella gioia che risuona ancora nella liturgia pasquale; e come la Pasqua è un’immagine della Pasqua eterna, questa gioia è la stessa che avrà la Chiesa quando, dopo aver, nel dolore, generato anime a Dio, vedrà Gesù apparire trionfante nel cielo alla fine dei secoli, tempo assai breve, se paragonato all’eternità (Mattutino). « Egli allora cambierà la nostra afflizione in un gaudio che nessuno potrà più rapirci » (Vang.). Questo gaudio santo comincia già su questa terra, poiché Gesù non ci lascia orfani, ma viene a noi per mezzo dello Spirito Santo; e nella grazia sua siamo colmati di gioia nella speranza di una felicità avvenire. Non attacchiamoci ai vari piaceri del mondo, dice San Pietro, noi che siamo stranieri e viandanti avviati verso il cielo al seguito del divino Risuscitato, ma osserviamo i precetti tanto positivi, quanto negativi del Vangelo (Ep.), affinché, facendo professione di Cristianesimo, possiamo evitare quello che disonora questo nome e praticare quanto vi è conforme (Or.) e giungere cosi alla celeste Gerusalemme. «Uno dei sette Angeli mi disse: Vieni e ti mostrerò la novella sposa, la sposa dell’Agnello. E vidi Gerusalemme che scendeva dal cielo, ornata dei suoi monili, alleluia. Come è bella la sposa che viene dal Libano, alleluia » (Respons.). L’eucaristico e divino alimento delle anime nostre protegga i nostri corpi (Postcomm.), affinché mitigando in noi l’ardore dei desideri terrestri, ci faccia amare i beni celesti (Secr.).
Incipit
In nómine Patris, ☩ et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.
Introitus
Ps LXV: 1-2. Jubiláte Deo, omnis terra, allelúja: psalmum dícite nómini ejus, allelúja: date glóriam laudi ejus, allelúja, allelúja, allelúja.
[Giubila in Dio, o terra tutta, allelúia: innalza inni al suo Nome, allelúia: dà a Lui gloria con le tue lodi, allelúia, allelúia, allelúia.]
Ps LXV: 3 Dícite Deo, quam terribília sunt ópera tua, Dómine! in multitúdine virtútis tuæ mentiéntur tibi inimíci tui.
[Dite a Dio: quanto sono terribili le tue òpere, o Signore. Con la tua immensa potenza rendi a Te ossequenti i tuoi stessi nemici.]
Jubiláte Deo, omnis terra, allelúja: psalmum dícite nómini ejus, allelúja: date glóriam laudi ejus, allelúja, allelúja, allelúja.
[Giubila in Dio, o terra tutta, allelúia: innalza inni al suo Nome, allelúia: dà a Lui gloria con le tue lodi, allelúia, allelúia, allelúia.]
Oratio
Orémus. –
Deus, qui errántibus, ut in viam possint redíre justítiæ, veritátis tuæ lumen osténdis: da cunctis, qui christiána professióne censéntur, et illa respúere, quæ huic inimíca sunt nómini; et ea, quæ sunt apta, sectári.
[O Dio, che agli erranti mostri la luce della tua verità, affinché possano tornare sulla via della giustizia, concedi a quanti si professano Cristiani, di ripudiare ciò che è contrario a questo nome, ed abbracciare quanto gli è conforme.]
Lectio
Léctio Epístolæ beáti Petri Apóstoli: 1 Pet II: 11-19
“Caríssimi: Obsecro vos tamquam ádvenas et peregrínos abstinére vos a carnálibus desidériis, quæ mílitant advérsus ánimam, conversatiónem vestram inter gentes habéntes bonam: ut in eo, quod detréctant de vobis tamquam de malefactóribus, ex bonis opéribus vos considerántes, gloríficent Deum in die visitatiónis. Subjécti ígitur estóte omni humánæ creatúræ propter Deum: sive regi, quasi præcellénti: sive dúcibus, tamquam ab eo missis ad vindíctam malefactórum, laudem vero bonórum: quia sic est volúntas Dei, ut benefaciéntes obmutéscere faciátis imprudéntium hóminum ignorántiam: quasi líberi, et non quasi velámen habéntes malítiæ libertátem, sed sicut servi Dei. Omnes honoráte: fraternitátem dilígite: Deum timéte: regem honorificáte. Servi, súbditi estóte in omni timóre dóminis, non tantum bonis et modéstis, sed étiam dýscolis. Hæc est enim grátia: in Christo Jesu, Dómino nostro.”
(“Carissimi: Io vi scongiuro che da stranieri e pellegrini vi asteniate dai desideri sensuali, che fanno guerra all’anima. Tenete una buona condotta fra i gentili, affinché, mentre sparlano di voi quasi foste malfattori, considerando le vostre buone opere, diano gloria a Dio nel giorno in cui li visiterà. Per amor di Dio siate, dunque, sottomessi a ogni autorità umana; sia al re, che è sopra di tutti, sia ai governatori come da lui mandati a far giustizia dei malfattori e a premiare i buoni. Poiché questa è la volontà di Dio, che, operando il bene, chiudiate la bocca all’ignoranza degli uomini stolti. Diportatevi da uomini liberi, che non fate della libertà un mantello per coprire la nequizia, ma quali servi di Dio. Onorate tutti, amate la fratellanza, temete Dio, rendete onore al re. Servi, siate con ogni rispetto sottomessi ai padroni, e non soltanto ai buoni e benevoli, ma anche agli indiscreti; poiché questa è cosa di merito; in Gesù Cristo Signor nostro”).
