DOMENICA VI DOPO PENTECOSTE (2020)

Semidoppio. – Paramenti verdi.

Un solo pensiero domina tutta la liturgia di questo giorno: bisogna distruggere in noi il peccato con profondo pentimento e chiedere a Dio di darci la forza per non ricadervi. Il Battesimo ci ha fatto morire al peccato e l’Eucarestia ci dà la forza divina necessaria per perseverare nel cammino della virtù. La Chiesa, ancora tutta compenetrata del ricordo di questi due Sacramenti che ha conferito a Pasqua e a Pentecoste, ama parlarne anche « nel Tempo dopo Pentecoste ».

Le lezioni del 7° Notturno, quali si leggono nel Breviario, raccontano, sotto la forma di apologo, la gravità della colpa commessa da David. Per quanto pio egli fosse, questo grande Re aveva lasciato entrare il peccato nel suo cuore. Volendo sposare una giovane donna di grande bellezza, di nome Bethsabea, aveva ordinato di mandare il marito di lei Uria, nel più forte del combattimento contro gli Ammoniti, affinché restasse ucciso. Così sbarazzatosi in questo modo di lui, sposò Bethsabea che da lui già aveva concepito un figlio. Il Signore mandò il profeta Nathan a dirgli: « Vi erano due uomini nella città, uno ricco e l’altro povero. Il ricco aveva pecore e buoi in gran numero, il povero non aveva assolutamente nulla fuori di una piccola pecorella, che aveva acquistata e allevata, e che era cresciuta presso di lui insieme con i suoi figli, mangiando il suo pane, bevendo alla sua coppa e dormendo sul suo seno: essa era per lui come una figlia. Ma essendo venuto un forestiero dal ricco, questi, non volendo sacrificare nemmeno una pecora del suo gregge per imbandire un banchetto al suo ospite, rapi’ la pecora del povero e la fece servire a tavola ». David sdegnatosi, esclamò: « Come è vero che il Signore è vivo, questo uomo merita la morte ». Allora Nathan disse: « Quest’uomo sei tu, poiché hai preso la moglie di Uria per farla tua sposa, mentre potevi sceglierti una sposa fra le giovani figlie d’Israele. Pertanto, dice il Signore, io susciterò dalla tua stessa famiglia (Assalonne) una disgrazia contro di te ». David, allora, pentitosi, disse: Nathan: « Ho peccato contro il Signore ». Nathan riprese: « Poiché sei pentito il Signore ti perdona; tu non morrai. Ma ecco il castigo: il figlio che ti è nato, morrà ». Qualche tempo dopo infatti il fanciullo morì. E David umiliato e pentito andò a prostrarsi nella casa del Signore e cantò cantici di penitenza (Com.). « David, questo re cosi grande e potente, dice S. Ambrogio, non può mantenere in sé neppure per breve tempo il peccato che pesa sulla sua coscienza: ma con una pronta confessione, e con immenso rimorso, confessa il suo peccato al Signore. Così il Signore, dinanzi a tanto dolore, gli perdonò. Invece gli uomini, quando i Sacerdoti hanno occasione di rimproverarli, aggravano il loro peccato cercando di negarlo o di scusarlo; e commettono una colpa più grave, proprio là dove avrebbero dovuto rialzarsi. Ma i Santi del Signore, che ardono dal desiderio di continuare il santo combattimento e di terminare santamente la vita, se per caso peccano, più per la fragilità della carne che per deliberazione di peccato, si rialzano più ardenti alla corsa e, stimolati dalla vergogna della caduta la riparano coi più rudi combattimenti; cosicché la loro caduta invece d’essere stata causa di ritardo non ha fatto altro che spronarli e farli avanzare più celermente» (2° Nott.). Da ciò si comprende la scelta dell’Epistola nella quale S. Paolo parla della nostra morte al peccato. Nel Battesimo siamo stati seppelliti con Cristo, la nostra vecchia umanità è stata crocifissa con lui perché noi morissimo al peccato. E come Gesù dopo la risurrezione è uscito dalla tomba, così noi dobbiamo camminare per una nuova via, vivere per Dio in Gesù Cristo (Ep.). E qualora avessimo la disgrazia di ricadere nel peccato, bisogna domandare a Dio la grazia di esserci propizio e di liberarcene (V. dell’Intr., Crad., All., Secr.), ridonandoci la grazia dello Spirito Santo, poiché da Lui parte ogni dono perfetto (Oraz.). Poi bisogna accostarci all’altare (Com.) per ricevervi l’Eucaristia la cui virtù divina ci fortificherà contro i nostri nemici (Postcom.) e ci manterrà nel fervore della pietà (Oraz.), poiché il Signore è la forza del suo popolo che lo condurrà per sempre (Intr.). Per questo la Chiesa ha scelto per Vangelo la narrazione della moltiplicazione dei pani, figura dell’Eucaristia, che è il nostro viatico. La Comunione, identificandosi con la vittima del Calvario, non solamente perfeziona in noi gli effetti del Battesimo, facendoci morire con Gesù al peccato, ma ci fa trovare a santo banchetto la forza che ci è necessaria per non ricadere nel peccato e per « consolidare i nostri passi nei sentieri del Signore » (Offert.). E in questo senso S. Ambrogio, commenta questo Vangelo. Cristo disse: « Io non voglio rimandarli digiuni per paura che essi muoiano per via. Il Signore pieno di bontà sostiene le forze; se qualcuno soccomberà non sarà per causa del Signore Gesù, ma per causa di se stesso. Il Signore pone in noi elementi fortificanti; il suo alimento è la forza, il suo alimento è il vigore. Così, se per vostra negligenza, avete voi perduta la forza che avete ricevuta, non dovete incolpare gli alimenti celesti che non .mancano, ma voi stessi. Infatti Elia, quando stava per soccombere, non camminò per quaranta giorni ancora, avendo ricevuto il cibo da un Angelo? Se voi avete conservato il cibo ricevuto, camminerete per quarant’anni e uscirete dalla terra d’Egitto per giungere alla terra immensa che Dio ha promesso ai nostri Padri.

Incipit

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Ps XXVII: 8-9 Dóminus fortitudo plebis suæ, et protéctor salutárium Christi sui est: salvum fac pópulum tuum, Dómine, et benedic hereditáti tuæ, et rege eos usque in sæculum.

[Il Signore è la forza del suo popolo, e presidio salutare per il suo Unto: salva, o Signore, il tuo popolo, e benedici i tuoi figli, e govérnali fino alla fine dei secoli.]

Ps XXVII: 1 Ad te, Dómine, clamábo, Deus meus, ne síleas a me: ne quando táceas a me, et assimilábor descendéntibus in lacum.

[O Signore, Te invoco, o mio Dio: non startene muto con me, perché col tuo silenzio io non assomigli a coloro che discendono nella tomba.]

Dóminus fortitudo plebis suæ, et protéctor salutárium Christi sui est: salvum fac pópulum tuum, Dómine, et benedic hereditáti tuæ, et rege eos usque in sæculum.

[Il Signore è la forza del suo popolo, e presidio salutare per il suo Unto: salva, o Signore, il tuo popolo, e benedici i tuoi figli, e govérnali fino alla fine dei secoli.]

Oratio

Orémus.

Deus virtútum, cujus est totum quod est óptimum: ínsere pectóribus nostris amórem tui nóminis, et præsta in nobis religiónis augméntum; ut, quæ sunt bona, nútrias, ac pietátis stúdio, quæ sunt nutríta, custódias.

[O Dio onnipotente, cui appartiene tutto quanto è ottimo: infondi nei nostri cuori l’amore del tuo nome, e accresci in noi la virtú della religione; affinché quanto di buono è in noi Tu lo nutra e, con la pratica della pietà, conservi quanto hai nutrito.]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Romános. Rom. VI: 3-11

“Fratres: Quicúmque baptizáti sumus in Christo Jesu, in morte ipsíus baptizáti sumus. Consepúlti enim sumus cum illo per baptísmum in mortem: ut, quómodo Christus surréxit a mórtuis per glóriam Patris, ita et nos in novitáte vitæ ambulémus. Si enim complantáti facti sumus similitúdini mortis ejus: simul et resurrectiónis érimus. Hoc sciéntes, quia vetus homo noster simul crucifíxus est: ut destruátur corpus peccáti, et ultra non serviámus peccáto. Qui enim mórtuus est, justificátus est a peccáto. Si autem mórtui sumus cum Christo: crédimus, quia simul étiam vivémus cum Christo: sciéntes, quod Christus resurgens ex mórtuis, jam non móritur, mors illi ultra non dominábitur. Quod enim mórtuus est peccáto, mórtuus est semel: quod autem vivit, vivit Deo. Ita et vos existimáte, vos mórtuos quidem esse peccáto, vivéntes autem Deo, in Christo Jesu, Dómino nostro”.

