SACRO CUORE DI GESÙ (32): IL SACRO CUORE DI GESÙ E LA SUA MORTE

[A. Carmignola: Il sacro Cuore di Gesù; S. E. I. Torino, 1929]

DISCORSO XXXII.

Il Sacro Cuore di Gesù e la sua morte.

Vi ha una specie di morte, che il mondo grandemente ammira e per la quale non di raro nutre sentimenti di invidia: è la morte dell’eroe. Oh sì! il soldato, che ha compreso il gran dovere di esporre, se è necessario, la propria vita per la salvezza della patria, il soldato che nel dì della battaglia, nel furor della mischia, dopo di avere strenuamente combattuto, atterrando un gran numero di nemici, alfine cade ancor egli colpito da una palla improvvisa è un eroe, che muore di una morte degna di ammirazione e di gloria. Tuttavia vi ha un’altra specie di morte, che le Sacre Scritture apprezzano anche maggiormente e dichiarano preziosa, non già al cospetto del mondo soltanto, ma al cospetto dello stesso Dio: è la morte dei santi Pretiosa in conspectu Domini mors Sanctorum eius. (Ps. CXV) E ben a ragione! Perciocché la morte dei santi non è solamente un atto isolato di eroismo, ispirato dall’amore della patria terrena, ma è il coronamento finale di una serie lunghissima di atti eroici, compiuti nell’esercizio delle più eroiche virtù, ed inspirato dall’amore stesso di Dio e della patria celeste. Ma pure nella storia del mondo vi ha una morte, infinitamente superiore, non solo a quella degli eroi, ma anche a quella dei santi, ed è la morte di un Dio. Sì o miei cari, se tutte le morti degli uomini, per quanto belle e preziose, rivelano l’umanità, la morte di Gesù Cristo rivela la divinità; la rivela nella sua sapienza, e nella sua potenza, giacché è solo la sapienza di un Dio che poteva scegliere una morte così ignominiosa, ed è solo la sua potenza che poteva accompagnarla con tanti e sì strepitosi miracoli: ma la rivela soprattutto nella sua carità, perché è solamente l’amore di un Dio per gli uomini, che poteva spingere Gesù Cristo a sacrificarsi in tal guisa per essi. Amore, amore di Dio per l’uomo, ecco il carattere supremo, che manifesta la morte di Gesù Cristo morte di un Dio, e che la pone al disopra delle morti anche più sublimi e più ammirande di tutti gli eroi e di tutti i santi: Christus dilexit nos et tradidit semetipsum prò nobis! Che anzi essendo giunto ormai per Gesù Cristo quel tempo funestissimo, che Egli aveva chiamato « l’ora sua » e stando per consumare del tutto il grande mistero della sua umiliazione, come lo chiama S. Paolo, quando dice che « Gesù Cristo si è umiliato sino alla morte e morte di croce; » la sua carità infinita per noi si dava a conoscere nella sua massima vivezza, nella sua estrema tenerezza, nella sua somma ed immensa generosità: Cum dilexisset suos, in finem, dilexit eos. E d in vero se, come già abbiamo considerato ieri, Gesù Cristo, confitto sopra della croce, in mezzo a due ladroni, attorniato da un popolaccio, che lo insulta e lo bestemmia, affogato in un mar di tormenti, dimentica del tutto se stesso per non pensare che a noi e darci prove supreme del suo amore; e in quelle tre sue parole, che abbiamo ricordate, egli ha implorato perdono per i poveri peccatori, ha assicurato il paradiso ai veri penitenti ed ha animato tutti a non mai abbandonarlo, nelle tre ultime parole che ha pronunziato prima di esalare l’ultimo respiro, e che considereremo oggi, Egli mostrando una sete ardente della nostra salute, ci ha animati a compierne la grande opera.

