DOMENICA VII DOPO PENTECOSTE (2020)

DOMENICA VII DOPO PENTECOSTE (2020)

DOMENICA VII dopo PENTECOSTE (2020)

(Messale Romano di S. Bertola e G. Destefani, comm. di D. G. LEFEBVRE O. S. B; L. I. C. E. – R. Berruti & C. Torino 1950)

Semidoppio. – Paramenti verdi.

In questa settimana non si poteva scegliere una lettura migliore nel Breviario,  del doppio racconto degli ultimi giorni di David — poiché, dice S. Girolamo, « tutte le energie del corpo si indeboliscono nei vecchi, mentre solo la sapienza aumenta in essi » (2° nott.) — e della storia di suo figlio Salomone, che fu celebre fra tutti i re per la sapienza. – David, sentendo avvicinarsi il momento della morte, designò come suo successore, fra i suoi figli, Salomone, il diletto da Dio. E Natan profeta, condusse Salomone a Gihon, ove il sacerdote Sadoc prese dal tabernacolo l’ampolla d’olio e unse Salomone; si suonò la tromba e tutto il popolo disse: « Viva il Re Salomone! ». David disse a suo figlio: «Sarai tu a innalzare il tempio del Signore. Mostrati forte e sii uomo! Osserva fedelmente i comandamenti del Signore, affinché si compia la parola che pronunciò su me: « Il tuo nome si è affermato e i tuoi discendenti regneranno per sempre! Tu agirai secondo la tua sapienza, poiché sei un uomo saggio ». E David s’addormentò coi suoi padri e fu sepolto nella città che porta il suo nome dopo aver regnato sette anni a Ebron e trentatré anni a Gerusalemme, la fortezza inespugnabile che egli aveva preso ai Filistei. E Salomone si assise sul trono di suo padre, ed il suo regno fu ben sicuro. Era un giovane di diciassette anni, amava il Signore e gli offriva olocausti. – Iddio apparve in sogno a Salomone e gli disse. «Chiedi tutto quello che vuoi e io te lo darò ». Salomone gli rispose: « Signore, io non sono che un fanciullo per regnare al posto di David, mio padre; accordami la sapienza affinché io possa discernere il bene dal male e conduca il tuo popolo sulle tue vie ». E Dio aggiunse: « Ecco io ti dono un cuore saggio e intelligente, tale che tu supererai tutti i sapienti che furono e quelli che verranno, e ciò che tu non mi hai chiesto (lunga vita, ricchezza, trionfi) te lo darò in più ». Secondo la promessa del Signore, Salomone non solo fu il più sapiente, ma il più splendido e possente re d’Israele. Tutti i re gli apportavano i loro doni e tutte le nazioni che fino allora avevano disprezzato Israele, ne ricercavano l’alleanza. La regina di Saba venne a consultarlo e rimase piena di ammirazione per tutti quello che vide e intese da lui. Il Faraone, re d’Egitto, gli dette la figlia in isposa; Hiram, re di Tiro, fece con lui alleanza e un trattato, pel quale, in compenso del grano, dell’orzo, del vino, dell’olio, che le campagne della Palestina producevano abbondantemente, gli forniva legni preziosi delle foreste del Libano, e operai per la costruzione del tempio. Salomone insegnò al popolo il timor di Dio e questi lo protesse in tutte le imprese e lo aiutò quando il suo fratello maggiore avrebbe voluto regnare in sua vece. Così si realizzarono le parole che Salomone medesimo pronunciò e che S. Girolamo ci ricorda nell’ufficio di oggi: « Non disprezzare la sapienza e questa ti difenderà. Mettiti in possesso delia sapienza e acquista la prudenza; impadronisciti di essa ed essa ti esalterà, tu sarai glorificato da essa e, quando l’avrai abbracciata, ti metterà sul capo splendori di grazia e ti coprirà di una gloriosa corona ». « Infatti colui che giorno e notte, commenta S. Girolamo, medita la legge del Signore, diventa più docile con gli anni, più gentile, più saggio col progresso del tempo e negli ultimi giorni raccoglie i più dolci frutti dei suoi lavori d’altri tempi » (2° Nott.). – Laddove, « Quale frutto, chiede l’Apostolo, avete tratto dal peccato, se non la vergogna e la morte eterna? », mentre « ricevendo Dio voi producete frutti di santità e guadagnate la vita eterna » (Ep.). E nostro Signore dice nel Vangelo: « Si riconosce l’albero dai suoi frutti. Ogni albero buono porta frutti buoni e ogni albero cattivo porta frutti cattivi ». E aggiunge: « Non sono già quelli che mi dicono: Signore, Signore, che entreranno nel regno dei cieli, ma quelli che fan la volontà del Padre mio che è nei cieli • Cosi, commentando l’Introito di questo giorno, S. Agostino dice « È necessario che le mani e la lingua siano d’accordo: che l’una glorifichi Dio e che le altre agiscano ». La vera sapienza non consiste solamente nell’intendere le parole di Dio, ma nel realizzarle; né pregare Dio, ma anche nel mostrargli con le opere che lo amiamo ». « Il Vangelo – dice S. Ilario – ci avverte che le parole dolci e gli atteggiamenti mansueti debbono essere valutati dai frutti delle opere e che bisogna apprezzare qualcuno non secondo quello egli si mostra a parole, ma secondo quello che si mostra ai fatti, perché spesso la veste dell’agnello serve a nascondere la ferocità dei lupi. Dunque, attraverso la nostra maniera di vivere noi dobbiamo meritare la beatitudine eterna, di modo che noi dobbiamo volere il bene, evitare il male e obbedire di tutto cuore ai precetti divini per essere gli amici di Dio mediante il compimento di questi propositi » (3° Nott.). – Salomone, il re pacifico, non è che una figura del Cristo: il suo segno che tutti acclamano (Intr., Alt.) annuncia quello del Messia che è il vero Re della pace; Salomone, il più saggio dei re, presagisce il Figlio di Dio del quale il Padre disse sul Tabor: « Ascoltatelo » (Grad.). Egli presagisce la Sapienza incarnata che ci insegnerà il timor di Dio (id.) e il modo per distinguere il bene dal male (Vang.). Gli olocausti, fatti al tempo della consacrazione del Tempio di Salomone (Off.) sono, come quello di Abele (Secr.), ombra dell’unico sacrificio cruento, che Cristo offrì sul Calvario; che coronò in cielo, ove entrò dopo aver ottenuta la vittoria su tutti i suoi nemici. Questo dichiara il Salmo XLVI (Intr.), nel quale i Padri hanno visto, sotto il simbolo dell’Arca dell’alleanza che il popolo di Dio fa passare, in mezzo alle acclamazioni, dai campi di battaglia sulla montagna di Sion, una figura dell’Ascensione di Gesù nel regno celeste.

Incipit

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Ps XLVI:2.  Omnes gentes, pláudite mánibus: jubiláte Deo in voce exsultatiónis.

[O popoli tutti, applaudite: lodate Iddio con voce di giubilo.]

Ps XLVI: 3 Quóniam Dóminus excélsus, terríbilis: Rex magnus super omnem terram.

[Poiché il Signore è l’Altissimo, il Terribile, il sommo Re, potente su tutta la terra.]

Omnes gentes, pláudite mánibus: jubiláte Deo in voce exsultatiónis.

[O popoli tutti, applaudite: lodate Iddio con voce di giubilo.]

Oratio

Orémus.

Deus, cujus providéntia in sui dispositióne non fállitur: te súpplices exorámus; ut nóxia cuncta submóveas, et ómnia nobis profutúra concédas.

[O Dio, la cui provvidenza non fallisce mai nelle sue disposizioni, Ti supplichiamo di allontanare da noi quanto ci nuoce, e di concederci quanto ci giova.]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Romános. Rom VI: 19-23

“Fratres: Humánum dico, propter infirmitátem carnis vestræ: sicut enim exhibuístis membra vestra servíre immundítiæ et iniquitáti ad iniquitátem, ita nunc exhibéte membra vestra servíre justítiæ in sanctificatiónem. Cum enim servi essétis peccáti, líberi fuístis justítiæ. Quem ergo fructum habuístis tunc in illis, in quibus nunc erubéscitis? Nam finis illórum mors est. Nunc vero liberáti a peccáto, servi autem facti Deo, habétis fructum vestrum in sanctificatiónem, finem vero vitam ætérnam. Stipéndia enim peccáti mors. Grátia autem Dei vita ætérna, in Christo Jesu, Dómino nostro”.

Omelia I

[A. Castellazzi: La scuola degli Apostoli – Sc. Tip. Vescov. Artigianelli, Pavia, 1920]

IL PECCATO

“Fratelli: Parlo in modo umano, a motivo della debolezza della vostra carne. Come deste le vostre membra al servizio dell’immondezza e dell’iniquità per commettere l’iniquità; così ora date le vostre membra al servizio della giustizia per la santificazione. Perché quando eravate servi del peccato, eravate liberi rispetto alla giustizia. Ma qual frutto aveste allora da quelle cose, delle quali adesso arrossite? Giacché il loro termine è la morte. Ma adesso, affrancati dal peccato e fatti servi di Dio, avete per vostro frutto la santificazione e per termine la vita eterna. Perché la paga del peccato è la morte, ma il dono grazioso di Dio è la vita eterna in Cristo Gesù, nostro Signore…” (Rom. VI, 19-23).

L’Epistola è un brano della Lettera ai Romani. Il Cristiano, liberatosi con l’aiuto di Dio dalla servitù del peccato, è passato a servire la giustizia. Sarebbe un controsenso, se tornasse ancora al peccato. Egli deve continuare nella giustizia a servir Dio con altrettanto zelo, con quanto prima ha servito al peccato. Quand’era schiavo del peccato, commetteva azioni di cui ora deve arrossire, le quali avevano per termine la morte spirituale, che è la paga del peccato. Ora, invece, lontano dal peccato, fatto servo di Dio, deve, con la grazia di Lui, compiere buone opere, che conducano alla vita eterna. Questo brano ci porge occasione di parlare del peccato, il quale:

1. È una dura servitù,

2. Che ci riempie di confusione

3. E ci conduce alla eterna rovina.

1.