Omelia I

[A. Castellazzi: La scuola degli Apostoli – Sc. Tip. Vescov. Artigianelli, Pavia, 1929]

IL BATTESIMO

“Fratelli,  quanti siamo stati battezzati in Gesù Cristo, siamo stati battezzati nella morte di Lui. Per il battesimo siamo stati, dunque, sepolti con Lui nella morte; affinché a quel modo che Gesù Cristo risuscitò dalla morte, mediante la gloria del Padre, così, anche noi viviamo una nuova vita. Infatti, se siamo stati innestati a Lui per la somiglianza della sua morte, lo saremo anche per quella della resurrezione; ben sapendo che il nostro vecchio uomo è stato crocifisso in Lui, affinché il corpo del peccato fosse distrutto, sicché non serviamo più al peccato. Ora, se siamo morti con Cristo crediamo che vivremo pure con Cristo; perché sappiamo che Cristo risuscitato da morte non muore più: la morte non ha più dominio su di Lui. La sua morte fu una morte al peccato una volta per sempre; e la sua vita la vive a Dio. Alla stessa guisa, anche voi consideratevi morti al peccato e viventi a Dio in Cristo Gesù Signor nostro”.

Nell’Epistola di quest’oggi, che è tolta dalla lettera ai Romani, sono messe in relazione col Battesimo la morte, la sepoltura e la risurrezione di Gesù Cristo. Il Battesimo, mediante il quale l’uomo diventa membro del mistico corpo del Redentore, significa tanto la morte, la sepoltura e la risurrezione di Gesù Cristo, quanto la morte dell’uomo al peccato e la sua risurrezione alla vita della grazia. L’uomo, morto al peccato, non deve più farsene schiavo. Gesù Cristo dalla tomba, risorse alla vita nuova per la, gloria del Padre. Il Cristiano, dal fonte battesimale, risorge con Gesù Cristo a una vita nuova, tutta consacrata a Dio. Il cristiano deve pensare frequentemente al Battesimo, che ci ricorda:

1. Che siamo morti al peccato e liberati dalla schiavitù di satana,

2. Che siamo risorti alla vita della grazia,

3. Nella quale dobbiamo perseverare.

1.

Quanti siamo stati battezzati in Gesù Cristo, siamo stati battezzati nella morte di Lui. Queste parole alludonoalla maniera con cui veniva amministrato il Battesimo nei primi tempi della Chiesa. Il battezzando veniva immerso nell’acqua, e subito ne usciva. L’immersione nell’acqua rappresentava la morte e la sepoltura del Redentore;e vi era pure significata la morte mistica del neofito; la sepoltura del vecchio uomo con i suoi peccati. Infatti, nel Battesimo, per virtù dello Spirito Santo, vengono pienamente cancellati tutti i peccati. Cancellati i peccati, anche il dominio di satana cessa. L’anima che era schiava diventa libera; «Poiché il demonio non può dominare che per mezzo dei peccati» (S. Agostino. En. In Ps. LXXII, 5).Coloro che nel Battesimo sono liberati dal peccato «lasciano oppresso nell’acqua il demonio, antico dominatore» (Tertulliano. De Baptismo. 9. 2). – Dell’importanza di questa liberazione dal giogo di satana è tutta piena la liturgia del Battesimo. Subito, in principio della cerimonia, il sacerdote, dopo che ha ammonito il battezzando sull’osservanza dei comandamenti e sull’amor di Dio, si rivolge allo spirito delle tenebre, e gli intima: «Esci da lui, o spirito immondo, e cedi il luogo allo Spirito Santo Consolatore». Segnato con un duplice segno di croce, il battezzando si rivolge ancora allo spirito delle tenebre e gli fa sentire l’ingiunzione da parte di Dio. «Ti esorcizzo, spirito immondo, nel nome del Padre, del Figliuolo e dello Spirito Santo, perché t’allontani da questo servo di Dio. Te lo comanda, dannato maledetto, colui che camminò sul mare, e porse la destra a Pietro che stava per sommergersi». Introdotto il battezzando in chiesa, dopo altre cerimonie, prima che venga battezzato, il sacerdote gli domanda: «Rinunci a satana… e a tutte le sue opere… e a tutte le sue pompe?». Dopo la triplice dichiarazione di rinuncia al demonio, alle sue opere, alle sue pompe si procede ad altri riti, e finalmente al Battesimo. – I primi Cristiani, innanzi di ricevere il Battesimo venivano a lungo istruiti sull’importanza di queste cerimonie. Così si fa ancora di regola generale, anche oggi nei paesi infedeli. Da noi, specialmente per assicurare la salvezza dell’anima contro le sorprese della morte, il Battesimo si amministra, in via ordinaria, ai bambini. Ma questa circostanza non ci sottrae all’obbligo di stare alle rinunce fatte per noi dai padrini. Ogni promessa è debito, sia essa fatta da noi, sia fatta da altri per noi. Neppure ci sottrae all’obbligo di istruirci sugli effetti del Battesimo. II Cristiano non ringrazierà mai abbastanza Dio, che nel Battesimo gli ha tolto la macchia del peccato che deturpava l’anima sua, che ha spezzato i vincoli che lo tenevano legato a satana, liberandolo dal suo dominio. Il Cristiano non farà mai troppo per restar fedele alle promesse e alle rinunce fatte nel Battesimo, se non vuol essere un Cristiano solamente di nome.

2.

Per il Battesimo siamo stati, dunque, sepolti con Lui nella morte; affinché a quel modo che Gesù Cristo risuscitò da morte, mediante la gloria del Padre, così, anche noi viviamo una nuova vita. Il Battesimo che ci unisce a Gesù nella morte e nella sepoltura, ci unisce pure con Lui nella risurrezione. Per la gloriosa potenza del Padre, Gesù Cristo è risuscitato da morte a vita immortale: e noi partecipiamo alla sua risurrezione, risorgendo dalle acque del Battesimo a una vita nuova. Se nel Battesimo non risorgiamo a una vita nuova, tutta diversa dalla vita passata a che ci gioverebbe esser stati sepolti in esso con Gesù Cristo?Il Battesimo trasforma l’uomo. Se ci fosse concesso di vedere un’anima qual era prima del Battesimo e qual è dopo, non la riconosceremmo più. Prima del Battesimo indossava la veste di Adamo, la veste del peccato. Dopo il Battesimo indossa la veste candida della grazia, la veste di Gesù Cristo, al quale il battezzato è stato incorporato. «Tutti voi che siete stati battezzati in Cristo, vi siete rivestiti di Cristo», ricorda S. Paolo ai Galati (III, 27). Salomone, parlando della sapienza che egli aveva chiesto a Dio, dice: «E insieme con essa vennero a me tutti i beni, e per le mani di lei un’infinita ricchezza» (Sap. VII, 11). Lo stesso può ripetere ciascuno che ha ricevuto la veste della grazia nel Battesimo. L’uomo con il peccato aveva offeso Dio; e l’offesa fattagli non avrebbe mai potuto riparare. Aveva contratto un debito che nessuno, al mondo, avrebbe potuto estinguere. Con il Battesimo l’offesa è riparata, il debito è estinto. L’uomo da nemico di Dio diventa sua amico, anzi figlio adottivo. «Siete stati mondati, siete stati santificati, siete stati giustificati nel nome del Signor nostro Gesù Cristo, e mediante lo Spirito del nostro Dio» (I Cor. VI, 11), dichiara l’Apostolo ai Corinti. Esule dal Paradiso l’uomo non poteva aspirare a mettervi il piede, se fosse dipeso dalle sue forze. Era una condanna, che non si sarebbe potuta scontare col tempo, e che nessun uomo poteva togliere. Nel Battesimo la condanna è tolta. «Nessuna condanna, dunque, ora per coloro che sono incorporati in Cristo» (Rom. VIII, 1). Divenuto nel Battesimo membro della Chiesa, l’uomo può usare dei mezzi della grazia, che essa somministra per la santificazione dei suoi figli; e progredire, così, sempre più nella santità cui è chiamato. S. Gerolamo, parlando del Battesimo, dichiara: «Mi mancherebbe il tempo, se volessi esporre quanto si contiene nella Sacra Scrittura su l’efficacia del Battesimo». (Epist. 69 7, ad Ocean.) A noi basti considerare che, prima del Battesimo, l’uomo è tempio del demonio, e, dopo, è tempio di Dio; che nel Battesimo egli è generato a una vita nuova, la vita della grazia.

3.