I. — Sembrava che ornai al Divin Redentore e Maestro più nulla rimanesse a dire, più nulla a fare per noi. Già ci aveva assicurato il perdono dei nostri peccati, ci avea promesso il paradiso, ci aveva donata per madre la sua Madre istessa Maria e ci aveva animati a non mai abbandonarlo: che altro dunque gli restava a dire? che altro gli restava a fare? Lo stesso S. Giovanni osserva, che Gesù Cristo dopo di avere pronunziate le sue prime quattro parole vide che tutte le profezie a suo riguardo erano state compiute; Sciens Iesus quia omnia consummata sunt. (Io. XXI, 28) Tuttavia intorno alla sua morte vi era ancora una piccola circostanza, che i profeti pur avevan predetto e che ancora non si era compiuta; la circostanza cioè che egli avrebbe avuto sete e che allora lo avrebbero abbeverato di aceto: In siti mea potaverunt me aceto. (Ps. LXVIII) E nemmeno questa circostanza, per quanto possa parere da poco, doveva lasciare di avverarsi; anche qui la divina Scrittura doveva avere il suo compimento: Ut consummaretur Scriptum. (Io. XIX, 28) E lo ebbe. Il benedetto Gesù, condotto da questo a quel tribunale, orribilmente flagellato, coronato di spine, obbligato a portare sopra le sue spalle la croce, e sopra di essa inchiodato, si trovava mai colle vene vuote di sangue, sommamente affaticato e con un’arsura sì terribile, che secondo la profezia, il suo vigore era inaridito come un vaso di creta esposto al fuoco, e la sua lingua stava attaccata alle fauci: Aruit tamquam testa virtus mea, adhæsit lingua mea faucibus meis. (Ps. XXI) Chi può dunque immaginare la sete che aveva il divin Redentore ed il travaglio acerbissimo che perciò ne provava? Lo spasimo della sete è senza dubbio uno dei più crudeli tormenti, a cui possa essere assoggettata la nostra natura. La povera Agar vedendo che ella e il suo Ismaele stavano per venir meno dalla sete, dava nelle smanie più affannose. Sansone, dopo di aver ucciso mille Filistei, travagliato dalla sete gridava: Io muoio, io muoio. Un intero esercito, come narra Quinto Curzio, anziché sopportare più a lungo le agonie della sete; preferì di bere nel deserto delle acque avvelenate dal nemico e morire. Il ricco Epulone, sepolto nell’inferno, secondo la divina parabola, non d’altra cosa supplicava il padre Abramo che di mandare laggiù Lazzaro, il quale intinta nell’acqua la punta del dito gliene lasciasse cadere una goccia sola sulle aride labbra. Tale adunque essendo il tormento della sete, e da questo tormento essendo pur assalito Gesù Cristo, affinché quelle sole parti del corpo che non erano state ferite, non lasciassero tuttavia di avere il loro martirio, gridò ancora dall’alto della croce: Sitio! (Io. XIX, 28): ho sete! Ah! che a questo grido avrebbe dovuto commuoversi il cielo, ed esso che versa copiosamente piogge e rugiade per fecondare la terra, per dar vita alle piante ed ai fiori, per rinverdire i prati e i campi, avrebbe pur dovuto lasciar cadere alcune stille d’acqua sulle labbra di Gesù Cristo! A questo grido avrebbe pur dovuto commuoversi la terra, ed essa che si aperse nella solitudine di Bersabea per ristorare il giovanetto Ismaele; che si spaccò nel deserto per soccorrere il popolo giudeo, che tante volte lasciò sgorgare delle fonti prodigiose per la salute degli uomini, avrebbe pur dovuto aprirsi per farne uscir fuori una fonte di refrigerio all’assetato Gesù! A questo grido avrebbero dovuto commuoversi quegli stessi Giudei che stavano attorno alla croce, e ponendo fine agli oltraggi ed ai martirii, che usavano contro di lui, per non essere più feroci di una tigre avrebbero dovuto porgergli tosto un poco di acqua per dissetarlo. Ma no ! né il cielo né la terra, né gli uomini si commuovono a questo grido di Gesù Cristo; che anzi i suoi nemici ne pigliano argomento per incrudelire contro di Lui ancor una volta. Ed in vero uno de’ suoi più barbari crocifissori, all’udire che Egli era tormentato dalla sete, prende in fretta una spugna, la infonde in un vaso pieno di aceto,, che secondo l’uso, ma più ancora per disposizione divina, là si trovava, ed impregnatala ben bene di quell’aspro umore, la colloca sulla punta di una canna insieme con un po’ d’erba di amarissimo isopo, gliel’avvicina alla bocca. Oh crudeltà inaudita! oh barbarie senza esempio! A questo caro Gesù, cui non resta più altro che esalare l’estremo fiato nel martirio terribile della croce, non solo si nega un po’ di