L’obbedienza e l’autorità come principio
(G. Semeria: Epistole della Domenica – Milano – 1939)
Tutta l’Epistola di questa domenica, terza domenica di Pasqua, è degna del suo autore umano e delle circostanze storiche in cui gli accadde di scrivere. San Pietro, Apostolo dell’autorità tratta precisamente dell’autorità per garantirne i diritti. Ma non si circoscrive nel suo mondo religioso, non chiede obbedienza solo ai pastori d’anime, va oltre ei direbbe guardi di preferenza, almeno a momenti, l’autorità civile. Certo egli pensa a quel mondo romano che dopo essere stato il mondo della violenza, volle essere il mondo della legge. E si preoccupa, il Pontefice, ormai romano anch’esso, di quel mondo in cui vive, se ne preoccupa in due modi, per due ragioni. Intanto quel mondo ha un suo valore spirituale, morale, vero e proprio in quanto non è pio e non vuol essere il mondo della violenza bruta e dell’arbitrio personale, quel mondo non bisogna guastarlo per pretesa, neppur per pretesi interessi spirituali superiori come certi fanatici sarebbero pronti a fare; bisogna conservarlo. Il Cristianesimo assume il suo ufficio di conservatore della civiltà. Conservarlo per se stesso, conservarlo anche per creare uno scandalo civile alle coscienze di fronte all’invito religioso del Vangelo. – Ma per conservare quel mondo civile bisogna custodire, rafforzare il principio, uno dei principi su cui regge, che è proprio l’autorità col suo correlativo: l’obbedienza. L’autorità principio unificatore, l’autorità rappresentanza dell’interesse collettivo di fronte alla somma degli interessi individuali, somma concorrente. – Il Cristianesimo per bocca dei suoi primi propagandisti più autorevoli, Pietro e Paolo, vi apporta il suggello di una vera e propria consacrazione, il paganesimo, in fondo, ha avuto – se è limitato al concetto di autorità per forza, o delle autorità entusiasmo – nell’un caso e nell’altro, un concetto personale dell’autorità, la persona del monarca (comunque poi si chiami chi comanda). Nel paganesimo, e dovunque il paganesimo, il laicismo civile risorge, comanda il più forte, in ragione ed in nome della sua forza. Il monarca è il potente, uomo o classe. – Che se poi si esce da questa situazione così precaria e avvilente, vuoi per chi comanda, vuoi per chi obbedisce, è per il rotto della cuffia dell’entusiasmo, il mito, il feticcio. Il monarca è Cesare, tutti lo acclamano e lo adulano. Di fronte alla sua autorità personale e mitologizzata l’obbedienza è servilità, una schiavitù dorata, schiavitù sempre. Il monarca nei due casi comanda, s’impone perché è lui. Il padrone sono me. Si fabbrica sull’arena mobile. Se la forza vien meno? Se l’entusiasmo si sgonfia? Che cosa succede? Dove va a finire la società di cui l’autorità è anima, vita, forza stabile, è verso la spersonalizzazione dell’autorità. L’autorità principio sostituita dall’autorità persona. E noi abbiamo di questo sforzo una formula magica nell’epistola di oggi. – « Obbedite ai vostri capi legittimi anche quando, anche se essi sono cattivi ». È l’ipotesi più terribile. La bontà e la qualità che sembra essenziale in chi comanda. Passi pure la mancanza di genio, d’ingegno, ma la bontà! La funzione del comando è proprio una funzione morale e moralizzatrice. E l’Apostolo è ben lontano dal negare in chi comanda l’utilità, la preziosità della bontà. Un buon monarca è il più grande dono di Dio a un popolo. Ma non bisogna edificare lì; neppur lì, su questa facoltà preziosissima. Guai! Si tornerebbe al personalismo; l’obbedienza è alla discrezione dei sudditi e possono giudicare le qualità personali. E perciò obbedite ai vostri capi sempre, perché sono capi, qualunque siano le loro qualità o i loro difetti… anche ai personalmente cattivi. Purché non comandino il male, purché non si erigano comandando né contro Dio, né contro la coscienza. – I Cristiani sono così i sudditi migliori, i più fidati dell’impero … d’ogni impero, d’ogni stato civile, diremmo oggi in linguaggio moderno. E perciò sono ciechi i governi che combattono il Cristianesimo; si danno la zappa sui piedi. Sono miopi i governi che accarezzano la religione per secondi fini, sono savi oltreché onesti, i governi che favoriscono senza ipocrisie, equivoci e sottintesi il Cristianesimo: lavorando in apparenza per la religione, lavorano in realtà abilmente ed efficacemente per sé.
Alleluja
Allelúja, allelúja. Ps CX: 9 Redemptiónem misit Dóminus pópulo suo:alleluja.
[Il Signore mandò la redenzione al suo pòpolo. Allelúia.]
Luc XXIV: 46 Oportebat pati Christum, et resúrgere a mórtuis: et ita intráre in glóriam suam. Allelúja.
[Bisognava che Cristo soffrisse e risorgesse dalla morte, ed entrasse così nella sua gloria. Allelúia.]
Evangelium
Joannes XVI: 16; 22
“In illo témpore: Dixit Jesus discípulis suis: Módicum, et jam non vidébitis me: et íterum módicum, et vidébitis me: quia vado ad Patrem. Dixérunt ergo ex discípulis ejus ad ínvicem: Quid est hoc, quod dicit nobis: Módicum, et non vidébitis me: et íterum módicum, et vidébitis me, et quia vado ad Patrem? Dicébant ergo: Quid est hoc, quod dicit: Modicum? nescímus, quid lóquitur. Cognóvit autem Jesus, quia volébant eum interrogáre, et dixit eis: De hoc quaeritis inter vos, quia dixi: Modicum, et non vidébitis me: et íterum módicum, et vidébitis me. Amen, amen, dico vobis: quia plorábitis et flébitis vos, mundus autem gaudébit: vos autem contristabímini, sed tristítia vestra vertétur in gáudium. Múlier cum parit, tristítiam habet, quia venit hora ejus: cum autem pepérerit púerum, jam non méminit pressúræ propter gáudium, quia natus est homo in mundum. Et vos igitur nunc quidem tristítiam habétis, íterum autem vidébo vos, et gaudébit cor vestrum: et gáudium vestrum nemo tollet a vobis.”
(“In quel tempo Gesù disse ai suoi discepoli: Un pochettino, e non mi vedrete; e di nuovo un pochettino, e mi vedrete: perché io vo al Padre. Dissero però tra loro alcuni dei suoi discepoli: Che è quello che egli ci disse: Non andrà molto, e non mi vedrete; e di poi, non andrà molto e mi vedrete, e me ne vo al Padre? Dicevano adunque che è questo che egli dice: Un pochetto? non intendiamo quel che egli dica. Conobbe pertanto Gesù che bramavano d’interrogarlo, e disse loro: Voi andate investigando tra di voi il perché io abbia detto: Non andrà molto, e non mi vedrete; e di poi, non andrà molto, e mi vedrete. In verità, in verità, vi dico, che piangerete e gemerete voi, il mondo poi godrà: voi sarete in tristezza, ma la vostra tristezza si cangerà in gaudio. La donna, allorché partorisce, è in tristezza, perché è giunto il suo tempo, quando poi ha dato alla luce il bambino, non si ricorda più dell’affanno a motivo dell’allegrezza, perché è nato al mondo un uomo. E voi dunque siete pur adesso in tristezza; ma vi vedrò di bel nuovo, e gioirà il vostro cuore, e nessuno vi torrà il vostro gaudio”.).