Quando eravate servi del peccato, eravate liberi rispetto alla giustizia. Eravate da essa lontani, esenti dal suo giogo. Se il vostro padrone era il peccato, non potevate attendere alle opere della giustizia. Chi vive schiavo del peccato, non è libero di far quel che vuole; ma deve fare la volontà del padrone che odia la giustizia, e impedisce che i suoi servi, attendendo alle opere della giustizia, procurino la propria santificazione. L’Apostolo parla a coloro che avevano cessato di esser servi del peccato, e che, aiutati dalla grazia di Dio. attendevano alla propria santificazione. Anche noi nel Battesimo siamo stati affrancati dal peccato; ma non saremmo per avventura ritornati sotto il suo giogo, invece di attendere alla nostra santificazione! Pensiamo un po’ quanto sia deplorevole la condizione di chi è schiavo. Il cuore ci si commuove quando leggiamo di tanti nostri fratelli, che nei paesi barbari vengono catturati, venduti, comperati come schiavi. Approviamo l’opera di coloro che si adoperano per togliere o ridurre questa piaga; lodiamo i governi energici che, con il loro intervento, troncano questo turpe mercato. Ma una schiavitù da compiangersi anche maggiormente, è la schiavitù del peccato. «Chi commette il peccato è schiavo del peccato». (Giov. VIII, 34). – Si comprende che uno schiavo preferisca a un padrone crudele un padrone che abbia sentimenti di umanità. Quando si commette il peccato, invece avviene precisamente il contrario. Si abbandona Dio, bontà infinita, che non lascia senza ricompensa il più piccolo sacrificio fatto per lui, e si va a servire un tiranno inesorabile. – Il suo primo atto è quello di spogliarci di tutti i beni spirituali. Di tante lotte sostenute, di tante privazioni, di tanti sacrifici, che cosa rimane, per la vita eterna? – Il peccatore si è incontrato in un ladrone che lo ha spogliato di tutti i meriti che s’era acquistati servendo Dio, quend’era nella sua grazia. Avutici in suo potere, non ci lascia un momento di tregua. Comanda sempre. Se, caduto una volta in peccato, l’uomo non cerca, con l’aiuto di Dio, di sottrarsene subito al grave giogo, presto cadrà di nuovo. Commetterà un altro peccato, quasi per far dimenticare il primo; se ne aggiungeranno altri; si formerà l’abitudine; e, fatta l’abitudine, la servitù è completa. Non farà neppur più il tentativo di rompere i legami che l’avvolgono: «Purtroppo resterà schiavo delle sue passioni e stretto nelle catene dei suoi peccati» (Prov. V, 22.). – Come non gli bastasse, poi, un tiranno solo, il peccatore si cerca tanti tiranni quante sono le passioni a cui cede. Egli sarà schiavo della superbia, dell’avarizia, della gola, della lussuria, dell’empietà ecc.: tutti padroni che, messe una volta le catene al piede del loro schiavo, son decisi a non levarle più. «Quanti sono i peccati, quanti sono i vizi, altrettanti sono i tiranni» (S. Ambrogio. In Ps. CXVIII Serm. 20, 50. 1). –

2.

S. Paolo si domanda: Ma qual frutto aveste allora da quelle cose, delle quali adesso arrossite?Nella domanda è inclusa la risposta: Il frutto avuto fu la confusione. Si allude specialmente ai peccati impuri, ma vale per qualunque peccato. Qualunque peccatore, dopo la sua conversione, considerando qual era il suo stato durante la vita di peccato, non può sottrarsi a un certo smarrimento d’animo, vedendo a quale punto si era degradato. Dio ha dato all’uomo la ragione, con cui possa governare tutte le sue facoltà. Quando invece di governare, lascia che prendano sopravvento dalle passioni, la ragione è come sbalzata dal suo trono; l’uomo perde la sua dignità, e scende al livello degli esseri irragionevoli, «che non hanno né il giudizio con cui giudicare e governarsi, né lo strumento del giudizio, la ragione» (S. Bernardo – In Cant. Serm. 81. 6). Dio rimproverò amaramente Israele : «Il mio popolo sostituì la sua gloria con un idolo (Ger. II, 11). Chi offende Dio si prostra innanzi all’idolo mostruoso del peccato. La disillusione segue necessariamente, e sempre, il peccato. «Ogni peccato ha questo: prima che si commetta ha un certo qual piacere; commesso che sia, il piacere cessa e inaridisce: vi subentra il dolore e la tristezza » (S. Giov. Crisost. In Epist. ad Thim. Hom. 2, 3). E quanto più uno si sforza di trovar soddisfazione nel peccato, tanto più si sente oppresso dal dolore e dalla tristezza. Nonostante tutta l’apparenza esterna: allegria, divertimenti, piaceri, ricchezze, onori, il peccatore è nella più stretta miseria spirituale. Nonostante i frizzi, l’ostentato disprezzo, il compatimento per coloro che servono Dio, egli gli invidia. Essi godono un bene che manca a lui: la serenità dello spirito. Il nostro cuore è fatto per Dio, e i piaceri di quaggiù non possono appagarlo. L’anima si trova a posto quando è con Dio: lontana da Lui, non c’è che lo smarrimento, l’angoscia, la confusione.

3.

Non solo le azioni peccaminose ci rendono infelici in questa vita; esse ci conducono all’eterna dannazione, giacché il loro termine è la morte. Questo è il soldo che il peccato paga ai suoi seguaci per il servizio prestato. «La via dei peccatori — dice S. Agostino — ti piace perché è larga, e molti vi camminano: tu ne vedi la larghezza, ma non ne vedi il termine. Dove essa finisce, sta il precipizio; essa conduce in fondo a un baratro: quivi finiscono quelli che spaziano allegramente in questa via» (En. in Ps. CXLV, 19). Chi comincia male, finisce peggio. Ai nostri giorni hanno preso grande sviluppo le escursioni in montagna. Sono comitive, più o meno numerose, che togliendosi dalla vita agitata e dall’afa della città, vanno a respirare l’aria libera e a godere lo spettacolo della natura. Come sono allegre, chiassose alla partenza! Come fanno pompa del loro sacco e della loro piccozza! Ma non è sempre così al ritorno. Non di rado la salita è troncata a metà. Alcuni s’affrettano a casa, con l’angoscia nel cuore, a portare alla madre, alla sorella, alla sposa d’uno dei gitanti una triste notizia: « È  precipitato in un burrone!» Altri rimangono sul posto come impietriti, o vanno in cerca, di coraggiosi alpigiani che, affidati alle corde, scendano nel precipizio a rintracciare e a riportare il cadavere dello scomparso. Quante volte la morte assale, lungo il cammino incompiuto, il peccatore nella sua spensieratezza, e lo precipita nel baratro dell’inferno! E da quel baratro nessuno lo toglierà più. « Chi vuol passare da qui a voi non lo può » (Luc. XVI, 26), dice Abramo, invocato dal ricco epulone. Laggiù in quel baratro non ci sarà la pace e la tranquillità, che regna nei burroni delle montagne. Laggiù ci sarà il rimorso, lo strazio d’ogni pena, la lontananza da Dio. Se noi quaggiù perdiamo un amico, ne possiamo trovare un altro, forse migliore del primo. Ma Dio, non si può sostituire ; né il dolore della sua perdita può venir lenito dal tempo. La stessa pena che si soffre, parla della potenza e della giustizia di Lui. Nuovi ricordi, nuove distrazioni non ce lo potranno far dimenticare. Quale pena! Essere creati per amar Dio, per goder Dio, e dover starsene lontani per sempre, sotto i colpi della sua giustizia punitrice. Il padre Giovanni Mazzucconi, primo missionario e martire della Melanesia, trovandosi, da fanciullo, in collegio, vide un compagno commettere una grave mancanza contro di un altro. Diede in un pianto dirotto. Uno gli si accostò e gli fece la domanda: «Perché piangi ?» — « Piango — rispose — perché quello ha peccato » (Cenni sul sacerdote Giovanni Mazzucconi. Milano .1857, pagina 11). Se si considerasse sul serio la bruttezza e le conseguenze del peccato, ci sarebbe veramente da piangere. Ma, purtroppo, non si considera la malizia e la bruttezza del peccato prima di commetterlo, e non la si considera, generalmente, dopo che si è commesso; e così, un peccato tira l’altro. Prendiamo un po’ per noi le parole del profeta ai Giudei: «Applicatevi col vostro cuore a riflettere sui vostri andamenti» (Agg. 1. 5), e se scorgiamo che la nostra vita è peccaminosa, mutiamo subito condotta. « È bello non peccare, ma è anche buona cosa convertirsi dopo aver peccato; come è cosa eccellente esser sempre sani, ma è bello anche guarire dalla malattia» (S. Clemente Alessandrino. Pedag. L . 1 , c. 9).

Graduale

Ps XXXIII: 12; XXXIII: 6

Veníte, fílii, audíte me: timórem Dómini docébo vos. – V. Accédite ad eum, et illuminámini: et fácies vestræ non confundéntur.

[Venite, o figli, e ascoltatemi: vi insegnerò il timore di Dio. V. Accostatevi a Lui e sarete illuminati: e le vostre facce non saranno confuse.]

Alleluja

Allelúja, allelúja

Ps XLVI: 2 Omnes gentes, pláudite mánibus: jubiláte Deo in voce exsultatiónis. Allelúja.

[O popoli tutti, applaudite: lodate Iddio con voce di giubilo. Allelúia.]

Evangelium

Sequéntia ✠ sancti Evangélii secúndum Matthæum.

