SALMI BIBLICI. “DOMINE, EXAUDI ORATIONEM MEAM; AURIBUS” (CXLII)

SALMO 142: DOMINE, EXAUDI ORATIONEM MEAM; auribus…

CHAINE D’OR SUR LES PSAUMES

ou LES PSAUMES TRADUITS, ANALYSÉS, INTERPRÉTÉS ET MÉDITÉS A L’AIDE D’EXPLICATIONS ET DE CONSIDÉRATIONS SUIVIES, TIRÉES TEXTUELLEMENT DES SAINTS PÈRES, DES ORATEURS ET DES ÉCRIVAINS CATHOLIQUES LES PLUS RENOMMÉS. 

[I Salmi tradotti, analizzati, interpretati e meditati con l’aiuto delle spiegazioni e delle considerazioni seguite, tratte testualmente dai santi Padri, dagli oratori e dagli scrittori cattolici più rinomati da …]

Par M. l’Abbé J.-M. PÉRONNE,

CHANOINE TITULAIRE DE L’ÉGLISE DE SOISSONS, Ancien Professeur d’Écriture sainte et d’Éloquence sacrée.

[Canonico titolare della Chiesa di Soissons, Professore emerito di Scrittura santa e sacra Eloquenza]

TOME TROISIÈME (III)

PARIS – LOUIS VIVES, LIBRAIRE-ÉDITEUR 13, RUE DELAMMIE, 1878

IMPRIM.

Soissons, le 18 août 1878.

f ODON, Evêque de Soissons et Laon.

Salmo 142

Psalmus David, quando persequebatur eum Absalom, filius ejus.

 [1] Domine, exaudi orationem meam; auribus

percipe obsecrationem meam in veritate tua; exaudi me in tua justitia.

[2] Et non intres in judicium cum servo tuo, quia non justificabitur in conspectu tuo omnis vivens.

[3] Quia persecutus est inimicus animam meam, humiliavit in terra vitam meam; collocavit me in obscuris, sicut mortuos sæculi.

[4] Et anxiatus est super me spiritus meus; in me turbatum est cor meum.

[5] Memor fui dierum antiquorum: meditatus sum in omnibus operibus tuis, in factis manuum tuarum meditabar.

[6] Expandi manus meas ad te; anima mea sicut terra sine aqua tibi.

[7] Velociter exaudi me, Domine; defecit spiritus meus. Non avertas faciem tuam a me, et similis ero descendentibus in lacum.

[8] Auditam fac mihi mane misericordiam tuam, quia in te speravi. Notam fac mihi viam in qua ambulem, quia ad te levavi animam meam.

[9] Eripe me de inimicis meis, Domine; ad te confugi.

[10] Doce me facere voluntatem tuam, quia Deus meus es tu. Spiritus tuus bonus deducet me in terram rectam.

[11] Propter nomen tuum, Domine, vivificabis me; in aequitate tua, educes de tribulatione animam meam;

[12] et in misericordia tua disperdes inimicos meos, et perdes omnes qui tribulant animam meam, quoniam ego servus tuus sum.

[Vecchio Testamento Secondo la Volgata Tradotto in lingua italiana da mons. ANTONIO MARTINI Arciv. Di Firenze etc.

Vol. XI

Venezia, Girol. Tasso ed. MDCCCXXXI]

SALMO CXLII

Davide, nella persecuzione di Assalonne, conoscendo il proprio peccato, lo deplora e invoca la misericordia di Dio. È Salmo penitenziale, che insegna ai veri penitenti la norma di pregare.

Salmo di David, quando lo perseguitava Assalonnesuo figlio.

1. Signore, esaudisci la mia orazione; porgi le orecchie alle mie suppliche secondo la tua verità; esaudiscimi secondo la tua giustizia.

2. E non entrare in giudizio col tuo servo; dappoiché nessun vivente sarà riconosciuto per giusto al tuo cospetto.

3. Perché il nimico ha perseguitato l’anima mia; ha umiliata la mia vita fino alla terra.

4. Mi ha confinato in luoghi tenebrosi, come i morti da gran tempo; ed è involto nell’affanno il mio spirito, il mio cuore si è conturbato dentro di me.

5. Mi son ricordato dei giorni antichi, ho meditate tutte le opere tue; meditava le cose fatte dalle tue mani.

6. A te io stesi le mani mie; l’anima mia è a te come una terra priva d’acqua.

7. Esaudiscimi prontamente, o Signore; è venuto meno il mio spirito. Non rivolger la tua faccia da me, perché  sarei simile a que’ che scendono nella fossa.

8. Fa ch’io senta al mattino la tua misericordia, perché in te ho sperato. Fammi conoscer la via che ho da battere, perché a te ho elevata l’anima mia.

9. Liberami, o Signore, da’ miei nemici, a te son ricorso; insegnami a far la tua volontà. Perché mio Dio se’ tu.

10. Il tuo spirito buono mi condurrà al diritto cammino, pel nome tuo, o Signore! Mi  darai vita secondo la tua equità.

11. Trarrai dalla tribolazione l’anima il e per tua misericordia manderai dispersi il nemici.

12. E dispergerai tutti coloro che affliggono l’anima mia perché tuo servo son io.

Sommario analitico

Davide, considerando la spada della giustizia di Dio sospesa sulla sua testa, durante la ribellione di suo figlio Assalonne, non osando invocare alcun merito personale, mette tutta la sua fiducia nella misericordia di Dio. Davide è qui la figura di ogni peccatore penitente.

I. Egli chiede a Dio di essere esaudito, e riporta diverse ragioni in appoggio della sua preghiera:

1° egli prega di esaudirlo, secondo la verità delle sue promesse e l’equità della sua giustizia (1);

2° perché se Dio entra in discussione ed in giudizio con lui, nessun uomo vivente sarà giustificato davanti a Lui (2);

3° perché egli è stato perseguitato ed umiliato profondamente dal suo nemico, dal demonio (3);

4° perché è stato gettato nell’oscurità e nelle tenebre, come i morti da secoli;

5° perché la sua anima è stata piena di turbamenti, ansia ed angoscia (4).

II. – Davide ci insegna come abbia iniziato ad uscire da questo infelice stato:

1° ha passato in rassegna il ricordo della grandezza e delle misericordie di Dio;

2° ha considerato attentamente tutte le sue opere (5);

3° ha steso le sue mani verso Dio per ottenere che irrorasse con la sua grazia e rendesse feconda tutta la terra arida dell’anima sua (6);

4° egli prega Dio di non tardare nel soccorrerlo, a causa dell’estremità alla quale si trova ridotto (7).

III. – Egli chiede a Dio di fargli sentire senza indugi gli sforzi della sua misericordia (8), e di insegnargli la sua volontà:

1° facendogli conoscere la via celeste per la quale l’anima può giungere fino a Lui (8);

2° rompendo i legami nei quali i suoi nemici lo tenevano prigioniero (9);

3° insegnandogli come debba camminare in questa via (10);

4° chiedendo come sua guida lo Spirito-Santo, affinché non si allontani dalla via (10);

5° dandogli la vita e la forza necessaria per non cadere lungo il cammino (11);

6° liberandolo da tutte le sue tribolazioni e da tutti i suoi nemici perché egli è suo servo (12, 13).