OMELIA
(G. Colombo: Pensieri sui Vangeli e sulle feste del Signore e dei Santi; VI ediz. – Soc. Ed. Vita e pensiero.- Milano 1956.
GIOIA TRISTE E TRISTEZZA LIETA
Il Vangelo questa volta ci riferisce un momento dell’ultima sera che Gesù, prima di muovere incontro alla sua agonia sanguinosa, volle passare nell’intimità degli amici più caramente diletti. Il cuore di tutti era occupato dalla prossima fine del Signore, il quale la vedeva con certezza e precisione di particolari, mentre i discepoli la presagivano con timore e confusione. « Ancora un poco, e non mi vedrete più; ma dopo un altro poco mi vedrete ancora ». Queste parole misteriose significavano la vicina morte e sepoltura che avrebbe sottratto al loro sguardo l’amato Maestro; sottratto per poco però, perché sarebbe risorto al terzo giorno per non più morire. Ma nessuno le comprese a pieno, onde si misero tutti in ansia. Gesù per calmarli dolcemente aggiunse: « Vi dico che voi gemerete e piangerete, mentre il mondo se la godrà. Ma come la donna quando giunge l’ora della sua maternità è presa da tristezza, poi dimentica ogni angoscia per la gioia d’avere un bambino, così voi: ora che me ne vado siete presi da tristezza, ma quando tornerò a vedervi, il vostro cuore godrà. E nessuno vi potrà allora strappare la vostra gioia » – Questo è il brano evangelico che commenteremo. Una volta un pagano di nome Petronio e di soprannome « arbitro delle eleganze », tra i canti e le lusinghe di un festino, bevve l’ultimo sorso di una splendida coppa. Poi disperatamente la scagliò sul pavimento ove s’infranse, indi si ritirò nel suo bagno a segarsi le vene. Ancora si suonava: e si rideva, ed egli moriva dissanguato. Così è la coppa del mondo: riso e festa e liquore inebriante, e poi in fine l’amarezza e da ultimo la disperazione della morte. Invece Gesù disse una volta a Giacomo e Giovanni, i due figli di Zebedeo: « Potete voi bere il mio calice? ». Era il calice della umiliazione, del rinnegamento, del martirio. Essi risposero: « Lo possiamo ». E dietro l’amarezza, i figli di Zebedeo vi trovarono la pace e l’amore ardente e puro, vi trovarono da ultimo la vita e la gioia eterna. Dunque, Gesù e il mondo si presentano a noi, ciascuno col suo calice, e c’invitano a bere. Il calice del mondo dà la gioia al primo contatto ma una gioia esteriore e breve e poi lascia uno sgomento intimo e infine un dolore eterno. Il calice di Gesù dà la sofferenza al primo contatto, ma una sofferenza esterna e breve: e poi diffonde una dolce serenità nel cuore e infine un gaudio immenso ed eterno. A quale calice appresseremo le nostre labbra avide di felicità? a quello della tristezza lieta o della gioia triste? – IL CALICE DELLA GIOIA TRISTE. Per due motivi la gioia del mondo è triste: perché è esteriore, perché dura poco. – a) Un grande scrittore norvegese descrive un naviglio poderoso e sicuro che porta di mare in mare uomini, mercanzie, ricchezze. La ciurma è gaia e baldanzosa, ed anche i passeggeri sono presi nel gorgo di quella allegria. A bordo si agitano mille bandierine, si balla, si suona, si cantano le giulive canzoni della terra nativa. Improvvisamente, un giorno, senza alcun palese motivo, un’ansia strana sbianca la faccia di qualche uomo. Che è successo? C’è una falla nella chiglia? Minaccia carestia? È caduto qualcuno in mare? No, no. Solo, da poppa a prua, circola una voce: « C’è un morto nella stiva… ». (Ibsen, Epistola poetica a Georg Brandes). – Simile alla gioia di quel naviglio è quella del mondo. Cercate sotto a tante illusioni di felicità, dopo tante ore di stordimento, dopo tanti giorni vissuti nella dissipazione e troverete un cadavere: l’anima soffocata, l’anima infracidita. La coscienza di essere rovinati nell’intimo è come una macchia nera che affiora sulla gioia vana dei mondani e l’amareggia tutta. E poi, il mondo offre la gioia nelle cose secondarie, e non risponde agli interessi più importanti. « Vieni con me — ci dice — che ti faccio godere ». « Volentieri: ma dove mi conduci? dove mi troverò? » « Non pensare a queste cose: adesso godi ». Ma si può veramente godere in mille bazzecole, senza aver prima conchiuso sicuramente gli affari principali, quelli che riguardano la propria esistenza? Eppure, la gioia sia del mondo è fatta così. – b) Non solo è fatta così, ma, quel ch’è peggio, essa è passeggera e ci abbandona in breve. Il profeta Giona fuori delle mura di Ninive aveva trovato un luogo meraviglioso per riposarsi e dormire i suoi sonni. Un’edera fronzuta aveva formato una specie di pergola, così densa che non lasciava passare i brucianti raggi del sole, né soffi caldi del vento: con gran sollievo si cacciò sotto quella frescura e dormì. Nella notte però un invisibile vermicciuolo rosicchiò la radice dell’edera, che accartocciò le foglie e si seccò. Al giorno dopo cominciò a soffiare un vento caldo opprimente, e il sole dardeggiava ferocemente sul capo di Giona ormai senza riparo. Il profeta soffocava e gemeva: « Meglio per me morire che vivere sfortunato così » (Giona, IV, 5-8). E quand’anche un uomo potesse assicurarsi onori, piaceri, danari per tutta la vita, non potrà certo assicurarsi contro il verme insonne del tempo che gli divora la stessa