Gesù Cristo aveva preso sopra di sé i peccati di tutti gli uomini, e morì come rappresentante dei peccatori. Morì, però, una volta per sempre. Ed espiati i peccati una volta per sempre, mediante la sua morte, non ha più che fare con il peccato. La vita che vive dopo la sua risurrezione, la vive a onore e gloria di Dio. Alla stessa guisa — dice S. Paolo — anche voi consideratevi morti al peccato e viventi a Dio in Cristo Gesù Signor nostro ». Cioè, ad esempio di Gesù Cristo, dobbiamo considerarci morti per sempre al peccato, e condurre a onore e gloria di Dio la vita, che Egli ci serba dopo il Battesimo. – Il popolo d’Israele s’era sottratto alla schiavitù dell’Egitto, attraverso il Mar Rosso. Da questo mare Israele esce salvo; ma i suoi nemici vi trovano la morte, sepolti nelle onde. Sentiamo una bella osservazione di S. Agostino. «Muoiono nel Mar Rosso tutti i nemici di quel popolo, muoiono nel Battesimo tutti i nostri peccati. Osservate fratelli: dopo quel Mar Rosso non vien data subito la patria, né il trionfo è completamente sicuro, come se non esistessero più nemici; poiché rimane ancora la solitudine del deserto; rimangono ancora i nemici che insidiano il cammino. Così, anche dopo il Battesimo, la vita cristiana è soggetta alla tentazione», (En. In Ps. LXXII, 5) Dal Battesimo il Cristiano è risorto a nuova vita con Gesù Cristo, ma la concupiscenza, ch’è rimasta anche dopo la morte al peccato, non gliela lascia godere con completa sicurezza. Di qui la necessità, per il Cristiano, di lottare continuamente contro la concupiscenza per non lasciarsi trascinare da essa, alla vita di peccato di prima. Sarebbe un inganno dormir tranquilli, perché nel Battesimo e più tardi nella Confessione, i nostri peccati furono seppelliti. Un giardiniere apparecchia con tutta cura l’aiuola. Con la vanga volta, sminuzza il terreno e lo monda dalle erbe inutili e nocive. Ma quanti germi vi son rimasti, sfuggiti al suo sguardo, o vi sono continuamente portati. Senza ulteriori, continue cure, quell’aiuola si ricoprirà ben presto dell’erbacce di prima. Senza continua vigilanza e premura, i peccati che furono sepolti nel Battesimo, e più tardi nella Penitenza, torneranno ben presto a dominare. Quando il missionario versa sul capo dei neofiti, da lui preparati, l’acqua del Battesimo, si sente l’animo ripieno di giubilo al pensiero che la Chiesa acquista un nuovo figlio, e il Cielo un nuovo erede. Ma questo giubilo è ben spesso turbato da un dubbio: Si manterrà costante nella fede? Continuerà nella buona via? Date le circostanze, i pericoli in cui vengono a trovarsi quei novelli convertiti, l’esperienza dimostra che questo dubbio non è fuor di posto. Questa domanda facciamocela schiettamente noi: Abbiam continuato nella buona via? Non siamo più ritornati al peccato al quale eravamo morti nel Battesimo? Domanda molto opportuna, anzi, necessaria, poiché «per il solo Battesimo non si consegue la vita eterna, se dopo averlo ricevuto si vive malamente » (S. Fulgenzio De Reg. verae Fidei. 44). Dopo il Battesimo abbiamo un altro Sacramento, nel quale vengono seppelliti i nostri peccati; ma anche questo Sacramento, come il Battesimo, va ricevuto con il fermo proposito di risorgere a vita nuova e di non ritornare più al peccato. C’è sempre questa disposizione nel continuo alternarsi di grazia e di peccato, di morte e di vita dell’anima? A confermare il nostro proposito di esser morti per sempre al peccato e di progredire nella vita della grazia, giova grandemente la considerazione della dignità, da noi conseguita nel Battesimo, e degli obblighi che ne derivano. Tanti usano notare su apposito memoriale le date più importanti della vita. I cristiani fervorosi non trascurano di porre, tra queste date, quello del Battesimo, della Cresima, della 1. Comunione. Un santo e zelante missionario, il gesuita P. Vittorio Delpech, per tenersele in mente più facilmente e in modo più vivo, le scrisse sopra un cranio, che volle aver sempre con sé. La data della nascita era scritta sulla fronte, accompagnata da questi due. versetti: «Ricorda il tuo Battesimo ed esulterai in eterno. — Ricorda i novissimi e non peccherai in eterno». Se vogliamo pervenire all’esultanza a cui il Battesimo ci dà diritto, ricordiamolo spesso, e non smentiamolo mai.

Graduale

Ps LXXXIX: 13; LXXXIX: 1 Convértere, Dómine, aliquántulum, et deprecáre super servos tuos.

V. Dómine, refúgium factus es nobis, a generatióne et progénie. Allelúja, allelúja.

[Vòlgiti un po’ a noi, o Signore, e plàcati con i tuoi servi.

V. Signore, Tu sei il nostro rifugio, di generazione in generazione. Allelúia, allelúia]

Alleluja

Ps XXX: 2-3 In te, Dómine, sperávi, non confúndar in ætérnum: in justítia tua líbera me et éripe me: inclína ad me aurem tuam, accélera, ut erípias me. Allelúja.

[Te, o Signore, ho sperato, ch’io non sia confuso in eterno: nella tua giustizia líberami e allontanami dal male: porgi a me il tuo orecchio, affrettati a liberarmi Allelúia.]

Evangelium

Sequéntia ✠ sancti Evangélii secúndum Marcum.

Marc. VIII: 1-9 In illo témpore: Cum turba multa esset cum Jesu, nec haberent, quod manducárent, convocatis discípulis, ait illis: Miséreor super turbam: quia ecce jam tríduo sústinent me, nec habent quod mandúcent: et si dimísero eos jejúnos in domum suam, defícient in via: quidam enim ex eis de longe venérunt. Et respondérunt ei discípuli sui: Unde illos quis póterit hic saturáre pánibus in solitúdine? Et interrogávit eos: Quot panes habétis? Qui dixérunt: Septem. Et præcépit turbæ discúmbere super terram. Et accípiens septem panes, grátias agens fregit, et dabat discípulis suis, ut appónerent, et apposuérunt turbæ. Et habébant piscículos paucos: et ipsos benedíxit, et jussit appóni. Et manducavérunt, et saturáti sunt, et sustulérunt quod superáverat de fragméntis, septem sportas. Erant autem qui manducáverant, quasi quatuor mília: et dimísit eos.

(In quel tempo: Radunatasi molta folla attorno a Gesú, e non avendo da mangiare, egli, chiamati i discepoli, disse loro: Ho compassione di costoro, perché già da tre giorni sono con me e non hanno da mangiare; e se li rimanderò alle loro case digiuni, cadranno lungo la via, perché alcuni di essi sono venuti da lontano. E gli risposero i suoi discepoli: Come potremo saziarli di pane in questo deserto? E chiese loro: Quanti pani avete? E risposero: Sette. E comandò alla folla di sedersi a terra. E presi i sette pani, rese grazie e li spezzò e li diede ai suoi discepoli per distribuirli, ed essi li distribuirono alla folla. Ed avevano alcuni pesciolini, e benedisse anche quelli e comandò di distribuirli. E mangiarono, e si saziarono, e con i resti riempirono sette ceste. Ora, quelli che avevano mangiato erano circa quattro mila: e li congedò).

Omelia II

[Mons. J. Billot; Discorsi Parrocchiali – Cioffi ed. Napoli, 1840]

Sopra la provvidenza di Dio.

Misereor super turbam, quia ecce iam triduo sustinent me, nec habent quod manducent.

[Marc. VIII].

Quanto ammirabili sono le attenzioni della divina provvidenza per gli uomini, fratelli miei, e quanto sono fortunati coloro che alla sua condotta rimettonsi! L’odierno Vangelo ce ne somministra una prova sensibile, assai convincente. Già da tre giorni una moltitudine di popolo seguiva Gesù Cristo con tanto affetto che si dimenticava sino dei bisogni della vita; più premurosi questi di nutrire l’anima del pane celeste che il corpo di un pane materiale, nulla avevano serbato onde cibarsi nel viaggio. Ma Gesù Cristo, che mai non dimentica i suoi seguaci, fu mosso a compassione dei bisogni d’un popolo che gli dava una sì grande riprova del suo attaccamento. Chiede Egli ai suoi Apostoli quanti pani abbian seco portato. Sette, rispondono essi; ma come con sì poca provvisione cibare tante persone? Ciò che è impossibile all’uomo, non è impossibile a Dio. Gesù Cristo farà spiccare la sua potenza egualmente che la sua bontà nel sovvenire ai bisogni di tutti. Prende Egli dunque i sette pani, li benedice e li moltiplica in copia tale, che avvenne onde nutrire quattromila persone, senza contare le donne e i fanciulli, e degli avanzi ancora riempiere sette sporte. Non fu già, fratelli miei, in questa sola occasione che Gesù Cristo diede contrassegni della paterna sua provvidenza verso coloro che lo seguivano; il Vangelo riferisce ancora un altro miracolo di questa sorte per mezzo del quale Egli nutrì e satollò cinquemila persone con cinque pani d’orzo e due pesci. In questa guisa la provvidenza di Dio previene e i necessari aiuti ci porge. Ah! quanto saremmo noi felici, se interamente abbandonandoci nelle mani di questa divina provvidenza, e fedeli mantenendoci nel suo servizio, sapessimo meritare i suoi favori! Non si vedrebbero certamente tante persone languire nella miseria, o per lo meno esse non ne risentirebbero cotanto le amarezze, la sopporterebbero con pazienza maggiore. – Per indurvi adunque a questo perfetto abbandono alla provvidenza di Dio, voglio rappresentarvi la cura ch’ella ha di voi ed istruirvi nello stesso tempo di ciò che dovete fare per corrispondervi. Quel che la provvidenza di Dio fa per gli uomini: primo punto. Quel che gli uomini far debbono per corrispondere alle cure della divina provvidenza: secondo punto.