Spiegazioni e considerazioni

I. — 1-4.

ff. 1, 2. – Qua è la natura di questa preghiera? È questo un punto che gli uomini esaminano con cura per cui non si raccolgono in preghiera se non quando sembri loro giusto e legittimo. Ma cosa si domanda ordinariamente quando ci si rivolge agli uomini? Onori, ricchezze, la loro protezione contro l’ingiustizia; lo stesso avviene nel sollecitare i giudici nelle cose che oltrepassano il loro potere. Ma noi, al contrario, chiediamo a Dio la remissione dei nostri peccati, e facciamo ricorso alla preghiera, quando non abbiamo potuto ottenere perdono dal giudice interiore, cioè dalla nostra coscienza, che non ci lascia riposo alcuno. (S. Chrys.) – Cosa fate o Profeta? Voi dite in un istante: « Non entrate in giudizio con il vostro servo, perché nessun uomo vivente sarà giustificato davanti a voi, » e domandate qui di essere esaudito secondo le regola della giustizia? Egli non parla qui della sua giustizia; egli dirà anche, nel versetto seguente che, comparata a quella di Dio, essa non è nulla. La giustizia di cui qui si vuol parlare è la bontà. La giustizia degli uomini è senza misericordia, ma non è così la giustizia di Dio. La misericordia in Lui si trova sempre mescolata alla giustizia, ed in proporzione tale che la giustizia prenda nome di bontà. (S. Chrys.).  Egli implora dunque la giustizia divina, che si esercita propriamente in questo mondo con la misericordia, perché perdonando al peccatore, Dio usa del diritto supremo  che ha di cancellare i peccati e ristabilire la giustizia in un’anima che si era resa colpevole. –  Chi sono coloro che vogliono entrare in giudizio con Dio, se non coloro che, non conoscendo la giustizia di Dio, pretendono di stabilire la propria giustizia. « Perché, essi dicono, abbiamo digiunato e non l’avete visto? Perché tenuto la nostra anima nelle privazione e non l’avete saputo? » (Isai. LVIII, 3). È come se gli dicessero: noi abbiamo fatto ciò che avete comandato, perché non ci rendete ciò che avete promesso? Dio vi risponde: perché voi riceviate ciò che ho promesso, io ve lo darò; affinché voi fissiate di che meritare ciò che ho promesso, io ve l’ho dato … è dunque con ragione che l’uomo umile dice a Dio: « Non entrate in giudizio con il vostro servo; » non abbiamo infatti da dibattere tra noi; io non voglio avere processo da Voi, perché non abbia a mettere avanti la mia giustizia, e Voi non mi convinciate della mia iniquità. (S. Aug.) – « Non entrate in giudizio con il vostro servo. » Perché questo? « Perché nessun uomo vivente potrà giustificarsi davanti a Voi. » Che bisogno c’è di parlare di me, di questo, di quello? Non c’è alcun uomo sulla terra che possa essere trovato giusto, se entra in discussione con Voi sui comandamenti che gli avete imposto; il vostro trionfo è dunque completo. (S. Chrys.) – Quale speranza ci resterà, se Dio volesse giudicarci secondo le regole severe della sua giustizia, se esigesse che l’innocenza della nostra vita fosse in rapporto con la sua infinità santità? Chi è tra i mortali colui che potrebbe essere giustificato in presenza di Dio, allorché la collera, il dolore, la lussuria, l’ignoranza, l’oblio, la necessità, venisse a mescolarsi in tutte le sue azioni, con una sequenza naturale della debolezza del corpo o delle agitazioni di un’anima mobile ed incostante, allorché tutti i giorni è minacciato da un implacabile nemico, il demonio, che tende trappole all’anima fedele e la perseguita fino alla morte? (S. Hil.). – Noi dobbiamo temere che Dio entri con noi in giudizio: 1° a causa delle macchie e dei resti funesti che i peccati passati hanno lasciato nella nostra anima; – 2° A causa dei peccati attuali che non cessiamo di commettere; – 3° a causa delle imperfezioni anche delle buone opere; – 4° perché queste buone opere, quali siano, sono in numero troppo piccolo rispetto alle grazie che noi abbiamo ricevuto; – 5° perché Dio ci chiederà conto rigorosissimo di queste grazie; 6° perché l’uomo non sa se è degno di amore o di odio,  e colui al quale la sua coscienza rende testimonianza la più favorevole non può tuttavia essere sicuro di essere senza macchia davanti a Dio.   

ff. 3, 4. – Il Profeta dipinge qui le tristi sequel del peccato in un’anima che è stata perseguitata, perseguita, e vinta dal demonio. – I nemici della salvezza cominciano col perseguitarla, molestarla, presentandole mille occasioni di cadute, moltiplicando le tentazioni. – Essi la curvano interamente verso terra, e la umiliano piombandola nel fango delle passioni e nell’abisso del peccato: « Avevo altre volte delle ali e prendevo liberamente il mio volo; ora, il mio nemico, il demonio, ha perseguitato la mia anima, se ne è impadronita, ne ha legato piedi e mani, come un uccello che, caduto in potere dell’uomo, sembra come morto, perché non ha più la libertà di volare; è così che il mio nemico mi ha legato con la coscienza dei miei peccati. » (S. Gerol.). – Essi diffondono nell’anima delle tenebre dense che fanno considerare i falsi beni come dei veri beni; che gli nascondono i precipizi, affinché vi cada, ed il cammino del cielo per paura che vi entri. San Paolo ci dipinge queste tenebre spirituali, allorquando dice, parlando dei pagani: « Essi camminano nella vanità dei loro pensieri, hanno lo spirito pieno di tenebre, e sono interamente allontanati dalla vita di Dio, a causa dell’ignoranza che è in loro, e l’accecamento del loro cuore. » (Ephes. IV, 17, 18) – « Tribolazione, angoscia, per l’anima di ogni uomo che fa il male. » (Rom. II, 9). Il torbido si impossessa di tutte le sue facoltà; il suo spirito, creato per un fine più nobile, cade nel disgusto, nella noia; il suo cuore, divenuto il trastullo delle passioni, è il centro dei movimenti più tempestosi. Questo turbamento della coscienza, è la risorsa contro il peccato: se il peccatore vuol profittarne, il demonio non  lo ispira più, ma se ne serve per portare l’uomo alla disperazione.

II. — 5-7

ff. 5-7. – È una grande consolazione conoscere nello stesso tempo il passato ed il presente; perché come il mondo attuale è governato dalle stesse leggi divine delle generazioni che ci hanno preceduto, il ricordo degli avvenimenti antichi è una delle più dolci consolazioni per il presente. (S. Crys.). Ricordiamoci, dunque, in mezzo alle nostre prove, delle meraviglie che Dio ha operato nei secoli passati, in favore di coloro che hanno fatto ricorso a Lui. Quando il demonio si sforza di abbattere il nostro coraggio con il ricordo delle nostre colpe, meditiamo le grandi misericordie di Dio su coloro che hanno sinceramente rinunziato ai loro peccati. – Come la terra dura e disseccata sembra domandare la pioggia, solo esponendo al cielo la sua aridità, così l’anima, esponendo i suoi bisogni a Dio, lo prega veramente. È ciò che qui dice Davide: Ah! Signore, io non ho bisogno di pregarvi, è il mio bisogno che vi prega, la mia necessità vi prega, tutte le mie miserie e tutte le mie debolezze vi pregano: « La mia anima è davanti a Voi come terra arida e senza acqua. » (BOSSUET, Opusc. Prière au nom de J.-C.). « Sforzatevi, Signore, di esaudirmi, la mia anima è caduta in  disgrazia. » Cosa dite? Approntate la medicina della guarigione? No, ma accade d’ordinario alle anime che sono nell’afflizione, come agli uomini provati dalla sventura, cercare una pronta liberazione dai loro mali. (S. Chrys.). – In tutte le circostanze, bisogna attendere i momenti di Dio, ed è vero il dire che l’attitudine alla pazienza è veramente il genio del Cristiano. Ma quando si sente la propria anima mancare, quando la causa di questo mancamento è il pesante pensiero dei peccati commessi, quando infine è a Dio che ci si rivolge, è anche necessario sentire e testimoniare il desiderio che il soccorso richiesto non sia differito per lungo tempo (Rendu). – A meno di un ritorno favorevole a Dio, il peccatore discenderà sempre più nella fossa profonda del peccato, e di là nella tomba ancor più profonda dell’inferno.

III. — 8-13.

ff. 8-9. – « Fatemi sentire, fin dal mattino, la voce della vostra misericordia. « Io sono piombato nella morte, ma ho messo in Voi la mia speranza, finché non passi l’iniquità della notte » (Ps. LXI, 2). – « Al mattino, Voi ascolterete la mia voce; al mattino, mi porrò davanti a Voi e vi contemplerò » (Ps. V, 4. 5) « … perché ho messo in Voi la mia speranza. » In effetti, se speriamo ciò che non vediamo ancora, noi l’aspettiamo con il soccorso della pazienza. (Rom. VIII, 25). « La notte esige la pazienza, il giorno darà la gioia, » (S. Agost.) – « Fatemi conoscere la via in cui camminare. » Tutto il segreto della vita è in questa preghiera; conoscere la propria strada, vuol dire conoscere ciò che si deve credere quaggiù, ciò che si deve sperare, praticare; ciò che si deve fare perché questa vita sia come il vestibolo del cielo, ecco l’uomo intero e la vita in tutti i suoi aspetti … –  Quante volte i cuori più fermi sono sconvolti nelle loro vie, e vacillano nel cammino della vita! L’anima guarda in tutte le direzioni, e non scopre che le tenebre più fitte; non le resta che la preghiera del Profeta: « … fatemi conoscere la strada in cui volete che io cammini. » Ma anche essa prova allora che in un quarto d’ora di intrattenimento, di conversazione con Dio, si impara più dei nostri destini, sulla direzione da dare a certi affari delicati, che le più lunghe riflessioni e le più abili combinazioni dell’umana saggezza. (Mgr LANDRIOT, Prière, II, 10).   