vita. Chi può godere spreoccupatamente in una casa, le cui fondamenta sono rose da un fiume sotterraneo? Se pensa che forse fra un anno, fra sei mesi franerà, che forse in una notte mentr’egli dorme sarà travolto, un’inquietudine assillante gli rende triste ogni gioia. Ebbene, la gioia del mondo è fatta così. – IL CALICE DELLA TRISTEZZA LIETA. Per due motivi la tristezza del calice di Gesù è lieta: perché è passeggera e superficiale; perché ci conduce a un gaudio immenso ed eterno. – a) La tristezza del Cristiano è passeggera, poiché egli sa di essere in viaggio. « Mi spiace, signore, che ella debba restare in piedi » dicevano ad un viaggiatore sul treno: ed egli sorridendo rispose: « Non si cruccino per me: è tanto breve il mio percorso! ». In questa vita noi siamo come su di un treno in corsa. Dobbiamo però stare in piedi e vigili contro il demonio, contro le nostre passioni, contro il mondo, qualche volta poi dobbiamo stare in piedi perché ci mancano i mezzi di star comodi, o perché qualche angoscia non ci permette di restare tranquilli. Ma che importa! Noi sappiamo che il nostro percorso è breve: poi scenderemo alla nostra città, entreremo nella nostra casa dove tutto è preparato per accoglierci secondo il nostro desiderio. Anzi, meglio ancora. Inoltre, la tristezza del Cristiano è superficiale. Quando egli soffre o per resistere al male, o per fare il proprio dovere, o per accettare la volontà misteriosa di Dio, egli sente in fondo al suo cuore percosso dal dolore scaturire un’onda di pace. È la certezza di diventare migliore, di assomigliare di più a Gesù Cristo di cui è seguace, di piacere di più a Dio, d’essere da Lui più amato. – « Ho 72 anni, — diceva quel caro vecchio di S. Leonardo da Porto Maurizio — e non sono stato infelice neppure un’ora ». Forse che gli erano mancati affanni e croci? tutt’altro. Ma la tristezza del vero Cristiano è irrigata da una sorgente di pace e di letizia che a poco a poco la sommerge. « Ho 72 anni, — esclamò invece il grande poeta Goethe, — e non sono mai stato un’ora felice ». Eppure non gli era mancata né la ricchezza, né l’applauso di re e di popoli, né l’esperienza di tanti piaceri. Ma la gioia mondana è irrigata da una sorgente amara. – b) Ma ciò che fa più lieta la tristezza del Cristiano è il gaudio immenso ed eterno che sta dietro di essa. È la vita felice scevra di pene e travagli, di dolorî e timori; è la vita pienamente felice sotto lo sguardo di Dio, in compagnia di Dio, derivata da Dio; è la stessa vita di Dio eternamente felice. Tutto ciò a cui s’è rinunziato, tutto ciò che abbiamo sacrificato per essere buoni, per essere di Cristo, si ritrova ancora tutto infinitamente aumentato nella vita eterna in Cristo. Omnia autem vestra sunt: vos autem Christi. Ora la certezza e la grandezza del premio rende dolce la fatica che ce lo merita, sopportabile la via spinosa che ad esso ci porta, accettabile la lotta che ce lo conquista. – L’operaio che lavora in mezzo ai gas e ai rumori dell’opificio canta per la speranza della paga. Il viandante che cammina per regioni deserte e pericolose, sotto l’acqua o sotto il sole, di notte o di giorno, nonostante la stanchezza, canta perché s’avvicina alla sua casa, ai suoi. Il soldato che combatte nella trincea, tra una battaglia e una battaglia, canta per la gioia di fare una patria più libera e più forte. Ma una speranza assai più grande di tutte queste nasce dalla sofferenza del Cristiano e la fa lieta. Perciò egli fatica e canta; cammina e canta, combatte e canta.
– « Un poco ancora e poi non mi vedrete più: un poco ancora e poi mi rivedrete ». Udendo queste parole che indicavano la prossima sua morte e resurrezione, gli Apostoli non ne afferrarono il senso; e camminando a fianco dietro a Lui bisbigliavano tra loro e dicevano: « Che cosa vuol dire il Maestro? Che è mai questo: un poco ancora? ». Il Signore s’accorse di quella incomprensione e spiegò amorevolmente il suo pensiero così: « In verità, in verità! voi gemerete, voi piangerete mentre il mondo godrà. Ma un poco ancora e poi la tristezza vostra diverrà allegrezza che più nessuno vi potrà rapire ». In queste parole di Gesù Cristo notate una dolcissima verità. Egli annuncia i gemiti e i pianti della sua morte imminente, ma subito conforta l’anima dicendo che dureranno poco: « Un poco ancora e poi mi rivedrete per sempre ». Così nella nostra vita noi gemeremo e piangeremo, ma i pianti e i gemiti dureranno poco, perché verrà il Paradiso a portarci un’allegrezza senza fine. Un poco ancora! In questa parola è racchiuso tutto il motivo della nostra rassegnazione nei dolori, tutto il motivo della nostra perseveranza nella virtù. – RASSEGNAZIONE. Ogni mattino, quando ci alziamo, ci troviamo di fronte a delle croci. Ecco in famiglia c’è una persona cara gravemente ammalata. Ogni rimedio è inutile, ogni cura è vana: di ora in ora ella se ne va lontano lontano, e ci sentiamo morire con lei. Forse ci siamo appena tolto dal braccio una striscia di crespo nero, che siamo costretti a metterne un’altra come una benda che copra una nuova ferita, quando l’altra non s’è ancora rimarginata. Ahimè! la ferita non è al braccio, ma al cuore. – Ecco negli affari, dopo tante fatiche, dopo