DOMENICA II DOPO PENTECOSTE (2020)

DOMENICA NELL’OTTAVA DEL CORPUS DOMINI

II DOPO PENTECOSTE

(Messale Romano di S. Bertola e G. Destefani, comm. di D. G. LEFEBVRE O. S. B; L. I. C. E. – R. Berruti & C. Torino 1950)

Semidoppio. – Paramenti bianchi.

La Chiesa ha scelto, per celebrare la festa del Corpus Domini, il giovedì che è fra la domenica, nella quale il Vangelo parla della misericordia di Dio verso gli uomini e del dovere che ne deriva per i Cristiani di un amore reciproco (la dopo Pentecoste) e quella (II dopo Pentecoste) nella quale si ripetono le stesse idee (Epist.) e si presenta il regno dei cieli sotto il simbolo della parabola del convito di nozze (Vang.).  [Questa Messa esisteva coi suoi elementi attuali molto prima che fosse istituita la festa del Corpus Domini. Niente infatti poteva essere più adatta all’Eucaristia, che è il banchetto ove tutte le anime sono unite nell’amore a Gesù, loro sposo, e a tutte le membra mistiche. Niente poi di più dolce che il tratto nel quale si legge nell’Ufficio la storia di Samuele che fu consacrato a Dio fin dalla sua più tenera infanzia per abitare presso l’Arca del Signore e diventare il sacerdote dell’Altissimo nel suo santuario. La liturgia ci mostra come questo fanciullo offerto da sua madre a Dio serviva con cuore purissimo il Signore nutrendosi della verità divina. In quel tempo, dice il Breviario, « la parola del Signore risuonava raramente e non avvenivano visioni manifeste », poiché Eli era orgoglioso e debole, e i suoi due figli Ofni e Finees infedeli a Dio e incuranti del loro dovere. Allora il Signore si manifestò al piccolo Samuele poiché « Egli si rivela ai piccoli, dice Gesù, e si nasconde ai superbi », e S. Gregorio osserva che « agli umili sono rivelati i misteri del pensiero divino ed è per questo che Samuele è chiamato un fanciullo ». E Dio rivelò a Samuele il castigo che avrebbe colpito Eli e la sua casa. Ben presto, infatti l’Arca fu presa dai Filistei, i due figli di Eli furono uccisi ed Eli stesso mori. Dio aveva così rifiutato le sue rivelazioni al Gran Sacerdote perché tanto questi come i suoi figli non apprezzavano abbastanza le gioie divine figurate nel « gran convito » di cui parla in questo giorno il Vangelo, e si attaccavano più alle delizie del corpo che a quelle dell’anima. Così applicando loro il testo di S. Gregorio nell’Omelia di questo giorno, possiamo dire che « essi erano arrivati a perdere ogni appetito per queste delizie interiori, perché se n’erano tenuti lontani e da parecchio tempo avevano perduta l’abitudine di gustarne. E perché  non volevano gustare la dolcezza interiore che loro era offerta, amavano la fame che fuori li consumava». I figli d’Eli Infatti prendevano le vivande che erano offerte a Dio e le mangiavano; ed Eli, loro padre, li lasciava fare. Samuele invece, che era vissuto sempre insieme con Eli aveva fatto sue delizie le consolazioni divine. Il cibo che mangiava era quello che Dio stesso gli elargiva, quando, nella contemplazione e nella preghiera gli manifestava i suoi segreti. « Il fanciullo dormiva» il che vuol dire, spiega S. Gregorio, «che la sua anima riposava senza preoccupazione delle cose terrestri ». « Le gioie corporali, che accendono in noi un ardente desiderio del loro possesso, spiega questo santo nel suo commento al Vangelo di questo giorno, conducono ben presto al disgusto colui che le assapora per la sazietà medesima; mentre le gioie spirituali provocano il disprezzo prima del loro possesso, ma eccitano il desiderio quando si posseggono; e colui che le possiede è tanto più affamato quanto più si nutre ». Ed è quello che spiega come le anime che mettono tutta la loro compiacenza nei piaceri di questo mondo, rifiutano di prender parte al banchetto della fede cristiana ove la Chiesa le nutre della dottrina evangelica per mezzo dei suoi predicatori. « Gustate e vedete, continua S. Gregorio, come il Signore è dolce ». Con queste parole il Salmista ci dice formalmente: «Voi non conoscerete la sua dolcezza se voi non lo gusterete, ma toccate col palato del vostro cuore l’alimento di vita e sarete capaci di amarlo avendo fatto esperienza della sua dolcezza. L’uomo ha perduto queste delizie quando peccò nel paradiso: ma le ha riavute quando posò la sua bocca sull’alimento d’eterna dolcezza. Da ciò viene pure che essendo nati nelle pene di questo esìlio noi arriviamo quaggiù ad un tale disgusto che non sappiamo più che cosa dobbiamo desiderare. » (Mattutino). « Ma per la grazia dello Spirito Santo siamo passati dalla morte alla vita » (Ep.) e allora è necessario come il piccolo e umile Samuele che noi, che siamo i deboli, i poveri, gli storpi del Vangelo, non ricerchiamo le nostre delizie se non presso il Tabernacolo del Signore e nelle sue intime unioni. Evitiamo l’orgoglio e l’amore delle cose terrestri affinché « stabiliti saldamente nell’amore del santo Nome di Dio » – (Or.), continuamente « diretti da lui ci eleviamo di giorno in giorno alla pratica di una vita tutta celeste » (Secr.) e « che grazie alla partecipazione al banchetto divino, i frutti di salute crescano continuamente in noi » (Postcom.).

Incipit

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Ps XVII: 19-20.

Factus est Dóminus protéctor meus, et edúxit me in latitúdinem: salvum me fecit, quóniam vóluit me.

[Il Signore si è fatto mio protettore e mi ha tratto fuori, al largo: mi ha liberato perché mi vuol bene] Ps XVII: 2-3

Díligam te. Dómine, virtus mea: Dóminus firmaméntum meum et refúgium meum et liberátor meus.

[Amerò Te, o Signore, mia forza: o Signore, mio sostegno, mio rifugio e mio liberatore.]

Factus est Dóminus protéctor meus, et edúxit me in latitúdinem: salvum me fecit, quóniam vóluit me.

[Il Signore si è fatto mio protettore e mi ha tratto fuori, al largo: mi ha liberato perché mi vuol bene.]

Oratio

Orémus.

Sancti nóminis tui, Dómine, timórem páriter et amórem fac nos habére perpétuum: quia numquam tua gubernatióne destítuis, quos in soliditáte tuæ dilectiónis instítuis.

[Del tuo santo Nome, o Signore, fa che nutriamo un perpetuo timore e un pari amore: poiché non privi giammai del tuo aiuto quelli che stabilisci nella saldezza della tua dilezione.]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Joánnis Apóstoli 1 Giov. III: 13-18

“Caríssimi: Nolíte mirári, si odit vos mundus. Nos scimus, quóniam transláti sumus de morte ad vitam, quóniam dilígimus fratres. Qui non díligit, manet in morte: omnis, qui odit fratrem suum, homícida est. Et scitis, quóniam omnis homícida non habet vitam ætérnam in semetípso manéntem. In hoc cognóvimus caritátem Dei, quóniam ille ánimam suam pro nobis pósuit: et nos debémus pro frátribus ánimas pónere. Qui habúerit substántiam hujus mundi, et víderit fratrem suum necessitátem habére, et cláuserit víscera sua ab eo: quómodo cáritas Dei manet in eo? Filíoli mei, non diligámus verbo neque lingua, sed ópere et veritáte.”

I Omelia

[A. Castellazzi: La scuola degli Apostoli – Sc. Tip. Vescov. Artigianelli, Pavia, 1920]

L’ODIO

“Carissimi: Non vi meravigliate se il mondo vi odia. Noi sappiamo d’essere passati dalla morte alla vita, perché amiamo i fratelli. Chi non ama rimane nella morte. Chiunque odia il proprio fratello è omicida; e sapete che nessun omicida ha la vita eterna abitante in sé. Abbiam conosciuto l’amor di Dio da questo: che egli ha dato la sua vita per noi; e anche noi dobbiam dare la vita per i fratelli. Se uno possiede dei beni di questo mondo e, vedendo il proprio fratello nel bisogno, gli chiude le sue viscere, come mai l’amor di Dio dimora in lui? Figliuoli miei, non amiamo a parole e con la lingua, ma con fatti e con sincerità”.