ff. 10. –  Supponiamo che un uomo si sia smarrito in una foresta oscura o un deserto senza uscita: egli si agita con ardore per trovare una strada che lo conduca al termine del suo viaggio e, se non può riuscire, se l’impenetrabile caos degli alberi e l’onda inesorabile delle solitudini, rifiutano di rispondere alle sue voce, se le sue grida, malgrado i violenti sforzi per richiamare indicazioni e guide che lo illuminino, muoiono intorno a sé senza eco, la sua inquietudine diventa profonda e minaccia di raggiungere la disperazione. Ecco la nostra disperazione nella vita, se non sappiamo nettamente la direzione che essa debba prendere, e la via per la quale dobbiamo camminare … Conoscere esattamente la via che bisogna seguire, è evidentemente il bisogno più imperioso di ogni anima cristiana. (Mgr LANDRIOT, Euch. IV, 20.) – « Perché ho levato la mia anima verso di Voi » egli chiede a Dio la via che conduce a Lui, ma comincia a fare ciò che dipende da lui per entrarvi: « Io ho elevato la mia anima verso di Voi; » vale a dire che è verso Dio soltanto che sospira il mio cuore, è verso di Voi solo che io tengo fissi gli occhi. È in effetti, alla anime così disposte che Dio si compiace farsi conoscere. (S. Chrys.). – Egli va ancor più lontano, chiede di essere liberato dalla tentazione del demonio, che si sforza sovente di oscurarne l’intelligenza per impedirgli di vedere la via della giustizia; perché le concupiscenze scatenate dal tentatore fanno sì che le cose ci appaiono diverse da come in realtà esse sono. (Bellarm.).

ff. 9 – 18. – È difficile immaginare una preghiera più bella e più santa di questa: « Insegnatemi Signore, a fare la vostra volontà, perché Voi siete il mio Dio. » 1° Essa contiene la confessione della nostra debolezza; noi riconosciamo che, senza la luce divina, siamo incapaci di compiere ciò che a Dio piace. 2° Essa racchiude la persuasione intima in cui noi siamo, o piuttosto la viva fede che abbiamo, che per noi vi sia un obbligo stretto di fare ciò che piace a Dio esigere da noi. 3° Essa offre a Dio l’omaggio di tutto ciò che siamo, perché, dal momento che noi dichiariamo che Egli è il nostro Dio, non escludiamo alcun tipo di dipendenza, alcun genere di servizio. (Berthier). – Non bisogna fermarsi alla conoscenza della volontà di Dio: « Non cessiamo di pregare per voi, diceva San Paolo ai Colossesi, e di chiedere a Dio che vi riempia della conoscenza della sua volontà e di ogni intelligenza spirituale. » Ma notate quale deve essere la fine di questa conoscenza, « … perché possiate comportarvi in maniera degna del Signore, per piacergli in tutto, portando frutto in ogni opera buona e crescendo nella conoscenza di Dio; » (Coloss. I, 9-10) – « … Perché Voi siete il mio Dio. » Non esiste che una sola volontà che abbia il diritto essenziale ed assoluto di essere obbedita, la volontà dell’Essere eterno che ha creato tutto e che conserva tutto: da qui la mirabile preghiera del Profeta-Re: « Insegnatemi Signore, a fare la vostra volontà, perché Voi siete il mio Dio. » Poiché Egli ci ha creato, e creati capaci di una buona e di una cattiva scelta, è Lui che ci insegna, e che cosa può insegnare di meglio se non fare la sua volontà? Questa volontà sovrana ha dei ministri per ricordare i suoi ordini e mantenerne l’esecuzione nella famiglia, nello stato, nella Chiesa, e l’obbedienza loro è dovuta, perché essi rappresentano Dio, ognuno nel suo ordine, secondo i gradi di una sublime gerarchia che risale dal padre al re, dal re al Pontefice, dal Pontefice a Gesù-Cristo, da Gesù-Cristo a Colui che lo ha inviato, e « dal quale ogni paternità, in cielo e sulla terra, prende il suo nome, » vale a dire la sua autorità. (Lam., imit.) – Perché Voi siete il mio Dio, « io sarei corso verso un altro, per essere creato di nuovo, se un altro mi avesse fatto » Voi siete il mio tutto, « perché Voi siete il mio Dio. » Cercherò un padre per avere la sua eredità? « Voi siete il mio Dio, » che non solo date un’eredità, ma siete Voi stesso mia eredità. » (Ps. XV, 5). Cercherò un maestro che mi riscatti: « Voi siete il mio Dio. » Cercherò un padrone che mi liberi: « Voi siete il mio Dio. » Infine, dopo essere stato creato, desidero essere ricreato nuovamente: « Voi siete il mio Dio » mio Creatore che mi avete creato per mezzo del Verbo e creato di nuovo per mezzo del Verbo. Ma Voi mi avete creato per mezzo del Verbo dimorante in Voi, e mi avete creato di nuovo per mezzo del Verbo fatto carne per la nostra salvezza. « Insegnatemi dunque a fare la vostra volontà, perché Voi siete il mio Dio. » – « Insegnatemi, » perché non può essere che nello stesso tempo Voi siate il mio Dio, ed io il mio maestro. Notate come il Profeta ci mostri qui la grazia. Conservate bene questo pensiero, penetrate in esso, e nessuno possa farlo uscire dal vostro cuore, per timore di avere per Dio uno zelo che non sia secondo scienza, per timore ancora che, ignorando la giustizia di Dio e volendo stabilire la vostra, non siate sottomesso alla giustizia di Dio (Rom. X, 2-3). – Voi riconoscete là, senza dubbio, le parole dell’Apostolo. Dite dunque: « Insegnatemi, affinché io faccia la vostra volontà, perché Voi siete il mio Dio. » (S. Agost.) – Il Padre ci ha creati con la sua potenza, il Figlio ci insegna le sue vie mediante la sapienza, lo Spirito-Santo ci fa entrare e ci conduce con la sua grazia. – E siccome Dio solo è buono, con la testimonianza di Gesù-Cristo, si può anche dire che non c’è che lo Spirito di Dio che sia buono. – Il vostro Spirito che è buono, e non il mio che è cattivo. « Il vostro Spirito, che è buono, mi condurrà in terra di giustizia, » perché il mio spirito che è cattivo, mi ha condotto in terra di ingiustizia. E cosa ho meritato? Quali buone opere ho fatto senza la vostra assistenza, che possano essermi accreditate, affinché o ottenga e sia degno di essere condotto dal vostro Spirito in terra di giustizia? (S. Agost.). – Ricordate la grazia che vi segnala qui il Profeta e che vi ha gratuitamente salvato: « A causa del vostro Nome, Signore, Voi mi farete vivere: nella vostra giustizia e non nella mia; non perché io l’abbia meritato, ma perché Voi siete misericordioso; perché se volessi mostrare i miei meriti, io non meriterei da Voi se non supplizi. Voi avete fatto sparire i miei meriti, e li avete compensati con i vostri doni. » (S. Agost.). Motivo della confidenza del Profeta, è la professione che fa di essere il servo di Dio. – Noi siamo servi di Dio a doppio titolo, perché Egli ci ha creati, perché ci ha riscattato come gli altri uomini e perché ci ha tratti da una servitù più gravosa della prima, perché proveniva dalla nostra volontà.

FESTA DI MARIA REGINA (2020)

FESTA DI MARIA REGINA (2020)

Rerum suprémo in vértice
Regína, Virgo, sísteris,
Exuberánter ómnium
Ditáta pulchritúdine.

Princeps opus formósior
Verbo creánti prǽnites,
Prædestináta Fílium,
Qui prótulit te, gígnere.

Ut Christus alta ab árbore
Rex purpurátus sánguine,
Sic passiónis párticeps,
Tu Mater es vivéntium.

Tantis decóra láudibus,
Ad nos ovántes réspice,
Tibíque sume grátulans
Quod fúndimus præcónium.

Jesu, tibi sit glória,
Qui natus es de Vírgine,
Cum Patre et almo Spíritu
In sempitérna sǽcula.
Amen.

[Vergine Regina: sei collocata
al vertice della creazione
e dotata d’una bellezza che supera
la bellezza di tutte le creature.

Opera somma, sei la più bella
ed amabile al Verbo creatore,
predestinata ad esser madre
di quel Figlio che ti creò.

Come Cristo, dall’alto della Croce,
fu vero re nella sua porpora insanguinata,
così tu, partecipe della passione di lui,
sei madre di tutti i viventi.

Splendida per così grandi titoli di onore,
guarda a noi che ti esaltiamo:
accetta l’inno di lode
che t’innalziamo per lodarti.

Sia gloria a te, o Gesù,
che sei nato dalla Vergine;
con il Padre e lo Spirito Santo
per tutti i secoli.
Amen.]

De libro Ecclesiástici

Sir XXIV: 5-11; 14-16; 24-30


5 Ego ex ore Altíssimi prodívi, primogénita ante omnem creatúram:
6 Ego feci in cælis ut orirétur lumen indefíciens, et sicut nébula texi omnem terram:
7 Ego in altíssimis habitávi et thronus meus in colúmna nubis.
8 Gyrum cæli circuívi sola, et profúndum abýssi penetrávi, in flúctibus maris ambulávi,
9 Et in omni terra steti: et in omni pópulo,
10 Et in omni gente primátum hábui:
11 Et ómnium excelléntium et humílium corda virtúte calcávi: et in his ómnibus réquiem quæsívi, et in hereditáte Dómini morábor.