tanti viaggi e notti insonni, siamo ridotti in terribili contingenze; l’avvenire ci si prospetta davanti a colori foschi; i nostri figliuoli ci chiedono pane ed educazione, e non possiamo prevedere che cosa daremo a loro. – Ecco nei campi, dopo tanti sudori e tante spese per lavori e concimi, una tempesta, una brinata, una siccità dissolvono le nostre speranze come il vento sparpaglia le nubi. Ecco nella società, dove ci sforziamo di essere onesti e generosi, una persona cattiva ci fa del male, ci attenta nell’onore, ci tradisce, ci rende lo zimbello del vicinato. Insomma, si chiamerà dolore domestico, triste peso del presente, timore dell’avvenire, pena per vedere tormentati i nostri cari, astio vicendevole, separazione, malattia, speranza delusa, ma la croce ci accompagna sempre nella nostra vita. Credere di trovare una casa, un focolare senza queste ferite più o meno profonde, è una illusione. E allora? Allora ricordiamo la dolce parola di Gesù che va alla morte: « Un poco ancora ». Pazienza un poco ancora, o Cristiani; voi che siete tribolati, voi che dopo una tribolazione ne trovate un’altra, pazienza un poco ancora, che passerà tutto. Che cosa è la nostra vita? Un soffio; per quanto doloroso, sarà sempre breve. Perciò unite le vostre sofferenze a quelle del Crocifisso, sopportate in dolce rassegnazione, e acquisterete un gaudio senza fine. – PERSEVERANZA. Fare una buona confessione a Pasqua, fare degli ottimi propositi è abbastanza facile; difficile invece è perseverare nel bene. Facile è dire: « Sono superbo, sarò umile ». Ma appena qualcuno ci schiaccia la coda, subito dalla pianta dei piedi fino alle tempie il sangue rigurgita, e non ne possiamo più. « Fino a quando, o Signore, dovrò umiliarmi? » Pazienza, ancora un poco. – Facile è dire: « Sono voluttuoso, sarò casto ». Ma quando nello studio, nell’officina, si è costretti ad ascoltare discorsi immondi, avvicinare persone tentatrici, quando per giorni interi i pensieri disonesti fanno guerra nella nostra anima, ne non ne possiamo più e ci vien fatto d’esclamare: « Fino a quando dovrò lottare così? » Pazienza, ancora un poco. È facile dire: « Sono violento, sarò dolce ». Ma se in casa la moglie non è attenta, ma se un figlio commette uno sbaglio, ma se lavorando si guasta un arnese, subito ci viene tra i denti una bestemmia e ci sforza le labbra per uscire, ma subito una forza terribile vuole agitarci come ossessi. Nello sforzo duro di contenerci, che ci fa sudare, noi ci sentiamo stanchi. « Fino a quando, o Signore, dovrò comprimermi così?» Pazienza, ancora un poco. Gran Dio, che lotta e che guerra crudele! Ci sono dentro noi due uomini di cui uno deve necessariamente morire: ma attenti, non è tanto facile ucciderlo, essendo da una parte sostenuto dall’inferno e dall’altra dal mondo. E di giorno e di notte saranno già dieci mesi, dieci anni, vent’anni forse che dura questo duello a morte. ed ohimè, quante ferite, e che dolori, ma fortunatamente anche quante vittorie! Ma fino a quando dovremo durarla così? La vita è breve; pazienza, ancora un poco. – Ricordate gli Israeliti nel deserto. Per lo spazio di quaranta giorni si trattenne Mosè con Dio sul monte Sinai per ricevere le tavole della legge. Ed essi aspettavano ogni dì la sua discesa, e l’aspettarono con desiderio per trentacinque giorni, mantenendosi fedeli a Dio, osservanti dei riti, ubbidienti ad Aronne. Ma poi non vedendolo tornare, si stancarono d’attenderlo: « Fino a quando — dicevano — dovremo noi rimanere in aspettativa? ». E allora come avevano veduto fare in Egitto, cambiata la modestia in dissolutezza, la pietà in gioco, la religione in idolatria, si fabbricarono un vitello d’oro e con matta insolenza l’adorarono. Dopo nemmeno cinque giorni arrivò, raggiante di fulgore, Mosè; stritolò quel vitello infame, spezzò le tavole e comandò che a fil di spada fossero passati tutti gli idolatri: ne restarono uccisi ventitré mila. Disgraziati Israeliti, avessero avuto pazienza di aspettare ancora cinque giorni! Ma più disgraziati quei Cristiani che, stanchi di lottare contro le passioni, si abbandonarono al demonio; essi per avere cinque giorni di falso godimento si procurarono una eternità di pene atroci. – Quando Filippo, padre d’Alessandro il grande, vide il modello della città d’Atene che cento ambasciatori gli presentavano, se ne invaghì tanto che proruppe in quella risoluzione: « O col ferro o con l’oro questa città deve essere mia ». Ecco che Gesù Cristo in questo brano di Vangelo ci presenta il modello della Città celeste del Paradiso: « Dopo questo po’ di tristezza — ci dice — io vi vedrò di nuovo e godrà il vostro cuore, e nessuno vi potrà più rapire la vostra gioia! » O giorno meraviglioso quando entreremo in cielo! I nostri occhi vedranno il Salvatore, le nostre orecchie udranno le armonie angeliche, i nostri cuori gusteranno dolcezze eterne, la nostra anima abiterà dimore splendenti e olezzanti. Nel conquistare questa città ci lasceremo spaventare da quel « poco ancora » di rassegnazione alle croci e di perseveranza nelle virtù, che è necessario? « Costi quel che costi — diciamo noi pure insieme a Filippo re — costi quel che costi, ma il Paradiso deve essere mio! ».