L’Epistola è tolta dalla prima lettera di S. Giovanni. Poco prima delle parole riportate, aveva detto che Caino uccise il fratello, perché era figlio del maligno. Caino è tipo del mondo, schiavo del demonio. Non vi stupite quindi — prosegue S. Giovanni — se il mondo vi odia. Ci sia di conforto il sapere che l’amore verso i fratelli è un segno che dalla morte del peccato siamo passati alla vita della grazia. Rimane nella morte, invece, chi odia il proprio fratello, essendo egli omicida e, come tale, escluso dalla vita eterna. Dall’esempio di Gesù Cristo, che ha dato la vita per noi, abbiamo conosciuto qual è la carità vera: essere anche noi disposti a dare la vita per il proprio fratello. Tanto più dobbiamo, almeno, soccorrerlo coi nostri beni quando si trova nella necessità. Senza questo il nostro amore non è né sincero, né utile. Ci fermeremo a fare qualche osservazione sull’odio.

L’odio:

1. Non si può giustificare,

2 Specialmente dal Cristiano che teme Dio,

3 E che non è insensibile alla bontà di Lui.

1.

Chiunque odia il proprio fratello è omicida. È un’affermazione che, sulle prime, sembra esagerata; ma non esprime che la pura verità. Da che cosa proviene l’omicidio? Spesso proviene dall’odio. L’odio spinse all’omicidio Caino, e ne spinse e ne spinge ancora tanti altri dopo di lui. Non sempre colui che odia arriva a compiere l’atto materiale dell’omicidio; ma quante volte l’omicidio è nel suo cuore. Non commette il delitto esternamente perché ha paura delle conseguenze, non tanto da parte della giustizia divina, quanto da parte della giustizia umana. Se non sempre l’odio arriva a tal punto d’essere equiparato all’omicidio, è sempre cosa condannevole, è sempre una cattiva passione. E la ragione e il buon senso insegnano che il lasciarsi dominare dalla passione è un degradare la dignità di uomo, è un andar contro al fine per il quale Dio ci ha creati. Dio ci ha dato la ragione, perché di essa ci serviamo per tendere sempre al bene. Non è sempre in nostro potere di dimenticare le offese ricevute. Ma l’andar sempre rimuginandole, il parlarne sempre, a proposito e a sproposito; dir male del nostro nemico ogni volta che ci capita l’occasione; cercar di pregiudicarne gli interessi, è cosa che dipende dalla nostra volontà, e che non può avere alcuna scusa. Non è sempre in nostro potere di non provare dei sentimenti d’odio; è sempre in nostro potere di non assecondarli. Il dire: non dimenticherò mai il torto ricevuto; un giorno o l’altro quella persona me la pagherà; me la son legata a un dito, ecc. sono disposizioni d’animo poco benevolo, e che vanno energicamente combattute. – Non sarà inutile, poi, considerare che queste disposizioni d’animo fanno generalmente più male a chi odia che a chi è odiato. Questi può non curarsi dell’odio del suo nemico, che intanto è agitato, triste, senza pace. Odio e invidia intorbidano la vita. «L’uomo — dice Giobbe — ha vita corta e piena di turbamento» (XIV, l). E questa misera vita già così corta e piena di turbamento per sé, dobbiamo turbarla ancor più, aggiungendovi di nostro la tortura che porta con sé l’odio?

2.

Noi Cristiani non dobbiamo dimenticare che l’odio è contro il nostro bene spirituale. Chi cova nel cuore un odio grave contro il fratello, non ha la vita eterna abitante in sé; cioè non ha la vita della grazia, e senza questa non può aver diritto alla vita eterna. Chi odia va contro a un comando espresso da Dio: «Non odierai il tuo fratello nel tuo cuore» (Lev. XIX, 17). Gesù Cristo aggiunge: «Amate i vostri nemici: fate del bene a coloro che vi odiano: e pregate per coloro che vi perseguitano o calunniano» (Matt. V, 44). «Se — dice Tertulliano — siamo obbligati ad amare i nostri nemici, chi ci resta da odiare? Così pure, se ci è proibito di rendere il ricambio quando siamo offesi, per non diventare nel fatto pari ai nostri offensori, chi possiamo noi offendere?» (Apol.) Non possiamo né odiare, né offendere nessuno, se non vogliamo perdere la grazia di Dio, e procurarci i castighi di lui. E che Dio castigherà severamente quelli che nel loro odio non vogliono perdonare ai fratelli, è pur scritto nel Vangelo. Il servo spietato della parabola del Vangelo, che non volle perdonare il debito al suo conservo, fu dal padrone consegnato nelle mani dei manigoldi, che lo mettessero in carcere. E Gesù chiude la parabola con questa osservazione: «Così farà con voi il Padre mio celeste, se ognuno di voi non perdonerà di cuore al proprio fratello » (Matt. XVIII, 35). Un giorno il Signore chiamerà il Cristiano ostinato nel suo odio. Sarà una chiamata perentoria. Nessuna dilazione sarà ammessa. Non titoli, non cariche, non grandezza, non scienza, non oro, potranno impedirvi l’andata. E all’andata seguirà un rimprovero da togliere ogni illusione: «Servo malvagio… non dovevi aver pietà del tuo compagno, come io n’ho avuta per te?» (Matt. XVIII, 33) E dopo un rimprovero e un confronto così schiacciante verrà una condanna ben dura: essere dato in mano ai ministri della giustizia divina. – Un giovane indiano di Spokane, nelle Montagne Rocciose, era stato ferito mortalmente da un bianco. Il padre di lui avvisa i missionari, i quale avevano raccolto il moribondo, che se il figlio moriva, egli avrebbe ucciso quanti bianchi poteva. Il padre Cataldo, gesuita, s’incaricò di disporre alla morte l’indiano ferito, e l’avvisò che doveva fare una buona confessione e prepararsi a comparire al tribunale di Dio. Dopo una breve esortazione l’indiano si dichiarò pronto a fare tutto quanto era necessario per salvare la sua anima. Prima della confessione il Padre Cataldo gli domanda, se perdona ai suoi nemici. E il giovane risponde: « Non mi hai detto forse di prepararmi a morir bene e di fare una buona confessione? Come oserei domandar perdono a Dio, se io non perdonassi prima al nemico? » (Celestino Testore, Memorie di un Vestenera, P. Giuseppe M. Cataldo S. J. in: Le Missioni, della Compagnia di Gesù. 1928. p. 442-43). Questo giovane Pellerossa, aveva tratto profitto a meraviglia dal Vangelo, che ci impone di perdonare a tutti, e di non odiar nessuno.

3.

Più che dal timore dei castighi, l’uomo dovrebbe esser spinto ad amare i suoi nemici, anziché odiarli, dalla grande bontà di Dio che ha dato la sua vita per noi, che eravamo peccatori, che non eravamo meritevoli che dei suoi castighi. La sua bontà arriva al punto da ricevere il bacio da Giuda e da chiamarlo col nome di amico, quando questi sta per tradirlo. Sulla croce prega in modo particolare per i suoi carnefici: « Padre, perdona loro, perché non sanno quel che si fanno » (Luc. XXIII, 34). Se è vero che gli esempi muovono più che le parole, nessun Cristiano può rimanere indifferente a quanto ha fatto Dio per i suoi nemici. Nessuno può dire: è impossibile amarli. Dio ci aiuta con la sua grazia a vincere i sentimenti di avversione, di odio che sorgono nel nostro cuore verso dei nostri nemici. « Temete il Signore Dio vostro, ed gli vi libererà dalle mani di tutti i vostri nemici » (4 Re XVII, 39), dice il Signore a Israele. Nessun dubbio che l’odio è un nemico spirituale molto difficile da vincere, se ci appoggiamo sulle sole nostre forze. Non è più invincibile, se con noi c’è l’aiuto di Dio. E Dio che ci comanda di vincer l’odio, ci dà anche l’aiuto necessario a liberarcene. Chi teme di offendere il Signore ricorre a Lui fiducioso, e il Signore lo aiuterà certamente. Ce l’assicura il discepolo prediletto. «Carissimi, se il nostro cuore non ci condanna, abbiamo fiducia dinanzi a Dio: e qualunque cosa domanderemo, la riceveremo da lui» (1 Giov. III, 2-22). Anzi, nella sua bontà ci darà oltre quello che domandiamo. – L’eloquenza del suo esempio, la promessa del suo aiuto ci lasciano indifferenti? Ecco, che si interpone fra noi e il nostro offensore. E’ questo l’ultimo tentativo cui si ricorre quando si vuol mettere la pace tra due persone. Se non si vuole perdonare all’offensore, perché indegno, si perdoni per rispetto alla persona che interpone i suoi buoni uffici. Filemone, ricco benefattore dei Cristiani, ha uno schiavo che fugge, portandogli via del danaro. S. Paolo si interpone e scrive a Filemone: «Se tu mi tieni per tuo intrinseco, accoglilo come me stesso; e se ti ha fatto torto o ti deve ancora qualche cosa, metti ciò a mio conto» (Filem. 17-18). Così fa Dio con noi. Se ti ha fatto torto. — dice al Cristiano che cova l’odio contro il proprio fratello — se ha dei debiti da scontare, questi mettili a mio conto, ecco che io rimetto tutto a posto. Le tue offese contro di me sono innumerevoli, sono gravi. Ebbene, io voglio essere con te tanto buono da perdonarti i tuoi gravi ed innumerevoli peccati se tu perdoni di cuore le poche e leggere offese che ti ha fatto il tuo fratello: «Perdonate e vi sarà perdonato. Date e vi sarà dato: vi sarà versato in grembo una misura buona, piena, scossa e traboccante, perché con la medesima misura con la quale avrete misurato, sarà rimisurato anche a voi» (Luc. VI, 37-38). Hai capito? Dio, tuo giudice, da te offeso, è tanto buono da metterti la sentenza in mano. Sta a te scegliere la sentenza che desideri. Può mai l’odio accecarti tanto da ricusare una condizione favorevole al punto «da mettere in potere del giudicando la sentenza di chi deve giudicare!» (S. Leone M. Serm. 17, 1). Se ancora non sei deciso a cedere sappi che «non potrai trovare nessuna scusa nel giorno del giudizio, quando sarai giudicato secondo la norma da te usata, e tu stesso subirai ciò che hai fatto subire agli altri» (S. Cipriano: De Dom. Oratione, 23). Ma voi non siate di questi. «Con voi sia la grazia, la misericordia e la pace da Dio Padre, e da Cristo Gesù Figliolo del Padre, nella verità e nella carità» (2 Giov. 1, 3).