acqua, ma a tormentarlo maggiormente gli si dà a bere dell’asprissimo aceto? Eppure Gesù stende a quella spugna le arse sue labbra e succhia e prende di quell’aceto, che gli viene offerto: Curri accepisset acetum. (Io. XIX, 30) E così si adempiva alla lettera la sovradetta profezia: Et in siti mea potaverunt me aceto. Ma prendendo di quell’aceto il nostro divin Redentore non lo fece unicamente per adempiere una profezia e per ristorare l’arsura della sua lingua, ma lo fece altresì per compiere in nostro vantaggio un mistero di amore. Non potendo egli prendere realmente sopra di sé l’agrezza delle nostre impazienze, dei nostri astii, dei nostri rancori, la prese nel simbolo dell’aceto e si dispose in quella vece a trasfondere nel cuor nostro la dolcezza della sua grazia. E quello che dice S. Ambrogio: Bibit Christus amaritudinem meam, ut mihi refunderet suavitatem gratiæ suæ!(Cristo ha bevuto la mia amarezza per darmi la soavità della sua grazia). Tuttavia, o miei cari, coll’avere Gesù manifestata la sua sete non ha voluto soltanto darci questa prova di amore, ma ha voluto darcene un’altra assai più grande, manifestando altresì e più di tutto la sete ardente di nostra salute. Un giorno, durante le sue pellegrinazioni nella Palestina, Gesù, stanco dal viaggio, si fermava presso ad un pozzo di Sichar. Egli che nulla faceva a caso, ma tutto dirigeva a nobilissimo fine, stava là attendendo che venisse ad attingere acqua una povera peccatrice. E la Samaritana venne, e s’intese a dire da Gesù: Donna, dammi un po’ da bere: Mulier, da mihi bibere. (Io. IV, 7) Ma non è già, osserva S. Agostino, che con quella domanda ricercasse da quella povera donna dell’acqua, ma bensì la sua fede e la conversione dell’anima sua. Or bene, la stessa sete, che Gesù manifestò alla Samaritana, è pur quella sete, che come Dio avendo avuto da tutta l’eternità, e come uomo avendo. cominciato a provare fino dal primo istante del suo concepimento, per somma convenienza di tempo e di luogo manifestò morente su della croce; è pur quella sete, che tuttora sul trono della sua gloria, tra gli splendori dei santi, nella sua felicità infinita continua a sentire per tutti gli uomini. – Sì, anche ora dall’alto dei cieli continua a ripetere: « Sitio: ho sete. Ho sete delle vostre anime, o poveri popoli, che ancor giacete nelle tenebre e nelle ombre di morte: deh! Arrendetevi alla predicazione del Vangelo, che vi vanno facendo i miei Apostoli, abbracciate la mia fede, seguite la mia legge e salvatevi. Sitio: ho sete. Ho sete delle vostre anime, o scismatici ed eretici, che vi siete staccati dalla mia Chiesa e vivete negli errori: deh! aprite una buona volta gli occhi vostri alla luce di verità, che vado facendovi balenare dinnanzi, rientrate nel mio ovile a far parte del mio gregge, sotto la guida del vero Pastore, e salvatevi. Sitio: ho sete. Ho sete delle vostre anime, o Cristiani Cattolici, che, pur professando di nome la mia fede e la mia legge, non la professate tuttavia di fatto, vivendo nell’indifferenza, nella colpa e persino nella incredulità: deh! ascoltate la voce de’ miei ministri, che vi invitano alla penitenza, assecondate quelle ispirazioni, che vi mando al cuore, togliete dal vostro animo quei timori, quelle pene, quei disgusti, onde vado amareggiando la vostra colpevole felicità, spegnete del tutto quei rimorsi, che fo sentire alla vostra coscienza, ritornate pentiti al mio seno, e salvatevi. » È a queste voci amorose, con cui Gesù Cristo continua a manifestare tuttora la sete della nostra salute, qual è la risposta, che si dà dagli uomini? Ahimè, che molti tra i gentili si ostinano nel loro culto a satana, e proseguono tuttavia a rifiutarsi di abbracciare la fede di Gesù Cristo e coll’odio ai missionari, colle persecuzioni atroci con cui si scagliano contro di essi, col sangue che ne vanno spargendo-costringono lo stesso Gesù a ripetere: In siti mea potaverunt me aceto: nella mia sete non mi diedero altro che asprissimo aceto. Ahimè che molti tra gli eretici e tra gli scismatici stanno fermi nella loro avversione alla vera Chiesa e negli errori che professano non ostante gli esempi ammirabili di tanti loro confratelli, che nella loro patria, nella loro stessa famiglia si convertono, e continuando a vivere nella loro superbia e diserzione costringono essi pture Gesù a ripetere: In siti mea potaverunt me aceto: nella mia sete non mi diedero altro