LO SCUDO DELLA FEDE (119)

Paolo SEGNERI S. J.:

L’INCREDULO SENZA SCUSA

Tipogr. e libr. Salesiana, TORINO, 1884

PARTE PRIMA

CAPO XXXI.

Si mostra che se l’anima non fosse immortale, la virtù sarebbe vizio, il vizio virtù.

I. Fu già tempo, che il mondo mal noto fino a se stesso, non sapeva d’essere, se non secondo la metà sola di sé. Quindi è, che gli antipodi furono lungamente tenuti non pur dal volgo, ma ancora da’ gran maestri, per popoli favolosi (Tract. inst. 1. 3. c. 34): quasiché gli abitatori di un paese opposto, nel pianeta mondiale, ai pie nostri, dovessero per necessità stabilire capovolti: gli alberi dovessero quivi tener le radiche, dove anderebbero le cime; e le rugiade e le piogge e le procelle e le grandini strepitose non dovessero colà portarsi all’ingiù (quando volevano beneficare le campagne, o spiantarle), ma portarsi all’insù, come fanno le esalazioni; ho dovessero scendere, ma salire. Tanto dilungasi dal sentiero della verità ne’ discorsi chi prende per sua guida la fantasia, più che la ragione; non riflettendo che il giù e il su sono termini relativi, che non hanno la loro denominazione, se non dal centro che è situato fra gli antipodi e noi. Ma vaglia il vero, quanto andava già errata tal conseguenza di stravolgimento ridicoloso, (come appunto ridicola è la teoria eliocentrica e la forma sferica della terra – ndr-) posti gli antipodi, tanto or sarebbe accertata, posto che l’anima dovesse anch’ella sortire i suoi funerali come i giumenti. Conciossiachè rimarrebbe allora stravolto nell’universo tutto il sistema, non fisico, ma morale, che è un disordine molto più luttuoso: mentre la virtù verrebbe a tenere il grado del vizio, e il vizio a tenere il grado della virtù: anzi non solo si confonderebbero i posti, ma si cambierebbero ancora l’essenze loro, tanto che la virtù diverrebbe vizio, il vizio virtù. Mostriamolo con chiarezza: giacché questo argomento è così robusto, che solo vale ad abbattere ogni intelletto non pervicace.

I.

II. Tutte le genti, benché sì diverse d’istinti e d’istituzioni, si sono continuamente accordate in ciò di fare una stima somma della fortezza. Un guerrier prode da chi non è riverito? Vien posto a conto, per dir così, di un esercito: e sembra che ciascuno in vederlo gli dia quel vanto che ricevette in Roma un leon famoso per le gran prove fatte colà da lui nell’anfiteatro, pugnando coll’altre fiere: Quis non esse gregem crederet? Unus erat (Mart. 1. 8. epig. 32). Ora questa virtù così luminosa, la quale ha per oggetto suo principale il disprezzare i pericoli, e massimamente i pericoli più tremendi, quali sono quei della morte (Ethic. 6. 1. 3): questa virtù, dico, non sarebbe oro, ma scoria, qualunque volta l’anima fosso caduca (S. Th. 2. 2. q. 123. art. 4). Ve lo dimostro. La virtù non è altro che una disposizione a conseguire il suo fine, mediante l’opera che ella imprende. Virtus est dispositio perfecti ad optimum (Arist. 1. 7. phys. toxt. 17. et 18): e si dice ad optimum: perciocché l’ottimo ad ogni natura si è quello ch’ella ha per fine, siccome il pessimo è quello che più si oppone all’ultimo fine dell’istessa natura (S. Th. 1. 2. q. 110. a. 3. in c. et 2. 2. q. 23. a. 7. in c); come scorgerà chiaramente tra se medesimo chiunque ha fior di discernimento. Pertanto, se l’anima fosse mortale, il suo fine ultimo sarebbe al certo il durare più che le fosse possibile unita al corpo, senza di cui perduto avrebbe ogni bene. Onde l’operazione più perfetta della fortezza, che è il morire per difender l’amico, il padrone, la patria, la Religione, si opporrebbe allor per diametro all’ultimo fine dell’uomo: e posto ciò, una tal operazion virtuosa, per verità non sarebbe virtù, ma vizio, e sulle bilance d’una retta ragione non passerebbe por moneta legittima, ma falsata (Gregor. de Valent. in 1. p. dis. 6. q. 1. p. 3 § 2. prob.).