I. Punto. Che siavi una provvidenza in Dio che presieda a tutto, che il tutto governi e che provveda ai bisogni di tutti, ella è una verità, fratelli miei, che la sola ragione, indipendentemente anche dalla fede, ci dimostra in una maniera sì sensibile che converrebbe chiuder gli occhi alla luce per rivocarla in dubbio. Che c’insegna infatti la ragione? Che evvi un Dio, infinitamente saggio, buono e potente, che ha creato tutte le cose nel bell’ordine che noi vediamo e le conserva nel medesimo stato; altrimenti rientrerebbero ben presto nel nulla. Mentre la creatura tanto dipende da Dio per la conservazione, quanto per la sua riproduzione, o piuttosto la sua conservazione, è una produzione continua, per cui Dio rinnova ad ogni istante l’esistenza della creatura, non essendovi che Egli solo, il quale esista indipendentemente da ogni altro. Si è dunque Dio che con la sua sapienza ed onnipotenza, conserva e governa questo vasto universo; Egli è che dà il moto agli astri, la fertilità alla terra, la salubrità all’aria. Da Lui dipende la regolarità delle stagioni, che succedonsi le une alle altre; la vicissitudine dei giorni e delle notti, che c’invitano alternativamente al lavoro e al riposo; in una parola tutta l’armonia che vediamo regnare nella natura, ella è un effetto della divina Provvidenza. Basta di dare uno sguardo alle opere di Dio per riconoscervi i tratti d’una sapienza infinita ed esclamare col profeta: quanto ammirabili sono le vostre opere, o Signore! La vostra sapienza risplende in tutto ciò che avete fatto; la terra ripiena dei vostri beni spiega ai nostri occhi la vostra magnificenza; tutta la natura ci annunzia una provvidenza che la regola: che la sostiene nel bell’ordine che vi ammiriamo. – Or se la provvidenza di Dio si manifesta in una maniera sensibile nel governo dell’universo, ai bisogni dell’uomo, che è la più bella delle sue opere, essa estende principalmente le paterne sue cure; poiché dire che Dio ha creato l’uomo per abbandonarlo a se stesso, sarebbe voler dire che un padre ha messo al mondo dei figliuoli per non prenderne alcuna cura: che un re savio e giusto non si mette punto in pena di ciò che accade nel suo regno; ciò che non si può supporre in una creatura ragionevole, a più forte ragione in un Dio Creatore, il migliore dei padri, il più savio ed il più giusto dei re. Ma quanto grandi sono le cure che la provvidenza di Dio prende delle creature ragionevoli, quale è la sua attenzione, quale la vigilanza in provvedere ai loro bisogni! Ah! Cristiani, riconoscete qui le vostre obbligazioni a suo riguardo ed istruitevi dei motivi che debbono indurvi a renderle i vostri omaggi e ad abbandonarvi alla sua condotta. – Questa divina provvidenza conosce i vostri bisogni, ella vi provvede con mezzi tanto più efficaci, quanto che dispone d’ogni cosa con altrettanto di forza che di sapienza e dolcezza: Attingìt a fine usque ad finem fortiter, et disponit omnia suaviter (Sap. VIII). Con quanto di ragione dobbiamo mettere in essa ogni nostra confidenza! Sì, fratelli miei. Dio sa tutti i vostri bisogni e li ha conosciuti sin dall’eternità, come li vede ogni giorno; a Lui è stato ognora presente tutto ciò che accade nel mondo e tutto ciò che deve accadere sino al fine dei secoli; di modo che tutti gli avvenimenti che gli uomini riguardano come un effetto del caso, sono stati preveduti, determinati o permessi nei decreti eterni della divina Provvidenza. Qual motivo di consolazione per voi, che gemete sotto il peso della croce, che siete ridotti in uno stato di miseria, oppressi da malattie, da sinistri accidenti, di sapere che Dio conosce tutti i vostri mali, non già con una cognizione sterile, come i felici del secolo conoscono le miserie dei poveri senza esserne commossi e senza dar loro soccorso; ma che la cognizione che Dio ha delle nostre miserie, eccita in Lui i sentimenti della più tenera compassione! – Noi ne abbiamo la prova nel Vangelo: Gesù Cristo vedendo al suo seguito una folla di popolo che non ha onde sussistere: io ho pietà di questo popolo, dice ai suoi Apostoli: Misereor super turbam. Temo che se io li rimando digiuni in casa loro, non isvengano per strada: Ne defìciant in via. Ecco come la Provvidenza di Dio s’intenerisce sopra i bisogni di quelli che in essa confidano; ella riunisce tutte le circostanze che possono renderla sensibile ai loro mali per dar loro i necessari aiuti. Ma questa divina Provvidenza non si ferma in sentimenti sterili di compassione; essa previene i nostri desideri, e provvede abbondantemente a tutti i nostri bisogni. Fa d’uopo per questo che impieghi la sua possanza? Nulla evvi ch’essa non faccia, verun prodigio che non operi per sovvenire alle necessità del suo popolo. Oltre il miracolo dell’odierno Vangelo, quanti altri esempi potrei io citarvi che provano la vigilanza della provvidenza sopra gli uomini? Qui io vedo un popolo numeroso miracolosamente nutrito per lo spazio di quarant’anni in un deserto orribile, ove Dio fa piovere una manna squisita che ogni desiderevole sapore in sé contiene. Là veggo quel medesimo popolo vincitore dei suoi nemici, per il solo sostegno che trova nella Provvidenza del suo Dio. Più lungi scorgo un profeta affaticato da un penoso viaggio, cui il Signore dà forza di continuarlo con un pane miracoloso che un corvo gli reca sera e mattina: egli è il profeta Elia. In un altro luogo Daniele è miracolosamente preservato dalla voracità dei leoni, tra i quali è stato rinchiuso perché ne fosse divorato. Tre giovani camminano in una fornace ardente, dove sono stati gettati, senza ricevere alcuna lesione dal fuoco. Tobia è condotto in un lungo e penoso viaggio da un Angelo tutelare, mandatogli dalla Provvidenza. Non sono forse questi dei tratti che evidentemente dimostrano le attenzioni della provvidenza di Dio verso gli uomini? – Ritorniamo ancora al Vangelo, per ascoltar Gesù Cristo spiegarsi su questo soggetto in maniera a non lasciarne alcun dubbio. Considerate, ci dice questo divin Salvatore, gli uccelli dell’aria che vivono senza mietere e senza racchiudere nulla ne’ granai, i gigli del campo che crescono senza filare e senza lavorare. Se dunque conchiude il Salvatore, il vostro Padre che è nel cielo, nutrisce sì bene gli uccelli, benché non sia che Signor loro, con quanto più forte ragione nutrirà Egli voi altri che siete suoi figliuoli e che siete da più di tutti gli animali della terra? Non vi mettete dunque in pena donde prenderete il vostro cibo, il vostro vestimento; il vostro Padre celeste sa che voi avete bisogno di tutte queste cose; ciò basta per calmare tutte le vostre inquietudini: Scit Pater vester quia his omnibus indigetis (Matth. VI). Giudicate del suo amore da quello che voi avete per li vostri figliuoli. Quando essi vi chiedono del pane, lo ricusate voi forse loro o date loro forse una pietra o uno scorpione? Se dunque voi, benché malvagi, sapete così ben provvedere ai bisogni dei vostri figliuoli, quanto maggiormente il Padre celeste, che vi ha formati a sua immagine e somiglianza, avrà egli cura di voi? Non provate forse voi medesimi con l’esperienza la verità di questi oracoli? Mentre potete voi forse non far attenzione a ciò che accade tutti i giorni sotto i vostri occhi e che non merita meno la vostra ammirazione, perché accade ordinariamente? Al vedere tutto ciò che accade nella natura; non vi persuadete che tutte le cure della provvidenza sono, per così dire, riunite per l’uomo, che per lui solo Dio ha fatto tutto ciò che ha creato, che tutte le creature sono destinate al suo uso, che tutti gli elementi, tutte le stagioni non lavorano che per lui? Lo riscalda il fuoco, l’aria lo rinfresca, l’acqua il purifica, la terra lo nutrisce. Dio, per rendere la terra fertile, fa nascere ogni giorno il sole per comunicarle il calor necessario a produrre frutti; e siccome il troppo grande calore annienterebbe la virtù delle sementi, non vedete altresì come la Provvidenza ha cura di temperarlo con le piogge, che fa cadere sopra la terra per dar loro l’accrescimento? Ma quale accrescimento, fratelli miei! Il miracolo della moltiplicazione dei pani, di cui fa menzione il Vangelo, si rinnova ogni anno sotto i vostri occhi: per alcuni grani di semente che gettate in terra quale abbondanza non ne raccogliete? Non è questa forse una meraviglia della Provvidenza degna di tutta la vostra attenzione? Mentre invano lavorereste, seminereste invano, se Dio medesimo non desse l’accrescimento, se non aprisse la sua mano liberale per darvi la sua benedizione, i vostri lavori sarebbero senza frutto: Aperis manum tuam, et imples omne animal benedictione (Psal. CXLIV). Osservate ancora un effetto della bontà e della saviezza di questa divina provvidenza, che ha fissati ad ogni stagione dell’anno i frutti diversi che dovete raccogliere, per risparmiarvi le fatiche che avreste a sopportare se una sola li producesse tutti in uno stesso tempo. La primavera vi presenta la bellezza dei suoi fiori, l’estate l’abbondanza delle sue messi, l’autunno la squisitezza dei suoi frutti: Tu das illis escam in tempore opportuno. Aggiungete a tutto questo i soccorsi che la Provvidenza vi somministra in tutti gli animali ch’ella ha sottomessi al vostro impero, gli uni per alimentarvi, gli altri per vestirvi o servirvi od alleggerirvi dei vostri lavori; pensate anche ai rimedi che la natura vi fornisce per ristabilire e conservare la vostra sanità. – Richiamatevi alla mente tutti i pericoli da cui la provvidenza vi ha preservati, tutti i benefizi di cui essa vi ha ricolmi e che non cessa di spargere su di voi quotidianamente; di modo che non evvi un momento solo di vostra vita che non sia contrassegnato da qualcheduno dei suoi favori. Voi potete dunque dire con ragione, come il re profeta, che nulla vi manca sotto l’amabile condotta della provvidenza: Dominus regit me, et nihil mihi deerit (Psal. XXII). Essa vi conduce come un buon pastore nei buoni, nei fertili pascoli: in loco pascuæ ibi me collocavit. Quando camminavate in mezzo alle ombre della morte , ella vi ha sostenuti, vi ha difesi contro i nemici che cercavano la vostra rovina: si ambulavero in medio umbræ mortis, non timebo mala, quoniam tu mecum es. Sino all’ultimo momento di vostra vita, ella vi farà provare gli effetti della sua paterna bontà: Et misericordia tua subsequetur me omnibus diebus vitæ meæ. – Ma mi sembra qui intendere la voce della natura, che vorrebbe una Provvidenza sempre favorevole ai suoi disegni e che si lamenta dei mali con cui ella affligge gli uomini. Sembra, dice essa, che non si dovrebbero provare che dolcezze sotto la condotta d’una provvidenza così amabile come voi la rappresentate: perché dunque ci fa ella sentir alcuna volta il suo rigore? Come conciliare con le attenzioni della Provvidenza per gli uomini tante disgrazie che li affliggono, tante malattie che li opprimono, tante creature che loro sono nocevoli, tanti avvenimenti contrari ai loro desideri? Perché gli uni sono più ricchi degli altri? Donde viene anche, come domandava altre volte il santo Giobbe, che i giusti, i quali dovrebbero, a quel che pare, avere maggior parte ai favori della provvidenza, sono nelle tribolazioni, mentre gli empi prosperano e sono nell’allegrezza? Donde viene, dite voi, questa mescolanza di beni e di mali di cui la Provvidenza permette che la vita degli uomini sia ripiena? Perché amareggia le sue dolcezze coi rigori delle afflizioni che manda? – A tutto questo, fratelli miei, io non avrei che una risposta a fare: l’uomo ha peccato; ciò basta per giustificare la condotta della Provvidenza nei mali con cui l’affligge; in qualunque stato d’afflizione le piaccia di ridurci, niuno evvi che non debba convenire che lo ha meritato: Merito hæc patimur (Gen. XLII). Ma ho qualche cosa di più consolante a dirvi: la provvidenza di Dio percuote gli uomini, anche quelli che sono i più giusti, col flagello delle tribolazione. Ah! Cristiani, appunto in questo noi dobbiamo riconoscere la sua sapienza e la sua bontà, principalmente a riguardo dei giusti. Se la vita degli uomini non fosse attraversata da qualche avversità, essi non riguarderebbero più il mondo come un luogo d’esilio, vi attaccherebbero il loro cuore e dimenticherebbero totalmente del loro ultimo fine; non penserebbero ad alcun’altra felicità che a quella di quaggiù; e perciò Iddio sparge sopra la prosperità di cui godono salutevoli amarezze che li staccano dalla vita: si serve dell’avversità per trarre a Lui i peccatori e per provare la virtù dei giusti: Disponit omnia suaviter. Se i giusti sono nell’afflizione, mentre i peccatori sono nella prosperità e nell’allegrezza, ecco precisamente ciò che prova esservi un altro premio che quello di quaggiù. Ecco, o giusti, ciò che deve consolarvi delle vostre tribolazioni, ciò che deve farvi riconoscere una provvidenza piena di bontà che vuol condurci per una strada sicura al porto della salute. Qual motivo fortissimo di sottomettervi agli ordini di questa divina provvidenza! Vediamo quali sono i nostri doveri a suo riguardo.