14 Ab inítio, et ante sǽcula creáta sum, et usque ad futúrum sǽculum non désinam, et in habitatióne sancta coram ipso ministrávi.
15 Et sic in Sion firmáta sum, et in civitáte sanctificáta simíliter requiévi, et in Jerúsalem potéstas mea.
16 Et radicávi in pópulo honorificáto, et in parte Dei mei heréditas illíus, et in plenitúdine sanctórum deténtio mea.

 24 Ego mater pulchræ dilectiónis, et timóris, et agnitiónis, et sanctæ spei.
25 In me grátia omnis viæ et veritátis: in me omnis spes vitæ et virtútis.
26 Transíte ad me, omnes qui concupíscitis me, et a generatiónibus meis implémini;
27 Spíritus enim meus super mel dulcis, et heréditas mea super mel et favum.
28 Memória mea in generatiónes sæculórum.
29 Qui edunt me, adhuc esúrient, et qui bibunt me, adhuc sítient.
30 Qui audit me non confundétur, et qui operántur in me non peccábunt: qui elúcidant me, vitam ætérnam habébunt.

[5 Io sono uscita dalla bocca dell’Altissimo, primogenita di tutta la creazione.
6 Io ho fatto sorgere nel cielo una luce indefettibile e come vapore ho coperto tutta la terra.
7 Ho posto la mia tenda in alto: il mio trono è sopra una colonna di nube.
8 Io sola ho percorso la volta del cielo, sono penetrata nelle profondità dell’abisso, ho camminato sui flutti del mare
9 E su tutta la terra: ho preso dominio su ogni popolo
10 E gente:
11 Ho soggiogato, con la mia forza, il capo dei potenti e degli umili; e in tutti questi ho cercato riposo, e mi fermerò nei domini del Signore.

14 Mi creò prima del tempo, dal principio; né tramonterò mai più. Davanti a lui servivo nella sua tenda.
15 E perciò ho preso dimora stabile in Sion, e mi fermai nella città amata; io comando su Gerusalemme.
16 Affondai le radici presso un popolo glorioso, nella porzione del Signore, nella sua eredità.]

24 Io sono la madre del vero amore, del timore e della scienza e della santa speranza.
25 In me è ogni grazia di via e di verità, in me ogni speranza di vita e di virtù.
26 Venite a me, o voi tutti che mi desiderate, e saziatevi dei miei frutti.
27 Perché il pensare a me è dolce più del miele, e il possedermi più del miele e del favo:
28 La mia memoria si perpetuerà nelle successioni dei secoli.
29 Quelli che mi mangiano avranno ancora fame e quelli che mi bevono avranno ancora sete.
30 Chi mi ascolta non avrà da arrossire, e quelli che operano per me non peccheranno. Quelli che mi esaltano, avranno la vita eterna.]

Sermone di s. Pier Canisio presbitero

Su Maria Madre di Dio Vergine incomparabile, lib. 15, c. 13

Seguendo san Giovanni Damasceno, sant’Atanasio e altri, perché non dobbiamo chiamare regina la vergine Maria, quando nelle Scritture sono esaltati il suo antenato David come famoso re e il Figlio suo come re dei re e signore dei dominanti, per l’eternità? Inoltre Maria è regina se la si unisce con coloro che, quasi come re, posseggono il regno dei cieli, assieme con Cristo, il re eterno: infatti essi sono eredi assieme a Gesù e siedono sul suo stesso trono, per usare una frase della Scrittura. Maria è regina non inferiore a nessun altro; anzi, è levata talmente al di sopra degli angeli e degli uomini, che nessuno può essere più alto e più santo di lei: infatti solo lei ha un figlio comune con il Padre. Al di sopra di sé vede solo il Padre e il Figlio, e al di sotto di sé ogni altra creatura.

Il grande sant’Atanasio disse con acutezza: «Maria deve esser ritenuta realmente non solo Madre di Dio, ma anche regina e signora, poiché quel Cristo che nacque da questa vergine Madre, è lui stesso Dio, signore e re». Si può attribuire a questa regina quello che si legge nei salmi: «Alla tua destra si è assisa la regina, vestita in laminato d’oro». Inoltre Maria è regina non soltanto del cielo, ma pure dei cieli, essendo la madre del re degli angeli, e l’amica e la sposa del re dei cieli. O Maria, nobile regina e madre fedele, nessuno ti implora senza essere aiutato e tutti ti siamo riconoscenti per le tue grazie: ti prego e ti supplico con insistenza e con rispetto, di accettare e di approvare questa manifestazione della mia devozione, di tener conto della mia offerta, non badando alla sua consistenza, ma alla mia buona volontà, e di raccomandarmi al tuo Figlio onnipotente.

Dalla Lettera enciclica del papa Pio XII

Enciclica Ad caeli Reginam, 11 Ottobre 1954

Dai monumenti dell’antichità cristiana, dalle preghiere liturgiche, dall’innata devozione del popolo cristiano, dalle opere d’arte, da ogni parte abbiamo potuto raccogliere espressioni ed accenti, secondo i quali la vergine Madre di Dio consta primeggiare per la sua dignità regale; ed abbiamo anche provato come le ragioni che la sacra teologia ha dedotto dal tesoro della fede, confermino pienamente questa verità. Di tali testimonianze riportate si forma un concerto, la cui eco risuona larghissimamente per celebrare il sommo fastigio della regale dignità della Madre di Dio e degli uomini, che è al di sopra di ogni cosa creata, e che è stata «innalzata sopra i cori degli angeli, ai regni celesti». Essendoci poi fatta la convinzione, dopo mature e ponderate riflessioni, che verranno grandi vantaggi alla Chiesa, se questa verità, solidamente dimostrata, risplenderà più evidente davanti a tutti – quasi lucerna più luminosa posta sul suo candelabro – con la nostra autorità apostolica, decretiamo e istituiamo la festa di Maria Regina, da celebrarsi in tutto il mondo il giorno 31 maggio di ogni anno.

Omelia di s. Bonaventura vescovo

Sermone sulla regia dignità della Beata Maria Vergine

La beata vergine Maria è diventata madre del sommo Re mediante una maternità del tutto singolare, secondo quanto si sentì dire dall’angelo: «Ecco, concepirai e darai alla luce un figlio»; e inoltre: «Il Signore gli darà il trono di David suo padre, e regnerà sulla casa di Giacobbe in eterno e il suo regno non avrà fine». È come se dicesse apertamente: Concepirai e darai alla luce un figlio che è re, che eternamente abita sul suo trono regale, e per questo tu regnerai come madre del Re, e come Regina siederai tu pure sul trono regale. Se infatti è giusto che il figlio onori la madre, è altrettanto giusto che partecipi ad essa il trono regale; per questo, per il fatto cioè che la vergine Maria ha concepito colui che porta scritto sul suo femore «Re dei re e Signore dei dominanti», nell’istante stesso in cui concepì il Figlio di Dio, divenne Regina non soltanto della terra, ma anche del cielo. E questo era stato preannunciato nell’Apocalisse dove si dice : «Un grande prodigio apparve nel cielo: una donna vestita di sole, e la luna sotto i suoi piedi, e sul suo capo una corona di dodici stelle».

Anche riguardo alla sua gloria, Maria è regina illustre. Il Profeta esprime ciò in modo adeguato in quel salmo, che si riferisce in modo particolare a Cristo e alla vergine Maria. In esso si afferma in un primo luogo di Cristo: «Il tuo trono, o Dio, è eterno». Poco dopo si dice della Vergine: «Alla tua destra è assisa la regina». Ciò si riferisce alle qualità più elevate, e perciò viene attribuito alla gloria del cuore. Poi il testo prosegue: «Vestita in laminato d’oro»: qui si intende il vestito di quella gloriosa immortalità che Maria acquistò con l’assunzione. Non si può credere che il vestito che aveva circondato il Cristo e che sulla terra era stato santificato totalmente dal Verbo incarnato, fosse distrutto dalla corruzione. Come fu opportuno che Cristo donasse a sua Madre la grazia totale quando ella fu concepita, così fu pure opportuno che donasse la gloria completa con l’assunzione di sua Madre. Ne consegue che è da ritenere vero il fatto che la Vergine, entrata nella gloria con l’anima e con il corpo, sia assisa accanto al Figlio.

Maria è regina e distributrice di grazie: ciò fu. intuito nel libro di Ester, dove è scritto: «La fonte crebbe diventando fiume, e poi si trasformò in luce e in sole». La vergine Maria, raffigurata nella persona di Ester, è paragonata al dilatarsi dell’acqua e della luce, proprio perché diffonde la grazia che aiuta l’azione e la contemplazione. La stessa grazia di Dio che curò l’umanità, fu comunicata a noi attraverso Maria, come attraverso un acquedotto: è un compito della Vergine distribuire la grazia, non perché sia creatrice di grazia, ma perché ce la guadagna con i suoi meriti. Giustamente, quindi, la vergine Maria è regina nobile di fronte al suo popolo, proprio perché ci ottiene il perdono, vince le difficoltà, distribuisce la grazia e finalmente, introduce nella gloria.