III. Direte subito che dovendo il ben pubblico preponderare al privato, non sarebbe in tal caso all’uomo disconvenevole non curare il suo fine, per sacrificarlo alla pubblica utilità. Ma non vi apponete. Conciossiachè, essendo l’uomo fatto in grazia di se medesimo, e non d’altrui, come sono fatte le bestie, non poteva dalla virtù venire obbligato ad amare il proprio disfacimento, né ad incontrarlo, in grazia di verun altro simile a lui, mentre ciò sarebbe stato obbligarlo ad amare il suo prossimo più di sé, contro di ciò che vuole ogni legge: Amicabilia enim, quæ sunt ad alterum, veniunt ex amicabilibus. quæ sunt ad se ipsum, come il filosofo insegna (Arist. 1. 9. eth. c. 8): infino a tanto, che presuppongasi l’anima non perire insieme col corpo, cammina bene: perché restando ella immortale, una morte onesta del corpo non è per lei funerale odioso, ma nascita a miglior

vita. E cosi, quando al presente noi moriamo per altri, niun altro amiamo in tal atto, se guardasi intimamente, più di noi stessi; mercecché con un tal atto ad altrui vogliamo un bene caduco, qual è la difesa delle loro sostanze, o proli, o persone, ed a noi ne vogliamo un eterno, qual è quel che ci viene dalla virtù, mezzo unico a farci diventare beati per tutti i secoli. Ma non così quando perisse l’anima in un col corpo. Allora ella non avrebbe più che sperare per tutta l’eternità. E però, come può stare, che la virtù la quale è il bene sommo dell’uomo, abbia a divenire per lui la somma miseria, privandolo d’ogni bene? Non sarebbe allor la virtù una perfezione nella natura umana, a tutti amorevole, ne sarebbe un di struggimento; e così non sarebbe virtù, ma vizio.

IV. Ne vale il ripigliare che l’uomo forte potrebbe allora per nobile ricompensa del suo morire sperar la gloria, che è un’altra spezie di vita, per cui sopravanzerebbe alle proprie ceneri, nell’immortalità della fama. Bellissime vanità! Se alla virtù volesse darsi per mercede la gloria, sarebbe un voler pagarla, o piuttosto beffarla col suon dell’oro.

V. Primieramente la gloria che si dà all’uomo non è altro che un segno della virtù la quale lo adorna. Conviene adunque che ella sia un bene inferiore al significato. Ma se è bene inferiore della virtù, come dunque può essere tutto il premio?

VI. Di più la gloria viene talora attribuita largamente anche al vizio; onde se ella è segno di virtù, non è segno certo; non discernendo il popolo così bene la via di mezzo, ma confondendo il temerario col prode, come confonde il prodigo col liberale, il timido col sensato, il tetro col serio, il giusto col rigoroso. Adunque non può la gloria dirsi mai la corona della virtù, mentre bene spesso si vede in fronte anche al vizio, che n’è sì indegno.

VII. Senza Dio l’operare per gloria umana non perfeziona giammai l’atto virtuoso, ma lo distrugge, e con lasciargli l’apparenza di bello gli toglie la realtà. Onde è che un atto di fortezza anche sommo, il qual procedesse, non da motivo di onestà, ma di vanto, sarebbe quasi un cadavere di virtù, tanto sarebbe insensato. Si aggiunge, che la virtù più consiste negli atti interni, i quali perfezionano l’uomo quasi un tesoro nascosto, che negli esterni (Arist. eth. 1. 4. c. 8 ) . Onde come può ella mai dalla gloria riportar premio compito di sé? Al più lo può riportare di quella poca parte di sé che apparisce agli occhi de’ riguardanti, or lividi, or loschi.