Graduale

Ps CXIX: 1-2 Ad Dóminum, cum tribulárer, clamávi, et exaudívit me.

[Al Signore mi rivolsi: poiché ero in tribolazione, ed Egli mi ha esaudito.]

Alleluja

Dómine, libera ánimam meam a lábiis iníquis, et a lingua dolósa. Allelúja, allelúja

[O Signore, libera l’ànima mia dalle labbra dell’iniquo, e dalla lingua menzognera. Allelúia, allelúia]

Ps VII:2 Dómine, Deus meus, in te sperávi: salvum me fac ex ómnibus persequéntibus me et líbera me. Allelúja.

[Signore, Dio mio, in Te ho sperato: salvami da tutti quelli che mi perseguitano, e liberami. Allelúia.]

Evangelium

Sequéntia ✠ sancti Evangélii secúndum Lucam.

Luc. XIV: 16-24

“In illo témpore: Dixit Jesus pharisæis parábolam hanc: Homo quidam fecit coenam magnam, et vocávit multos. Et misit servum suum hora coenæ dícere invitátis, ut venírent, quia jam paráta sunt ómnia. Et coepérunt simul omnes excusáre. Primus dixit ei: Villam emi, et necésse hábeo exíre et vidére illam: rogo te, habe me excusátum. Et alter dixit: Juga boum emi quinque et eo probáre illa: rogo te, habe me excusátum. Et álius dixit: Uxórem duxi, et ídeo non possum veníre. Et revérsus servus nuntiávit hæc dómino suo. Tunc irátus paterfamílias, dixit servo suo: Exi cito in pláteas et vicos civitátis: et páuperes ac débiles et coecos et claudos íntroduc huc. Et ait servus: Dómine, factum est, ut imperásti, et adhuc locus est. Et ait dóminus servo: Exi in vias et sepes: et compélle intrare, ut impleátur domus mea. Dico autem vobis, quod nemo virórum illórum, qui vocáti sunt, gustábit cœnam meam”.

(“In quel tempo disse Gesù ad uno di quelli che sederono con lui a mensa in casa di uno dei principali Farisei: Un uomo fece una gran cena, e invitò molta gente. E all’ora della cena mandò un suo servo a dire ai convitati, che andassero, perché tutto era pronto. E principiarono tutti d’accordo a scusarsi. Il primo dissegli: Ho comprato un podere, e bisogna che vada a vederlo; di grazia compatiscimi. E un altro disse: Ho comprato cinque gioghi di buoi, o vo a provarli; di grazia compatiscimi. E l’altro disse: Ho preso moglie, e perciò non posso venire. E tornato il servo, riferì queste cose al suo padrone. Allora sdegnato il padre di famiglia, disse al servo: Va tosto per le piazze, e per le contrade della città, e mena qua dentro i mendici, gli stroppiati, i ciechi, e gli zoppi. E disse il servo: Signore, si è fatto come hai comandato, ed evvi ancora luogo. E disse il padrone al servo: Va per le strade e lungo le siepi, e sforzali a venire, affinché si riempia la mia casa. Imperocché vi dico, che nessuno di coloro che erano stati invitati assaggerà la mia cena”

Omelia II

[Mons. J. Billot; Discorsi Parrocchiali – Cioffi ed. Napoli, 1840]

Sopra il peccato veniale.

“Estote perfecti, sicut Pater vester cœlestis perfectus est”.

Matth. V.