REGINA Christianorum … ora pro nobis

SACRO CUORE DI GESÙ (31): IL SACRO CUORE DI GESÙ E LA SUA ESTREMA AGONIA

[A. Carmignola: Il sacro Cuore di Gesù; S. E. I. Torino, 1929]

IL SACRO CUORE DI GESÙ

DISCORSO XXXI.

Il Sacro Cuore di Gesù e la sua estrema agonia.

Su, o miei cari, su ascendiamo al monte santo di Dio, ascendiamo al Calvario, e contempliamo il Crocifisso Gesù sull’altare del suo sacrifizio. Oh Dio! che spettacolo si presenta ai nostri occhi! In che stato è ridotto l’amabile Gesù e quali sofferenze lo aggravano nel corpo e nell’anima! Eccolo sospeso tra cielo e terra, ritenuto da grossi chiodi su d’un infame patibolo, coperto di sangue e di piaghe dalla testa ai piedi. Egli soffre, e senza aicun sollievo. Se cerca riposarsi sui piedi, ohimè! non ha per appoggiarli se non il ferro, che li trapassa; se vuole riposarsi sulle mani, non fa che allargarne le piaghe e produrre una dolorosa tensione alle sue braccia; se egli abbassa la testa, accresce il peso del suo corpo, e il petto si gonfia, e la respirazione gli si fa più penosa; se Ei la solleva, la corona di spine incontra il legno della croce e le spine penetrano più addentro. Così non vi ha parte alcuna del suo Corpo adorabile, che non soffra un indicibile tormento. – Ma ben più gravi sono i tormenti della sua anima. Quando un uomo sta agonizzando, si vede circondato dalle persone più care, che gli prodigano le tenerezze più affettuose, e gli recano ogni possibile sollievo, gli porgono qualche stilla di consolazione. Per Gesù non è così. Tutto ciò che lo circonda è per Lui cagione di pena, tutto contribuisce a schiacciare il suo tenero Cuore ed a generargli nello spirito i più accascianti pensieri. Ai piedi della croce vede la sua Madre, S. Giovanni, e le pie donne, immerse nella più grande afflizione; dintorno alla croce vede una soldatesca insolente ed un vile popolaccio, che lo insulta e lo maledice; accanto alla croce, a destra ed a sinistra, vede crocifissi due ladroni per sua maggior ignominia. Oh se almeno lanciando lo sguardo nell’avvenire vedesse la croce tornare di salute a tutti gli uomini! Ma invece Egli ha pur dinnanzi questa dolorosissima vista, che la croce sarà di scandalo pei Giudei, e quale stoltezza ai Gentili. Povero Gesù! quanto soffre per ciò nell’anima sua! Eppure in mezzo a sì terribili sofferenze Egli apre ancora il suo labbro divino per parlare. E per quale ragione? Forse per maledire a’ suoi patimenti? per imprecare a’ suoi crocifissori? per scatenare i fulmini delle sue vendette?… Ah! no, certamente. In quegli estremi istanti della sua agonia Egli sembra dimenticare affatto le pene atrocissime che soffre e non ricordare ed aver presente altro, se non che Egli è un padre, che muore. E come ogni padre di famiglia che sta per morire si dà tosto la più viva sollecitudine di dichiarare a’ suoi figli le sue ultime volontà e di fare in loro vantaggio il suo testamento, così a questo stesso fine Gesù Cristo apre ancora il suo labbro divino e per ben sette volte ancora Egli parla. Per tal modo facendo uscire dal suo Cuore agonizzante sette parole, e compendiando con esse tutte le sue lezioni, tutti i suoi esempi, tutte le prove del suo amore infinito per noi, ci fece sempre meglio toccare con mano, che la causa vera, che lo ha confitto come vittima sull’altare della croce, più assai che non la perfidia de’ Giudei, è stata la carità immensa che nel Cuor suo ci ha portato. Raccogliamoci adunque anche noi presso la croce di Gesù Cristo per intendere le sue parole, ed ascoltandone oggi le tre prime, riconosciamo come per esse questo Padre e maestro divino ci abbia animati a confidare tutti nella sua infinita misericordia e a darci a Lui senza più mai abbandonarlo.

I. — Miei cari! Quale lo avevano descritto i profeti, Gesù Cristo ora veramente sulla croce l’uomo dei dolori, vir dolorum. Eppure a quei dolori atrocissimi, che già pativa nelle sue piaghe, veniva ad aggiungersi in questo momento un altro dolore, ancor più crudele per le anime delicate e sublimi, quello cioè degli insulti e delle derisioni. Benché dinnanzi all’estremo supplizio di un uomo, per quanto scellerato e odiato, sogliano spegnersi gli odii e cader le ire, e non sia mai lecito ad alcuno di compiacersi delle sue pene, di oltraggiare la sua persona e d’insultare al suo dolore, tuttavia per Gesù non accade così. A Lui è negato ogni riguardo. Al vederlo in quel misero stato pendente fra due malfattori, i Giudei esultano di gioia infernale e privi di ogni senso di umanità si fanno a recargli le più orribili ingiurie. Chi lo guarda e lo beffeggia, chi batte palma a palma e lo bestemmia, chi fa fischiate o digrigna i denti, chi crolla il capo e sogghignando esclama: « Va! Suvvia! Tu, che distruggi il tempio di Dio e lo rifabbrichi in tre giorni, salva ora te stesso! Se sei figliuolo di Dio discendi dalla croce! » Ma più empi e protervi di questa vile plebaglia, i sacerdoti, i maggiorenti e i maestri della legge scagliano contro del Giusto inverecondi motti e feroci bestemmie. « Cotesto maliardo, dicono quei tristi, ha salvato gli altri, salvi ora se stesso, se gli basta il vigore. Ei si disse re d’Israele, via! discenda dalla croce sotto gli occhi nostri e non tarderemo a credere nel regno suo. Si è vantato Figliuolo di Dio: vediamo come Dio si affretti a liberarlo. » Oh scellerati Giudei! E non vi basta l’essere venuti a capo delia vostra impresa? Gesù voleste confitto in croce, ed ecco Egli è in croce confitto; a vista delle sue piaghe rimanetevi almeno dall’amareggiarlo con nuovi obbrobri! Ma no! Con delitto più esecrando nel mirare le ambasce del Salvatore più inacerbano la loro collera e più aggravano il loro disprezzo. E Gesù? … Il profeta Isaia, che già molti secoli innanzi aveva descritte e piante le pene destinate al sospirato Redentore, erasi piaciuto dipingerlo a sé e agli altri in sembianza di mite ed innocente agnello, che condotto ad essere ucciso non apre il suo labbro al menomo lamento. Ed invero Gesù, satollo di ogni maniera di obbrobri e di patimenti, da crudi carnefici flagellato e coronato di spine, caricato di pesante croce, e con calci e percosse spinto e trascinato per l’erta di un monte, ed ivi disteso, inchiodato ed innalzato su d’un infame patibolo, mai non aperse la bocca; e a tanti clamori levati contro di Lui non mai altro oppose che un generoso silenzio. – Ma caro Gesù! egli è tempo, che parliate. La vostra dignità fa oltraggiata; il vostro Padre fu offeso; e ciò che è, più ributtante, s’insulta all’innocenza, nella quale voi state per spirare, su, su parlate! Una sola vostra parola sarà bastante a far di tutti questi miserabili un mucchio di cenere! Parlate, che lo aspetta il cielo, che impaziente si è coperto di tenebre.. Parlate … lo aspetta la terra, che trema inorridita bevendo il vostro sangue, parlate… lo aspetta fremendo tutta la natura … parlate, lo aspettano istupiditi gli Angeli … parlate… lo aspettano pieni di rabbia e d’invidia i demoni… parlate… lo aspetta il vostro stesso Padre celeste, che stringe ormai i suoi fulmini per vendicarvi … parlate… Sì, parla Gesù, parla! … ma ben diversamente, da quello che noi aspettiamo. Quanto più forti s’innalzano le voci del cielo e della terra, degli angeli, degli uomini e degli stessi demoni a chiedere vendetta, tanto più forte innalza Gesù il grido dell’amore; e rompendo alla fine i suoi silenzi, rivolti in alto gli oscurati suoi occhi : Padre, esclama, perdona loro, perché non sanno quel che si facciano:

Pater, dimitte illis, non enim sciunt quid faciunt! (Luc. XXIII, 34) Oh parole! oh preghiera! oh misericordia infinita di Gesù Cristo! questo Agnello divino ha interrotto al fine il suo silenzio, ma non per altra ragione che per domandar grazia e perdono a’ suoi crudeli nemici. Ed in qual modo! Con quale efficacia! Quando si farà a lagnarsi del suo abbandono, l’ascolteremo rivolgersi al suo Padre celeste col nome di Dio: Deus, Deus meus; ma ora trattandosi di assicurare a’ suoi crudeli nemici il perdono, lo chiama col nome più dolce che vi sia, col nome di padre, quasi per dirgli: Ricordatevi che Voi siete padre, il più tenero, il più amoroso, il più misericordioso, e che io vi sono il figlio più umile, più sottomesso, più ubbidiente, sino al punto da sacrificare la mia vita fra i più atroci tormenti per compiere la vostra volontà: obediens usque ad mortem, mortem autem crucis. Per le qualità adunque, che adornano la paternità vostra e la mia figliolanza, voi dovete passar sopra al delitto, che costoro han commesso e perdonarli: Pater, dimitte illis. Inoltre ad ottenere più sicuramente l’effetto della sua preghiera, con somma premura si fa ancora in essa a scusare l’enormità del delitto de’ suoi crocifissori, e dice: Non conoscono quello che fauno: Non enim sciunt quid faciunt. Come per dire: Non hanno conosciuto abbastanza che Io sono il Re della gloria, il Salvatore del mondo, il Figlio di Dio; ed è perciò che nel loro furore si sono scagliati a far scempio di Colui, che dovrebbero amare, lodare, benedire, adorare. Sebbene adunque sia grande la loro malizia nell’imperversare che fanno così crudelmente contro di me, abbi tuttavia riguardo, o mio Padre celeste, alla loro ignoranza ed al loro accecamento: Pater, dimitte illis, non enim sciunt quid faciunt. Ah! ben a ragione osserva S. Agostino, non mai vi è stato un avvocato così sollecito, così abile, così efficace a perorare la causa del suo cliente, quanto lo è stato Gesù Cristo nel perorare quella degli stessi suoi crocifissori; perciocché con una prece piena di misericordia infinita allontana da essi la condanna eterna. Per tal guisa mentre i suoi nemici Io provocavano insolentemente a comprovare la sua divinità col discendere dalla croce e salvare se stesso, Egli diede loro una prova di gran lunga  maggiore di quella che chiedevano, e pur rimanendo sulla croce si manifestò Dio nel modo più splendido e più degno, col fare una preghiera, come nota S. Bernardo, non mai intesa per lo innanzi, e che solo un Figlio di Dio, un Dio Egli stesso, poteva fare. Ma perché mai nostro Signor Gesù Cristo ha voluto fare questa preghiera non già in silenzio, nel secreto del suo Cuore Santissimo, ma bensì ad alta voce da essere intesa da tutti coloro, che stavano intorno alla sua croce? Per due principali ragioni. La prima si fu, perché Gesù Cristo divenuto sull’altare della croce vittima di salute per noi, volle continuare, tuttavia sopra di essa, come sopra la cattedra più degna di lui, ad essere il nostro divino maestro e modello. E poiché già più volte nel corso della vita ci aveva ripetuta la legge del perdono, volle ancora ripetercela un’altra volta ed animarci alla sua pratica con queste sublimi parole, e confermarla con questo ammirabile esempio. Dopo di che, chi vi sarà ancora tra di noi, che al più piccolo affronto, che gli sia fatto, vada tosto in collera, e risponda colle ingiurie, coi giuramenti di odio e di vendetta, colle sfide ingiuste e scellerate? Vi sarà ancora tra di noi, chi avendo ricevuto una qualche offesa la covi e l’ingrandisca nel suo cuore, senza volerla affatto perdonare? Ah! si ricordi il misero, che lo stesso Gesù Cristo in altra circostanza ha solennemente dichiarato, che con la stessa misura, con cui avremo misurato gli altri, saremo misurati pur noi, vale a dire che se noi non perdoneremo agli altri le ingiurie, che ci avessero fatte, Iddio non perdonerà neppure a noi i nostri peccati, e che un giudizio senza misericordia è preparato a colui, che non usa misericordia; ma che il vero Cristiano invece, che docile alla dottrina di Gesù Cristo, e imitatore esatto del suo esempio, non concepirà, né conserverà ira od odio per le offese ricevute, che anzi ricambierà le medesime coll’amore, col benefizio e colla preghiera, sarà certamente da Dio perdonato delle sue colpe e premiato largamente delle sue buone opere. Animo adunque, o miei cari, non rendiamo inutile quella divina condotta, che Gesù Cristo ha tenuto in questa circostanza, per nostro ammaestramento ed esempio, ma a sua somiglianza siamo generosi del perdono anche al nostro più fiero nemico. – Ma la seconda ragione, per cui Gesù Cristo ha fatto ad alta voce questa preghiera di perdono, si fu perché conoscessimo, che colla stessa preghiera Egli chiedeva la stessa grazia non solo per coloro che direttamente lo avevano crocifisso, ma ancora per tutti i peccatori, di ogni tempo e di ogni luogo, i quali ancor essi coi loro peccati hanno cooperato alla passione e morte di Gesù Cristo. Ed in vero il divin Redentore rivoltosi al suo Padre celeste non gli disse: Padre, perdona ai Giudei; ma disse: Padre, perdona loro, volendo dire con questa espressione, come ne insegna S. Giovanni Crisostomo: Padre, perdona ai Giudei, perdona ai gentili, perdona agli estranei, perdona ai barbari, perdona al primo uomo, perdona alla sua posterità, perdona, perdona a tutti. Oh pensiero consolantissimo per noi: Tra i patimenti così atroci, che egli soffriva sopra la croce per cagion nostra, Gesù Cristo non ci ha dimenticati; e sebbene vedesse come anche noi colle nostre iniquità ci univamo ai crudeli Giudei per disprezzarlo e dargli la morte, sebbene conoscesse che in noi vi è maggiore malizia, perché peccando sappiamo di offendere il più grande dei sovrani, il più tenero dei padri, il più affettuoso tra gli amici, tuttavia pure di noi ha sentito pietà, pure per noi ha implorato perdono, e noi pure ha scusati col dire: Non sanno il male che fanno: Pater, dimitte illis, non enim sciunt quid faciunt. Certamente Gesù Cristo non poteva far uscire dal suo Cuore pieno di amore per noi, una preghiera di più grande misericordia. Ma ciò, che più di tutto ci deve consolare si è, che come tutte le preghiere di Gesù Cristo furono sempre dal suo celeste Padre esaudite, così pure fu esaudita questa. Alla voce potente con cui il Salvatore implorava perdono per i suoi crocifissori e per tutti gli uomini del mondo, Iddio si mosse a pietà, e spense la sua collera, colla penna intinta nel sangue istesso del suo Figlio cancellò il funesto decreto che ci condannava alla morte. Da quell’istante adunque fu stabilito che i nostri peccati per i meriti di Gesù Cristo ci siano perdonati, a sola condizione che col suo divin Sangue facciamo scorrere altresì le lagrime di una vera penitenza. Se è così, o miei cari., non tardiamo più un istante a spezzare le pesanti catene del peccato, veniamo tosto correndo a gettarci anche noi ai pie’ della croce di Gesù Cristo, e al suo Sangue prezioso congiungendo le lacrime nostre, meritiamo davvero che il Padre celeste ci perdoni, e non indarno per alcuno di noi Gesù Cristo abbia detto: Pater, dimitte illis, non enim sciunt quid faciunt. Ma passiamo alla seconda parola.

II. — I profeti della passione e morte di Gesù Cristo, tra le molte circostanze, che ne predissero, vi fu anche questa: che Egli sarebbe stato annoverato fra i scellerati : Et cum sceleratis reputatus est. (Is. xxxv) E lo stesso divin Redentore nell’orto del Getsemani, avendo rivolto la parola a’ suoi discepoli, asserì che era necessario che questa profezia si adempisse: Hoc quoque oportet impleri in me: et cum iniquis deputatus est. (Luc. XXII, 3) E questa profezia ancor essa si adempì.Ed in vero mentre Egli era condotto sulla cima del Calvario,insieme con Lui furono condotti due ladroni, al par di Lui condannati alla morte; e come Lui furono crocifissi, l’uno alla sua destra e l’altro alla sua sinistra. Ora, uno di essi,quello che stava alla sinistra, aveva preso egli pure a bestemmiare Gesù, e gli andava dicendo: « Su, se tu sei veramente il Messia, dammelo a conoscere col salvare te stesso e noi!Ma al contrario il ladro che si trovava alla destra e che fino