VIII. E se è così, qual bene è mai questa gloria, che l’uomo forte abbiala da comperar volentieri a sì grave costo, quale è quello del proprio annichilamento? Sicuramente, annichilato che fosse, non potrebbe egli ascoltar già quelle lodi che a lui si dessero dai posteri ammiratori del suo coraggio. E però qual frutto il meschino ne ritrarrebbe, morto al piacer dell’immortal suo nome? Non si potrebbe neppure dir che riposasse all’ombra dell’umana felicità (quando anche di tal nome vogliamo onorar la gloria), non che dir, che gustassene un puro saggio: Quœ post fata venit gloria, sera venit (Mart.). Dal che, per concludere, finalmente avverrebbe, che il supremo atto della fortezza, virtù di eroi, non solamente fosse incapace di premio, ma recasse in dote al virtuoso il sommo de’ mali, che è farlo ricader nell’antico nulla. E una virtù cosi barbara, potrebbesi allora dir che fosse virtù? Virtù allora sarebbe piuttosto i1 vizio: che è l’altra proposizion che io dovea provare, ed or ve la proverò.

II.

IX. Un intemperante a gran ragione vien riputato tra gli uomini quasi un porco. Ma se all’intemperanza si congiunga in lui la ingiustizia, sarà un cignale, non solo deforme in sé, ma dannoso ad altri, disertatore d’ogni giardino più bello che trovi aperto. Tuttavia se l’anima avesse i limiti del viver suo non più ampli, che gli abbia il corpo, l’intemperanza e l’ingiustizia sarebbero non più colpa nell’uomo, ma abbellimento, siccome quelle che non dovrebbero partorirgli più biasimo, ma splendore.

X. E quanto alla intemperanza, è manifesto, che se l’anima dovesse restare oppressa dalle rovine delle sue membra, il sommo bene che a lei fosse possibile, sarebbe tenerle in piedi, e il sommo male dar loro occasione alcuna di cedere, di crollare, di indebolirsi. E però siccome la più laudevol cosa che sia nell’uomo è cercare il suo bene sommo: così allora la più laudevole cosa che fosse in lui sarebbe nutrir bene il suo corpo vile, ingrassarlo, invigorirlo e saziarlo di tutti quei godimenti che fosser atti a tenerlo più consolato. Sicché quell’epitaffio brutale, che già Sardanapalo fé incidere alla sua tomba: Hæc habui, quæ edi, quæque exsaturata voluptas hausit; laddoveè una iscrizione degna di porsi alla sepolturad’un asino, sarebbe allora quasi un compendio di arcana filosofia. E diffatto per qual ragioneè degna di lode la temperanza, se non perché fa ubbidire il corpo allo spirito, noncurante di ciò che passa, per meritarsi quel ben che non passa mai?Ma se, mancando il corpo, mancasse ancora lo spirito, dovrebbe lo spirito, tutto da lui dipendente, ubbidire al corpo, senza cui nulla avrebbe mai che sperare di utilità. Adunque la temperanza non sarebbe allora laudevole, ma viziosa. È lode forse a un cavallo proposto in vendita, dir che egli è un cavallo astinente? Anzi è il suo biasimo sommo. La maggior lode che sulla fiera a lui porgasi, è dire che ha buona bocca;mercecchè non essendo quella bestia capacedi fin più alto, che di vivere un pezzo gaia e gagliarda, sarebbe vizio per lei quella continenzala qual si oppone a un tal fine, ed havirtù quella voracità che più che altro la aiutaad esso, volendo che ella non resti d’empire il ventre fintantoché il calor naturale, mal soddisfatto, le dice, mangia.