che asprissimo aceto. Ahimè ancora, che molti Cristiani Cattolici perseverando nella loro indifferenza, nelle loro colpe e nella loro incredulità, e molti altri non danno altro a Dio che qualche preghiera fatta con distrazione, qualche atto di religione compiuto per ipocrisia, qualche elemosina distribuita per vanità, qualche messa ascoltata per costumanza, qualche confessione fatta senza dolore, qualche comunione ricevuta per umani interessi, e pur mantenendo nel cuore l’affetto al peccato, ai piaceri disonesti, ai vizi, alle turpitudini, e l’odio e le inimicizie col prossimo, e l’attacco al denaro e la bramosia degli onori, costringono ancor essi Gesù a ripetere: In siti mea potaverunt me aceto: nella mia sete non mi diedero altro che aceto. E noi, o miei cari, che faremo, che risponderemo a Gesù che ci dice: Sitio: ho sete? Ahi mio amato Gesù, mio Salvatore e mio Dio, se io mi incontrassi in un uomo che non conosco, e che stando per morire mi chiedesse da bere, mi rifiuterei forse di dargliene? Ed avrò ancora l’ardire di negar da bere a voi? No, no, o Gesù amantissimo. Per estinguere la sete misteriosa che vi tormenta, voi volete l’anima mia; prendetela, è cosa vostra. Io sono pieno di commozione e di angoscia nel vedervi soffrir tanto nel vostro sì prolungato supplizio, e san certo che questo popolo che mi circonda divide con me gli stessi sentimenti. Prendete adunque tutte le anime nostre, dacché ne avete sete; fatele entrare nel vostro Cuore adorabile e dateci persino la grazia di potere ancor noi, sul vostro esempio, sentir sete delle anime. Sì, che tutti e ciascuno .di noi andiamo ripetendo efficacemente: Sitio, ho sete dell’anima di mio padre e di mia madre; ho sete dell’anima dello sposo; ho sete dall’anima dei figliuoli; ho sete dell’anima dei fratelli; ho sete dell’anima degli amici; ho sete dell’anima dei poveri peccatori: ho sete, ho sete, ho sete : Sitio, sitio, sitio!

II. — Ma l’ultimo istante si avvicina. Maria, sorretta da S. Giovanni, ha gli occhi fissi sul figlio morente; Maddalena disfacendosi in lacrime se ne sta inginocchiata ed abbracciata alla croce, e Gesù benedetto ha tutto il suo corpo adorabile inondato di un freddo sudore. Ma sebbene vicino a trarre l’ultimo respiro, la sua mente è placida e serena. E con tale placidezza e serenità percorrendo tutti i secoli passati e futuri, vede che tutto è compiuto per gli uni e per gli altri, che il suo sacrifizio è ormai giunto alla perfezione e la sua grande opera di salute è terminata. Ora, non vi ha alcuno, che giunto al termine di difficile e gravosa impresa non n’esprima in qualche modo la soddisfazione e la compiacenza, come non v’ha alcuno che giunto al termine delle sue pene non tragga un sospiro di consolazione e di gioia. Il capitano che ha sconfitto il nemico, nel rimettere entro il fodero la spada sanguinosa, dice esultante in suo cuore: Ho vinto, ho compiuto il mio trionfo. Il pellegrino, che tocca le soglie della patria amata, ripete giulivo: Son giunto, ecco la mèta del mio cammino. L’artefice, che ha dato l’ultimo tocco al suo lavoro, esclama: Ho finito, ecco condotto a perfezione la mia opera. Il carcerato che sente spezzarsi i suoi ceppi e vede aprirsi la porta della sua prigione per riavere la libertà; la vittima infelice della calunnia, che, riconosciuta alfine innocente, riacquista il suo onore ed i suoi beni, respirano dalle subite oppressioni, ed esclamano ancor essi: È finita quella vita sventurata! Non altrimenti fece il divin Redentore, e poiché, dice S. Giovanni, ebbe preso l’aceto che gli fu offerto, gridò: Tutto è consumato: Cum accepisset acetum, dixit: « Consummatum est. » Sì, per Gesù tutto èveramente, interamente, perfettamente consumato. Consummatum est, è consumata, adempiuta la volontà del Divin Padre, che volle la sua Incarnazione, la sua vita di trentatrè anni passata nel lavoro, nell’oscurità, nei travagli e nelle persecuzioni ed il termine di essa con una morte ignominiosa e crudele. Questo comando, benché ampio e difficile, è stato eseguito esattamente, in tutte le parti più minute: Omnis consummationis vidi finem; latum mandatum tuum nimis. (Ps. CXVIII). – L’umiliazione richiesta a cagion del peccato è giunta sino al suo profondo abisso: ed ora é compiuta: Consummatum est! Tutto è consumato, vale a dire tutto quello che è stato scritto e figurato del Messia ha ricevuto il suo compimento: tatto quello che è