allora era stato uno scellerato egli pure, inorridito all’udire il compagno del suo supplizio ad insultare così il moribondo Signore, gli volge tosto questo giusto rimprovero: « E come? nemmeno tu, che pur stai sulla croce, temi la collera di Dio, che ti unisci a questo popolo scellerato per insultare un innocente? Noi, sì che soffriamo le pene giustamente dovute ai nostri delitti, ma questi che cosa ha fatto di male? » Rivoltosi quindi al divin Redentore con un’aria tutta umile, con voce supplichevole e col cuore spezzato dal dolore delle sue passate colpe: Signore, gli disse, ricordati di me, quando sarai giunto nel tuo regno: Domine, memento mei, cum veneris in regnum tuum. (Luc. XXIII, 42) Oh fede meravigliosa di questo buon ladrone! Oh mutamento ammirabile del suo cuore! Oh conversione portentosa sopra ogni altra! Fu grande, senza dubbio, la conversione di Maria Maddalena, perciocché una giovane ricca e peccatrice per eccellenza tutto ad un tratto vincendo le inveterate abitudini della colpa, sinceramente pentita andò a gettarsi ai piedi di Gesù Cristo per darsi interamente al suo amore; ma alla fin flne ella si convertiva, quando alla parola di Gesù Cristo i ciechi riacquistavano la vista, i sordi l’udito, i muti la loquela, i lebbrosi e gli infermi la guarigione, e i morti stessi la vita, allora insomma che Gesù comprovava coi miracoli che Egli era veramente Dio.. Così pure fu grande la conversione di Paolo, perché nell’atto stesso che questo fiero persecutore dei novelli seguaci del Nazareno si scagliava a ricercarli per incatenarli e farli condannare, fu di repente tramutato in un vaso di elezione e in un apostolo delle genti; ma egli si convertiva, quando una subita luce si faceva ad investirlo, quando un colpo ignoto lo balzava da cavallo e quando una voce poderosa risuonava per l’aria gridando: Saulo, Saulo, perché mi perseguiti? Ma questo ladro invece si convertiva allora, che Gesù Cristo pendeva dalla croce egli pure, come un vil malfattore, quando era svillaneggiato non solo dalla plebe, ma dagli stessi sacerdoti e maggiorenti, quando appariva agli occhi di tutti come un prodigio di umiliazione e di miseria. Sì, fu allora, che quest’uomo, sino a quel punto ostinato nel delitto, in un istante si converte, e benché vegga Gesù Cristo in mezzo a tanto obbrobrio, crede fermamente, che Egli sia l’innocente, il santo per eccellenza, il sovrano padrone del regno celeste, il Salvatore divino del genere umano; e fu allora che, rimproverato acerbamente il suo compagno degli insulti, che gli profferiva contro, a lui si rivolse, e colla fede più viva, coll’umiltà più profonda, colla contrizione più perfetta gli disse: Signore, ricordati di me, quando entrerai nel tuo regno: Domine, memento mei, cum veneris in regnum tuum. Ma tutto ciò, o miei cari, non fu che un miracolo della potenza della grazia, della bontà di Gesù Cristo. Fu Egli, che sebbene come uomo stesse soffrendo ogni sorta di ludibri, di scherni e di tormenti, come Dio dispiegò ed esercitò in questo ladro quella forza ineffabile, che penetra nelle menti più ottenebrate e le illumina, che tocca i cuori anche più duri e li muta, che comanda alle volontà anche più ribelli e le doma. Fu Egli che commosse quest’uomo sino a quel momento indurato nella colpa, fu Egli che lo animò di una fede sì viva, di una umiltà sì profonda, di una contrizione sì perfetta; fu Egli che gli ispirò e gli suggerì quella bella preghiera; fu Egli che in un attimo, di questo scellerato fece un penitente, un profeta, un evangelista, un martire, un confessore, un predicatore pubblico e coraggioso della sua innocenza, della sua potenza, del suo regno, della sua divinità e della sua redenzione. E così, mentre i Giudei, stupidi e maligni, collocando Gesù tra due ladroni, non avevano pensato ad altro che a maggiormente avvilirlo, beffati da Dio nella loro stupidità e malizia, non servirono invece che a renderlo più glorioso, dandogli agio anche qui di esercitare la sua misericordia, di manifestarsi Dio e di acquistare un nuovo adoratore. Ma se la conversione repentina di questo ladro fu anzitutto l’opera della grazia di Gesù Cristo, non lasciò di essere da parte del ladro una pronta e fedele corrispondenza alla medesima. Epperò questa condotta così ammirabile non poteva rimanere senza premio. Che farà adunque Gesù Cristo? Che cosa gli risponderà? Ah! Gesù Cristo, ascoltata l’umile e confidente preghiera, piega amorosamente verso di lui il suo capo, e con somma dolcezza gli risponde: « Te lo assicuro, oggi sarai meco in paradiso: » Amen dico Ubi: hodie mecum eris in paradiso. (Luc. XXIII, 43) Oh parola! oh risposta degna, d’immortale memoria! Oh prontezza della misericordia divina nel muovere incontro al peccatore penitente ed assicurarlo non solo del perdono, ma della eterna beatitudine. « Oggi sarai meco in paradiso, » vale a dire: Tu chiedi che Io mi ricordi di Te entrato che sarò nel mio regno, ma Io ti dono assai più di quello che chiedi; oggi stesso, prima che il giorno finisca, tu, benché sia stato ladro, sarai in mia compagnia; oggi stesso ti mostrerò agli Angioli come primo trofeo della mia grazia, come primo frutto della mia redenzione; oggi stesso insieme coi giusti che mi attendono nel limbo ti darò a vedere la mia essenza divina, in cui propriamente consiste la vera gloria del paradiso: Hodie meoum eris in paradiso. È dunque vero! L’uomo può ancora allargare alla speranza il suo cuore, quando pure ha passato una vita intera nelle abominazioni del peccato? Sì, o miei cari, nella sua infinita misericordia Iddio è pronto sempre ad accogliere nelle sue braccia il povero peccatore, anche allora che da lunghissimi anni sta lontano da lui. Forse vi saranno qui tra voi di coloro, che da dieci, venti, trenta, quarant’anni accumulano iniquità sopra iniquità, miserie sopra miserie, delitti sopra delitti, e che in questo istante medesimo all’udire il miracolo della grazia del Crocifisso sentono in fondo all’anima un salutare risveglio, che li fa esclamare: Oh se anch’io … Deh! assecondino essi il primo impulso della divina misericordia; non si spaventino al pensiero delle infinite colpe passate; non rispondano alla brama di convertirsi: Per noi è inutile; Dio non ci perdonerà più; no, o dilettissimi, ma, contemplando il buon ladrone accanto a Gesù Cristo, come lui percuotano il Cuore amoroso, come lui gli dicano contriti ed umiliati: Domine, memento mei: Signore, ricordati di me, volgimi il tuo sguardo amoroso; miserere mei; abbimi compassione. E d ancor essi potranno sentirsi ripetere questa consolante parola: Oggi sarai meco in Paradiso: Hodie mecum eris in paradiso. Sì, oggi, perché per la grazia di Dio, l’anima del peccatore può essere spezzata da un dolore sì grande delle proprie colpe, da ricolmare in un istante gli abissi, che la separano da Dio. Senonché, o miei cari, imitando la illimitata fiducia, con cui questo ladro corrispose alla grazia divina, guardiamoci bene dal differire come lui sino agli estremi della vita la nostra conversione. È vero, questo ladro si convertì e si fece santo, direi in quel momento medesimo, in cui l’anima gli fuggiva dal corpo; ma ben diversamente il cattivo ladrone in quel momento istesso si ostinava nella sua colpa, nella sua cecità, nella sua malizia; e propriamente vicino a Gesù Cristo, mentre il sangue di Lui si versa per la salute degli uomini, mentre le sue piaghe stanno aperte per riceverli, mentre insomma la grand’opera della redenzione si compie, egli, il disgraziato, si perde e si avvia con precipizio all’inferno. Ah ciò vuol dire adunque che il divin Redentore, nella misericordia infinita del Cuor suo, assicura il paradiso ai veri penitenti, che docili all’azione della sua grazia prontamente vi corrispondono, ma che d’ordinario abbandona alla loro trista sorte quegli uomini superbi ed ostinati che respingono le misericordiose sue chiamate. Ciò vuol dire che ad ottenere la salute non basta esser vicini alla Croce di Gesù Cristo, frequentando la chiesa, ascoltando anche ogni giorno la messa, intervenendo a processioni e ad altre pratiche devote, se per siffatto modo stando presso alla stessa croce pur si continua ad essere nemici di Gesù Cristo tenendo nell’animo il peccato e nutrendo perciò una profonda inimicizia con Lui. Ciò vuol dire che se si può perire sullo stesso Calvario presso alle piaghe ed al sangue del divin Redentore, vi è ben da tremare per coloro che se ne vivono lontani nei teatri, nei balli, nei ridotti, nei conviti, nelle conversazioni, negli scandali e nella corruzione del secolo. Ciò vuol dire insomma che la misericordia divina non manca a chi prontamente la vuole, la cerca, la invoca, ma che può mancare in eterno a chi ne abusa, a chi non la cura, a chi volontariamente la sfugge. Deh! o miei cari, se oggi la voce di. Gesù Cristo agonizzante, sprigionandosi dal suo Cuore divino ha ferito le nostre orecchie, non vogliamo indurare i cuori nostri. La gioventù, la sanità, il tempo potrebbero sul più bello mancarci, perché la morte propriamente come un ladro può coglierci quando meno si aspetta. Diciamo dunque ancor noi a Gesù Cristo con prontezza e con sincerità: Signore, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno; perché a tutti Gesù Cristo risponda: Oggi sarai meco in paradiso: Hodie mecum eris in paradiso.

