IL MERITO NELLA VITA SPIRITUALE (2)

IL MERITO NELLA VITA SPIRITUALE (2)

[E. Hugon: Le mérite dans la vie spirituelle, – LES ÉDITIONS DU CERF JUVISY — SEINE-ET-OISE – 1935]

III.

IL PRINCIPIO DEL MERITO

La grazia è il primo e radicale principio dal quale procede il merito: così come la nostra anima è la fonte delle nostre azioni, così come il tronco dell’albero è la causa dei fiori e dei frutti; così come l’albero porta frutto attraverso i suoi rami, e l’anima opera attraverso le sue facoltà, così la grazia produce l’opera salutare e meritoria attraverso l’intermediazione delle abitudini infuse, cioè: le virtù teologali, che hanno Dio come oggetto e sono radicate nella vita divina; le virtù morali, con le loro innumerevoli ramificazioni; i doni dello Spirito Santo, che ci dispongono a ricevere il tocco del divino Paraclito in modo docile e sono in noi come dei germi di eroismo, come una pianta il cui eroismo è il fiore o una lira il cui eroismo è il suono. Ora è in virtù della carità che la grazia è il principio del merito, cosicché gli atti delle altre virtù diventano meritevoli nella misura in cui sono informati dalla carità. Certamente la carità non è l’unica ad essere incoronata, l’unica virtù che onori Dio (cfr. Concilio di Trento, cap. X e XVI del sess. VI, e le prop. 55 e 56 condannate in Quesnel, – apud Denzinger, 1405, 1406). L’impulso e il motivo delle altre virtù sono lodevoli; possono tutte ascendere a Dio; ma è essa che le dirige, che le informa, che le rende gradevoli al supremo Remuneratore. Allo stesso modo, infatti, che la volontà è la potenza maestra che comanda tutte le altre, la carità è la regina che impone i suoi ordini a tutte le virtù (cf. S. Tommaso, Ia, IIa, q. 114, art. 4); essa è anche l’organo della vita attraverso il quale la grazia fa giungere il merito ai vari atti, così come il cuore irrora sangue in ogni parte del nostro corpo. La Scrittura indica soprattutto il motivo della carità nelle opere che Dio benedice: è perché esse sono fatte per amore, nel nome di Gesù, per la gloria di Dio: « In nomine meo, quia Christi estis… omnia in gloriam Dei facite » (S. Marco IX, 40; I Cor. XI; Colos., III, 17). San Paolo dichiara che gli atti, per quanto squisiti, della fede più convinta, come trasportare montagne, subire le torture del fuoco, hanno valore per la vita della carne solo se ispirati dalla carità (I Cor. XIII, 1-3). Le nostre opere, infatti, per essere degne di merito, devono essere degne di Dio, devono essere dirette verso il nostro fine ultimo; ed è la carità che le dirige verso questo destino. Poiché la carità è la virtù sovrana, essa governa tutte le altre virtù; poiché ha per oggetto il fine universale, deve comandare a dei fini particolari, dirigere tutte le abitudini con i loro atti verso la meta unica e suprema. Poiché nessun mezzo è messo in atto se non per il desiderio del fine ultimo, nessuna opera sale effettivamente a Dio se non attraverso la carità (cf. “Fuori dalla Chiesa nessuna salvezza”, 2a ed., pp. 186-7). Ma in cosa consiste questo impero della carità senza il quale le nostre opere sarebbero sterili? Qui alcuni teologi si allontanano da San Tommaso; secondo alcuni è sufficiente un’influenza abituale che deriva dall’esistenza stessa della carità nell’anima (cf. Vasquez, Disp. CXXVII, CCXVII); secondo altri, l’influenza abituale è sufficiente per gli atti di virtù soprannaturali, ma l’influenza abituale è necessaria per gli atti di virtù acquisite (cf. Vasquez, Disp. CXXVII, CCXVII;. Suarez, de Gratia, XII, c. VIII-X; Mazzella, De virtutibus infusis, n. 134.); secondo San Tommaso e la sua scuola, non è richiesta l’influenza attuale, ma è necessaria per tutti i casi almeno l’influenza virtuale (molti altri teologi concordano qui con il Dottore Angelico, v. g. San Bonaventura, II Sent, diss. 4; Bellarmino, De Justif., cap. XV.2). – Non vogliamo entrare in discussioni scolastiche; basterà qui esporre la dottrina del Dottore Angelico. – L’influenza abituale è insufficiente, perché, come osserva il santo Dottore, nessuno opera finché le sue energie rimangono nello stato abituale (S. Tommaso, Il Sent., dist. 40, q. I, a. 5, ad 6.). Non è necessario, invece, che l’intenzione attuale intervenga in ogni azione per indirizzarla verso l’ultimo fine; ma deve esserci un’intenzione virtuale, una scossa efficace che continui anche dopo la cessazione dell’ordine. Ora tutto ciò presuppone un precedente atto di pensiero e di volontà, che ha ordinato tutti i seguenti atti e continua in essi, come impulso dell’inizio, nel movimento che ha provocato: Sed oportet quod prius fuerit cogitatio de fine, qui est caritas, et quod ratio actionnes sequentes in finem ordinaverit (S. Thom., II Sent., dist. 38, q. I, art. I, ad 4). La nozione stessa di merito richiede che le opere siano soprannaturali e si riferiscano al fine ultimo. Ora gli atti delle virtù acquisite non sono essenzialmente soprannaturali, ma lo sono nella misura in cui l’intenzione della carità le ha diretti e fecondati. Quanto agli atti delle virtù infuse, pur essendo di per sé soprannaturali, essi sono effettivamente legati al fine ultimo ed alla gloria di Dio solo se sono informati dalla virtù che ne ha per oggetto il fine ultimo, cioè quella carità divina alla quale appartiene il muovere le altre virtù e dirigere i loro atti, così come nell’ordine naturale la volontà mette in moto tutte le altre facoltà e le applica ai rispettivi atti. Questa direzione, questo orientamento, questo scossone, implica necessariamente un atto la cui energia si mantiene in tutta la serie di movimenti che ne derivano. E questo è proprio quello che chiamiamo l’influenza virtuale della carità.