II. Punto. Noi possiamo considerare la provvidenza di Dio per rapporto ai beni che ne riceviamo e  che ne possiamo ricevere, o per rapporto ai mali con cui ella ci affligge. Noi le dobbiamo essere grati per i favori che ci comparte, e fidarci a quella interamente per riguardo a quelli che può compartirci. Noi dobbiamo altresì sottometterci alle sue disposizioni per ricevere con rassegnazione i mali con cui ella ci affligge. Tali sono i nostri doveri verso la divina Provvidenza. La gratitudine è un dovere che la natura ispira alle nazioni più barbare, agli animali ancora, benché sforniti di ragione. L’amore che abbiamo per noi medesimi ci fa amare coloro che ci fanno del bene, e la speranza di ricevere ancora c’impegna a dimostrare loro la nostra riconoscenza. Noi abbiamo ricevuto ogni cosa da Dio, noi siamo debitori alla sua divina provvidenza di tutti i beni che possediamo; noi proviamo ad ogni istante la sua bontà, la sua cura, la sua vigilanza: che cosa più giusta che dimostrargli una riconoscenza universale, una riconoscenza continua! Riconoscenza universale che si estenda a tutti quei beni che riceviamo; riconoscenza continua che non sia giammai interrotta, ma duri sino all’ultimo respiro della nostra vita. – Infatti la riconoscenza deve esser proporzionata ai benefizi. Noi dobbiamo alla Provvidenza di Dio la vita, la nostra conservazione, la sanità, i talenti, o le forze, tutti i beni del corpo e dell’anima. Richiamiamo alla nostra memoria tutti i felici momenti, in cui abbiamo provata la sua tenerezza paterna. Alla vista di tanti benefizi, non dobbiamo noi forse essere penetrati dai medesimi sentimenti, che il reale profeta, allorché diceva: Anima mia, benedici il Signore tuo Dio, tutto ciò che è in me glorifichi il suo santo Nome; non perder giammai di vista i favori immensi, di cui ti ricolmò: Benedic, anima mea, Domino, et omnia quæ intra me sunt nomini sancto eius (Psal. CII). Tale deve essere, fratelli miei, la degna occupazione d’un’anima grata e riconoscente. Siccome i fiumi, dice s. Bernardo, ritornano all’origine donde vengono, così la riconoscenza rimanda i beni a Dio, che n’è l’Autore; e per un ammirabile flusso e riflusso fa scorrere su di noi nuovi torrenti, di favori; laddove l’ingratitudine ne arresta il corso e ne dissecca la sorgente. – Ma quanto è raro, che gli uomini ricolmi dei beni della Provvidenza le paghino il tributo, della giusta gratitudine che le debbono: essi s’indirizzano a Dio nei loro bisogni, nelle calamità che gli affliggono; formano voti per lo stabilimento della loro sanità, per ottenere stagioni favorevoli ai beni della terra. Dio si rende Egli propizio alle loro brame? Ingrati che sono, non pensano a ringraziarlo; essi ricevono i beni da Dio come se fossero loro dovuti; attribuiscono alla propria industria la buona riuscita dei loro affari, alla virtù dei rimedi il ristabilimento della sanità, l’abbondanza dei beni ai loro lavori, e dimenticano colui che n’è l’autore. Ditemi, di grazia, chi è tra di voi che abbia pensato a ringraziare Dio quando è uscito da quel cattivo affare che gli era stato suscitato, quando ha ricuperata la sanità, quando, la terra è stata per lui feconda? Voi non pensate al contrario per la maggior parte che a raccogliere con avidità i doni del Signore; sempre piegati verso la terra, voi non innalzate giammai gli occhi al cielo, donde vi vengono tutte le grazie etutti i beni che possedete. Che dico? Non vi servite voi dei benefizi del Signore per rendervi a Lui maggiormente ingrati, per appagare le vostre passioni malvagie? Ciò è un rivolgere i beni dativi da Dio contro Lui medesimo. Meritate voi dopo questo ch’Egli continui a beneficarvi? O piuttosto non meritate ch’Egli allontani da voi i suoi sguardi favorevoli, e che invece di farvi provare le ineffabili dolcezze della sua provvidenza, ve ne faccia sentire i rigori? Se a questo s’induce, voi ne siete la cagione, non vi lamentate della severità con cui vi tratterà, sono i vostri disordini che cagionano le vostre disgrazie. Voi volete che coloro che da voi sono beneficati abbiano per voi della riconoscenza; non è egli giusto che voi pure ne abbiate a riguardo di Dio? E se in vece di questa riconoscenza che gli dovete, pagate i suoi benefizi con ingratitudine dovete voi forse esser sorpresi che, invece di quella tenerezza paterna di cui vi ha date tante prove, provare vi faccia il suo sdegno? Badate dunque meglio ai vostri interessi, procurandovi con la riconoscenza le attenzioni favorevoli di un Dio pronto a farvi del bene; ma questa si manifesti principalmente col buon uso che voi farete dei doni di Dio, servendovi dei vostri beni per soccorrere i poveri della sanità, dei talenti per glorificare colui che ve li ha dati. La vostra riconoscenza sia non solamente universale, ma continua per ringraziare il Signore, in ogni tempo, in ogni luogo, dicendo col reale profeta: Io vi benedirò, o Signore, in ogni occasione; le vostre lodi saranno sempre nella mia bocca, e giorno e notte in campagna, in casa, nel vostro santo tempio: io non cesserò finché vivo di annunziare la vostra bontà per me: Benedicam Dominum in omni tempore  (Ps. XXXIII). Oh quanto sareste voi felici, fratelli miei, se foste sempre ripieni di questi sentimenti, e se alla riconoscenza che dovete a Dio per i beni che ne avete ricevuti aggiungeste ancora un’intera fiducia per quelli di cui avete bisogno!Potreste voi non mettere tutta la vostra fiducia nell’amorosa provvidenzadel nostro Dio, se consideraste in essaun padre che vi ama teneramente, una madre che vi porta nel suo seno? Questi sono i paragoni di cui Dio medesimo si serve per eccitare la vostra confidenza. Una madre, dice egli, può forse dimenticare il suo figliuolo? E quand’anche essa lo dimenticasse, ionon vi dimenticherò giammai. Evvi cosa più valevole per allontanare quelle inquietudini cui si abbandonano i piùdegli uomini per i bisogni della vita, che sono sempre in ambascia di ciò che diverranno nell’avvenire, che vivono inuna continua apprensione di mancare delle cose necessarie al loro sostentamento e a quello della loro famiglia? Uomini di poca fede, posso io loro qui dire dopo Gesù Cristo, pensate voi all’ingiuria che fate alla divina Provvidenza con una diffidenza così colpevole? Mentre questa diffidenza non può venire se non se dal credere voi o che Dio non conosce i vostri bisogni, o che Egli non vuole o che non può darvi gli aiuti che vi sono necessari. Or credere che Dio non conosca i vostri bisogni, che Egli non voglia o non possa alleggerirli, sarebbe far oltraggio alla sua sapienza che conosce