Matt VII: 15-21

“In illo témpore: Dixit Jesus discípulis suis: Atténdite a falsis prophétis, qui véniunt ad vos in vestiméntis óvium, intrínsecus autem sunt lupi rapáces: a frúctibus eórum cognoscétis eos. Numquid cólligunt de spinis uvas, aut de tríbulis ficus? Sic omnis arbor bona fructus bonos facit: mala autem arbor malos fructus facit. Non potest arbor bona malos fructus fácere: neque arbor mala bonos fructus fácere. Omnis arbor, quæ non facit fructum bonum, excidétur et in ignem mittétur. Igitur ex frúctibus eórum cognoscétis eos. Non omnis, qui dicit mihi, Dómine, Dómine, intrábit in regnum coelórum: sed qui facit voluntátem Patris mei, qui in cœlis est, ipse intrábit in regnum cœlórum.”

[“In quel tempo disse Gesù a’ suoi discepoli: Guardatevi dai falsi profeti, che vengono da voi vestiti da pecore, ma al di dentro son lupi rapaci: li riconoscerete dai loro frutti. Si coglie forse uva dalle spine, o fichi dai triboli? Così ogni buon albero porta buoni frutti; e ogni albero cattivo fa frutti cattivi. Non può un buon albero far frutti cattivi; né un albero cattivo far dei frutti buoni. Qualunque pianta che non porti buon frutto, si taglia, e si getta nel fuoco. Voi li riconoscerete adunque dai frutti loro. Non tutti quelli che a me dicono: Signore, Signore, entreranno nel regno de’ cieli; ma colui che fa la volontà del Padre mio che è ne’ cieli, questi entrerà nel regno de’ cieli”]

Omelia II

Sopra le buone opere.

[Mons. J. Billot; Discorsi Parrocchiali – Cioffi ed. Napoli, 1840]

“Omnis arbor, quæ non facit fructum bonum excidetur, et inignem mittetur.”

 Matth. VII.

Qual è, fratelli miei, quell’albero sfortunato, che Gesù Cristo nel suo sdegno minaccia di far tagliare e gettar nel fuoco, per non aver portati frutti buoni? Voi mi prevenite senza dubbio nella risposta, che debbo farvi, e, per poco che abbiate penetrato il senso misterioso delle parole di Gesù Cristo, comprendete facilmente che quell’albero infruttuoso è il Cristiano sterile in buone opere. L’uomo cristiano, infatti, è come un albero, che Dio ha piantato nel suo campo, facendolo nascere nel seno della vera religione. Dio ha coltivato quest’albero con gran cura, a fine di renderlo fertile; egli ha dunque motivo di aspettarne del frutto, e se non produce, meritamente lo condanna ad esser gettato nel fuoco: excidetur. Bisogna dunque produrre frutti di buone opere, e a questa regola vuole Gesù Cristo, che noi riconosciamo i buoni Cristiani. Guardatevi dai falsi profeti, dice Egli nel Vangelo: essi vengono a voi sotto la pelle di pecora, ed al di dentro sono lupi rapaci; voi li conoscerete dai loro frutti: a fructibus eorum cognoscetis eos. Un buon albero non può produrre cattivi frutti, né un cattivo albero buoni frutti; ed ogni albero, che non porterà frutto buoni, sarà tagliato e gettato nel fuoco: Omnis arbor quæ etc. Or vi sono tre sorta di alberi sterili, che non portano frutti buoni, dice s. Bernardo; gli uni che non ne portano affatto, sunt, qui fructum non faciunt; gli altri, che ne portano, ma che non convengono loro, qui fructum faciunt, sed non suum; finalmente, che portano frutti buoni, che sono lor propri, ma non li producono in tempo: sunt, qui faciunt fructum suum sed non suo tempore. Così vi sono Cristiani, che non fanno veruna affatto opera buona, altri che ne fanno, ma non sono loro proprie; altri finalmente, che fanno buone opere, che loro convengono, ma non le fanno nel tempo e nel modo, che Dio vuole. Bisogna dunque, fratelli miei, per evitare la sorte degli alberi sterili, che saranno gettati al fuoco, produrre frutti di buone opere, produrne che vi siano propri, e produrli nel tempo e modo, che Dio domanda, come dice il profeta, allorché, parlando dell’uomo, che si attacca alla legge di Dio, lo paragona ad un albero, che piantato lungo le acque, produce frutti nel suo tempo: fructum dabit in tempore suo (Ps.I). Al che vengo ad esortarvi, fratelli miei, facendovi vedere la necessità delle buone opere; sarà il mio primo punto. Quali sono le buone opere, che Dio domanda da voi: secondo punto.