stato predetto dai Profeti, rappresentato dai grandi personaggi, simboleggiato dai segni, tutto si è ormai realizzato. Il figlio della donna ha schiacciato la testa dell’infernale serpente; il Desiderato delle genti è venuto quando lo scettro era caduto dalle Mani di Giuda; il vero Piglio di Davide è comparso a rialzare l’onore della sua casa; la Sapienza divina si è incarnata ed è stata veramente l’Emanuele, Dio con noi; il profeta e il taumaturgo più grande di Mosè ha fatto udire fra le genti la sua celeste dottrina e l’ha confermata coi più strepitosi miracoli; il vero Davide ha sostenuto gl’insulti e le calunnie de’ suoi più fieri nemici, il vero Giuseppe è stato tradito e venduto per trenta danari, il vero Isacco ha portato Egli stesso il legno del sacrifizio sulla cima del monte, il vero Agnello senza macchia, caricato dei peccati di tutti gli uomini è stato condotto all’uccisione, il vero serpente di bronzo, sola medicina al piagato Israele è stato innalzato sull’albero della croce, il vero Abele sta per cadere estinto, il vero Sansone sta per morire trionfando de’ suoi nemici: Consummatum est. – Tutto è compiuto, vale a dire il sacrifizio della nuova legge, che da solo doveva bastare a riparare tutti i mali, ed apportare tutti i beni, a convertire tutti i peccatori, a santificare tutti i giusti, è fatto; la sentenza di dannazione fu cancellata e così appesa alla croce; la legge di grazia fu sostituita alla legge di terrore, l’uomo fu riconciliato con Dio, fu chiuso l’inferno, fu aperto il cielo, furono vinti i demoni, fu meritata la grazia agli uomini, la Religione cristiana fu fondata, la gran casa di Dio, la Chiesa Cattolica, fu innalzata sopra incrollabile base, la terra fu fecondata e resa atta a produrre fiori eletti di virtù; qui da queste fonti già partono i sacramenti, come fiumi di sangue divino a fertilizzare il mondo e a farlo germinare in ogni luogo e in ogni tempo degli Apostoli, dei Martiri, dei Vergini, dei penitenti, dei Santi, a medicare le piaghe della povera umanità, a recar loro la benedizione e la vita:

Consummatum est. Tutto è compiuto, vale a dire ancora, ogni cosa fu condotta alla sua ultima perfezione, per modo che più nulla, veramente più nulla rimane da fare a Gesù Cristo prima di morire; più nulla gli rimane da patire, le sue acerbissime pene devono aver fine, quanto prima deve cominciare la sua vita di gioia, di gloria, di trionfo immortale, consummatum est! E dove il tutto si è compiuto? Sulla croco, che di infame patibolo diventerà d’ora innanzi strumento di potenza, simbolo di fortezza, vessillo di vittoria: sulla croce, che, inalberata un giorno dal gran Costantino sulle alture di Roma, manderà in polvere gl’idoli infami, farà crollare i templi pagani, porrà termine a bestiali costumi, romperà le catene degli schiavi, mostrerà l’eguaglianza, la fratellanza, la vera libertà; sulla croce che farà sante le nozze, mitigherà la podestà dei mariti e dei padri, apprenderà a tutti l’utilità, la necessità e l’eroismo del patire, sulla croce che divenuta stendardo e speranza dei popoli o sulle spiagge dei mari, o nel cuore delle foreste, o sulle porte delle metropoli arretrerà le barbarie, dileguerà le superstizioni, sfavillerà la luce del vero; sulla croce dinanzi alla quale ogni popolo, ogni regno, ogni nazione, ogni età, ogni stato, ogni sesso, ogni condizione: re e sudditi, nobili e abbietti ricchi e poveri, padroni e servi, dotti e idioti chineranno rispettosa la. fronte; sulla croce divenuta conforto del debole e dell’afflitto, rifugio dell’oppresso e del languente, consolazione della vedova e dell’orfano, refrigerio dell’infermo e del morente, ombra tutelare delle spoglie dei trapassati! Sulla croce, sì, sulla croce… tutto è compiuto, consummatum est. Ma ahi pensiero funesto! ahi vergognosa contraddizione! Perciocché a che giova, o miei cari, che Gesù Cristo abbia per parte sua compiuto tutto ciò che era necessario alla nostra eterna salute, se noi forse da parte nostra non l’abbiamo neppur cominciato? I migliori anni della nostra vita sono trascorsi: noi abbiamo faticato tanto per procacciarci anche non troppo onestamente delle ricchezze, abbiamo tanto sudato per farci un nome grande e riempirci di fumo, abbiamo logorato la sanità per accontentare le nostre passioni, abbiamo gittate insomma la nostra vita per perderci, e nulla, forse meno che nulla abbiamo fatto per salvarci. E