Sebbene non sia in potere dell’uomo di giungere ad una perfezione uguale a quella di Dio, nulladimeno l’Essere Supremo, che ne vuole santi perché Egli è santo, ci propone la sua santità per modello della nostra, e vuole, per quanto l’umana debolezza ce lo permette, che ci affatichiamo alla nostra perfezione, seguendo quel gran modello. Ora come possiamo noi conformarvici? Con l’evitare non solo il peccato mortale, che è sommamente opposto alla santità di Dio, ma ancora le colpe leggiere, le quali, sebbene non ci privino della sua amicizia, non lasciano per altro di avere una certa opposizione alle perfezioni dell’Essere Supremo, il quale non può soffrire la minima macchia nelle sue creature. Sarebbe dunque un errore il credere che per arrivare ad una santità perfetta bastasse all’uomo astenersi dalle colpe enormi che ci chiudono l’ingresso al regno dei cieli, senza mettersi in pena di evitare le colpe veniali, che ritardano l’entrata in quel regno. Errore nulladimeno molto comune nel mondo, anche tra le persone che fanno professione di pietà, che passano leggermente su queste colpe, vi cadono a posta e non si prendono alcuna cura di correggersene; ma errore per altre essere fedele alle piccole osservanze di questa legge: Qui timet Domìnum, nihil negligit (Eccli. XXXIV). Chi dunque trascura le piccole cose, chi commette colpe leggiere, non ha per Dio quel timor riverente che un figliuolo deve a suo padre. – Voi mi direte che temete il Signore evitando il peccato mortale, che non vorreste perdere la sua amicizia né essere privi del suo regno. É vero, fratelli miei, né io ve lo contendo; il peccato veniale non vi separa dall’amicizia di Dio, perché non è una ribellione così oltraggiante come il peccato mortale; non è già un sommo disprezzo delle perfezioni di Dio, né una preferenza della creatura al Creatore: ma non è forse una disubbidienza alla legge di Dio, e conseguentemente una offesa fatta alla sua maestà? Or non è forse un gran male il disubbidire a Dio, l’offender Dio? Se Dio è nostro padre, dov’è l’onore che se gli deve? Che direste voi d’un figliuolo che si contentasse di ubbidire a suo padre nelle cose importanti e non temesse di dargli mille piccioli disgusti, di dispiacergli in cose che, sebbene di poca conseguenza, provano meglio talvolta il buon naturale d’un figliuolo verso suo padre che non le più considerabili? Un figliuolo che ha mille compiacenze per suo padre, che teme di dispiacergli nelle più piccole circostanze, non prova forse meglio il suo amore di quello che non ubbidisce a suo padre e non lo rispetta che nelle occasioni in cui teme d’essere privato della sua successione? Il primo fa vedere che ama suo padre con amore disinteressato, e l’altro non l’ama che per suo interesse. Quando dunque vi contentate, fratelli miei, di evitare i mancamenti considerabili contro Dio, senza mettervi in pena di evitare quelli che sono leggieri, non si può forse dire che voi amate Dio non per sé stesso ma piuttosto per vostro interesse? Voi temete di perdere la sua amicizia col peccato mortale perché, perdendola, voi perdereste un regno eterno; ma poco vi curate di dispiacergli con mancamenti che l’offendono. Voi non l’amate dunque allora a cagione di se stesso; mentre se l’amaste in tal guisa, avreste a cuore i suoi interessi, gli rendereste la gloria che gli è dovuta, facendo tutte le vostre azioni per Lui. Ora una colpa veniale che voi commettete non può esser un’azione gloriosa a Dio, poiché non può ella essere riferita a questo fine. É dunque un’ingiuria che voi gli fate, preferendo la vostra soddisfazione all’ubbidienza perfetta che dovete alle sue leggi, e privandolo con questo della gloria che gli ritornerebbe dalla vostra ubbidienza. – E da ciò, fratelli miei, che ne segue? Che il peccato veniale, quantunque vi sembri leggiero ed effettivamente sia tale, è il male di Dio, un male ch’Egli non può approvare e che è obbligato di odiare; un male per conseguenza infinitamente superiore a tutti i mali della creatura. Che ne segue ancora? Che sarebbe meglio che l’universo intero perisse che offender Dio con un solo peccato veniale, che dire, per esempio, una sola menzogna leggiera. Se con un solo peccato veniale voi poteste convertire tutti i peccatori, gli eretici, gl’idolatri che sono al mondo, se voi poteste con un solo peccato liberare tutti i reprobi che sono nell’inferno, sarebbe meglio lasciare tutti i peccatori sulla terra nel loro funesto stato, lasciare tutti i reprobi nei loro supplizi, lasciarvi anche cadere tutti i predestinati, che commettere un solo peccato veniale per impedire tutti questi mali. Ciò vi sembra sorprendente, ma non deve esserlo quando si fa riflessione che il peccato veniale è il male di Dio, e tutti gli altri quelli della creatura; che il peccato veniale rapisce più di gloria a Dio e gli dispiace di più che non gli sono accette e gradite tutte le azioni dei santi. – Giudicate adesso, fratelli miei, del poco amore che voi avete per Dio dalla vostra facilità a commettere il peccato veniale. Ah! potete voi ancora trattar di bagattelle quelle infedeltà nell’adempiere i vostri piccoli doveri di Cristiano, quelle distrazioni volontarie nelle vostre preghiere benché di poca durata, quelle vanità nelle vostre parole, nel vostro vestire, quelle curiosità in discrete, quei raffinamenti d’amor proprio, quelle ricerche di voi medesimi, quella delicatezza sul punto d’onore, quelle sensualità nei banchetti, quelle piccole invidie contro del prossimo, quelle lievi ingiustizie, quell’indifferenza, quell’amarezza benché poco considerabile che voi avete contro di Lui, quelle maldicenze leggiere, quei piccoli scherzi che voi fate sui difetti altrui, quelle menzogne giocose, quelle piccole impazienze, quella vivacità di umore che voi non avete cura di reprimere? Tutto ciò vi sembra leggiero e di poca importanza; eppure sono infrazioni della legge di Dio, non offese fatte alla sua infinita maestà, infrazioni ed offese che vengono dal vostro poco timore di dispiacergli e dalla poca premura che avete di essere accetti e graditi ai suoi occhi. Ah! se voi aveste amore per Dio, basterebbe che una cosa gli dispiacesse per evitarla; niente vi sembrerebbe leggiero e di poca conseguenza a riguardo d’un Dio sì grande, d’un padre sì tenero, d’un amico sì benefico. Sì, fratelli miei, Dio è il migliore di tutti gli amici, niuno avvene sì generoso, sì fedele come Lui. Egli è stato il primo ad amarci e nel tempo anche in cui eravamo suoi nemici, benché non avesse bisogno di noi, Egli ci ha ricercati, come se noi gli fossimo utili: non cessa di darci a profusione i suoi favori, senza disgustarsi delle nostre infedeltà; noi siamo sempre sicuri di trovare in Lui il cuore più benefico di cui possiamo disporre a nostro vantaggio: Egli non ci abbandona giammai, qualora noi lo vogliamo, ed ancora ci ricerca, ci corre dietro nel tempo medesimo che l’abbandoniamo. Che se noi siamo in grazia di Lui, se siamo nel numero di quelle anime giuste in cui si compiace, noi abbiamo ancora molta maggior parte nella sua amicizia; la sua grazia mette tra Lui e noi l’unione la più intima, la più sincera e la più gloriosa per noi, poiché ella ci assicura il titolo di amici di Dio. Jam non dicam vos servos, sed amìcos. Or ditemi di grazia, fratelli miei, quali sono le leggi dell’amicizia? Che domandate voi ad un amico cui siete sinceramente e costantemente attaccati, cui date in ogni occasione prove del vostro buon cuore, per cui nulla avete di secreto e a cui fate parte dei vostri beni come del vostro affetto? Voi volete senza dubbio che questo amico si diporti nell’istesso modo a vostro riguardo, che abbia verso di voi tutta la confidenza e cortesia che voi avete verso di Lui, o che per lo meno non vi disgusti in cosa alcuna, siccome voi evitate tutto ciò che può dispiacergli. Che direste voi di quell’amico che limitasse la sua amicizia ai doveri essenziali, che non volesse per verità nimicarsi con voi, incorrere la vostra disgrazia con qualche cattivo ufficio, con oltraggi atroci al vostro onore o con danni considerabili nei vostri beni, che non volesse togliervi la vita; ma che niun caso facesse di ferirvi con piccoli motteggi, che vi offendesse con leggieri dispregi, che non prendesse all’occasione il vostro partito, ma piuttosto talvolta l’altrui difesa, in una parola, che vi disgustasse in mille piccole circostanze in cui la sincera amicizia si fa conoscere? Questa sorta di amici è alcune volte più insopportabile che un aperto nemico. Fate ora quest’applicazione a voi medesimi riguardo a Dio. Egli è il migliore di tutti gli amici, voi non potete dubitarne: voi avete mille volte provati, e provate ancora tutti i giorni, gli effetti della sua tenerezza. Perché dunque siete voi scortesi a suo riguardo, sino a ricusargli una piccola ubbidienza che vi domanda, sino a non volere sacrificargli quel leggiero risentimento, quella breve soddisfazione che le sue leggi vi proibiscono; sino a disgustarlo in mille incontri in cui un amore riconoscente e liberale deve manifestarsi? Ciò che voi gli ricusate è poco cosa, è vero; ma tutto è grande a riguardo d’un amico che si ama sinceramente; né è già amar Dio con quella pienezza di amore ch’Ei domanda, l’amare qualche cosa con Lui che non si ama per Lui, dice s. Agostino. Ah! le vostre piccole infedeltà sono in qualche modo più sensibili al cuor di Dio che gli oltraggi d’aperto nemico. Sarebbe molto meglio, vi dic’Egli, che voi foste freddi o caldi; ma perché voi siete tiepidi, io comincio a vomitarvi dalla mia bocca. Io non posso sopportarvi; soffrirei piuttosto gl’insulti d’un nemico che non ho tanto beneficato come voi; ma ciò di cui mi risento e che eccita il mio sdegno si è il vedervi pagare con somma ingratitudine i favori insigni di cui vi ho tante volte ricolmi. No, lo ripeto, Iddio non può soffrire alcuna infedeltà nelle sue creature, in quelle principalmente ch’Egli ama con amore sì tenero come le anime giuste. Lo stesso amore che ha per sé lo rende avverso a tutto ciò che è opposto alla sua santità e alla sua gloria. Egli si offende della minima difformità che ritrova in noi, la più leggiera macchia ferisce i suoi occhi infinitamente puri, perché la sua santità altro non è che una perfetta conformità alla sua legge. Ora, se è proprio dell’amicizia di produrre una conformità di voleri tra le persone che ella unisce, potete voi dire, fratelli miei, di seguir le regole di quest’amicizia, amando ciò che Dio non vuole e commettendo colpe le quali, benché leggiere, non lasciano però di dispiacergli? Se voi dubitate ancora che queste colpe gli dispiacciano, rappresentatevi per un momento le vendette terribili che Dio ne ha prese e che esercita ancora sopra le anime in cui ne restano alcune macchie. Un Mosè, uomo di Dio, strumento delle sue meraviglie, depositario della sua autorità, confidente dei suoi segreti, è privato dell’ingresso nella Terra Promessa per una leggiera diffidenza della possanza del suo Dio. Cinquantamila Betsamiti sono percossi dalla morte per avere gettato uno sguardo poco rispettoso sull’arca dell’alleanza. Davide vede il suo regno afflitto da una peste crudele per aver fatto per vanità la numerazione dei suoi sudditi. Anania e Saffira sua moglie cadono morti ai piedi degli Apostoli per aver detto una bugia. Se questi esempi non bastano, scendete in ispirito nel purgatorio, dove anime che sono amiche di Dio soffrono supplizi più rigorosi che tutto ciò che si può soffrire quaggiù di penoso, per aver commesse colpe veniali che non hanno espiate sopra la terra, e per cui sono talvolta ritenute lungo tempo prima di entrare nel soggiorno della gloria, dove nulla d’imbrattato può avere accesso. Dite dopo questo che le colpe leggiere sono bagattelle. No, fratelli miei, non bisogna chiamarle così, poiché esse sono non solamente una prova di poco amore per Dio, ma ancora una prova di poco zelo per la vostra salute.