tutto, alla sua bontà che vi ama, alla sua possanza che può tutto. Se voi aveste a fare con gli Dei delle nazioni pagane, che hanno orecchie e non odono, mani e non operano, avreste motivo di nulla aspettarne; ma servendo ad un Dio che conosce tutto, che vi ama e che può tutto quel che vuole, potreste voi mancar di confidenza nella sua bontà e nel suo potere? Abbandonatevi dunque interamente alla sua divina provvidenza,e proverete che non invano si mette in essa la propria fiducia: Jacta super Dominum curam tuam, et ipse te enutriet (Ps. XLIV). Mirate i popoli del nostro Vangelo, con qual confidenza seguono Gesù Cristo; benché molestation dalla fame, non gli chiedono neppure di somministrar loro di che sussistere,perché sanno benissimo che hanno a fare con un Dio, la cui bontà eguaglia la possanza, sperano che nonli rimanderà senza dar loro qualche alimento; perciò sperimentarono il meraviglioso effetto della loro confidenza nella sua bontà. Abbiate, fratelli miei, i medesimi sentimenti, a riguardo della Provvidenza di Dio, e non mancherete di provarne gli effetti. Se sino adesso voi avete sofferti urgenti bisogni, credete che avete mancato di confidenza.Ma, direte voi, io mi sono abbandonato alla Provvidenza di Dio; con ciò languisco sempre nella miseria, mentre ne vedo altri, cui ogni cosa riesce,cui la Provvidenza sembra prodigalizzare i suoi favori. A questo, fratelli miei, ecco quel che ho da rispondere:voi non avete provati, dite voi, gli effetti di questa viva confidenza che avete posta in Dio; conviene dunque, o chela vostra confidenza non sia stata ferma ed intera, o che non sia accompagnata da quella santità di vita che trae sui giusti le attenzioni favorevoli della provvidenza; o finalmente che le cose che avete domandate non vi siano necessarie o siano anche di pregiudizio alla vostra salute. Se la vostra confidenza non è stata ferma ed intera, se voi non avete fatto ricorso a Dio che dopo aver provata la debolezza dei soccorsi umani, bisogna forse meravigliarsi che Dio vi abbia rigettati e vi abbia rimandati agli dei stranieri, su cui vi siete appoggiati? Dii, in quibus habebant fiduciam …. surgant et opitulentur vobis (Deut. XXXII). Bisogna ancora che la vostra confidenza non sia stata sostenuta da una vita santa, che sola meritai favori della Provvidenza; mentre non si è mai veduto, dice il profeta,il giusto abbandonato da Dio né i suoi figliuoli cercare pane: Non vidi iustum derelictum nec semen eius quærens panem (Ps. XXXVI). Per quanto vi crediate giusti, potete voi accertarvi che non abbiate irritata l’ira di Dio con qualche mancamento che debba essere espiato col fuoco della tribolazione? Se finalmente la vostra confidenza non è ricompensata da una prosperità temporale conforme ai vostri desideri, credete, fratelli miei, che essa non vi è necessaria, che sarebbe eziandio funesta alla vostra salute. Iddio sa meglio di voi quel che vi fa di mestieri: lasciate operare la provvidenza, e nulla vi mancherà di ciò che vi sarà necessario: Dominus regit me , et nihil mihi deerit (Psal. XXII). Altrimenti converrebbe dire che Dio mancasse alla sua parola, il che non sarà giammai; ma ricordatevi altresì di agire dal canto vostro per cooperare alle cure della sua provvidenza, mentre non pretende essa favoreggiare una confidenza oziosa che non mettesse la mano all’operare per secondare i suoi disegni. Dio vuole che ci appoggiamo sopra di Lui per quello che non dipende da noi, ma vuole altresì che operiamo secondo il nostro potere;vuole che la nostra confidenza scacchi ogni sollecitudine sopra i bisogni della vita, ma non biasima, anzi esige dal canto nostro una diligenza ragionevole, un lavoro moderato per la riuscita degli affari temporali; ed è forse per troppa ansietà e per vostra negligenza che avete arrestato il corso dei suoi lavori.Ma finalmente, fratelli miei, io voglio che ad una intera fiducia nella Provvidenza di Dio, sostenuta dalla santità della vita, voi aggiungiate dal canto vostro le attenzioni ed il lavoro che la prudenza cristiana richiede da voi, e che tuttavia le vostre fatiche non siano soddisfatte, che gemiate al contrario sotto il peso delle afflizioni. Che dovete voi fare? Il vostro dovere è di sottomettersi ai decreti della divina provvidenza. Io non vi richiamerò già i motivi di questa sottomissione che vi ho proposti nel primo punto, allorché vi ho detto che il Signore dispensa come gli piace i beni e di mali della vita, che solo per nostro bene Egli ci affligge e che sa volgere a nostro vantaggio le afflizioni che ci manda. Il migliore partito è dunque di sottomettervi e di adorare la mano che vi percuote; mentre, che cosa guadagnereste voi con l’abbandonarvi all’impazienza e ai lamenti? Non fareste che rendervi più colpevoli o più infelici. Qualunque cosa far possiate, non impedirete al Signore di fare quello che gli piace. Voi non potete, dice Gesù Cristo, con tutti i vostri sforzi aggiungere un cubito, neppure un pollice,alla vostra statura: invano dunque vi tormentereste per uscire dallo stato in cui siete ed innalzarvi ad uno stato più distinto: la Provvidenza che vi ha collocati in questo stato, vuole che vi dimoriate; ella innalza ed abbassa, mortifica e vivifica coloro che le piace: Dominus mortificat et vivifìcat, pauperem facit et ditat (1 Reg. 2) Egli è il padrone, non tocca a noi di chiedergli conto della sua condotta; se vuole che voi siate nella indigenza e nell’umiliazione, dovete essere contenti della vostra sorte. Dio, che vuole la vostra salute, che sa che vi perdereste in un altro stato, non vuole ad esso innalzarvi.Se fosse necessario per esser salvi avere beni e sanità, Dio non mancherebbe di darveli; giacché non veli dà,voi dovete dunque credere che ve ne priva per vostro bene: allorché Egli vi affligge con malattie, con sinistri accidenti, con le calamità dei tempi, voi non conoscete allora perché Dio vi tratti con severità; ma lo conoscerete in appresso, lo conoscerete al giudizio di Dio, lo conoscerete nella eternità beata, ove riceverete la ricompensa dei vostri travagli; Scies autem postea. Sottomettetevi dunque, torno a dire, alle disposizioni della divina Provvidenza, ricevete dalla sua mano, ad esempio del santo Giobbe, i mali ugualmente che i beni: Si bona suscepimus de manu Domini, mala quare non suscipiamus ( Job II)? Così nell’avversità, come nella prosperità, benedite incessantemente il santo Nome del Signore, sull’esempio del reale profeta: Benedicam Dominum in omni tempore. Voi troverete in questa sottomissione la pace dell’anima ed un pegno sicuro della felicità eterna. Così sia.