quando facciamo conto di pronunziare una volta la gran parola: Nunc cœpi? Ora comincio? Quando ci risolveremo davvero di por fine ad una vita di peccato per cominciare una vita di santificazione? Ci lusinghiamo forse di dover campare cent’anni? E non ci può cogliere da un momento all’altro quella notte di sterili desideri, di inutili rimpianti, in cui più nessuno può operare? E quando pure avessimo a vivere la vita dei più longevi patriarchi, vorremmo continuare così scientemente a disprezzare Iddio, Gesù Cristo, il suo sacrifizio, la sua grazia! E pretenderemmo al termine di una vita scellerata, nel momento stesso cita sta per cominciare l’eternità, aborrire il vizio, praticare la virtù, riparare gli scandali, rifare le confessioni mal fatte, correggere le ingiustizie, troncare gli attacchi, far tutto insomma ciò che appena si può fare in molti anni di vita? Ah! ciò che più facilmente potrebbe accaderci allora sarebbe di gettare lo sguardo sopra la nostra vita passata del tutto nella colpa e coll’accento del rammarico, e Dio non voglia, con quello della disperazione, andar anche noi ripetendo: Consummatum est! Consummatum est! Ahimè, che tutto è finito. Son finiti i piaceri, gli onori, le ricchezze, i divertimenti, i balli, i teatri, i conviti, il lusso, tutto è finito. E che mi resta di tutto ciò? Nient’altro che il rimorso. Ah miserabile che fui! non mi sono attaccato che ai beni del corpo e del tempo, ma ora il tempo è passato, il corpo si dissolve e non mi rimane che l’anima e l’eternità! Dio mio! Dio mio! Tutto è finito! Tutto è finito! Consummatum est! Ah! miei cari, se non vogliamo andar incontro ad una fine così spaventosa, cominciamo senz’altro ad operare il bene. E poiché il buon Gesù nulla tralasciò di fare da parte sua per condurci a salvezza, deh mettiamoci anche noi a compiere la parte nostra per ottenere davvero quel regno che egli a sì caro prezzo ci ha ricomprato. Rammentiamoci bene, che questo regno patisce forza, e che i violenti soli lo rapiscono. Sia dunque fine alla nostra freddezza, alla nostra indifferenza, alla nostra codardia. Convertiamoci tosto e diamoci subito a vivere da veri Cristiani, combattendo da forti ogni difficoltà che a ciò si frapponga; vinciamo ogni umano riguardo, confessiamo e pratichiamo coraggiosamente la nostra fede e la nostra legge dinanzi a tutti e à costo di qualunque sfregio; ed allora potremo ancor noi al punto estremo della vita ripetere con vera soddisfazione, con vera gioia: Consummatum est: tutto è compiuto: ho consumato il mio corso, ho serbata la mia fede, altro non mi rimane che ricevere la corona di giustizia, quella corona che Iddio giusto giudice mi darà nel gran giorno per l’eternità: Cursum consummavi, fidem servavi, in reliquo reposita est mihi corona iustitiæ, quam reddet mihi Dominus in illa die iustus iudex. (II Tim, IV, 7).

III. — Ma ecco che Gesù è giunto all’estremo sfinimento. Già cominciano a mancare le forze ; già il sangue non esce più dalle ferite che a stilla a stilla, già si avanza silenziosa la morte, già è pronta per dargli l’ultimo colpo. Ma sebbene Gesù nella sua carne sia arrivato a questo estremo di debolezza, nel suo spirito conserva tutta la gagliardia e la forza, della quale valendosi manda un nuovo altissimo grido, che lo manifesta Dio, perciocché mentre noi uomini in sul morire perdiamo la voce, Egli che è Dio, sul punto stesso di morire la conserva e la innalza come gli piace. E che esprime egli mai con questo grido? Padre, dice Egli, nelle tue mani raccomando il mio spirto: Pater, in manus tuas commendo spiritum meum. (Lue. XXIII, 40) Oh tenere parole! Oh parole sublimi! Oh parole preziosissime! Con queste parole, che Gesù pronuncia colla testa sollevata e cogli occhi rivolti al cielo, chiamando Dio non più col nome augusto e terribile di Dio, come aveva fatto poco innanzi, ina col nome dolcissimo di Padre, si dichiara sino all’ultimo per suo divin Figliuolo; e rimettendo nelle mani di Lui il suo spirito rivela la pienezza di confidenza, la uguaglianza di potere, la infinità di amore, che tra di loro esiste. Padre, voleva dire, quando senza lasciar la tua destra, Io discesi in terra e presi questa vita mortale, di pieno accordo fra noi si stabiliva che Io la dessi per la salute del mondo; ed essendo giunto l’istante di adempire questo nostro accordo divino, Io lascio che la morte venga a togliermi la vita separando lo spirito dal