II. Punto. Quantunque il peccato veniale non dia la morte alla nostra anima, perché non la priva della grazia santificante, che è la sua vita, egli è nulladimeno, dice s. Tommaso, una malattia che produce a suo modo i medesimi effetti sulla nostr’anima che le malattie corporali sui corpi. Le malattie del corpo l’indeboliscono, lo precipitano verso il sepolcro. Similmente il peccato veniale dispone l’anima a morire pel peccato mortale. Non è in vero, come dice ancora s. Tommaso, un allontanamento totale dal nostro ultimo fine, ma è uno sviamento che ci mette in pericolo di smarrirci e di perdere la nostra felicità eterna. E da ciò, fratelli miei, che dobbiamo noi conchiudere, se non che chi commette facilmente il peccato veniale ha ben poca cura della sua salute, poiché corre rischio di perdere la sua anima col peccato mortale? – Io non parlo già qui di coloro in cui il peccato veniale diventa mortale a cagione di qualche circostanza che lo rende tale; per esempio, dello scandalo ond’è seguito, d’una malvagia intenzione o affetto peccaminoso che l’accompagna, talché si commetterebbe eziandio che fosse mortale, e finalmente del dubbio che si ha se il tale o tale altro peccato veniale sia mortale; perciocché chi opera in questo dubbio pecca mortalmente pel rischio a cui si espone di fare un peccato mortale. Or egli è difficilissimo, dice s. Agostino, distinguere l’uno dall’altro, ed accade molto spesso che si prende per colpa leggiera, che si tratta da bagattella una cosa che da se stessa è un peccato di considerazione. Non parlo neppure di chi non vorrebbe evitare alcun peccato veniale, benché sia sicuro che è tale di sua natura: questa funesta disposizione è da se stessa peccaminosa, pel pericolo prossimo in cui esso si mette di peccare mortalmente. Egli è certo che in tutte le proposte circostanze, chi commette il peccato veniale corre un rischio evidente della sua salute. Parliamo dunque di chi senza malvagia intenzione commette indifferentemente il peccato veniale, e facciamogli conoscere che, sebbene egli sia sicuro che il peccato suo non è che veniale, si dispone nulladimeno a cadere nel mortale. È un oracolo pronunciato dallo Spirito Santo che chi trascura le cose piccole cadrà a poco a poco: Qui spernit modica, paullatim decidet (Eccl. XIX). Chi è infedele nelle cose piccole, dice il Salvatore, lo sarà altresì nelle grandi. Ora qual è la cagione di questa caduta dal peccato veniale nel mortale, e come può dirsi che l’uno sia strada all’altro? Questo funesto progresso, fratelli miei, viene da due cagioni; l’una è un castigo di Dio, e l’altra è la cattiva disposizione dell’uomo: castigo dalla parte di Dio, per la privazione di certe grazie particolari che impedirebbero l’uomo di cadere nel peccato mortale; dalla parte dell’uomo è una inclinazione, una facilità che gli dà il peccato veniale a commettere il mortale. Tremate, fratelli miei, per un peccato che vi avete riguardato fin ora come poca cosa e che può esservi così funesto. Io non pretendo già dirvi che Dio ricusi a chi pecca venialmente le grazie necessarie per evitare il peccato mortale, di modo che l’uno sia una conseguenza necessaria dell’altro. Se Dio dà ai peccatori medesimi, che sono suoi nemici, le grazie che loro sono necessarie, a più forte ragione le dà Egli ai giusti, che sono suoi amici; ed anatema, diciamo noi con la Chiesa, a chiunque dicesse che Dio abbandona il giusto e lo lascia mancar di soccorso per perseverare nella giustizia. Ma se Dio dà le grazie necessarie, Egli non è obbligato a dare le grazie di elezione e di predilezione, che fanno operare infallibilmente il bene, benché liberamente. Noi possiamo dunque domandare queste grazie ed indurre Dio con la nostra fedeltà alla sua legge a darcele, ma non vi abbiamo alcun diritto. – Or io vi domando: chi commette il peccato veniale, chi trasgredisce la sua santa legge, sebbene in cose di poca conseguenza, induce egli Dio a dargli queste grazie particolari, o piuttosto non l’induce egli a ricusargliele ? Egli si raffredda a riguardo di Dio, egli tratta con Lui come un avaro che non vuol fargli certi piccoli sacrifizi che Dio domanda da un cuor generoso; egli si riserva certe soddisfazioni, certi pericoli, certi affetti, cui non vuol rinunciare per ubbidire a Dio: or convien forse stupirsi che Dio vicendevolmente si raffreddi a riguardo dell’uomo, che non versi su di lui a larga mano quei doni preziosi della grazia ch’Egli comunica alle anime ferventi e generose che cercano di piacergli nelle più piccole cose, che gli fanno di se stesse un intero sacrificio e che gli feriscono il cuore, come la sposa della Cantica, con un solo dei loro capelli, cioè a dire con una intera fedeltà ad adempiere i più piccoli punti della sua legge? Vulnerasti cor meum in uno crine colli tui (Cant. 4). Or che accade a quell’anima che è priva per lo peccato veniale di certi aiuti che erano riserbati alla sua fedeltà? Trovandosi in un pericolo, in una congiuntura delicata, esposto ad una tentazione violenta, ove è molto difficile resistere senza una grazia particolare, essa soccomberà a quella tentazione, farà una caduta deplorabile, commetterà un peccato mortale, che farà perdergli la grazia del suo Dio. E così è, fratelli miei, che una colpa leggiera può essere la causa della nostra riprovazione. Chi di noi, dopo questo, non temerà il peccato veniale, poiché può avere conseguenze sì terribili? Non ne avete voi forse di già fatta la trista esperienza, voi che lo commettete sì facilmente? Mentre donde viene quella dissipazione del vostro spirito che fate tanta fatica a tener raccolto, quell’aridità di cuore che vi rende secchi e freddi a pie degli altari, quella noia degli esercizi di pietà, quella nausea dell’orazione e delle pie letture, in una parola, quella tiepidezza sì grande nel servizio di Dio? Non viene forse dalla vostra negligenza nell’evitare le colpe veniali, dalla vostra poca delicatezza di coscienza nelle piccole cose che Dio vi domanda? Voi non siete liberali verso Dio e non vi diportate con quella esattezza che attende da voi, Egli pure vi ricusa quelle grazie speciali che non vi deve e che vi farebbero camminare con allegrezza nella via dei suoi comandamenti. Ma non è solamente per la sottrazione delle grazie di Dio che il peccato veniale conduce al mortale; si è ancora per l’inclinazione e facilità che l’uno dà a commettere l’altro. Niuno ad un tratto diventa malvagio, dice s. Bernardo; i più grandi delitti hanno, per così dire, la preparazione, noi abbiamo troppo orrore a commetterli subito di buon grado: ma, a forza di commettere il peccato veniale ci avvezziamo, ci addomestichiamo insensibilmente col male. A misura che le forze della virtù s’indeboliscono per questa malattia, il peso della concupiscenza s’accresce, la contagione, insinuandosi a poco a poco, penetra finalmente sino al cuore. L’anima indebolita e strascinata dall’inclinazione al male, cammina a gran passi verso il precipizio e vi cade finalmente senza quasi accorgersene. Il demonio, sempre destro a profittare delle nostre debolezze, diventa anche più forte per farci cadere. Non ci propone egli alla bella prima i grandi delitti; ci fa credere che è poca cosa cadere in piccole infedeltà permettersi certe soddisfazioni, avere certe corrispondenze con persone che non sembrano pericolose, usare per esse alcune compiacenze che non giungono al peccato; e quando il nemico della salute ha ottenuto quel poco che domandava, con artifizio secreto e maligno ci persuade che non evvi maggior male ad accordargliene un altro: quindi c’induce insensibilmente nelle sue reti e ci strascina nell’abisso per le colpe considerabili che ci fa commettere: il peccato mortale in seguito non costa più che il peccato veniale. Ecco come una leggiera scintilla che non si ha avuto cura di estinguere dal principio cagiona un grande incendio: Ecce quantas ignis quam magnam Sylvam ìncendit (Jac. 5). Ecco come una gran nave cade in rovina per avervi lasciate penetrare alcune gocce d’acqua che hanno putrefatto il legname. Quanti, oimè! si sono veduti gran personaggi cadere dal sublime grado di perfezione nel fango del peccato! Quanti difensori della religione, ne sono divenuti gli apostati! Quanti anacoreti che avevano invecchiato sotto il giogo della penitenza, hanno fatto deplorabili cadute per la loro negligenza a mantenersi nell’osservanza dei piccoli doveri! Il perfido Giuda non venne già tutto ad un tratto al tradimento, al deicidio. Questo fu l’effetto del suo attaccamento al danaro: ma si deve presumere che quell’attaccamento fu leggiero nel suo principio, ch’egli vi si affezionò poco a poco, e che finalmente ne divenne così avido che, per averne, vendette il suo divin maestro: Ecce quantus ignis , etc. – Ma, senza cercare esempi stranieri, quante prove non vediamo noi a’ nostri giorni di questa verità? Ci meravigliamo che persone le quali durante un certo tempo hanno vissuto di una maniera regolata e sono state pei loro fratelli il buon odore di Gesù Cristo, decadono sino al punto d’esserne lo scandalo per una condotta sregolata. Pensate voi, fratelli miei, che siano venute ad un tratto dall’estremo della virtù a quello del vizio senza aver passato per un mezzo? No, senza dubbio, eravi troppa distanza dall’una all’altro; i loro grandi disordini han cominciato da piccoli rilassamenti … Ecce quantus ignis etc. Ah! fratelli miei, convenitene con altrettanto di dolore che di confusione, che voi non siete caduti nell’abisso se non perché non avete abbastanza evitati i piccoli scogli: che voi non mancate di fedeltà nei punti considerabili della legge di Dio se non per difetto di esattezza nelle piccole osservanze. Voi eravate altre volte nel fervore della divozione, nulla vi costava tutto ciò che riguarda il servizio di Dio; ed ora siete schiavi delle vostre passioni, cadete a sangue freddo in falli considerabili. Donde viene questa disgrazia, fratelli miei? Quomodo obscuratum est aurum (Thren. 4)? Come mai quel bell’oro ha perduto il suo splendore? Come siete voi decaduti da quello stato di fervore in cui eravate per lo innanzi? Per la vostra facilità a commettere le colpe leggiere. Quei peccati che trattavate da bagattelle, hanno indebolito in voi il fuoco della carità; e da che quel fuoco ha cessato di operare, voi avete perduta questa carità per mezzo di azioni a quella contrarie.