I. Punto. Egli è un errore assai comune ai Cristiani di credere, che, per esser salvo, basti non far del male, e che le buone opere non siano d’obbligo che per le persone impegnate in uno stato di perfezione. Ma non è così fratelli miei, che Dio l’intende. Egli non solamente vuole, che noi evitiamo il male, ma vuole ancora: che pratichiamo il bene; a tutti gli uomini indifferentemente è indirizzato questo precetto: fuggite il male, e fate il bene; Declina a malo, et fac bonum ( Ps. XXXVI). Se vi sono Cristiani dannati per aver fatto il male, che loro era proibito, non ve ne saran meno e forse molti più per non aver fatto il bene, che loro era comandato. Per maggiormente convincerci ancora di questa verità, apriamo i libri santi; noi vi apprenderemo, che senza le buone opere non possiamo esser salvi, che le buone opere al contrario sono il solo titolo, che rende certa la nostra predestinazione. – Senza lasciare l’odierno vangelo, prendiamo di nuovo il sacro testo, che vi ho citato, per dargli una maggiore spiegazione. Ogni albero, dice Gesù Cristo, che non porterà frutti buoni sarà  tagliato e gettato al fuoco.* omnis arbor quæ etc.; cioè, ogni uomo, ogni cristiano, che trascura le buone opere, che non fa il bene che Dio gli comanda, che è sterile in virtù, sarà condannato alle fiamme eterne dell’inferno, se ne richiede di più per provare la necessità delle buone opere? Non basta già, affinché un albero sia buono, che getti molti rami, che produce foglie ed anche fiori; egli ancora deve produrre dei frutti: nello stesso modo un Cristiano non deve contentarsi delle apparenze delle virtù, simili alle foglie, che il minimo vento rapisce, che possono bensì ingannare gli uomini, ma non già Dio; egli non deve neppure limitarsi a semplici desideri, che uccidono i poltroni, come dice la Scrittura, né a belle parole, che sono senza effetto, come i fiori che non sono seguiti da alcun frutto; ma deve esser fertile in buone opere, altrimenti sarà tagliato come un albero infruttuoso, e gettato nel fuoco eterno: excidetur, et in ignem mittetur. Non evvi strada di mezzo, ripiglia su di ciò s. Agostino; bisogna che il tralcio della vite produca uve, o che sia messo nel fuoco: aut vitis, aut ignis. Affinché dunque non cada nel fuoco, egli deve dare del frutto: ut ergo non sit in igne, sit in vite. A che infatti vi servirà, fratelli miei, aver formati bei progetti di conversione, aver concepiti buoni proponimenti, aver risoluta quella restituzione della roba altrui, quella riconciliazione col vostro nemico, avere sovente promesso di adempiere ai doveri di cristiano e a quelli del vostro stato, se le vostre risoluzioni non hanno alcun effetto, se voi non mettete la mano all’opera. Sareste voi ben ricevuti al tribunale di Gesù Cristo, non presentandogli che desideri e parole? No, senza dubbio fratelli miei; sono virtù, che converrà presentargli; voi sarete condannati coi vostri desideri e con le vostre parole. Se l’inferno fosse aperto ai vostri occhi, voi vi vedreste un’infinità di persone, che han formati, come voi, bei progetti, e forse ancora dei più belli, che voi: ma per non averli effettuati, eccole condannate, come alberi sterili, a bruciare nel fuoco, che non le consumerà giammai. Oh alberi disgraziati e vittime delle vendette eterne! Dovevate dunque gettare radici sì profonde nella terra, spingere verso il cielo una sì gran quantità di rami, dare con le vostre foglie e coi vostri fiori sì belle speranze, per avere la trista sorte d’essere gettati nel fuoco ? Il padre di famiglia nulla aveva dimenticato per rendervi fertili; egli vi ha piantati in buon terreno facendovi nascere nel seno della Chiesa; vi aveva coltivati colle sue attenzioni, riscaldati coi raggi del suo sole; vi aveva innaffiati con le piogge celesti della sua grazia; aveva tagliata una parte dei vostri rami con le afflizioni, di cui erasi servito per purificarvi e farvi portare degni frutti di penitenza; ma voi non avete corrisposto alle sue cure, voi avete resi inutili tutti gli aiuti, ch’egli vi ha dati; voi avete languito in una vita molle e sterile in buone opere; eccovi per sempre tolti dalla terra dei viventi, condannati ad ardere eternamente in una regione di morti: excidetur, et in ignem mittetur (Matth. VII). –  Non deplorerò io qui anticipatamente, fratelli miei, la sorte funesta d’un gran numero di coloro che mi ascoltano, i quali si rassicurano, perché non fanno del male, perché non sono soggetti a vizi enormi, perché non fan torto ad alcuno, perché sono anche moderati nelle loro passioni; ma tralasciano il bene, non praticano veruna virtù e trascurano le buone opere. Alberi sterili ed infruttuosi, che occupate inutilmente la terra, non temete voi le minacce, che il santo precursore del Messia faceva altre volte a quelli che vivevano come voi, quando loro annunziava, che la scure era di già alla radice, e che fra poco sarebbero tagliati e gettati nel fuoco? Piacesse a Dio, fratelli miei, che questa minaccia facesse su di voi le medesime impressioni che fece su coloro cui s. Giovanni Battista la indirizzava! Che faremo noi, dicevan essi, per evitare la disgrazia, che è pronta a piombarci addosso? Fate degni frutti di penitenza, rispondeva loro l’uomo di Dio; colui che ha due vesti ne dia a chi non ne ha, e colui, che ha di che mangiare, faccia lo stesso; ecco quello ch’io vi dirò. Praticate queste opere di misericordia e le altre virtù, che il vostro stato vi permette, e alle quali v’impegna, poiché questo è il solo mezzo di riparare i colpi onde siete minacciati. Non vi lusingate d’essere i figliuoli di Abramo, diceva il Battista ai popoli che l’ascoltavano: non vi rassicurate, vi dirò io altresì, sopra l’augusta qualità di cristiani, che avete ricevuta al Battesimo, sopra la fede di cui fate professione; sappiate che questa fede, questo carattere di cristiano a nulla vi serviranno senza le buone opere; che la fede sarà per voi al contrario un motivo di riprovazione, se non è animata dalle altre virtù, che debbono accompagnarla. La fede è un talento che Dio ci ha dato; bisogna dunque far valere questo talento nelle mire di Dio, altrimenti risolvervi a subire la stessa sorte che quel servo del Vangelo, il quale non aveva fatto profittare il talento, che il suo padrone gli aveva confidato. Come fu egli trattato? Voi lo sapete e l’avete sovente udito dire: il suo padrone fece levargli il suo talento; comandò che quel servo codardo fosse rinchiuso in una stretta prigione, che fosse gettato nelle tenebre, ove erano pianti e stridori di denti: Inutilem serrani eiicite in tenebras exteriores, illic erit fletus et stridor dentium [Matth. XXV). Che aveva dunque fatto quel servo peressere trattato con tanto rigore? Aveva forse involato alcun, che al suo padrone?Non l’aveva all’opposto difeso contro gl’ingiusti usurpatori? Erasi egli forse servito del suo talento per con tentare passioni malvage, per farne materia di dissolutezze? No, Cristiani, non ne aveva punto abusato: al contrario egli l’aveva nascosto, sotterrato, per timore che non gli venisse rapito; sudi che egli pretese scusarsi: io sapeva disse al suo padrone, quale è la vostra esattezza a domandar conto delle cose che confidate ai vostri servi: e perciò io ho avuto la precauzione di nascondere il mio talento sotto terra, a fine di ritrovarlo quando voi me lo richiedereste. Ma la sua scusa non fu ricevuta;il motivo su cui pretese egli giustificarsi fu appunto, dice s. Girolamo,ciò che lo fece condannare. Giacché voi sapevate, dice il padrone, che io mieto dove non ho seminato, dovevate dunque far profittare il mio danaro, affinché al mio ritorno io potessi trarne qualche vantaggio: e perciò io vi tolgo il talento, e vi condanno al castigo, che avete meritato. Applicate a voi medesimi, fratelli miei questa parabola: voi non siete soggetti,dite voi, a grandi vizi; voi non fate alcun male, non siete né bestemmiatori né calunniatori né impudici né ubriaconi né ingiusti usurpatori dei beni altrui. Io lo concedo; voi non sarete condannati per questi vizi ma lo sarete per non aver fatto il bene, che Dio domandava da voi nello stato in cui vi ha posti; voi lo sarete per non aver fatto valere il talento della fede, per non averlo renduto fruttifero con le buone opere meritorie della vita eterna; voi lo sarete per aver lasciata languire questa fede in una vita molle ed effeminata. – Quand’anche voi aveste tanta fede da trasportare i monti, da fare i più grandi prodigi, questa fede, questi prodigi a nulla vi serviranno senza le buone opere.. Voi avrete la medesima sorte al giudizio di Dio che quelli di cui parla Gesù Cristo, i quali gli diranno, per aver parte alle sue ricompense, che hanno profetizzato nel suo nome, che hanno scacciati i demoni, che hanno fatti grandi miracoli, e che non saranno tuttavia riconosciuti per suoi veri servi, perché non avranno fatta la volontà di Dio, e non avranno buone opere da presentargli. Il supremo giudice vi dirà, come a quegli sterili operai, che non vi conosce punto: Nunquam novi vos (Matth. VII). Egli pronuncerà contro di voi una sentenza di maledizione, che vi separerà per sempre dalla sua divina presenza: Discedite a me, omnes, qui operamini iniquitatem (Ibid.) Mentre non basta, dice Gesù Cristo, per entrare nel regno dei cieli, non basta dire: Signore; ma bisogna fare ha volontà del Padre celeste con la pratica delle buone opere: Quoti facit voluntatem patris mei, ipse intrabit in regnum coelorum (Ibid). Quindi, fratelli miei, l’omissione delle buone opere sarà il motivo particolare su cui cadrà la condannazione, che Gesù Cristo pronuncerà contro, i reprobi. Ritiratevi da me, loro dirà Egli perché io ha avuto fame e sete nella persona dei poveri, e voi non mi avete dato a bere e a mangiare; io sono stato infermo e prigioniero, e voi non mi avete visitato; il che è come se loro dicesse (nota s. Agostino): no, no, non è già per la cagione che voi credete che io vi condanno, non è solamente per avere commessi delitti; mentre se voi avreste fatte buone opere, che li avessero cancellati, se avreste redenti i vostri peccati con limosine, io non vi condannerei: ma perché avete trascurate le buone opere né avete fatto il bene, che io domandava da voi, vi riprovo e vi condanno alle fiamme eterne. Vergini insensate, voi non entrerete nella sala del convito, non solamente per aver perduta la vostra verginità, ma perché  le vostre lampade non sono ripiene dell’olio delle buone opere, voi sarete escluse dal banchetto eterno degli eletti: Nescio vos, io non vi conosco. Le buone opere sono dunque il solo titolo, che può assicurarvi l’entrata nell’eredità del Signore: il che possiamo noi ancora osservare nella sentenza, che Gesù Cristo pronuncerà in favore degli eletti. Venite, loro dirà egli, o benedetti dal mio Padre, possedete il regno, che vi ho preparato; io ho avuto fame e sete, e voi mi avete dato a mangiare e a bere; io sono stato nudo, e mi avete rivestito; prigioniero ed infermo, e mi avete visitato: ecco ciò, che fa il vostro merito avanti a me. Non è già per aver avuto ricchezze sopra la terra, per avervi posseduti onorevoli impieghi, che io vi do luogo nel mio regno, ma perché avete fatto un uso santo delle ricchezze, soccorrendo i poveri, perché vi siete serviti della vostra autorità per farmi onorare e rispettare; si è per questo, che io vi do le mie ricompense. Non è già a cagione della scienza, della fama, della gloria che vi siete acquistata sulla terra, né a cagione delle grandi conquiste che vi avete fatte; ma si per esservi umiliati negli onori, per esservi mortificati in mezzo dei piaceri, o per aver sopportati con pazienza i sinistri accidenti, le malattie, le afflizioni, in una parola, per avere adempiuti i doveri veri di cristiano, per aver osservati i miei comandamenti; si è per questi, che io vi metto in possesso della mia eredità, che io vi dò l’entrata nell’allegrezza del vostro Signore: qui super pauca fuisti fidelis, intra in gaudium Domini tui (Matth. XXV). Voi vedete dunque, fratelli miei, che solamente le buone opere vi meriteranno un accesso favorevole al tribunale di Gesù Cristo, mentre non è già del vostro Dio, come dei grandi della terra, presso di cui la qualità, il danaro, il credito hanno più accesso che il merito. Dio, presso cui non è accettazion di persone, non avrà riguardo che alla virtù; egli renderà a ciascheduno secondo le sue opere, dice Paolo. Il più abbietto tra gli uomini, arricchito del merito delle buone opere, sarà infinitamente più grande avanti a Dio, che tutti i potentati del mondo, che saranno sprovveduti di questi meriti. – Tali sono, fratelli miei, le vere ricchezze, i soli tesori che voi dovete esser solleciti di accumulare; questi sono i soli beni, che porterete con voi dopo la vostra vita; la morte, l’implacabile morte, che non risparmia alcuno, che fa cadere sotto i suoi colpi i grandi come i piccoli, vi toglierà i beni, che possedete; le case, che occupate per farle passare ad altri: ma ella non può toglierci il merito delle opere buone; questo tesoro è inaccessibile ai vermi, alla ruggine, ed ai colpi della morte; egli seguirà la nostr’anima al tribunale di Gesù Cristo, ed è il solo bene, che ci resterà. O figliuoli degli uomini, che vi date tanta sollecitudine per accumular ricchezze, che non porterete con voi, quanto siete ciechi nel non far provvisione di quelle, che vi seguiranno nell’eternità! Perciocché, come dice l’Apostolo, voi non mieterete, se non ciò, che avrete seminato: Quae seminaverit homo, haec et metet (Gal. VI). Sforzatevi dunque di rendere la vostra vocazione certa pel mezzo delle buone opere: esse vi sono necessarie in qualunque stato siate, giusti o peccatori; quest’obbligo vi riguarda tutti. Se siete peccatori, dovete fare buone opere per trarre su di voi grazie di conversione che cancellino i vostri peccati e vi riconcilino con Dio. Battete alla porta della misericordia del Signore con preghiere continue, ed Egli ve l’aprirà; riscattate i vostri peccati con le vostre limosine, e vi saranno perdonati; mortificatevi con opere di penitenza, e rientrerete nei diritti che il peccato vi ha rapito. Fate servire, come dice l’Apostolo, alla santità quei membri, che hanno servito all’iniquità. Quelle mani cariche d’ingiustizia, apritele per fare le restituzioni cui siete obbligati e per spargere le vostre liberalità nel seno dei poveri. Di quei piedi, che vi conducevano nei luoghi di dissolutezza, servitevi per visitare Gesù Cristo nel suo santo tempio e nei suoi membri pazienti, che sono gl’infermi: Sicut exhibuistis membra vestra servire iniustitiae, et iniquitati, ita nunc exhilete membra vestra servire iustitiae (Rom. VI). Giusti, voi dovete altresì praticare le buone opere per perseverare nella grazia di Dio; mentre tostochè cesserete di far il bene commetterete il male, non essendovi alcun mezzo tra una vita malvagia ed una vita sprovveduta di buone opere. Come, infatti, resisterete voi senza la pratica delle buone opere alle tentazioni dei vostri nemici? Come domerete voi le vostre passioni senza gli atti delle virtù, che loro sono contrarie? Come combatterete voi la superbia senza l’umiltà, l’avarizia senza la liberalità, l’ira senza la mansuetudine, l’amore dei piaceri senza la mortificazione dei sensi? Bisogna dunque far il bene per evitar il male: Declina a malo, et fac bonum. Ma quali sono le buone opere, che ciascuno deve fare? Secondo punto.