IV.

IN PRATICA, TUTTI GLI ATTI DEL GIUSTO CHE NON SONO PECCATI VENIALI SONO MERITORI.

San Tommaso afferma molto categoricamente che, nell’uomo in stato di grazia, non può esserci atto di indifferenza: se l’atto è buono, è meritorio; se non è buono, è demeritorio. Peccatori e miscredenti possono certamente nascondere certi atti che non sono meritori, non ancora vivificati dalla grazia, ma che, d’altra parte, conservano la loro naturale bontà (Spieghiamo a suo lungo questa dottrina in Fuori dalla Chiesa Nessuna salvezza, 2a ed., pp. 59 e segg.), come onorare i genitori, pagare i debiti, rispettare la fede dei giuramenti e dei trattati. Nel giusto, invece, l’atto che è buono nell’ordine naturale assume anche, per l’influsso della carità, il carattere del merito: Habentibus caritatem omnis actus est meritorius vel demeritorius (S. Thomas, Quæst. Disp., de Malo, q. 2, a. 5, ad 7). Abbiamo esposto altrove questo insegnamento del Maestro Angelico (Marie pleine de grâce, pp. 114-116, Parigi, Lethielleux). Lo stato di giustizia, infatti, richiede la carità, e la carità è attiva: non può non provocare, eccitare le nostre energie, inclinarle verso Dio. Essa orienta la nostra intenzione originaria verso il fine ultimo, e con questo primitivo movimento comunica la sua influenza a tutte le virtù, così come la volontà impone il suo comando a tutte le potenze: questo impulso continua anche dopo che l’ordine sia cessato; rimane ancora nelle virtù e nelle opere, e in questo modo tutte le nostre opere sono vivificate dalla carità e diventano meritorie. – Stimolata dalle sue forze native ad agire, la carità rinnova il suo impulso abbastanza spesso affinché la nostra intenzione sia sufficientemente diretta verso Dio, affinché tutti i nostri buoni atti siano coinvolti da questo impulso generale e trasportati nell’eternità. Ecco come tutte le azioni del giusto vengono trascinate nella corrente che santifica, come in virtù dell’impressione ricevuta rimangono sempre orientate verso il fine della carità e si relazionano con Dio, senza che noi, attualmente, ci pensiamo. Nel bere e mangiare secondo la misura della temperanza, avere una onesta ricreazione, in tutto quanto è fuori dal cerchio della volgarità, non c’è più nulla della banalità: tutto è grande, tutto è nobile, perché queste azioni hanno come misura l’eternità che ne è in gioco. Riassumiamo questa bella e consolante dottrina in un unico argomento: ogni buona azione si riduce alla fine ad una virtù, ogni virtù converge verso il fine della carità, perché la carità è la regina che comanda tutte le virtù, così come la volontà comanda tutte le potenze. Tutti gli atti buoni sono quindi legati al fine della carità, sono soggetti alla sua influenza, e diventano meritori. Le azioni che sfuggono a questo impero universale sono necessariamente al di fuori del fine ultimo, squilibrate, macchiate dal demerito. Questo, in una parola, è lo scopo di questo insegnamento tomistico: nel giusto, ogni atto ragionevole e deliberato deve essere o all’interno del cerchio dell’ultimo fine e, così vivificato dalla carità, è meritorio; o al di fuori di questo cerchio, e così è disordinato e peccato veniale: Habentibus caritatem omnis actus est meritorius vel demeritorius.

https://www.exsurgatdeus.org/2020/07/20/il-merito-nella-vita-spirituale-3/