Credo …

https://www.exsurgatdeus.org/2019/10/12/il-credo/

Offertorium

Orémus

Ps XVI: 5; XVI: 6-7 Pérfice gressus meos in sémitis tuis, ut non moveántur vestígia mea: inclína aurem tuam, et exáudi verba mea: mirífica misericórdias tuas, qui salvos facis sperántes in te, Dómine.

[Rendi fermi i miei passi sui tuoi sentieri, affinché i miei piedi non vacillino: porgi l’orecchio ed esaudisci la mia preghiera: fa rispleyndere le tue misericordie, o Signore, Tu che salvi quelli che sperano in Te.]

Secreta

Propitiáre, Dómine, supplicatiónibus nostris, et has pópuli tui oblatiónes benígnus assúme: et, ut nullíus sit írritum votum, nullíus vácua postulátio, præsta; ut, quod fidéliter pétimus, efficáciter consequámur.

[Sii propizio, o Signore, alle nostre suppliche, e accogli benigno queste oblazioni del tuo popolo; e, affinché di nessuno siano inutili i voti e vane le preghiere, concedi che quanto fiduciosamente domandiamo realmente lo conseguiamo.]

Comunione spirituale:

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Communio

Ps XXVI: 6 Circuíbo et immolábo in tabernáculo ejus hóstiam jubilatiónis: cantábo et psalmum dicam Dómino. [Circonderò, e immolerò sul suo tabernacolo un sacrificio di giubilo: canterò e inneggerò al Signore].

Postcommunio

Orémus.

Repléti sumus, Dómine, munéribus tuis: tríbue, quæsumus; ut eórum et mundémur efféctu et muniámur auxílio.

[Colmàti, o Signore, dei tuoi doni, concédici, Te ne preghiamo, che siamo mondati per opera loro e siamo difesi per il loro aiuto.]

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https://www.exsurgatdeus.org/2019/05/20/ordinario-della-messa/

LO SCUDO DELLA FEDE (119)

Paolo SEGNERI S. J.:

L’INCREDULO SENZA SCUSA

Tipogr. e libr. Salesiana, TORINO, 1884

PARTE PRIMA

CAPO XXXI.

Si mostra che se l’anima non fosse immortale, la virtù sarebbe vizio, il vizio virtù.

I. Fu già tempo, che il mondo mal noto fino a se stesso, non sapeva d’essere, se non secondo la metà sola di sé. Quindi è, che gli antipodi furono lungamente tenuti non pur dal volgo, ma ancora da’ gran maestri, per popoli favolosi (Tract. inst. 1. 3. c. 34): quasiché gli abitatori di un paese opposto, nel pianeta mondiale, ai pie nostri, dovessero per necessità stabilire capovolti: gli alberi dovessero quivi tener le radiche, dove anderebbero le cime; e le rugiade e le piogge e le procelle e le grandini strepitose non dovessero colà portarsi all’ingiù (quando volevano beneficare le campagne, o spiantarle), ma portarsi all’insù, come fanno le esalazioni; ho dovessero scendere, ma salire. Tanto dilungasi dal sentiero della verità ne’ discorsi chi prende per sua guida la fantasia, più che la ragione; non riflettendo che il giù e il su sono termini relativi, che non hanno la loro denominazione, se non dal centro che è situato fra gli antipodi e noi. Ma vaglia il vero, quanto andava già errata tal conseguenza di stravolgimento ridicoloso, (come appunto ridicola è la teoria eliocentrica e la forma sferica della terra – ndr-) posti gli antipodi, tanto or sarebbe accertata, posto che l’anima dovesse anch’ella sortire i suoi funerali come i giumenti. Conciossiachè rimarrebbe allora stravolto nell’universo tutto il sistema, non fisico, ma morale, che è un disordine molto più luttuoso: mentre la virtù verrebbe a tenere il grado del vizio, e il vizio a tenere il grado della virtù: anzi non solo si confonderebbero i posti, ma si cambierebbero ancora l’essenze loro, tanto che la virtù diverrebbe vizio, il vizio virtù. Mostriamolo con chiarezza: giacché questo argomento è così robusto, che solo vale ad abbattere ogni intelletto non pervicace.

I.

II. Tutte le genti, benché sì diverse d’istinti e d’istituzioni, si sono continuamente accordate in ciò di fare una stima somma della fortezza. Un guerrier prode da chi non è riverito? Vien posto a conto, per dir così, di un esercito: e sembra che ciascuno in vederlo gli dia quel vanto che ricevette in Roma un leon famoso per le gran prove fatte colà da lui nell’anfiteatro, pugnando coll’altre fiere: Quis non esse gregem crederet? Unus erat (Mart. 1. 8. epig. 32). Ora questa virtù così luminosa, la quale ha per oggetto suo principale il disprezzare i pericoli, e massimamente i pericoli più tremendi, quali sono quei della morte (Ethic. 6. 1. 3): questa virtù, dico, non sarebbe oro, ma scoria, qualunque volta l’anima fosso caduca (S. Th. 2. 2. q. 123. art. 4). Ve lo dimostro. La virtù non è altro che una disposizione a conseguire il suo fine, mediante l’opera che ella imprende. Virtus est dispositio perfecti ad optimum (Arist. 1. 7. phys. toxt. 17. et 18): e si dice ad optimum: perciocché l’ottimo ad ogni natura si è quello ch’ella ha per fine, siccome il pessimo è quello che più si oppone all’ultimo fine dell’istessa natura (S. Th. 1. 2. q. 110. a. 3. in c. et 2. 2. q. 23. a. 7. in c); come scorgerà chiaramente tra se medesimo chiunque ha fior di discernimento. Pertanto, se l’anima fosse mortale, il suo fine ultimo sarebbe al certo il durare più che le fosse possibile unita al corpo, senza di cui perduto avrebbe ogni bene. Onde l’operazione più perfetta della fortezza, che è il morire per difender l’amico, il padrone, la patria, la Religione, si opporrebbe allor per diametro all’ultimo fine dell’uomo: e posto ciò, una tal operazion virtuosa, per verità non sarebbe virtù, ma vizio, e sulle bilance d’una retta ragione non passerebbe por moneta legittima, ma falsata (Gregor. de Valent. in 1. p. dis. 6. q. 1. p. 3 § 2. prob.).

III. Direte subito che dovendo il ben pubblico preponderare al privato, non sarebbe in tal caso all’uomo disconvenevole non curare il suo fine, per sacrificarlo alla pubblica utilità. Ma non vi apponete. Conciossiachè, essendo l’uomo fatto in grazia di se medesimo, e non d’altrui, come sono fatte le bestie, non poteva dalla virtù venire obbligato ad amare il proprio disfacimento, né ad incontrarlo, in grazia di verun altro simile a lui, mentre ciò sarebbe stato obbligarlo ad amare il suo prossimo più di sé, contro di ciò che vuole ogni legge: Amicabilia enim, quæ sunt ad alterum, veniunt ex amicabilibus. quæ sunt ad se ipsum, come il filosofo insegna (Arist. 1. 9. eth. c. 8): infino a tanto, che presuppongasi l’anima non perire insieme col corpo, cammina bene: perché restando ella immortale, una morte onesta del corpo non è per lei funerale odioso, ma nascita a miglior

vita. E cosi, quando al presente noi moriamo per altri, niun altro amiamo in tal atto, se guardasi intimamente, più di noi stessi; mercecché con un tal atto ad altrui vogliamo un bene caduco, qual è la difesa delle loro sostanze, o proli, o persone, ed a noi ne vogliamo un eterno, qual è quel che ci viene dalla virtù, mezzo unico a farci diventare beati per tutti i secoli. Ma non così quando perisse l’anima in un col corpo. Allora ella non avrebbe più che sperare per tutta l’eternità. E però, come può stare, che la virtù la quale è il bene sommo dell’uomo, abbia a divenire per lui la somma miseria, privandolo d’ogni bene? Non sarebbe allor la virtù una perfezione nella natura umana, a tutti amorevole, ne sarebbe un di struggimento; e così non sarebbe virtù, ma vizio.

IV. Ne vale il ripigliare che l’uomo forte potrebbe allora per nobile ricompensa del suo morire sperar la gloria, che è un’altra spezie di vita, per cui sopravanzerebbe alle proprie ceneri, nell’immortalità della fama. Bellissime vanità! Se alla virtù volesse darsi per mercede la gloria, sarebbe un voler pagarla, o piuttosto beffarla col suon dell’oro.

V. Primieramente la gloria che si dà all’uomo non è altro che un segno della virtù la quale lo adorna. Conviene adunque che ella sia un bene inferiore al significato. Ma se è bene inferiore della virtù, come dunque può essere tutto il premio?

VI. Di più la gloria viene talora attribuita largamente anche al vizio; onde se ella è segno di virtù, non è segno certo; non discernendo il popolo così bene la via di mezzo, ma confondendo il temerario col prode, come confonde il prodigo col liberale, il timido col sensato, il tetro col serio, il giusto col rigoroso. Adunque non può la gloria dirsi mai la corona della virtù, mentre bene spesso si vede in fronte anche al vizio, che n’è sì indegno.

VII. Senza Dio l’operare per gloria umana non perfeziona giammai l’atto virtuoso, ma lo distrugge, e con lasciargli l’apparenza di bello gli toglie la realtà. Onde è che un atto di fortezza anche sommo, il qual procedesse, non da motivo di onestà, ma di vanto, sarebbe quasi un cadavere di virtù, tanto sarebbe insensato. Si aggiunge, che la virtù più consiste negli atti interni, i quali perfezionano l’uomo quasi un tesoro nascosto, che negli esterni (Arist. eth. 1. 4. c. 8 ) . Onde come può ella mai dalla gloria riportar premio compito di sé? Al più lo può riportare di quella poca parte di sé che apparisce agli occhi de’ riguardanti, or lividi, or loschi.