II. Punto. Dalla qualità dei frutti si conosce quella dell’albero; un buon albero, dice Gesù Cristo, non può produrre cattivi frutti, ed un cattivo albero non ne può produrre di buoni: non si raccolgono uve dalle spine né fichi dai triboli. Un buon albero deve dunque portare il frutto, che gli è proprio; vale a dire, un Cristiano deve fare le azioni, che gli convengono, e che Dio domanda da lui, e farle nel modo che Egli vuole. Non basta operare, né anche operar molto; la perfezione cristiana non consiste nemmeno in far grandi cose, ma in far le azioni proprie del suo stato, in farle con una retta intenzione di piacere a Dio. Tali sono le condizioni necessarie per rendere le nostre opere degne della gloria eterna. Primieramente convien fare le azioni proprie del nostro stato, cioè quelle, che dipendono da noi, e a cui siamo obbligati. No, fratelli miei, Dio non domanda da noi cose impossibili e superiori alle nostre forze; Egli vuole che siamo santi, e noi possiamo divenirlo. Or, se la santità consistesse in far cose che non dipendono da noi, in far azioni straordinarie, noi non potremmo pervenirvi, poiché non tutti trovano l’occasione, od hanno i talenti e le forze necessarie per quelle grandi azioni. Non è già dato a tutti di avere estasi, rapimenti nella orazione; non conviene a tutti fare la funzione di apostolo, annunziare il Vangelo alle nazioni della terra; non tutti hanno la forza di soffrire ciò, che i martiri hanno sofferto, e Dio non lo domanda da noi; Egli non esige che, come i solitari, noi abbandoniamo tutti i nostri beni per ritirarci in profonde solitudini, ed abbandonarci a tutti i rigori delle penitenze, che essi han praticate. Ciò dunque, che Dio domanda da voi, fratelli miei, si è che adempiate i doveri del vostro stato, che facciate le azioni, che vi convengono, conformemente ai talenti e alle grazie, ch’Egli vi conferisce. Voi non avete, per esempio, lo spirito bastantemente Elevato e penetrante per intertenervi con Dio nella contemplazione; voi non ne avete neppure il tempo; gli affari, che vi occupano, e la cura, che dovete alla vostra famiglia, non ve ne lasciano la libertà; le vostre occupazioni non vi permettono di passare una parte del giorno in chiesa, come tanti altri; ma qualunque occupazione voi abbiate, non potete forse e non dovete anche dare qualche tempo all’orazione, come la mattina ela sera, tempi in cui non dovete mai tralasciarla? Chi v’impedisce ancora, durante il lavoro, di sollevare qualche volta il vostro cuore a Dio? Non fa d’uopo per questo di aver scienza, penetrazione di spirito; basta richiamarvi alcune volte alla sua santa presenza per onorarlo, ringraziarlo, amarlo, offrirgli le vostre azioni, le pene annesse al vostro stato. Chi v’impedisce ancora, nei giorni in cui siete meno occupati, di fare qualche lettura di pietà in un buon libro, di rendere qualche visita a Gesù Cristo nel suo santo tempio, giacché voi trovate benissimo il tempo di renderne alle persone, che amate, o cui volete voi domandar qualche grazia? Voi non siete provveduti dei beni di fortuna per fare abbondanti limosine ai poveri; i ricchi vi sono obbligati; ma se non avete ricchezze, non avete voi altre occasioni di esercitare la carità a riguardo del prossimo, rendendo alcuni servigi a coloro che hanno bisogno di voi, consolando gli afflitti, visitando gl’infermi, i prigioni, o servendovi di qualche altro mezzo, che una carità industriosa sa benissimo ritrovare. Voi non siete d’un temperamento forte abbastanza per mortificarvi con digiuni continui e rigorosi; ma non potete per lo meno, e non dovete voi forse osservare quelli, che la Chiesa vi comanda? Non potete voi per ispirito di penitenza sminuire in altri tempi qualche cosa dei vostri banchetti? Il che voi fate molto spesso per sanità o anche per risparmio di spesa. Voi non potete, come gli apostoli, o come i ministri del Vangelo, annunziare la parola di Dio ai popoli; ma quante occasioni non avete voi di esercitar lo zelo nel ricinto della vostra famiglia, istruendo, correggendo quei di casa, insegnando agli ignoranti le verità della salute, rimettendo con un buon avviso sul diritto sentiero un peccatore, che se ne allontana? In una parola, voi non avete che ad adempiere i doveri del vostro stato, fare il bene che si presenta secondo le diverse occasioni e circostanze, che la provvidenza di Dio vi offre secondo i vostri lumi, i vostri talenti e la vostra condizione; ed ecco i frutti delle buone opere, che voi potrete presentare al padre di famiglia da collocare nel suo granaio.. Un’ampia messe vi è aperta, voi non avete che a raccogliere per arricchirvi. Non vi lamentate dunque che la salute vi sia impossibile o anche difficile: il regno di Dio è dentro di voi, dice Gesù Cristo, fate ciò, che dipende da voi, e che Dio vi domanda: e sarete quel buon albero, che porta buoni frutti. Io dirò, fratelli miei, ciò che Dio domanda da voi; fatevi ben attenzione, per non lasciarvi sedurre da una divozione falsa, che si fatica inutilmente, e fa molte cose senza merito, perché non sa la volontà di Dio. Bisogna dunque attaccarvi alle opere di precetto, a preferenza di quelle, che sono di puro consiglio. Voi siete inclinati a fare limosine ai poveri; ma che vi serviranno quelle limosine, se avete debiti a pagare, e fate soffrire con le dilazioni i vostri creditori? Voi visitate le chiese, e vi passate un certo tempo a spandere il vostro cuore avanti al Signore: io lodo la vostra pietà, se essa non vi allontana dagli altri vostri doveri; ma se la vostra presenza è necessaria nella famiglia per vegliare sopra i vostri figliuoli, sopra i vostri servi che vivono nel disordine per difetto di vigilanza dal canto vostro, la vostra pietà non è più a proposito. I frutti di virtù, che Dio domanda da voi sono la cura, che dovete prendervi della salute di coloro, che da voi dipendono. Voi amate la lettura dei buoni libri e v’impiegate un certo tempo; occupazione molto lodevole, ma essa non deve involarvi il tempo, che dovete all’esercizio d’un impiego, agli affari di cui siete incaricati. Voi avete zelo per riformare i difetti altrui, ma bisogna cominciare dai vostri. Voi seguite scrupolosamente certe pratiche di pietà, che vi siete prescritte, voi recitate preci di confraternite, cui siete aggregati; ma poi trascurate i vostri doveri essenziali a riguardo di Dio e del prossimo; così tutto il bene che fate a nulla vi serve; bisogna prima d’ogni cosa fare ciò, che è d’obbligo. Tali sono i frutti, che dovete portare per essere un buon albero, un buon cristiano: Fructum suum dabit. Non basta ancora fare le buone opere cui siamo obbligati, ma convien farle con retta intenzione. Ed invero, fratelli miei, l’intenzione è per riguardo alle nostre azioni ciò che l’occhio è al corpo, la radice all’albero, il sole all’universo; siccome il corpo è nelle tenebre, se non ha alcun occhio , l’albero è sterile senza la radice, l’universo senza il sole non è che un caos tenebroso; così un’azione, benché buona sia pel suo oggetto, se non è animata da retta intenzione di piacere a Dio, è un’azione tenebrosa, inutile a chi la fa. Il che Gesù Cristo ha voluto farci intendere quando ci disse: se il vostro occhio è semplice, tutto il vostro corpo sarà luminoso; ma se l’occhio è guasto, tutto il corpo sarà nelle tenebre: si oculus tuns fuerit simplex, totum corpus tuum lucidum erìt; si autem oculus tuus fuerit nequam, totum corpus tenebrosum erìt (Matth. VI.) Or quest’occhio semplice o tenebroso, che dà luce o oscurità al corpo delle nostre azioni, è, secondo sant’Agostino, la buona o cattiva intenzione, che le accompagna. Se l’intenzione è buona e pura nel suo motivo, tale sarà ancora l’azione; ma se l’intenzione è viziosa, essa comunicherà all’azione il suo difetto. Questa retta intenzione è, per così dire, il fondamento e l’anima della vita spirituale. Ella distingue i figliuoli di Dio da quelli, che non lo sono. Con essa le azioni più comuni, più abbiette, sono azioni grandi avanti a Dio; senza di essa le azioni più straordinarie non hanno alcun merito, e nulla servono. Date tutti i vostri beni ai poveri, fate le azioni più gloriose avanti agli uomini; se non siete animati da una retta intenzione, voi non avete fatto cosa alcuna, non meritate più ricompensa che i farisei, i quali digiunavano, facevan limosine e lunghe preghiere, ma perché facevano le loro opere per attirarsi la stima degli uomini, che dice Gesù Cristo parlando di essi? Che han ricevuta la loro ricompensa: receperunt mercedem suam (Matth. VI). Lo stesso si dirà di voi, fratelli miei, qualunque buona opera voi pratichiate: se vi proponete altro fine che di piacere a Dio, voi avrete tutta la pena della virtù, e non ne avrete in alcun modo la ricompensa. Quindi uno dei più pericolosi artifizi di cui si serve il demonio per allontanare gli uomini dalla salute non è di impedirli di fare buone azioni, ma di render queste per quanto può difettose, facendovi entrare qualche motivo capace di viziarle, come il rispetto umano, l’interesse, la vanagloria; Satanasso, trasformato in angelo di luce, spesso c’induce alla pratica di certe buone opere, che, essendo più capaci di attirarci la stima del mondo, sono più soggette a perdere il loro merito avanti a Dio. Nel che dovete, fratelli miei, porre tutta la vostr’attenzione quando si presenta una buona opera da fare. Bisogna aver cura di ben rettificare l’intenzion vostra con il motivo di piacere a Dio, che vi faccia rigettare ogni motivo umano, che s’insinua pur troppo nelle migliori azioni. Oimè! Quante azioni inutili per il cielo, quante virtù senza merito, perché Dio non vi vede quella retta intenzione di piacergli! Si fanno da molti preghiere, limosine; ma sono ben contenti che gli uomini le conoscano per averne l’approvazione. Essi non cercano Dio nella maggior parte delle loro migliori azioni: voi vedrete alcuni casti e modesti nel loro esteriore; ma se voi penetrerete il motivo, che li anima, vedrete che è l’onor del mondo, che è il timore d’esser biasimati per azioni, che non convien fare. Voi vedrete nemici riconciliarsi insieme; ma con qual mira lo fanno? per certe considerazioni verso le persone da cui sono stati pregati, o per il timore delle conseguenze funeste che si tiran dietro le inimicizie e le vendette. Quanti Cristiani sono ornati di belli esteriori della virtù, ma al di dentro sono, come dice Gesù Cristo, ripieni dell’infezione del vizio, sotto la pelle di pecora nascondono il furore di lupi rapaci! Oh quanto spesso siamo ingannati dalle apparenze! E quanto vi vuole affinché certi uomini siano tali al di dentro, quali compariscono al di fuori! È la buona intenzione, che loro manca. Or tostochè l’interiore non è regolato secondo Dio, tutto ciò che si fa esteriormente a nulla serve. Le migliori azioni senza la retta intenzione rassomigliano a certi frutti, che hanno una bella scorza, e al di dentro sono guasti. Al contrario, fratelli miei, quando l’interiore è ben regolato, quando non si cerca che di piacere a Dio, tutto ciò che si fa gli riesce grato e ci serve per la salute, quand’anche fosse soltanto un bicchiere d’acqua dato nel nome di Gesù Cristo, avrà la sua ricompensa. La vedova del Vangelo, che mise due soli danari nella cassetta delle limosine fu lodata da Gesù Cristo, come se avesse dato più che i farisei, i quali v’avevano messe più grosse somme, perché la sua intenzione era migliore. Iddio non ha tanto riguardo ai doni, che gli si fanno, quanto all’affermazione, che li accompagna. Anzi, fratelli miei, le azioni medesime più indifferenti, come il bere, il mangiare ed altre simili, divengono azioni meritorie pel cielo, tosto che si fanno per Dio. Oh quale eccellente mezzo avete di arricchirvi, di accumular tesori pel cielo! La retta intenzione di piacere a Dio in tutte le vostre azioni, ecco quella pietra preziosa del Vangelo, che converte in oro tutto quel che tocca, che renderà le vostre azioni degne di eterna corona; poiché, senza cangiar di stato, senza far altra cosa, che quel che fate, senza accrescervi pena e travaglio, non avete che a cangiare d’oggetto, ed a far per Dio ciò, che fate per il mondo; allora voi accumulate ricchezze immense per l’eternità. In tal guisa un gran numero di santi ha guadagnato il cielo nel medesimo stato che voi. Fate, come essi, le vostre azioni ordinarie con la mira di piacere a Dio, cercate in ogni cosa la sua gloria, e voi avrete fatto tutto per acquistare la sanità.