– Era l’ultima volta che Gesù parlava a’ suoi discepoli prima di morire. Guardandoli con la tenerezza di un padre che sta per partire, li mette in guardia dai pericoli del mondo, e dalle illusioni di un roseo avvenire. Diceva: « Tra poco e non mi vedrete; un altro poco e mi rivedrete ». Gesù alludeva alla sua morte vicina, e alla sua resurrezione. Gli Apostoli non capivano nulla e Gesù, che leggeva a loro negli occhi, aggiunse: « In verità vi dico che voi gemerete e piangerete; il mondo invece godrà ». Non scandalizzatevi; Cristiani, se Dio ha spartito le cose del mondo così che ai cattivi toccassero le gioie e ai buoni rimanessero soltanto le lacrime e i dolori. Non scandalizzatevi perché nel Vangelo d’oggi c’è una parola che spiega tutto: « Modicum! ». Spesso ci capita d’ascoltare i Cristiani a lamentarsi: « A questo mondo più s’è cattivi e più si ha fortuna. C’è della gente che non va in Chiesa, non rispetta nessuna legge, eppure è sempre beata: non malattie in casa; non odiosità fuor di casa; hanno roba; hanno danaro; hanno tutto. Noi invece non possiamo mai tirare avanti liberamente: è la morte, è una disgrazia, è un affare che va a male, e sempre c’è da piangere… ». Ricordiamoci della parola del Signore: « Modicum »: poco. Quaggiù tutto dura poco. Poco il dolore e poco la gioia. Non dobbiamo attaccare quindi il nostro cuore a cose che durano tanto poco; ma dobbiamo cercare il nostro bene dove durerà sempre: in Paradiso. Meditiamo la parola di Gesù, e ne otterremo conforti e speranze per il travaglio duro della nostra vita. – VOI PIANGERETE MENTRE IL MONDO GODRÀ. Quando noi osserviamo la vita pagana delle nostre città, e nei giorni di festa anche nei piccoli paesi, così buoni una volta, ci par di riudire il canto dei voluttuosi, come è scritto nel libro della Sapienza: « Circondiamo le nostre tempia di rose prima che marciscano: non ci sia piacere da noi non provato, non ci sia peccato da noi sconosciuto ». Coronemus nos rosis! È una folla di uomini, di donne, di giovanetti che, a coronarsi di queste rose, si riversano ogni giorno nelle sale dei teatri, dei cinematografî, dei balli… E dentro si vede, si ascolta, si ride, si salta; e si vende l’anima al diavolo. Intanto si perde l’amor della propria casa, dei propri figli; i figli sono spine per questi gaudenti, e allora li rifiutano conculcando ogni legge umana e divina. Coronemus nos rosis! È un’altra folla di persone che avida legge i libri, riviste, giornali. Sono romanzacci dove le infamie più vergognose riempiono le pagine; sono novelle fetide di corruzione e di incredulità; sono figure impudiche che ridestano nei sensi il fuoco delle passioni. A quelle letture la mente si popola di fosche immagini, il cuore si accende a desideri impuri, la notte è profanata da sogni brutti. L’anima è invasa da una nebbia grassa che non lascia intravedere Dio: e non si prega più. Coronemus nos rosis! È un’altra folla ancora che vive soltanto per il gioco, e nel gioco consuma il tempo e magari tutto il denaro della famiglia. Per il gioco commettono ingiustizie, si tralascia il rosario in famiglia, si perde la Messa e la dottrina cristiana. Quanta gioventù sciupa tutta la festa negli sports! Che cosa ci potranno dare, domani se non hanno mai sentito parlare della loro anima, dei loro doveri? La rosa del piacere si vuole e non la spina del dovere. Voi, invece, o buoni Cristiani, voi soffrite nella mortificazione del vostro corpo e delle vostre passioni, voi soffrite nell’osservanza della legge di Dio. Ed è giusto che sia così, ce lo dice Tertulliano: « Nostræ cœnæ, nostræ nuptiæ nondum sunt » (De Spect., 28). Il tempo dei nostri festini e delle nostre nozze non è giunto ancora, per ciò non possiamo gioire coi mondani. Quaggiù siamo in viaggio: e quando si cammina non ci si può fermare a divertirsi, altrimenti non si arriva più alla mèta. Quaggiù abbiamo dei grandi affari: amare Dio, salvare l’anima. Ma se qualcuno ha la testa nei divertimenti, non può combinare nessun affare buono. Quaggiù è tempo di battaglia: i soldati che in guerra s’abbandonano alle mollezze, come quelli d’Annibale a Capua, non avranno forza per vincere. Consoliamoci però, non sarà sempre così. Anzi questo tempo è breve: Modicum. Un poco, e poi le rose dei mondani marciranno, e le nostre spine fioriranno un’eterna primavera. – IL VOSTRO PIANTO DIVERRÀ GIOIA. Un giorno a S. Giovanni fu concesso di contemplare i Santi in gloria. Stavano nella luce, nella gioia, nel canto, davanti al trono dell’Agnello. Vestivano con lunghe stole bianche ed agitavano nelle mani palme stupende. S. Giovanni rimase estatico. Uno di essi, vedendo senza dubbio lo stupore dell’Apostolo, gli domandò: « Questi che vedi vestiti di bianche stole, chi sono? Donde vennero? ». E Giovanni dovette confessare la propria ignoranza. « Sappi, gli fu detto allora, che essi sono venuti da una grande tribolazione ». Venir dalla tribolazione! Ecco il miglior titolo per godere in Paradiso. Rallegratevi tutti voi che soffrite, perché siete sulla via del gaudio; tra poco ogni vostra lacrima sarà un sorriso; ogni vostra pena una eternità di gioie. È sulla via della gioia quel giovane onesto che, mentre vede i suoi compagni correre ai divertimenti, frequenta la Chiesa e l’oratorio. È sulla via della gioia quel buon padre di famiglia che è pronto a patir anche la fame, pur di non violare la legge del Signore! È sulla via della gioia quella buona donna, dimenticata da tutti, forse disprezzata anche da quelli che tanto ama, che tutto riceve dalle mani di Dio e soffre con rassegnazione. – Vediamo ora un’altra scena del Vangelo. La scena è divisa in due. In basso un orribile abisso pieno di fuoco; e nel fuoco un uomo brucia e urla: « Abramo! Abramo! » In alto una regione purissima di luce, di melodie. In quella luce, tra quei fiori, tra le musiche, vi è un altro uomo che beatissimo gode. « Abramo! Abramo! », si urla disperatamente dall’abisso