VIII. E se è così, qual bene è mai questa gloria, che l’uomo forte abbiala da comperar volentieri a sì grave costo, quale è quello del proprio annichilamento? Sicuramente, annichilato che fosse, non potrebbe egli ascoltar già quelle lodi che a lui si dessero dai posteri ammiratori del suo coraggio. E però qual frutto il meschino ne ritrarrebbe, morto al piacer dell’immortal suo nome? Non si potrebbe neppure dir che riposasse all’ombra dell’umana felicità (quando anche di tal nome vogliamo onorar la gloria), non che dir, che gustassene un puro saggio: Quœ post fata venit gloria, sera venit (Mart.). Dal che, per concludere, finalmente avverrebbe, che il supremo atto della fortezza, virtù di eroi, non solamente fosse incapace di premio, ma recasse in dote al virtuoso il sommo de’ mali, che è farlo ricader nell’antico nulla. E una virtù cosi barbara, potrebbesi allora dir che fosse virtù? Virtù allora sarebbe piuttosto i1 vizio: che è l’altra proposizion che io dovea provare, ed or ve la proverò.

II.

IX. Un intemperante a gran ragione vien riputato tra gli uomini quasi un porco. Ma se all’intemperanza si congiunga in lui la ingiustizia, sarà un cignale, non solo deforme in sé, ma dannoso ad altri, disertatore d’ogni giardino più bello che trovi aperto. Tuttavia se l’anima avesse i limiti del viver suo non più ampli, che gli abbia il corpo, l’intemperanza e l’ingiustizia sarebbero non più colpa nell’uomo, ma abbellimento, siccome quelle che non dovrebbero partorirgli più biasimo, ma splendore.

X. E quanto alla intemperanza, è manifesto, che se l’anima dovesse restare oppressa dalle rovine delle sue membra, il sommo bene che a lei fosse possibile, sarebbe tenerle in piedi, e il sommo male dar loro occasione alcuna di cedere, di crollare, di indebolirsi. E però siccome la più laudevol cosa che sia nell’uomo è cercare il suo bene sommo: così allora la più laudevole cosa che fosse in lui sarebbe nutrir bene il suo corpo vile, ingrassarlo, invigorirlo e saziarlo di tutti quei godimenti che fosser atti a tenerlo più consolato. Sicché quell’epitaffio brutale, che già Sardanapalo fé incidere alla sua tomba: Hæc habui, quæ edi, quæque exsaturata voluptas hausit; laddoveè una iscrizione degna di porsi alla sepolturad’un asino, sarebbe allora quasi un compendio di arcana filosofia. E diffatto per qual ragioneè degna di lode la temperanza, se non perché fa ubbidire il corpo allo spirito, noncurante di ciò che passa, per meritarsi quel ben che non passa mai?Ma se, mancando il corpo, mancasse ancora lo spirito, dovrebbe lo spirito, tutto da lui dipendente, ubbidire al corpo, senza cui nulla avrebbe mai che sperare di utilità. Adunque la temperanza non sarebbe allora laudevole, ma viziosa. È lode forse a un cavallo proposto in vendita, dir che egli è un cavallo astinente? Anzi è il suo biasimo sommo. La maggior lode che sulla fiera a lui porgasi, è dire che ha buona bocca;mercecchè non essendo quella bestia capacedi fin più alto, che di vivere un pezzo gaia e gagliarda, sarebbe vizio per lei quella continenzala qual si oppone a un tal fine, ed havirtù quella voracità che più che altro la aiutaad esso, volendo che ella non resti d’empire il ventre fintantoché il calor naturale, mal soddisfatto, le dice, mangia.

XI. All’istessa maniera sarebbe virtù nell’uomo anche l’ingiustizia. Figuratevi un uomo, che non conosca altra regola che il suo senno, né altra ragione che la sua spada. Un uomo, che non si stimi venuto al mondo, senonchè solo, qual luccio in acqua, per nuocere a quanti può. Un uomo, il quale per pompa di maggioranza vanti le soverchierie da lui fatte ad ogni suo prossimo, e ne derida con egual fasto le accuse e le approvazioni; questi dico (se il corpo avesse un dì a divenir sepolcro dell’anima, come ora n’è abitazione), questi è colui che si dovrebbe riputare il più degno di dominare su tutti gli uomini, come il più virtuoso che tra lor fosse: questi più d’ogni altro sarebbesi incamminato per via diritta all’ultimo fine, che sarebbe allora di farsi apprezzar da tutti; e questi parimente darebbe allor più nel segno di conservarsi, di contentarsi, di vivere a modo suo. In un tal caso sarebbe lecito il rompere ogni amicizia, il mentire, il malignare, il negare la fede data, quando tutto ciò fosse mezzo il più compendioso ad evitare la morte, o a migliorare la condizione di quella vita mortale che sarebbe allora il sostegno di ogni altro bene. Che stare allora a vantar più quell’onorato Demetrio, che tentato da Cesare a tradir la giustizia, colla promessa di magnificentissimo donativo, rispose acceso di sdegno, che l’imperio tutto di Roma non era prezzo bastevole a subornarlo: Si tentare me Cæsar constituerat, toto illi fui experiendus imperio. Invano Seneca si aiuterebbe allora tanto a esaltare fino alle stelle una tal risposta; mentre, quanto più savio è quell’elefante il quale, a salvar la vita, getta a’ cacciatori l’avorio che tiene in bocca, tanto più stolto sarebbe allor quel Demetrio che non accettasse ogni acquisto, ogni avanzamento, ma stimasse più la parola, che la disgrazia di Cesare, provocato da quel contegno. Che parola? che lealtà? che giustizia? che gratitudine? che costanza, se muore l’anima? Niun bene dee più stimarsi del sommo bene. Niun male dee più scansarsi del sommo male. Ora, se l’anima fosse mortale anch’essa, il suo sommo bene sarebbe vivere lungamente, il suo sommo male il morire. E però ogni ragione vorrebbe allora, che l’uomo, per allungare la vita, o per migliorarla, desse da sé bando espresso ad ogni altro affetto: né sarebbe in tal atto più biasimevole di ciò che sia quel mercante, il quale, a salvar la nave, getta in mare ogni cassa, che già non gli è nella tempesta più d’utile, ma di danno.

III.

XII. Ed eccovi come nello sconvolgimento morale di cui trattiamo la virtù sarebbe vizio, il vizio virtù. E vi par questo disordine da passarsi per tollerabile? Se fosse ciò, dunque ne seguirebbe, che in questo mondo Iddio trattasse da famigliari e domestici i suoi nemici, e da nemici i suoi famigliari e domestici. Uno degli effetti propri dell’amicizia è la manifestazione dei segreti. Ora questo sì grande arcano, che colla morte finisca il tutto, finiscano tutte le pene, finiscano tutti i premi, sarebbe nascostissimo a tutti i buoni, che con tanto lor costo vanno dietro le insegne della onestà; e per l’opposito sarebbe noto a quegli empi, che più dissolutamente si danno al male. Onde gli empi sarebbero quei domestici ammessi nel gabinetto a sapore il vero; e i buoni sarebbero gli stranieri tenuti all’uscio.

XIII. Anzi di vantaggio, il mezzo per arrivare a questa familiarità sì stretta con Dio sarebbe lo strapazzarlo solennemente; mentre vediamo, che quanto uno diventa nel suo vivere più sacrilego, o più sfrenato, tanto più facilmente egli inclina sempre a persuadersi, che l’anima sia mortale. Onde, come avviene colla pianta del balsamo, così avverrebbe parimente con Dio. Chi più attendesse a ferirlo, più ne spremerebbe di sugo di verità.

XIV. Che so lo sparviere, quando è pasciuto troppo, non sa volare bene in alto a raggiungere la sua preda, nel caso nostro succederebbe il contrario. La mente umana non si solleverebbe mai più speditamente ad arrivare queste verità sublimissime, e ad arrestarle, che quand’ella fosse gravata più d’ogni laida scelleratezza. E la coscienza di un empio così perduto sarebbe quella che dovesse posar più pacatamente: mentre a lei sarebbe toccato in sorte d’apporsi nei suoi giudizi, allora che si propose voler di qua tutta la felicità immaginabile, lasciando a chi la volesse quella che si potrebbe sognar di là.

XV. Sapete voi pertanto mai figurarvi stravolgimento di cose più sregolate? Questo sì che sarebbe un vero tenere i piedi dove va il capo, e un vero tenere il capo ove vanno i piedi: mentre questo sarebbe un camminare al rovescio di quanto detta, non la fantasia solamente, ma la ragione. E a voi piace seguir opinion si bella? Oh che stolidezza! Fate ciò che volete. Il vostro intelletto conviene che provi spasimi intollerabili, quando abbia da inchinarsi a tali spropositi, e dirvi: Sì. i buoni in questo mondo hanno ad essere ingannati? Gli scellerati hanno ad essere gli intendenti? – Nol dirà mai.