Pratiche. Osservate dunque, fratelli miei, ciocché potete fare di bene nel vostro stato, le buone opere, che dipendono da voi, per praticarle con la mira di glorificar Dio. Riferite tutto alla gloria o a qualche motivo, che gli piaccia; tostochè questo motivo sarà buono, voi opererete per la gloria di Dio: scacciate da tutte le vostre opere, dalle vostre pratiche di pietà il capriccio, l’usanza, il costume, il rispetto umano. Pregate nella solitudine, affinché Dio solo sia testimonio della vostra preghiera; quando date la limosina, fuggite la vieta degli uomini, la vostra sinistra medesima ignori ciò, che fa la vostra destra. Vi sono nulla di meno di certe occasioni, in cui voi dovete fare pubblicamente opere di virtù, per edificare coloro, che vi conoscono, e che resterebbero scandalizzati, se non ve le vedessero fare. Gesù Cristo vuole che la luce delle nostre buone opere risplenda agli occhi degli uomini, affinché il Padre celeste ne sia glorificato, ma è sempre alla gloria di Dio che deve tutto riferirsi: Sic luceat lux vestra coram hominibus, ut videant opera vestri bona, et glorificent Patrem vestrum, qui in coelis est (Matth. V). Ma in che conoscerete voi che siete animati da una retta intenzione? Ciò sarà quando farete buone opere, che non saranno di vostro gusto, come se fossero le più conformi alle vostre inclinazioni; quelle che vi attireranno meno di gloria, come quelle, che vi meriterebbero gli applausi degli uomini. Per ben fare ancora le vostre azioni, fatele ciascheduna come se non aveste, che quella sola a fare, senza occuparvi di ciò, che avete a far in un altro tempo, molto meno ancora di ciò che fareste in un altro stato, ove vi pare che operereste meglio la vostra salute. Dio non vi domanda che le opere dello stato in cui siete, ed è una tentazione particolare per la salute il pensare a far altre cose, che quelle che siamo obbligati di fare, perché questo pensiero distoglie dal far bene ciò che dobbiamo nel nostro stato. Fate altresì ognuna delle vostre azioni come se essa fosse l’ultima della vostra vita, come se doveste essere giudicati dopo averla fatta: quando pregate, accostandovi ai Sacramenti della Penitenza e dell’Eucaristia, domandate a voi medesimi: come pregherei, mi confesserei, mi comunicherei, se non avessi più che questa volta a pregare, a confessarmi, a comunicarmi? Ah! che le vostre azioni sarebbero perfette, se voi le fareste sempre con questa disposizione. – Finalmente, per rendere le vostre opere meritorie pel cielo , mettetevi in istato di grazia, perché tutto ciò che si fa in questo stato è degno d’una corona eterna; laddove le azioni fatte in istato di peccato, benché buone, lodevoli e salutari, non saranno punto ricompensate nel cielo. Bisogna nulladimeno sempre farne delle buone in qualunque stato voi siate; perché siccome ho detto, queste buone opere traggono sui peccatori la grazia della conversione, e sui giusti quella della perseveranza. – Non vi contentate dunque, fratelli miei, di fuggir il male che Dio vi proibisce; fate ancora il bene, ch’Egli vi comanda: ammassate, per quanto potete tesori di buone opere sulla terra; questo è il solo bene, che porterete con voi nell’eternità beata. Cosi sia.

Credo …

https://www.exsurgatdeus.org/2019/10/12/il-credo/

Offertorium

Orémus

Dan III: 40

“Sicut in holocáustis aríetum et taurórum, et sicut in mílibus agnórum pínguium: sic fiat sacrifícium nostrum in conspéctu tuo hódie, ut pláceat tibi: quia non est confúsio confidéntibus in te, Dómine”.

[Il nostro sacrificio, o Signore, Ti torni oggi gradito come l’olocausto di arieti, di tori e di migliaia di pingui agnelli; perché non vi è confusione per quelli che confidano in Te.]

Secreta

Deus, qui legálium differéntiam hostiárum unius sacrifícii perfectione sanxísti: accipe sacrifícium a devótis tibi fámulis, et pari benedictióne, sicut múnera Abel, sanctífica; ut, quod sínguli obtulérunt ad majestátis tuæ honórem, cunctis profíciat ad salútem.

[O Dio, che hai perfezionato i molti sacrifici dell’antica legge con l’istituzione del solo sacrificio, gradisci l’offerta dei tuoi servi devoti e benedicila non meno che i doni di Abele; affinché, ciò che i singoli offrono in tuo onore, a tutti giovi a salvezza.]

https://www.exsurgatdeus.org/2019/10/20/comunione-spirituale/

Communio

Ps XXX: 3. Inclína aurem tuam, accélera, ut erípias me.

[Porgi a me il tuo orecchio, e affrettati a liberarmi.]

Postcommunio

Orémus. Tua nos, Dómine, medicinális operátio, et a nostris perversitátibus cleménter expédiat, et ad ea, quæ sunt recta, perdúcat.

[O Signore, l’opera medicinale (del tuo sacramento), ci liberi misericordiosamente dalle nostre perversità e ci conduca a tutto ciò che è retto.]

https://www.exsurgatdeus.org/2019/10/20/preghiere-leonine-dopo-la-messa/

https://www.exsurgatdeus.org/2018/09/14/ringraziamento-dopo-la-comunione-2/

https://www.exsurgatdeus.org/2019/05/20/ordinario-della-messa/

LO SCUDO DELLA FEDE (120)

Paolo SEGNERI S. J.:

L’INCREDULO SENZA SCUSA

Tipogr. e libr. Salesiana, TORINO, 1884

PARTE PRIMA

CAPO XXXII.

Si risponde alle opposizioni addotte cantro l’immortalità dell’anima.

I . Non rileverebbe i pregio dell’opera trattenersi a ribattere i colpi degli avversari nella questione intrapresa con esso loro, se nel ribatterne i colpi non ci dovesse riuscir ancor di ferirli più gravemente, come c’insegnano le buone leggi di scherma. Addurremo qui pertanto quel più che essi oppongono alla immortalità dell’anima umana, perché da questo medesimo si chiarisca quanto essi vadano non solo fuor di ragione, ma infino contra, quasi ribelli alla luce.

I .

II. La prima loro istanza si è dire, con un tal fasto di derisione, che se l’anima fosse immortale, non par possibile che non ne ritornasse più d’una a ripatriare sopra la terra, o farsi vedere, per darci almeno contezza dell’altro mondo (Questa obbiezione suppone, che l’anima umana non possa altrimenti esistere e manifestarsi che involta nell’organismo corporeo. Il che non è. Per altra parte se i morti tornassero al mondo, il mondo non sarebbe più mondo, ma apparirebbero nuovi cieli e nuova terra, come appunto avverrà nel risorgimento universale della morta umanità). E pur chi è, che possa tra noi gloriarsi di una tal visita 1 Non est agnitus qui sit reversus ab inferis (Sap. II. 1).