ardente. Abramo ascolta quel pianto lungo e straziante. « Abramo, abbi pietà di me. Mandami Lazzaro e digli che col suo dito mi lasci cadere una goccia d’acqua sulla lingua, ché son tutto una fiamma ». E Abramo a lui: « Ti ricordi quando tu vestivi di porpora e bisso e banchettavi ogni giorno nel tuo palazzo? Allora Lazzaro pieno di ulceri giaceva sulla tua porta, e bramava le briciole cadute dalla tua mensa per placare la sua fame. Ma nessuno gliene dava: solo i cani gli lambivano le piaghe cancrenose. Sappi dunque ché tu in vita avesti le gioie, e Lazzaro ebbe i dolori. Ora, e per sempre, Lazzaro godrà e tu soffrirai ». Ecco, o Cristiani, i due destini dell’uomo: goder per pochi anni e soffrire per tutta l’eternità, oppure, soffrir per pochi anni e godere per tutta l’eternità. Quale scegliete per voi? – La sponda è fiorita e dolce è il pendio. In lontananza si estende radioso il sole che tramonta, un vasto strato d’acqua che somiglia ad uno specchio. Sopra una barchetta abbellita da nastri, dei giovani in abito festivo si divertono graziosamente cantando. Sulla riva, un fanciullo sorride e tende le braccia. « Vieni! Vieni! », dicono i gitanti. « Sì, Sì! ». E nel momento in cui il piccolo legno tocca il lido, nel momento in cui il fanciullo si slancia, un braccio vigoroso lo trattiene e lo porta via. È suo padre. « Cattivo! » dice il fanciullo tentando di svincolarsi. Il giorno dopo, una barca vuota e sbattuta dalle onde venne a cozzare contro la sponda. Il fanciullo ancor triste e di cattivo umore, a quella vista comprese la disgrazia a cui era sfuggito; e gettandosi al collo del padre, lo baciò, singhiozzando di tenerezza: « Grazie, Grazie! ». Quante volte ancor noi, mentre sognavamo giorni tranquilli, affari deliziosi, onori, gioie, mentre sognavamo di slanciarsi in barca a traversare, cantando, il lago della vita, abbiamo sentito un braccio vigoroso strapparci dalle nostre illusioni. Era una disgrazia, una malattia, una calunnia, la miseria, l’umiliazione… O meglio, era la vigorosa mano del nostro Padre celeste. Noi in quel momento abbiamo imprecato contro Dio, e forse ancora oggi imprechiamo… Ma verrà un giorno in cui sapremo il perché d’ogni nostra pena e comprenderemo come sarebbe stata la nostra rovina, quella gioia che noi tanto agognavamo. Allora anche noi, come il fanciullo della leggenda, getteremo le braccia in collo a Dio, e piangendo di riconoscenza, gli diremo: « Grazie, buon Dio, d’avermi fatto soffrire! ». – IL DOLORE CRISTIANO. Mundus gaudebit; vos autem contristabîmini, sed tristitia vestra vertetur in gaudium. S. Agostino dice che due amori hanno fatto due città del mondo: Civitates duas fecerunt amores duo.L’uno è l’amore di Dio che ha formato la città dei buoni, i quali vivono nel dolore e nel rinnegamento d’ogni passione. L’altro è l’amore dell’io che vuol la soddisfazione delle proprie voglie ed ha formato la città del mondo che ama la pazza gioia. Mundus gaudebit.Ma perché Gesù ha voluto serbare il dolore per i buoni? Ecco: dal giorno che Adamo e Eva si ribellarono per superbia a Dio, nella nostra natura, ferita dal morso del demonio, si levò un istinto peccaminoso che prepotentemente ci spinge verso ciò che è proibito.Sul nostro occhio è venuto come un velo di polvere che ci fa piacere ciò che ci dovrebbe far paura, che ci tinge di bei colori ciò che in realtà è assai brutto. L’inganno di cui si sentiva vittima anche San Paolo quando scriveva: « Non comprendo quel che faccio: poiché il bene ch’io voglio non lo compio, mentre il male che non vorrei lo faccio ».Per vincere quest’inganno è necessaria un’acqua che deterga quella polvere dai nostri occhi, che ci faccia vedere le cose secondo la fede e non secondo il mondo.Quest’acqua misteriosa sono le lacrime: il dolore. Allora non lamentiamoci della nostra croce, ma portiamola con gioia dietro a Gesù Cristo che ce ne ha dato il primo e insuperabile esempio. – Il dolore è la medicina amara che ci guarisce: esso ci stacca dalle cose mondane e ci merita il Paradiso. – CI SI STACCA DALLE COSE VANE DEL MONDO. A Cortona viveva una donna assai ricca. Il suo nome era tristamente famoso: Margherita. Ella non aveva altra ambizione che quella di apparire, null’altra brama che di godere. Chissà quanti richiami Dio aveva già lanciati al suo cuore ardente: ma sempre invano. Deus quos amat castigat. Una sera Iddio la chiamò col dolore. L’uomo, col quale conviveva, non era tornato come al solito, colle prime ombre della notte: eppure dall’alba era partito col suo cane per la caccia. Margherita s’impensierì, poi si agitò, poi non ebbe più pace in quell’aspettativa crudele. Finalmente s’udì un lungo latrare: era il cane fedele, ma col pelo arruffato, ma con macchie di sangue sul pelo. E con più giri circondò la padrona e coi guaiti le significò che l’invitava a seguirlo. Era notte. E Margherita corse nel buio, per viottoli sassosi e spinosi dietro alla bestia che abbaiava incessantemente. Quando il cane si fermò, nel folto dei cespugli, la donna intravvide il cadavere intriso di sangue. Urlò di dolore, pianse, si stracciò le vesti come una pazza. Ma da quella sera i suoi capelli furono cosparsi di cenere, le sue gote rigate di pianto, le collane e le perle vendute per i poveri, gli abiti di seta cambiati con sacco, la sua splendida dimora abbandonata per la nuda cella del convento. E cominciò a pregare, a vegliare, a macerarsi, ad amar Dio con l’ardenza dei Serafini. La gaudente divenne la penitente, la peccatrice si fece una santa. Chi ebbe tanta forza da strapparla così decisamente dalla sua perduta via? Il dolore. – Ed anche noi possiamo vedere ai nostri giorni queste belle trasformazioni operate dal dolore e dalla croce. Chi ha persuaso quell’uomo, che da molti anni non faceva la Pasqua, ad accostarsi ai sacramenti? La morte di una sua bambina; un disastro finanziario; un’umiliazione in società. Quand’è che quella donna è tornata modesta, seria? Dopo