Pratiche. Piangete amaramente, peccatori, la morte dell’anima vostra, ritornando a Dio con una penitenza sincera. E voi, anime giuste, in cui il peccato veniale non ha ancora fatto questa strage, tenetelo come un gran male;  perché ha conseguenze così funeste,  detestatelo con tutto il vostro cuore,  se l’avete commesso. Per cancellare questo peccato, ricorrete al sacramento della penitenza, che ha la virtù di rimetterlo. Voi potete anche ottenerne il perdono con atti di dolore d’averlo commesso e con atti delle virtù che sono contrarie, se voi li fate alla mira di cancellarlo. Ripetete sovente quelle parole del profeta: Amplius lava me. Domine, purificatemi sempre più, o Signore. Fate una ferma risoluzione di non più commetterlo. Evitate con attenzione tutto ciò che ha la minima apparenza di male: Ab omni specie mali abstinete vos. Siate fedeli ad adempiere i vostri più piccoli doveri, nulla trascurate di ciò che può contribuire alla vostra perfezione, osservate regolarmente il tenore di vita e le pratiche di pietà che vi siete prescritte; siate assidui all’orazione per ottenere le grazie speciali che vi facciano evitare le colpe veniali: In oratione estote. Voi diverrete con ciò eredi delle benedizioni del Padre celeste: Ut benedictionem hæreditate possideatis (1 Pet. III). Perché, evitando il peccato veniale, arriverete a quella santità perfetta che Dio corona nel cielo. Così sia.

Credo …

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Offertorium

Orémus Ps VI: 5 Dómine, convértere, et éripe ánimam meam: salvum me fac propter misericórdiam tuam.

[O Signore, volgiti verso di me e salva la mia vita: salvami per la tua misericordia.]

Secreta

Oblátio nos, Dómine, tuo nómini dicánda puríficet: et de die in diem ad coeléstis vitæ tránsferat actiónem.

[Ci purifichi, O Signore, l’offerta da consacrarsi al Tuo nome: e di giorno in giorno ci conduca alla pratica di una vita perfetta.]

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Communio

Ps XII: 6 Cantábo Dómino, qui bona tríbuit mihi: et psallam nómini Dómini altíssimi.

[Inneggerò al Signore, per il bene fatto a me: e salmeggerò al nome di Dio Altissimo.]

Postcommunio

Orémus. Sumptis munéribus sacris, qæesumus, Dómine: ut cum frequentatióne mystérii, crescat nostræ salútis efféctus.

[Ricevuti, o Signore, i sacri doni, Ti preghiamo: affinché, frequentando questi divini misteri, cresca l’effetto della nostra salvezza].

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LO SCUDO DELLA FEDE (115)

Paolo SEGNERI S. J.:

L’INCREDULO SENZA SCUSA

[Tipogr. e libr. Salesiana, TORINO, 1884]

PARTE PRIMA

CAPO XXVI.

Si risponde al più che arrechino i genetliaciin difesa della loro arte.

I. Ad un falsario contumace, convinto, e colto col fallo in mano della moneta adulterata da lui, con rovina pubblica, non si farebbe alcun torto, quando gli si negassero lo difese. Ma tale è lo stato dell’astrologia giudiziaria, giusta il processo finor su lei fabbricato da tanti capi. Con tutto ciò siccome i professori di essa hanno tra gli altri bugiardi questo vanto, che laddove agli altri per una menzogna che dissero, non si crede di poi verità veruna, e ad essi, per una verità, si credono di poi menzogne infinite: così presumono di avere fra gli altri rei questo privilegio, che non si possa mai lasciar di ascoltarli; altrimenti protestano incontanente di nullità. Dunque, a cessar liti, udiamoli ancor noi, se noi di giustizia, almeno di cortesia. E perché per viadi ragione non possono più nulla a proprio favore che non sia stato abbattuto già chiaramente; diamo loro campo di andare per via di fatto, non ci sdegnando che formino una superba enumerazione di varie predizioni famose da loro uscite, e non per tanto avveratesi, non meno all’età presente, che alle passate.

I.

II. Ma che? Non si nega mai, che ancor essi talvolta non indovinino. Si nega, che indovinino a forza d’arte; mentre le loro regole hanno contro di sé strepitante sì la ragione, sì l’esperienza, e sì l’autorità di tutti i maggiori uomini stati al mondo. Anche i sortilegi antichi, anche gli auguri, anche gli aruspici, anche gli interpreti del cielo tonante, e più altri, non lasciavano in Roma d’indovinare; altrimenti non si può dubitar, che mentendo sempre, non sarebbero giunti a sì grande stima. Per questo diremo noi, che i loro indovinamenti fosser da arie di antivedere il futuro, non da superstizioso vaneggiamento tratto da ciò che secondo loro dicevano, a chi le sorta chi gli animali, a chi l’aria, ed a chi i semplici ondeggiamenti del fumo che su volava, ora diritto, oro distorto, ora denso, ora dilatato? Certo è, che un cieco non può mai scorgere il segno. Eppure anche un cieco tanto può tornare a tirare, che al fin vi colga: Quis est, qui totum dìem iaculans, non aliquando collimet? diceva Tullio (De div.) nel favellar degli astrologi de’ suoi tempi. E non meno graziosamente lo notò di poi Seneca in que’ de’ suoi, quando egli disse, che avevano ritrovata la vera via d’indovinar la morte di Claudio Cesare, con predirgliela, prima ogni anno, poscia ogni mese, finché ella avvenne. Patere mathematicos aliquando veruni dicere, qui Claudium, postquam princeps factus est, omnibus annis, omnibus mensibus efferunt (Inludo sup. mort. CI. Cæs.). Che se questi istorici,i quali hanno riferito il vero apporsi che fecero i genetliaci, avessero riportato con pari fedeltà il vero abbagliarsi, ritroveremmo, che questi, prima di dar nel punto una volta sola avevano esausti mille turcassi di strali volati in fallo: Ista omnia, quæ aut temere, aut astute vera dicunt, præ cæteris, quæ mentiuntur, pars ea non est millesima (GelL. 1. 14.c. 1). Tanto asserì di loro il filosofo Favorino: e con ragion somma: mentre, predicendo essi cose che non dipendono da cagioni naturali, ma libere, o non ne dipendono almeno individualmente, forza è che i loro vaticini, se mai si avverano, sian colpi di fortuna, mirabile nei suoi giuochi, non tiri d’arte. Il crescer di patrimonio, o lo scapitare, proviene o dalia industria umana o dalla provvidenza divina, o per dir meglio, da ambedue unitamente. Come entra qui dunque Giove a versare in seno a veruno ricchezze grandi, o come v’entra Saturno a legare a Giove le mani perché non versile? Questo non è né freddo ne caldo né umido né secco, che sono la più ampia sfera che possa concedersi all’efficienza de’ pianeti, se si vuole discorrere da filosofo, il quale cerca la cagion delle cose, non da favoleggiatore, che ve la finge.