III. Ma quale scipidezza maggiore! Volere i sensi per testimonii di ciò che trascende i sensi! Iddio non ha commessa questa causa alla camera bassa della esperienza; l’ha commessa al parlamento supremo della ragione, o (dove questa non operi) della fede. Vero è, che non mancano ancora di tali prove sperimentali: mentre più volte l’anime de’ defunti sono tornate a dar di sè conto ai vivi. E siccome il prestar credenza a ciascuna di simili narrazioni sarebbe al certo debolezza di spirito: così il negarla a tutte, è perversità, ripugnando a ciò che più d’uno scrittore illustre ha testificato in qualunque secolo. Quanto è stolto quel gioielliere il quale tenga per diamante ogni berillo, tanto si e quello il quale per berillo giudichi ogni diamante.

IV. Senonchè, chi può dubitare, che tali apparizioni non hanno ad essere sì frequenti, come le vorrebbono alcuni, mentre non sono conformi alle leggi della natura, ma contrarissime, onde han bisogno di espressa derogazione? Siccome i cadaveri non debbono ad ogni tratto levarsi dalle lor tombe, e tornare a vivere; così non debbono l’anime, separate da ‘quei cadaveri, uscir da’ luoghi assegnati loro da Dio, e tornare a discorrere co’ viventi. Se stanno in luogo di miseria, vi stiano incessantemente, portando tutte da sé le loro pene senza sollievo; e se sono in luogo di felicità, si riposino, godendo quivi lietamente il lor premio, senza più tornare in iscena dopo gli applausi che riportarono tanto gloriosamente, terminata che v’ebbero la lor parte. Lasciare che un recitante rimonti in palco dappoiché egli, soddisfatto al suo debito, ne calò, è un volere apportare disturbo all’opera. Il nodo non lo comporta. E ciò singolarmente nel caso nostro. Perciocché, essendo la futura beatitudine il premio della virtù, conviene che resti oscura, affinché questa medesima oscurità accresca il pregio dell’istessa virtù, e stabilisca meglio la proporzion convenevole che va sempre tra il merito e la mercede.

II.

V. L’altra obbiezione ha un poco più di apparenza, e cosi parimente di serietà. Ed è l’affermare che l’anima, dipendendo nell’operare dagli organi corporali, non può sussistere separata dal corpo. E di fatti si vede che qualor per qualche accidente gli spiriti animali non possano più salire e scendere come prima dal cerebro per li nervi, rimane impedito all’uomo ogni uso, quantunque minimo, di ragione. Ma ciò come accadrebbe, se ogni operazione sua ragionevole non dipendesse per forza da quegli spiriti? Oltre a che ciascuno prova in sé che non può concepire alcuna verità, senza che egli nella sua fantasia se ne formi un simulacro, e quasi un ritratto figurandosi gli angeli e fin Dio stesso in sembianti umani: Nihil sine phantasmate intelligit anima (Arist. 3. de anim. tex. 30). Dal che si rende manifesto altresì che quanto le operazioni della fantasia dipendono dalla materia, altrettanto ne dipenda ancor l’intelletto, che senza la fantasia rimane quasi un dipintore svaligiato, senza colori, senza tavola, senza tela, senza pennelli.

VI. Per non prendere errore in questo discorso, che ha fatto abbagliar più d’uno, adulatore eccessivo del proprio corpo, convien distinguere due guise di dipendenze, una essenziale, e sempre necessaria all’operazione, e l’altra accidentale, e solo necessaria per alcun tempo. Il vedere dipende essenzialmente dall’occhio: ma dagli occhiali dipende per accidente; ond’è che veder senza occhiali tuttora accade, ma non accade che mai si vegga senza occhio. Ora la dipendenza, che nell’intendere ha l’anima da’ fantasmi, non è del primo genere, è del secondo: ch’è accidentale; cioè fino a tanto che l’anima unita al corpo nello stato presente vivo in mezzo a quella nebbia, che le cose corporee d’ogni intorno sollevano contra il vero. Ma sciolta che ella ne sia, non è più così. Perché allora, separata da ogni materia, ella può operare in un modo molto diverso, cioè contemplando le cose intelligibili direttamente in se stesse, e non di riflesso nelle immagini grossolane, colorite ad essa dai sensi (S. Th. 2. p. q.89. art. 1).

VII. Che poi l’anima di verità non dipenda assolutamente dagli organi materiali nel suo operare, né da’ fantasmi, si è da noi già dimostrato abbastanza con più ragioni. Ma oltre a quelle, confermasi di vantaggio con altro ancora. Prima, perchè nessun’altra cosa brama l’anima d’intendere maggiormente, che le spirituali, le sublimissime, le divine, le quali non sono, per alcun modo, oggetto della fantasia. Segno dunque è che l’anima nel suo intendere non dipende essenzialmente dai sensi, altrimenti non bramerebbe ella tanto di sollevarsi di là dai sensi.

VIII. Oltre a ciò l’operazione più propria dell’intelletto consiste singolarmente, non nell’intendere ciò che se gli rappresenta, ma in giudicarne. E pure ad un tal giudizio non solamente non è giovevole il voto della immaginativa, ma spesso è pregiudiziale, porgendo ella all’intelletto frequente occasion di errare, se questo non sia molto avveduto nel correggere da se stesso le apparenze fallaci di quei fantasmi. Che segno è dunque, senonchè egli non è loro soggetto, ma che li domina? Comparisce il sole sull’orizzonte, e gli occhi recandone tosto all’anima le novelle, gliele dipingono per alto poco più di due palmi, per piano affatto, e per abbandonato da tutte quelle stelle festose, che in tanto numero già popolavano il cielo. Ma tacete pure, tacete, o semplici messaggeri, ripiglia l’anima. Voi siete in ciò tanto lontani dal vero, quanto lontani da quel corpo solare da voi descritto. Quello che a voi sembra sì angusto, supera nella mole sino a trentottomila seicento volte tutta la terra. Quello che voi stimate sì piano è un globo perfetto altrettanto luminoso, quanto egli è immenso [purtroppo anche il Segneri era imbevuto di eliocentrismo cabalistico, contro tutte le rappresentazioni bibliche contenute nelle sacre Scritture che il Concilio di Trento definisce inerrabili, senza errore, perché ispirate direttamente da Dio. Era diventato anch’egli un eretico, pensando che Dio avesse sbagliato nell’ispirare i libri della Genesi, di Giobbe, dei Salmi, etc.?]. E quello stelle che voi credeste sì tosto da lui fuggite por non parere a lui serve, non si sono rimosse neppure un’orma dalla loro ordinanza: tutte gli assistono, benché da noi non vedute. Or come l’anima sarebbe mai si contraria alle deposizioni dei sensi nel giudicare, se ella dipendesse essenzialmente da’ sensi? È vero che ella, come padrona, sa valersi a tempo e luogo de’ loro riporti; ma sa ancora sprezzarli, dove è mestieri, sa screditarli. Come dunque è loro affissa tanto altamente? Non potrebbe ella posseder mai quell’amplissima libertà di giudicare in un modo più che in un altro, a dispetto di tutti loro, se tal libertà non fosse a lei derivata da quella sublime origine che la fa superiore al corpo di modo, che sappia un dì ancora starsene senza il corpo: Conditio domini melior fieri potest per servos, deterior fieri non potest (L. Melior. ff. de reg. iur.).

IX. Quindi è che l’anima quanto va più innanzi negli anni, tanto più si rinvigorisce; al contrario de’ sensi, che più invecchiano, più diventano deboli e disadatti. Questa ragione facea gran forza alla mente di quel sagace re Alfonso, come racconta l’istorico suo fedele (Panor. l. 4. de gestis Alphonsi); e la fa parimente in tutti coloro i quali considerano che ne’ senati si sogliono prima udire i vecchi che i giovani: Ut quisque ætate antecellìt, sententiæ principatum tenet (Cic. de senectute). Ma come ciò, se l’anima non crescesse di abilità? Né perché ne’ vecchi decrepiti torni talora a rimbambire il discorso, perde punto di forza un tale argomento: atteso che non è l’intelletto quel che in essi s’infievolì, sono gl’istrumenti di cui l’intelletto legato al corpo si serve nelle sue operazioni. Ad un cerusico, cui por l’età cadente tremi la mano, non manca l’arte, manca soltanto l’istrumento dell’arte , che è il braccio saldo. Nel rimanente l’arte ogni dì più si raffina con lo studiare. Rinvigorite il braccio, e vedrete se l’arte v’è. Così interviene anche all’anima. Donde appare che le suo operazioni non dipendono essenzialmente dagli organi corporei, ma solo accidentalmente, cioè secondo lo stato di questa vita: mercecchè essendo l’anima in tale stato forma del corpo, convien che al corpo si accomodi in modo tale, che concepisca tutte le cose come corporee, o ciò per mezzo di potenze sensibili, che sono tutte soggette a logoramento. Verrà ben quel tempo, che rotti sì duri lacci potrà ella vagare liberamente per gl’immensi spazi del vero, e fissare il guardo immediatamente nel sole delle beltà intelligibili, senza abbagliarsi la vista: Cum venerit dies ille, qui mixtum hoc divini humanique secernat, corpus hoc ubi inveni relinquam: ipse me Diis reddam, diceva Seneca. (Ep. 102).

III.

X. Ma perché, ripiglierete voi, questo parentado infelice tra il corpo e l’anima? Non era meglio che l’anima si rimanesse fin da principio lungi dal consorzio de’ sensi, mentre dalla lor compagnia non doveva apprendere altro che il tralignare dalla sua nobiltà? E facile il farvi pago.