mio corpo; e poiché il mio corpo su questa croce, già tutto te l’ho offerto, a rendere perfetto il sacrificio ti offro ancora il mio spirito e lo depongo nelle tue mani: Pater, in manus tua commendo spiritum meum. – Ma certamente non è questo solo che Gesù Cristo ha voluto significare con questa così bella parola. Come in tutte le altre precedenti ha voluto darci sempre altrettante prove di amore, così ha voluto fare in questa. Epperò, siccome nella penultima parola ci ha efficacemente animati a consumare l’opera della nostra santificazione, con questa ultima ha voluto metterci chiaramente d’innanzi il premio che a tal fine ci riserba, una morte cioè in cui il nostro spirito sarà consegnato nelle mani di Dio. Perciocché, dice S. Atanasio, raccomandando Egli il suo spirito al suo Divin Padre, intese particolarmente di raccomandargli al punto di morte tutti gli uomini che per la bontà della vita avrebbero appartenuto non solo al suo Corpo, ma eziandio al suo Spirito. – Animo adunque, o veri Cristiani, che col vero amore di Gesù Cristo, colla imitazione fedele delle sue virtù, coll’esecuzione costante de’ suoi precetti ed insegnamenti, formate con Lui uno stesso spirito. Giungerà pure per voi l’estremo istante della vita; ma all’avvicinarsi di quel momento, da cui dipende la eternità, di quel momento in cui il demonio, sapendo che gli rimane poco tempo, discenderà con grande ira a darvi l’ultimo assalto, di quel momento in cui dovrete separarvi da tutto e non vi resterà più nelle mani che un santo Crocifisso, voi non avrete a temere, perché colla sua estrema preghiera siete stati raccomandati da Gesù Cristo al suo divin Padre, siete stati deposti nelle sue braccia, siete stati affidati al suo amore. Ei fu lo stesso come se avesse detto: Padre, rimetto nelle tue mani lo spirito dei giusti, essi mi appartengono, sono miei veri fratelli, hanno vissuto della mia vita, hanno formato con me una cosa sola; voglio adunque o Padre che dove sono Io, ivi siano i miei servi, i miei ministri fedeli: Volo, pater, ut ubi ego gum, illic sii et minister meus. (Io. XII, 26) Deh! Accogli il loro spirito, abbraccialo, serralo al tuo cuore come lo spirito mio: Pater, in manus tuas commendo spiritum meum. Oh bontà, oh amore di Gesù Cristo per noi! Ma avremo noi, o miei cari, avremo noi la bella sorte di essere nel novero di questi giusti che muoiono placidamente addormentando il loro spirito nelle mani del Signore? Certamente nessuno degli uomini conosce la fine della sua vita: Nescit homo finem suum (Eccl. IX, 12) Ma è pur vero tuttavia che per mezzo delle buone opere possiamo rendere sicura la nostra vocazione ed elezione al cielo. Su, adunque, uniamoci del tutto a nostro Signor Gesù Cristo, uniamoci nei pensieri, negli affetti, nei sentimenti, nelle parole, nelle opere, aderiamo a Lui interamente, e giacché colui che aderisce a Dio diviene di un solo spirito con Lui: qui adhæret Deo unius spiritus est, (I Cor. VI) potremo così avere certa fiducia di pronunciare anche noi al termine della vita, non solo con Gesù Cristo e in Gesù Cristo, ma per la bocca istessa di Gesù Cristo: Pater, in manus tuas commendo spiritum meum. Ben cara adunque, ben preziosa, ben consolante è quest’ultima parola pronunciata sulla croce dal divin Redentore. Con essa non ha posto termine soltanto alla sua mortal carriera, ma nel suo infinito amore per noi ha messo ancora a noi innanzi il magnifico premio, la dolcissima morte che coronerà una santa vita! Ma poiché Egli l’ebbe pronunziata, con un estremo atto che l’indicava padrone supremo della vita e della morte, chinò dolcemente sul petto il suo divin capo. Et inclinato capite. (Io. XIX, 30) Oh misterioso chinar del capo! Ancor una volta con esso esprime la sua totale ubbidienza al suo divin Padre, la intera sommissione alla sua volontà; obediens usque ad mortem, mortem autem crucis; (Philipp, II, 8) ancor una volta con esso dimostra a noi quanto brami che a Lui ci appressiamo, chiamandoci, invitandoci, attirandoci a gettarci tra le sue braccia, al suo seno, nel suo amorosissimo Cuore. Ancor una volta con esso chiama la morte; che ritrosa non osava di avvicinarsi, e la incoraggia, e la provoca a venire, e a quest’ultima chiamata la morte viene e mena il colpo fatale. Ahi! che il cielo si fa più oscuro, la terra trema, le rocce si spezzano, le tombe si aprono, le pallide ombre ne escono gemendo, il velo del tempio si