III. E ciò che io dissi degli avvenimenti morali, dicasi de’ casi fortuiti, d’incontrar tesori, d’incorrere traversie, di cader nell’acqua o nel fuoco, ove men si pensi. Questi casi, come non hanno sotto Dio cagion propria, ma accidentale, così non sono sottoposti ad altra scienza, che alla divina, la quale però può saperli, perché essa è quella che vuole, o che permette un tal combinamento di operazioni, onde seguono quegli avvenimenti improvvisi ad ogni umano intelletto, senza che le stelle formate ad ogni altro fine, vi abbiano alcuna parte.

IV. Degli altri effetti poi che tutta han la cagion loro nella natura, nemmeno sogliono gli astrologi arrivar nulla, se non che andando a tentone: e ciò perché non osservano altre cagioni in predirli, che le universali, le quali non han virtù di terminare gli effetti, ma solo di concorrere a questo, o a quello, soggetto alla sfera loro, secondo che le immediate a ciò le costringano. Chi rimira in cucina acceso un gran fuoco, non può indovinare, se non temerariamente, di qual foggia debba riuscire il banchetto meditatosi dallo scalco, posciachè, ad apporsi con arte, converrebbe osservar di più le cacciagioni apparecchiate in dispensa, il pollame, le pesche, le selvaggine, e quanto è d’uopo a un magnifico imbandimento: perché il fuoco dal canto suo è indifferente a cuocere tutto ciò che gli sia parato dinanzi allo stesso modo. Così il sole, la luna, e molto più i pianeti e le costellazioni di forze tanto più incognite, sono dal canto loro cagioni indifferentissime degli effetti sullunari, e lasciano variamente determinarsi dalla materia che incontrano per la via, e dalle disposizioni, or avverse ed ora propizie, a produr la forma.

V. Quinci è l’indovinare che fan spesso i medici, i marinari, gli agricoltori, perché osservano le cagioni particolari, e le disposizioni che trovano ne’ corpi, nelle nuvole, nelle nebbie, e in tutto l’emisfero, aperto ai lor guardi. E quindi altresì l’abbaglio che prendono gli astrologi tutto dì ne’ loro almanacchi,a segno tale, che Pico asserì (L. 2. Inastrol. n. 9) da uomo di onore, che di centotrenta giorni osservati da lui, secondo le predizioni astrologiche di quell’anno, appena ne trovò sei o sette, che non si dilungassero assai dal vero. Ciò appare più manifesto, quando gli astrologhi si danno a pronosticare successi più disusiti: perciocché in questi si appongono men che in altri. Eppure, se la loro arte fosse arte veramente, e non fondaco di chimere, in questi si dovrebbero apporre più, da che gli effetti più strani (come quei che provengono da cagioni più solenni e più segnalate) sarebber loro più agevoli a dar su gli occhi. Riferisce lo Scaligero (Millet. 1. c. prop. 6). che nell’anno 1186 congiugendosi i pianeti superiori cogl’inferiori, predisser gli astrologi tali turbini e tali tempeste, da metter terrore infino alle torri. Eppure quell’anno fu il più pacato che mai. Similmente l’anno 1524 per alcune magne congiunzioni de’ pianeti ne’ segni acquosi, e per alcune mediocri predissero nel venturo febbraio un diluvio inaudito a tutta la terra, con tale asseveramento che, spaventatene varie provincie di Europa, si apparecchiarono da più d’uno barche ben corredate, ben chiuse, e ben anche fornite di vettovaglie, per divenire ciascuno alla sua famiglia quasi novello Noè, in quell’universale naufragio. E pure corse quel febbraio poi tutto così sereno, che mai non cadde dal cielo una sola gocciola, a confusione di tanti ingannatori dell’universo e tanti ingannati. Ma ciò vuol dire badare alle cagioni remote, più che alle prossime. Onde qui può calzare opportunamente la sentenza che die quel famoso principe, il quale, animato dall’astrologo ad intimare una bella caccia, sotto promessa di tranquillissimo cielo in tutto quel dì, si udì per via dire da un rustico, il quale guidava l’aratro, che si guardasse, perché poco poteva tardare a piovere, e fu così. Onde alterato quel grande, chiamò il bifolco per astrologo in corte, e dannò l’astrologo ad ir per lui dietro i buoi (Cornelio a Lap. in Ier. c. 10. n. 2).

VI. Ora se non sanno essi cogliere quei germogli che hanno le loro radici nella natura, con quale uncino arriveranno a que’ frutti che sono parti del solo libero arbitrio?

II.

VII. Senonchè dissi male quando affermai che i genetliaci indovinan senz’arte. Anzi indovinano spesso con arte grande, ma di fallacia. Primieramente sogliono predir cose che, non avvenendo, sarebbero più ammirabili che avvenendo: Una gran dama viaggia con riuscimento poco felice. Una gran lite si termina con la concordia delle parti. Un corriere porta gran nuove. Guerre, sedizioni, ire de’ principi, minacciate da Marte opposto a Mercurio. Matrimoni sconcertati da Mercurio nella settimana. Prodigalità e scialacquamenti, significati da Marte nell’undecima. E che proposizioni sono mai queste, da porsi in conto di predizioni, quando chi dicesse vero, negando dover succedere alcuna di esse, sarebbe maggior astrologo di tutti quei che lo dicano, sostenendole? Eppure un solo annuncio di tali, che si verifichi in tutta la latitudine dell’Europa, ecco l’astrologia canonizzata da loro per venerabile.

VIII. Dall’altro lato puntellano con tante condizioni questi pronostici, tuttoché universali, che ben si scorge, come neppure i loro architetti medesimi gli han per saldi: Un potentato risanerassi di una gran malattia. S’intende, dicon eglino, quanto a ciò che vien dalle stelle, rimanendo poscia a vedere che il medico non tradisca, che la medicina non tardi, che lo ammalato dal lato suo non disordini, che Dio non voglia punirlo per altro capo : vi potrebbero aggiungere questo ancora: Che egli non muoia prima di alzarsi di letto, e con questo avanzare tutto lo studio sulle tavole di Tolomeo, tutta l’inspezion degli astri, e tutto l’impazzimento degli astrolabi. E qual è quel contadinello che non sappia’ predire qualunque effetto, sotto questa limitazione: purché conspirino tutte fra sé di concerto quelle cagioni, cui si appartiene il produrlo?

III.

IX. Ma forse che la leggerezza degli uomini non concorre fortemente ancor essa ad accreditare un’arte sì fallita? Possiamo dir che i pronostici avverati in alcuna parte son tanti, quante son le foci del Nilo, e i non avverati son quante le sue renuzze. E pure il volgo seppellisce in perpetua dimenticanza le continue falsità degli astrologi, come si fa de’ morti in campagna, e quell’unico riuscimento, che sia felice, vien da lui portato in trionfo su tutti i fogli volanti, come un campione. Quanti predissero a Pompeo l’imperio di Roma? Quanti il predissero a Cesare? E pure di tanti astrologi falsi niun sapria nulla, se non l’avesse narrato a loro smacco un uomo sensato, qual era Tullio (L. 2. de div.). All’incontro perché Nigidio. al nascer di Augusto, disse ad Ottavio, padre di lui, esser nato il padron del mondo, E nome di Nigidio, quando Augusto imperò, volò su le stelle. E pure non poté dir egli ciò che per adulazione riuscita prospera dalla combinazion di mille accidenti, impossibili allora ad indovinarsi da mente umana? Se non fosse riuscita, Nigidio non ne avrebbe patito nulla – asserendo tutti gli astrologi ad una voce (lui. Firm. il. 2. c. ult. Card. sect. 1, aph. ult. et in genit. Caroli V. et alii), che dall’oroscopo di una persona sola non sì può sapere ciò che spettasi alla repubblica, e molto meno alla mutazion di repubblica in monarchia- ; e perchè riuscì, potè Nigidio porre in eredito l’arte a onta della ragione.