XI. All’istessa maniera sarebbe virtù nell’uomo anche l’ingiustizia. Figuratevi un uomo, che non conosca altra regola che il suo senno, né altra ragione che la sua spada. Un uomo, che non si stimi venuto al mondo, senonchè solo, qual luccio in acqua, per nuocere a quanti può. Un uomo, il quale per pompa di maggioranza vanti le soverchierie da lui fatte ad ogni suo prossimo, e ne derida con egual fasto le accuse e le approvazioni; questi dico (se il corpo avesse un dì a divenir sepolcro dell’anima, come ora n’è abitazione), questi è colui che si dovrebbe riputare il più degno di dominare su tutti gli uomini, come il più virtuoso che tra lor fosse: questi più d’ogni altro sarebbesi incamminato per via diritta all’ultimo fine, che sarebbe allora di farsi apprezzar da tutti; e questi parimente darebbe allor più nel segno di conservarsi, di contentarsi, di vivere a modo suo. In un tal caso sarebbe lecito il rompere ogni amicizia, il mentire, il malignare, il negare la fede data, quando tutto ciò fosse mezzo il più compendioso ad evitare la morte, o a migliorare la condizione di quella vita mortale che sarebbe allora il sostegno di ogni altro bene. Che stare allora a vantar più quell’onorato Demetrio, che tentato da Cesare a tradir la giustizia, colla promessa di magnificentissimo donativo, rispose acceso di sdegno, che l’imperio tutto di Roma non era prezzo bastevole a subornarlo: Si tentare me Cæsar constituerat, toto illi fui experiendus imperio. Invano Seneca si aiuterebbe allora tanto a esaltare fino alle stelle una tal risposta; mentre, quanto più savio è quell’elefante il quale, a salvar la vita, getta a’ cacciatori l’avorio che tiene in bocca, tanto più stolto sarebbe allor quel Demetrio che non accettasse ogni acquisto, ogni avanzamento, ma stimasse più la parola, che la disgrazia di Cesare, provocato da quel contegno. Che parola? che lealtà? che giustizia? che gratitudine? che costanza, se muore l’anima? Niun bene dee più stimarsi del sommo bene. Niun male dee più scansarsi del sommo male. Ora, se l’anima fosse mortale anch’essa, il suo sommo bene sarebbe vivere lungamente, il suo sommo male il morire. E però ogni ragione vorrebbe allora, che l’uomo, per allungare la vita, o per migliorarla, desse da sé bando espresso ad ogni altro affetto: né sarebbe in tal atto più biasimevole di ciò che sia quel mercante, il quale, a salvar la nave, getta in mare ogni cassa, che già non gli è nella tempesta più d’utile, ma di danno.

III.

XII. Ed eccovi come nello sconvolgimento morale di cui trattiamo la virtù sarebbe vizio, il vizio virtù. E vi par questo disordine da passarsi per tollerabile? Se fosse ciò, dunque ne seguirebbe, che in questo mondo Iddio trattasse da famigliari e domestici i suoi nemici, e da nemici i suoi famigliari e domestici. Uno degli effetti propri dell’amicizia è la manifestazione dei segreti. Ora questo sì grande arcano, che colla morte finisca il tutto, finiscano tutte le pene, finiscano tutti i premi, sarebbe nascostissimo a tutti i buoni, che con tanto lor costo vanno dietro le insegne della onestà; e per l’opposito sarebbe noto a quegli empi, che più dissolutamente si danno al male. Onde gli empi sarebbero quei domestici ammessi nel gabinetto a sapore il vero; e i buoni sarebbero gli stranieri tenuti all’uscio.

XIII. Anzi di vantaggio, il mezzo per arrivare a questa familiarità sì stretta con Dio sarebbe lo strapazzarlo solennemente; mentre vediamo, che quanto uno diventa nel suo vivere più sacrilego, o più sfrenato, tanto più facilmente egli inclina sempre a persuadersi, che l’anima sia mortale. Onde, come avviene colla pianta del balsamo, così avverrebbe parimente con Dio. Chi più attendesse a ferirlo, più ne spremerebbe di sugo di verità.

XIV. Che so lo sparviere, quando è pasciuto troppo, non sa volare bene in alto a raggiungere la sua preda, nel caso nostro succederebbe il contrario. La mente umana non si solleverebbe mai più speditamente ad arrivare queste verità sublimissime, e ad arrestarle, che quand’ella fosse gravata più d’ogni laida scelleratezza. E la coscienza di un empio così perduto sarebbe quella che dovesse posar più pacatamente: mentre a lei sarebbe toccato in sorte d’apporsi nei suoi giudizi, allora che si propose voler di qua tutta la felicità immaginabile, lasciando a chi la volesse quella che si potrebbe sognar di là.

XV. Sapete voi pertanto mai figurarvi stravolgimento di cose più sregolate? Questo sì che sarebbe un vero tenere i piedi dove va il capo, e un vero tenere il capo ove vanno i piedi: mentre questo sarebbe un camminare al rovescio di quanto detta, non la fantasia solamente, ma la ragione. E a voi piace seguir opinion si bella? Oh che stolidezza! Fate ciò che volete. Il vostro intelletto conviene che provi spasimi intollerabili, quando abbia da inchinarsi a tali spropositi, e dirvi: Sì. i buoni in questo mondo hanno ad essere ingannati? Gli scellerati hanno ad essere gli intendenti? – Nol dirà mai.

Autore: Associazione Cristo-Re Rex regum

Siamo un'Associazione culturale in difesa della "vera" Chiesa Cattolica.