XI. In una perfetta armonia i semitoni sono richiesti, non sono esclusi. Conveniva pertanto che in questa grande armonia che vien formata dalla simmetria delle cose, siccome si trovava un ordine di viventi puramente spirituali quali sono le intelligenze celesti, e si trovava un ordino puramente materiale, quali sono i bruti, animali non ragionevoli (Suarez de anim. 1. 2 . e. 6. n. 16); così venisse a trovarsi un ordine parimente di mezzo, che unisse il supremo e l’infimo in un confine; fosse l’infimo del supremo, fosse il supremo dell’infimo; fosse come un passaggio contenente il bello de’ puri spiriti, cioè l’anima, e il bello delle pure materie, cioè il corpo: e fosse (come molti il chiamarono) un orizzonte, dove si congiungessero due emisferi tra lor sì opposti, quello dell’eternità e quello del tempo (Ci piace riferire qui un brano di G . Tiberghien, dove saggiamente e bellamente si chiarisce la ragione metafisica dell’esistenza dell’uomo: « Perché lo spirito si congiunge col corpo? Perché l’universo deve realizzare tutte le possibilità dell’esistenza. La pura materia ed il puro spirito sono esseri incompiuti, esclusivi, e meramente costituiti sotto un punto di vista determinato. Perché siavi equilibrio nella creazione, occorre che scompaia l’antagonismo tra il mondo spirituale ed il fisico. Quest’equilibrio si avvera per appunto nell’umanità – Psicolog. pag. 14 ».) (S.Th. contra gentes 1. 1. c. 81).

XII. Inoltre succede all’anima come ad un mercante mandato in paesi poveri, dove, se egli vuole arricchire, fa di mestieri che aiutisi con l’industria. Gli angeli sono nati in paese doviziosissimo, e però a locupletare di operazioni sublimi la loro mente non ha bisogno di accettare fuori di sé le spezie dello cose: hanno l’emporio in sé stessi: mercecchè con quelle furono già prodotti dal loro fattore nel primo istante. Ma l’anima (creata povera affatto di tali specie) per fornirsene, conviene che le cerchi fuori di sé, e così vagliasi del ministero de’ sensi, entrando, quasi dissi, in lor compagnia, affine di stabilire per mezzo loro questo negozio, da cui dipende tutto il suo capitale (S. Th. 1. p. q. 89. art. 1. in c.). Ecco dunque ove stia fondata la necessità che ha l’anima di unirsi da principio col corpo; sta fondata sulla necessità che ella ha di pigliare in prestito dalla immaginativa i fantasmi su i quali traffichi, giusta l’abilità che possiede, a divenir ricca di splendide intelligenze. Ma un tal contratto di società fra l’intelletto e i sensi, non è d’uopo che duri sempre (Questa proposizione dell’autore, che pone tra l’anima ed il corpo nell’uomo una unione meramente contingente e temporanea, anziché necessaria ed eterna, non bene si concorda con quanto venne enunciato nel numero precedente, e nemmeno mi pare conciliabile col dogma cristiano del risorgimento dei corpi e del perenne loro ricongiungimento coll’anima). Ove l’anima sia bastevolmente provvista, può lietamente sciogliere un tal contratto, e negoziar da sé sola, separandosi dal corpo, e operando senza di lui nella contemplazione di tutto il vero da lei bramato, e di tutto il buono, a somiglianza degli spiriti puramente intellettuali, coi quali ella è confinante (S. Th. 1. p. q. 88. art. 6 ) . Anzi da questi potrà ella venire vieppiù arricchita, e massimamente quando per la poca dimora che fece in terra poco tempo ancor ebbe da trafficare. Vero è che l’anima non può capir bene al presento quello stato più alto che sortirà divisa dal corpo; o però tanto s’inorridisce al pensiero di morte prossima (s. Th. c. gent. 1.2.c. 81. et 1. p. q.89.a. 1. ad 2).

IV.

XIII. E questa è l’altra obbiezione che adducono certi contra l’immortalità dell’anima umana: l’orror dell’uomo alla morte, non considerando essi tra sé che quell’orror naturale è più nell’apprensione e nell’appetito, a cui di verità toccherà perire, che non è nella ragione, a cui tocca restare eterna. Questa negl’intendenti sa piuttosto reprimere un tal orrore. Tanto che talor li fa giungere, non già a darsi audacemente la morte da sé medesimi; mentre è noto che senza la permissione del generale non può un soldato voltare al campo le spalle (Cic. Tusc. q. 1. 1), ma a sospirarla, come facea chi già disse: Cunctis diebus, quibus nunc milito, expecto donec veniat immutatici mea (aspetterei tutti i giorni della mia milizia finché arrivi per me l’ora del cambio! Iob. XIV. 14). Senzachè, qual mEraviglia, se all’anima, per l’amore che ha preso al corpo, dispiaccia di abbandonarlo fin in pascolo ai vermi? Basti di risapere che le fu compagno in un traffico, qual si disse, di tanto lucro più a lei, che a lui. Ma soprattutto non è ciò quel che rende la morte così terribile ai più degli uomini. È non saper qual sorte debba lor finalmente toccar di là, se beata, o misera. Ma se è così, tal orrore dunque conforma l’immortalità dell’anima umana, non la sconfìgge, mentre ciò mostra, che niuno sa svellersi, benché voglia, dal cuore quest’alta aspettazion di premio o di pena che duri sempre.

XIV. Finalmente l’ultima opposizione è una fuga vergognosissima, sotto nome di ritirata. Dicono che le ragioni addotte a favor della combattuta immortalità non sono evidenti, ma che vi si può rispondere molte cose. Però che posso io qui dire? se le mentovate ragioni non compariscono di buon aspetto allo menti de’ libertini così stravolte, non è discredito della verità, n’è trionfo. Come poteano risplendere fedelmente sì belli oggetti in tali specchi tutti imbrattati di fango? Ma frattanto se le ragioni addotte non sono evidenti a loro, sono evidenti all’ingegno di maestri eccelsissimi, che per tali, almeno in gran parte le definirono (V. Suar. de anim. 1. 1. c. 20. Et Gregor. de Valent. 1. p. disp. 6. q. 1. p. 3. S. Th. contra gentes 1. 2. c. 79. sub. init.). E singolarmente sono evidenti a due gran luminari nel cielo della sapienza, ad Agostino, e all’Angelico, ciascun de’ quali sarebbe da se solo bastevole a far di chiaro. Che se qualche scolastico, ancor sottile, si studiò di annobiliare tal evidenza, riducendo il tutto alla fede (Che la spiritualità e quindi l’immortalità dell’anima umana non sia un mero oggetto di fede sovrannaturale, ma altresì una verità dimostrabile dalla ragione, è questa una proposizione sancita dalla Santa Sede romana con decreto 11 giugno 1855, dove si legge: « Ratiocinatio Dei existentiam, animæ spiritualitatem, hominis libertatem cum certitudine probare potest. »), già si scorgo che ciò egli fece piùper vaghezza di contenzione, che di vittoria,come osservossi anche da’ suoi più devoti commentatori: onde in ciò godé poco applauso e pochi aderenti.

XV. Finalmente quando anche si dovesse concedere in cortesia che le prove addotte per l’immortalità dell’anima umana non fossero evidentissime, rimane evidentissimo almeno che sono degne di esser preferite alle prove opposte: sicché nessuno intelletto, senza nota di somma temerità, si possa mai sposar più a queste, che a quelle. Pertanto a fingere parimente che tale immortalità fosse una causa tuttor pendente al gran foro della ragione, converrebbe pure, ad operar con senno, che ciascun giuocasse al sicuro: Spem ac metum examina (scrive Seneca (Ep. 5) al suo Lucilio), et quoties incerta erunt omnia, tibi fave. Che perderete voi dunque , se vi atteniate al partito di riputare la vostr’anima eterna; e per contrario che non perderete in riputarla mortale? Eccoci giunti al dì ultimo, voi ed io: voi , cui l’opinion di morir tutto abbia consigliato il vagare liberamente per ogni campo di piacere interdetto; io, cui la fede di non dover mai morir secondo il meglio di me, mi sia stata alquanto di freno. Che vi par ora? Per ciò che si appartiene al passato siam già del pari. E per voi finito ogni spasso, per me ogni stento. Ma da ora innanzi, oh che alta diversità! Se l’indovinate voi, godeste, è vero, per breve corso di anni, ma non godete ora più, come nemmen io. Ma se io sono quegli che l’indovini, io regnerò fortunato per tutti i secoli co’ seguaci della provvidenza divina già trionfante, e voi per tutti i secoli gemerete co’ suoi ribelli, oppresso dal peso d’una sterminata miseria, che sempre vi aggraverà più spietatamente, né mai però finirà di schiacciarvi il capo. Qual senno dunque sarebbe, quando le cose nel pellegrinaggio di questa vita restassero ancora dubbio, non voler pendere dalla banda del monte, piuttosto che dalla banda del precipizio? E nondimeno da questa pendete voi.

XVI. Se l’anima è caduca, dicea quel savio (Cato apud Tull., de senect.) non vi sarà chi dopo la morte nostra ci possa rimproverare l’abbaglio tolto in riputarla immortale. E se immortale, oh come a noi toccherà di rimproverare con piacer sommo chi se la finse caduca! Ma io non vi dico nulla di ciò, perché voglia quasi permettere al vostro cuore un piccolo dubbio in cosa che è tanto certa. Vel dico a soprabbondanza di verità: mentre quest’istesso vedere quanto più operi prudentemente chi tiene l’immortalità dell’anima umana, che chi la nega, dimostra evidentemente qual sia la sentenza vera.

XVII. Lasciamo dunque di voler disputare contra noi stessi e contra tutti i lumi della natura, la quale da tanti versi ci fa apparire la nobiltà del nostro essere sempiterno, affinché ci andiam disponendo, dopo una breve fatica, a goderne i frutti. Muoiano pure queste membra lotose che sono sottoposte alla morte: rovinino le pareti di questo carcere che ci tien ristretto lo spirito nato al soglio: usciamo dallo squallore di queste sì nere tenebre a quella luce che sopra noi dovrà subito folgorare nell’istantaneo tragitto da un mondo all’altro. Che temer tanto? Dies iste, quem tamquam extremum reformidas, æterni natalis est; depone onus, etc. Quid, ista sic dìligis quasi tua? Istix opertus es. Veniet qui te revelet dies, et ex contubernio fœdi atque olidi eentris educat. Aliquando naturæ arcana tibi retegentur: discutietur ista caligo, et lux undique ciana percutiet etc. (Senec. ep. 100). Credete forse che la fede sola sia quella che faccia parlar così? Così ancor fece, che favellasse un filosofo, la natura.