squarcia in due parti, gli angeli della pace piangono amaramente, le sante donne svengono, la moltitudine tremante e pentita si picchia il petto, Giovanni dà in iscoppio di pianto, Maria rimane come impietrita! Che è accaduto? Ah, l’ultima fiamma d’amore, che doveva consumar Gesù Cristo, è divampata. Gesù è impallidito, ha chiuso gli occhi, ha versato ancor una lagrima, ha dato ancor un sospiro di carità ed è morto: Et inclinato capite tradidit spiritum. (Io. XIX, 9). Gesù adunque è morto, ed è la carità infinita del Cuor suo che l’ha ucciso! In hoc apparuit charitas Dei in nobis. (Io. iv, 9) E chi mai al mondo, o padre, o sviscerato amico, è giunto a farsi uccidere per amor del figlio o dell’amico? Se mai vi fosso stato, per attestazione medesima di Gesù, egli avrebbe dato prova del più grande amore: Maiorem dilectionem nemo habet, ut animam suam ponat quis prò amicis suis. (Io. XV, 13) Ma Gesù Cristo è morto per amore di noi, che non eravamo suoi amici, ma suoi nemici a cagione del peccato. Oh carità infinita! oh amore senza pari e senza misura! Ben avevano ragione Mosè ed Elia discorrendone con Lui sul monte Tabor di chiamarlo un amore eccessivo: Dicebant excessum eius. (S. Luc. IX, 31). E dinnanzi a tanto eccesso di carità potremo noi, o miei cari, mostrarci indifferenti, insensibili? Gli stessi feroci crocifissori del divin Nazareno al funereo spettacolo della morte di Gesù, conobbero alla fine il loro gravissimo errore, e discendendo dal monte insanguinato si percuotevano il petto ed esclamavano: Vere Filius Dei erat iste! E noi avremmo assistito a quest’Agonia e Morte acerbissima senza aver provato nell’animo un sentimento di commozione, senza aver concepito un pensiero di piangere le nostre colpe e di riformare la nostra vita? Oseremmo forse noi di credere di non aver avuto parte alla morte di Gesù? Oseremmo, stendendo la mano sopra l’affranto suo cadavere, oseremmo giurare che noi non siamo colpevoli? Ah! no che noi possiamo! Quella testa insanguinata dalle spine, quella fronte imperlata di freddo sudore, quel volto impallidito e pendente, quelle labbra violacee e stirate, quelle mani e quei piedi traforati dai chiodi, quel corpo ignudo, straziato, inanimato è l’opera nostra, è il nostro delitto. E dunque resteremo noi col cuore di sasso? Ah no! che tanta non è la nostra durezza. Eccoci, o caro Gesù ai vostri piedi, umiliati e piangenti. Vi adoriamo umilmente come nostro Dio e nostro redentore. Ammiriamo l’infinita vostra carità e misericordia, che vi ha spinto a morire per noi miserabili peccatori fra i più atroci tormenti, e vi ringraziamo senza fine di un beneficio così immenso! Ah! che queste pene e questa morte è a noi che erano dovute. E poiché voi le voleste subire in vece nostra, dateci ora altresì la grazia di pentirci dei maledetti peccati che ve l’hanno cagionate. Sì, perdono, o Gesù, perdono e pietà! Perdono e pietà di coloro tra di noi, che finora non vi hanno creduto, e che per eccesso di malvagità vi hanno combattuto e bestemmiato, perdono. Perdono e pietà di coloro tra di noi, che interessati unicamente delle cose del mondo, del denaro, dell’onore e del piacere vi hanno dimenticato e messo da parte, perdono! Perdono e pietà di coloro tra di noi, che sposi e genitori vi hanno disprezzato colle loro infedeltà e cogli scandali che hanno dato ai loro figli, perdono! Perdono e pietà di coloro tra di noi, che nel fiore della gioventù vi hanno insultato col darsi in preda alle turpi passioni e col seguire ciecamente le più ree dottrine, perdono! Perdono e pietà di coloro tra di noi, che maestri, professori e scrittori, vi hanno ferito nella pupilla degli occhi, corrompendo la povera gioventù coi loro abbietti insegnamenti e coi sarcasmi sacrileghi contro la vostra fede, perdono! Perdono e pietà di coloro tra di noi, che ricchi, potenti e magistrati vi hanno conculcato colle ingiustizie, coi furti, colle oppressioni, colle persecuzioni, cogli oltraggi alla cristiana libertà, perdono! Perdono e pietà di coloro tra di noi, che sacerdoti e religiosi vi hanno disonorato con una vita indegna della loro grandezza e colla loro negligenza hanno rattenuto l’impeto della vostra misericordia sopra gli uomini, perdono! Gesù, Crocifisso nostro bene, noi ci rifugiamo nel vostro Cuore Sacratissimo, e d’ora innanzi non ce ne dipartiremo più mai. Ma voi usateci pietà, dateci il perdono. Perdono e pietà! pietà e perdono!