X. Parimente non sa il popolaccio avvertire che bene spesso non fa preveduto il successo come futuro, ma succedette, perché si stimò Preveduto. Mi spiegherò. Per incalorire il suo esercito alla battaglia, che voleva dare a’ Romani, gli disse Annibale. quartierato alle Canne, che la vittoria era certa, perché le stelle l’avevano a tutti prenunciata a quel passo, colma di gloria. E tale ella fu, non perché le stelle l’avessero prenunziata, ma perché avvivati da quella falsa persuasione i soldati combatterono con tal animo, che fecero de’ nemici una immensa strage. Così colui conseguì il matrimonio predettogli dall’astrologo, quell’altro la dignità, quell’altro il danaro, non per virtù de’ pianeti che si sbracciassero a favorirli, ma per l’industria risvegliata in coloro dal vaticinio. Questo fe’ che si dessero a portare i trattati del parentado più caldamente, a corteggiare, a contrattare, ad imprendere tutto ciò, donde si promettevano ogni fortuna, e così l’ottennero. All’incontro il pronosticamento di avere a morir di parto, mise in colei tal tristezza, che ne mori. Il pronosticamento di avere a perdere la lite, fece che si trascurasse la causa; e il pronosticamento di avere a perdere il lucro, fe’ che si troncasse il commercio. E così tutto questo fu male vero. Ma perché fu? Perché l’uomo lo fece divenir vero da se medesimo, non perché il facesser le stelle.

XI. In ogni caso è certissimo che gli eventi più belli, addotti dagli astrologi in prova della lor arte, non potevano prevedersi, anche stando a ciò che ne affermano i loro autori: perché i più belli sono quelli che più vengono all’espressione di tutte le circostanze individuali. E pure Tolomeo, seguito in tale scuola come il maestro più irrefragabile, asserisce che non posson gli astrologi, secondo l’arte, predire senonchè cose grosse, generiche e indefinite. A cagion d’esempio, possono predire bensì breve o lunga vita ad un uomo, ma non già il dì per appunto della sua morte, e molto meno il modo, se di laccio, se di spada, se di sasso, se di pistola, perché in ordine a questi predicimenti le stelle non vi s’impacciano: vi vuol Dio: Solo numine afflati dice Tolomeo (Quadr. 1.2. cent. n. 2) prædicunt particularia. Pertanto il dire che Marte nell’ottava casa significa morte di veleno, o che la cagiona; e il dire che Mercurio combusto predice incendi derivati da fuoco artifiziato, essendo Mercurio il padre delle arti; non solo è sognare a occhi veggenti, ma è un contravvenire agl’insegnatori della professione medesima, travalicando di molto i limiti stabiliti dalle lor leggi. Onde quell’astrologo (Al. de Ang. 1. 4. c. 37), il quale di sé predisse in Milano che sarebbe morto di trave a lui caduta sul capo, e non di mannaia (cui l’avea dannato il suo duca, solo affine di farlo apparir bugiardo), se di trave in capo veramente morì quando andava al ceppo, sicuramente nol potea saper dalle stelle sue famigliari, perché in tutte le stelle non v’è aspetto, non v’è combinazione, non v’è congresso, che significhi morte di trave in capo, come egli stesso secondo le sue regole, avea a tenere per saldo.

XII. A restringere dunque le molte in poche: ecco a quali miniere infin si riduca quell’oro che tanto i giudiziari ci spacciano per eletto. Se v’ha mai nulla di vero, o lavorollo il caso, con favorire, quasi suo benemerito, chi più tirò a indovinare: o lavorollo una tale alchimia furbesca di forme ambigue, e di finzioni avvedute, che tra lor corre: o lavorollo la credulità della gente, vaga di accettar per oracoli le imposture, solo che ne speri alcun prò.

IV.

XIII. A chi poi tali miniere non paiono sufficienti, sant’Agostino ne addita un’altra più cupa, alla quale io non ardirei di discendere se un tant’uomo, animandomi per la via, non mi conducesse laggiù fin di mano propria (S. Aug. 1. 1. de doctor. Chr. c. 21. 22. Et 23. et. 1. 2. de Gen. ad litt. c. 18). E tal miniera è l’intimo degli abissi: portando egli opinione, che tali indovinamenti di leggieri procedano in vari casi per opera de’ demoni. His omnibus consideratis (ecco le parole giuste del santo – De civ. Dei 1. 5. c. 7. in fine -, dopo lungo discorso da lui tenuto su tali indovinamenti) His omnibus consideratis, non immerito creditur, cum astrologi mirabiliter multa vera respondent, occulto instinctu fieri spirituum non honorum, quorum cura est has falsas et noxias opiniones de astralibus fatis inscrere humanis mentibus, atque firmare, non oroscopi notati et inspecti aliqua arte, quæ nulla est.

XIV. Né sia chi opponga essersi da noi detto già che il futuro accidentale, o arbitrio, di cui si parla, sia occulto a’ demoni ancora: perché molto essi ne giungono a presagire con la loro acuta sagacità, molto con la loro antica sperienza, molto con la loro attenta investigazione, e molto ancora più con quella possanza che Dio lor talora permette di effettuarlo (S. Aug. 1. 3. de Gen. ad lit. c. 17. Et de div. dem.), ad ingannamento maggiore di quei meschini, i quali non essendo più che uomini come gli altri, si danno all’astrologia, perché la vorrebbero fare da Dii tra gli uomini: illudentibus eos, atque decipientibus prævaricatoribus angelis, quibus ista pars mundi infima, secundum ordinem rerum divinæ providentiæ lege. subjecta est (S. Aug. 1. 2. De doctr. Chr. c. 23). E cosi appunto Iddio lasciò che restasse malamente ingannato Giuliano apostata, scrivendo il Nazianzeno di lui, che la sua dimestichezza esecrabile co’ diavoli principiò dall’astrologia, cioè dall’arte di formare la natività a questo ed a quello, e dalla voglia di risaper da quei maligni il futuro, nascoso al mondo: Quas artes secuta est postea præstigiarum exercitatio.

XV. Quinci notò dottamente sant’Agostino ne’ luoghi addotti, che quando il Signore nelle sue divine scritture ci vietò di andar dietro ai divinamenti, non cel vietò, perchè questi talora non si avverassero; cel vietò, perché quantunque si avverino, sono infidi; anzi allora più sono infidi, che più si avverano; perché allora riescono più possenti ad avviluppare gl’incauti, che mal discernano ciò che fann’essi. da ciò che fanno i diavoli, pronti ad intromettersi (ancorché non chiamati) nel cuor dell’uomo, quando questi superbo vuol elevare ancor egli sé sopra sé, come fe’ lucifero e farsi nella scienza simile a Dio.

XVI. E questa anche fu la cagione, per cui da’ dottori sagri dalle leggi civili o dalle canoniche, dalle bolle pontificali, e da qualsisia magistrato universalmente (L. Artem. c. de male!’, et math. I. nemo eodem tit. lib. Etsi cod. tit. I math. c. de Ep. aud. decr. 26. q. 2, c. sed et illud, et q. 3. c. illud legis, et q. 5. c. non liceat. Conc. Bracar, can. 10. et lat. sub. Leon. X . Sixt. V. in bull. adv. astr. etiamsi asserant se non certo affìrmare quæ die de futuris contingentibus aut actionibus ex hum. volunt. pendentibus; 1. 2. c. 17), sieno i genetliaci stati sempre perseguitati, come peste della repubblica, non solamente per la perversion de’ costumi che essi cagionano in altri, massimamente dall’ingenerare ne’ cuori questa opinione, che invece della provvidenza divina sieno le stelle natalizie quegli arbitri che a ciascuno dispensano il bene e il malo; ma molto più per quella perversità di cui conviene che sien già colmi in se stessi, mentre divengono scolari pessimi di maestri peggiori, con soggettarsi, tuttoché non volendo, alle fraudolenze ancor essi degli spiriti ribelli, padri egualmente, come chiamolli Lattanzio ( L . 7. e. 17), e della astrologia e della magia.

XVII. Chi pertanto sarà quel giudice iniquo, che dopo avere ascoltato questa razza di rei, pur li voglia assolvere, quasi che si difendano a sufficienza. Anzi ciascuno gli ha da dannare senza indugio, non si potendo tollerare nel genero umano un momento solo chi, per sottrarsi alla provvidenza celeste, elegga più volentieri di sottoporsi alle illusioni diaboliche, gravi nella magia, ma forse più gravi ancor nell’astrologia. Nella magìa ritengono i demoni la propria forma di larve spaventose e di lamie sozze: nell’astrologia vengon sott’abito trapuntato di stelle.