la morte di suo marito, dopo quella malattia che l’ha condotta in fin di vita, dopo quella tribolazione in famiglia. Le disgrazie, le croci ci privano delle gioie quaggiù. Ma che cosa sono questi beni terreni? Sentiamo Salomone: « Ho detto allora a me stesso: godiamo di tutti i beni, andiamo in mezzo a tutte le delizie…; mi feci palazzi e giardini, limpidi laghi bagnavano al basso le mie foreste; possedevo numerosi greggi e le mandrie più belle d’Israele; avevo vasi d’oro e d’argento; avevo servi ed ancelle, cantori e cantatrici. Avevo tutte le delizie degli uomini. Niente ho negato alle brame degli occhi miei, nessuna voluttà ho negato al mio cuore. Chi più di me ha divorato tutto il fremito gioioso dei piaceri, e l’ebbrezza dei sensi? Ed ho veduto che il riso è una menzogna e la gioia un inganno. Niente sotto il sole ha valore: tutto è vanità e amarezza dell’anima ». Il cuore dello stolto sogni la gioia! Mundus gaudebit. Il cuore del sapiente ha cara la tristezza! Vos autem contristabimini. Se il dolore non fa altro che distaccare da una falsa felicità, non lamentiamoci più contro la divina Provvidenza, ma baciamo con riconoscenza quella mano che ci percuote per nostro bene. – CI MERITA IL PARADISO. In una chiesa di Pisa, Cristo apparve a S. Caterina da Siena, mostrandole due corone: l’una d’oro, l’altra di spine. E le diceva: « Tu devi portare queste due corone ma in tempi differenti: se porti ora quella d’oro, quella di spine l’avrai per tutta l’eternità ». Caterina rispose: « O Signore, voi sapete che la mia scelta è fatta da lungo tempo… ». E stendendo le braccia, prese la corona di spine, la baciò e se la pose in capo. Ecco perché i santi, che sono i veri sapienti della vita, hanno portato con gioia la croce; anzi l’hanno cercata con desiderio. Il fratello di S. Pietro Apostolo era giunto nelle sue peregrinazioni apostoliche fin nell’Acaia, ove s’attirò le ire del proconsole. Fu rinchiuso in un carcere e poi condannato al supplizio della croce. Ma quando, accompagnato dagli sgherri, legato, battuto, egli vide da lontano comparire la sua croce, le protese le braccia ed eruppe in un cantico stupendo: « Salve, crux! quæ diu fatigata, requiescis exspectans me suscipe me, et redde Magistro meo ». Salve, o croce, bramata da lungo tempo! prendimi nelle tue braccia e rendimi a Gesù.Questi devono essere i sentimenti dei veri Cristiani davanti alle tribolazioni della vita. Senza patire non si entra nel regno eterno della gioia. Per multas tribulationes oportet nos intrare in regnum Dei (Atti, XIV, 21).Il Paradiso è l’eredità dei figli di Dio. E non si è figli di Dio, se non si è fratelli di Gesù Cristo, unico Figlio naturale di Dio.Ma come si può pretendere di essere fratelli di Cristo, quando cerchiamo la corona di rose mentre Egli è coronato di spine? Quando ci rifiutiamo di portar, come lui, la nostra croce? Si quis vult post me venire abneget semetipsum, tollat crucem suam. Prendiamo dunque la nostra croce da portare, ed il pensiero del premio che ci aspetta c’infonderà coraggio: Quia non sunt condignæ passiones huius temporis ad futuram gloriam. – Suor Teresa del Bambino Gesù aveva avuto l’incarico di assistere una suora vecchia e inferma. Tutte le sere alle sei meno dieci doveva interrompere la sua meditazione per condurla in refettorio. Questo servizio le costava assai, perché sapeva la difficoltà o meglio l’impossibilità di contentare la povera inferma. Quando la vedeva scuotere l’orologio a polvere doveva armarsi di santo coraggio e cominciare una sequela di cerimonie. Doveva smuovere e tirare una panca, ma sempre al medesimo modo, sorreggerla per la vita e accompagnarla leggermente. Se per disgrazia le sfuggiva un passo falso, subito si sentiva un aspro rimbrotto « Ma buon Dio, andate troppo lesta, così mi fate rovinare ». Se poi andava piano « Muovetevi dunque, non sento più la vostra mano. Lo dicevo che eravate troppo giovane per accompagnarmi! ». Una sera d’inverno, che faceva freddo ed era buio, mentre compiva questo penoso ufficio, la piccola santa udì venir da lontano il suono armonioso di molti strumenti: e subito si presentò alla sua fantasia la ricca sala dorata, le luci, i profumi, il fruscìo delle vesti di seta e le mille cortesie. Mundus gaudebit! Ed ella era là, sola: nel freddo, nel buio, nello squallore ruvido del chiostro; ella che era pur giovane e ricca; ella che era stata abituata alle squisitezze d’una soave famiglia signorile: era là con gli occhi pieni di lacrime accanto a quella vecchia monaca crucciosa che la tormentava… Vos autem contristabimini! Ma ora la piccola santa non soffre più. Ora ogni cuore le offre un palpito, ogni Chiesa un altare. Ed ella è beata e gloriosa tra le armonie degli Angeli ed il sorriso del suo Sposo diletto Gesù. Così sarà pure dei nostri dolori, se sapremo accettarli come Cristiani. Tristitia vestra vertetur in gaudium.
Offertorium
Orémus
Ps CXLV: 2 Lauda, anima mea, Dóminum: laudábo Dóminum in vita mea: psallam Deo meo, quámdiu ero, allelúja.
[Loda, ànima mia, il Signore: loderò il Signore per tutta la vita, inneggerò al mio Dio finché vivrò, allelúia.]
Secreta
His nobis, Dómine, mystériis conferátur, quo, terréna desidéria mitigántes, discámus amáre coeléstia.
[In virtú di questi misteri, concédici, o Signore, la grazia con la quale, mitigando i desiderii terreni, impariamo ad amare i beni celesti.]
Communio
Joannes XVI: 16 Módicum, et non vidébitis me, allelúja: íterum módicum, et vidébitis me, quia vado ad Patrem, allelúja, allelúja.
[Ancora un poco e non mi vedrete più, allelúia: ancora un poco e mi vedrete, perché vado al Padre, allelúia, allelúia.]
Postcommunio
Orémus.
Sacramenta quæ súmpsimus, quæsumus, Dómine: et spirituálibus nos instáurent aliméntis, et corporálibus tueántur auxíliis.
[Fai, Te ne preghiamo, o Signore, che i sacramenti che abbiamo ricevuto ci ristòrino di spirituale alimento e ci siano di tutela per il corpo.]