III. — Ma ecco che Gesù apre un’altra volta il suo labbro divino e pronunzia un’altra parola, la più dolce, la più tenera, la più consolante di tutte, quella parola con cui ci diede Maria SS. per Madre. Ma perché questa parola è così grande, che basta da se sola a costituire una delle prove supreme dell’amore di Gesù Cristo per noi, dobbiamo senza dubbio riservarla da sola e per altro giorno alle nostre considerazioni. Passiamo ora adunque a meditare la quarta parola, che il divin Redentore profferisce. Gettando lo sguardo sopra la terra sembra di non vedere altro che pene, guai e dolori; tendendo l’orecchio a noi d’intorno sembra non udire altro che lamenti, gemiti e pianti! Tant’è! Dopo la caduta del nostro progenitore il soffrire è divenuto legge universale per tutti gli uomini. Noi cominciamo a piangere appena nati, e il dolore, fattosi compagno del nostro viaggio attraverso a questa valle di lagrime, più non ci lascia sino al termine. Vi ha forse alcuno tra di voi, sebbene entrato da pochi anni per questo cammino della vita, che ignora ancora l’amarezza del pianto! Vi è stato o condizione che si possa sottrarre al dolore? Soffre il povero, ma non soffre meno il ricco; soffre il suddito, ma soffre pure il sovrano. Tutti, tutti soffrono; e in quanti modi diversi! Ma per quanto gravi siano tutto le sofferenze, a cui variamente sono gli uomini assoggettati, forse non ve n’è alcuna maggiore di quella, che opprime un’anima innocente, destinata ingiustamente al supplizio e per essere creduta rea, abbandonata persino dalle persone a lei più care. Io me la immagino quest’anima infelice in un giovane sventurato, che lanciatagli contro la falsa accusa di aver cospirato contro la patria, caricato di ferri vien gettato nel fondo di tetra prigione, perché ivi aspetti il giorno, in cui sarà tratto alla morte. Gli amici, anziché pigliar le sue difese, per timore di essere trascinati nella stessa iniqua sentenza, si sono nascosti. Ognuno tra gli stessi parenti lo aborre, ognuno lo abbandona al suo destino; nessun lo compiange, lo soccorre. Lo stesso suo vecchio padre, quel padre che prima tanto lo amava, ora ritenendolo egli pure colpevole, e costringendo al silenzio ogni affetto di natura, non ricorda il figlio che per far pesare sul suo capo tremendo la sua maledizione! Ah! dite: vi può essere afflizione più grave di questa? Morire innocente e abbandonato maledetto dallo stesso padre! Ahimè! o miei cari, che questa è propriamente la condizione di Gesù Cristo! Anche questa terribile parola: Maledictus, qui pendet in ligno! doveva per Lui essere adempiuta. Gesù Cristo, vero Figliuolo di Dio, innocente, senza macchia, segregato dai peccatori, colmo di tutte le ricchezze della grazia e della santità, non per necessità, ma per amore venuto sulla terra ad operare la nostra salute, si è rivestito di tutti i peccati degli uomini affine di espiarli. Ma da quell’istante medesimo che Egli fece sue tutte quante le nostre iniquità, il suo divin Padre lo riguardò come reo delle medesime, e senza punto risparmiarlo prese a percuoterlo terribilmente. Lo percosse nella sua nascita, e Gesù patì la povertà, il freddo, la miseria; lo percosse nella sua vita privata e Gesù patì l’esiglio, l’indigenza, la fatica; lo percosse nella sua vita pubblica e Gesù patì l’ingratitudine, gl’insulti e le maledizioni; lo percosse nella sua passione e Gesù patì l’abbandono dei discepoli, il tradimento di Giuda, la cattura, gli obbrobri, la flagellazione, la coronazione di spine, la condanna a morte, il portar la croce, l’esservi sopra confitto; lo percosse sulla croce istessa e in mezzo a quegli atroci tormenti, che andava soffrendo, lo lasciò nel più desolante abbandono. Non già, o miei cari, che il divin Padre abbandonasse Gesù Cristo in quanto alla natura divina, per cui sono tra di loro una cosa sola ed inseparabile, ma lo lasciò tuttavia in abbandono coll’esporre la sua umana ed inferma natura alle potestà delle tenebre, col lasciarlo in balìa de’ suoi nemici, in preda al furore degli nomini e dei demoni, a tutte le ignominie, a tutti gli insulti, a tutte le pene e a tutti gli orrori della croce; col sottrargli ogni protezione, col negargli ogni stilla di consolazione e di refrigerio, e qualunque siasi di quelle dolcezze, con cui confortando poscia i martiri li rendeva contenti e giulivi negli stessi più atroci tormenti, col lasciarlo insomma come immerso ed affogato in un mare di amarezza, anzi col gettarvelo Egli stesso: Proprio filio non pepercit, ned prò nobis tradidit illum. A questo colpo non poté più resistere l’agonizzante Gesù, e raccolto sulle labbra quel misero avanzo di fiato che gli era rimasto, si lamentò d’un sì doloroso abbandono, esclamando a tutta voce: Dio, Dio mio, perché mi hai Tu abbandonato? Deus, Deus meus, ut quid dereliquisti me? (MATT. XXVII, 46). Oh parole da far tremare la terra, da ecclissare il sole, da sbalordire tutta la natura! Certo è, che non vi era cosa più famigliare a Gesù Cristo, quando parlava a Dio o di Dio, che chiamarlo col nome di Padre! Eppure in così grande occasione, in tanta necessità di conforto, dimenticato questo dolce nome, lo chiama col nome augusto e terribile di Dio! Deus, Deus meus! Ah! queste non furono certamente le voci della natura divina, ma bensì le voci della inferma umanità, che vedendosi dall’Eterno Padre trattata come se non fosse quella del suo Figliuolo, non ebbe più l’ardire di chiamarlo Padre, e lo chiamò Dio. E volle dire : « Mio Dio, che io chiamo con questo nome, perché sembra che Tu stesso abbia dimenticato di essermi Padre; lasciandomi a soffrire in questo mare di amarezze senza una stilla sola di quella consolazione, che neppure negasti ad un ladro, che per enormi delitti mi pende su d’un patibolo qui vicino; Dio, Dio mio, perché, mi hai così abbandonato: Deus, Deus meus, ut quid dereliquisti me? » Oh parole! Oh lamento da impietosire un cuore di sasso! Ma di queste parole, di questo lamento noi siamo stati le causa coi nostri peccati. Questa è la conseguenza, questo l’effetto di quell’ingrato abbandono, che noi tante volte adoprammo con Dio. Sì, egli è per te, o superbo sapiente del mondo, perché abbondonasti le verità della fede, che Dio ha abbandonato Gesù; egli è per te, o magistrato iniquo, perché abbandonasti la giustizia, che Dio ha abbandonato Gesù, egli è per te, o vile schiavo degli umani rispetti, perché abbandonasti la pratica della santissima Religione, che Dio ha abbandonato Gesù! Egli è per te, o miserabile assetato dei beni della terra, perché abbandonasti l’equità ne’ tuoi guadagni e il rispetto alle altrui sostanze, che Dio ha abbandonato Gesù! Egli è per te, o sacrilego infame, perché abbandonasti la santità nei sacramenti, che Dio ha abbandonato Gesù! Egli è per te, scellerato marito, perché abbandonasti la tua sposa, che Dio ha abbandonato Gesù; egli è per te, o padre snaturato, perché abbandonasti la cura de’ tuoi figli, che Dio ha abbandonato Gesù; egli è per te, o donna vana e superba, perché hai abbandonato la modestia e l’umiltà; per te, o donzella scandalosa, perché abbandonasti il pudore; per te, o giovane dissoluto, perché abbandonasti l’onestà; per te, figliuolo ingrato, perché abbandonasti l’onore a’ tuoi genitori; per me, sacerdote e religioso indegno, perché abbandonai la santità ed il fervore; egli è per tutti noi, perché tutti abbiamo abbandonato Gesù che Gesù fu abbandonato da Dio! E perché lo abbandonammo? Oh stolti che fummo, Gesù stesso lo dice: « Abbandonarono me, fonte di acqua viva per scavarsi delle sozze pozzanghere! Dereliquerunt me, fontem aquæ vivæ, et fonderunt sibi cisternas… dissipatas. Per un capriccio, per un puntiglio, per una vendetta, per uno sfogo di carne, per un umano riguardo, per una lettura cattiva, per un discorso disonesto, per un piacere da nulla, che non ci ha fruttato che amari rimorsi. Se adunque Gesù Cristo ha sofferto l’abbandono del suo divin Padre per cagion nostra e di questo abbandono gliene ha mosso lamento, non fu già una lagnanza delle pene, che soffriva Egli stesso, ma piuttosto una lezione sensibile delle pene, cui andiamo incontro noi a cagione de’ nostri peccati. Vox istadice S. Agostino – doctrina est, non querela. I peccatori, che si danno con tanta licenza a contentar le passioni, a seguire il vizio, a commettere la colpa, abbandonano violentemente Iddìo, e si allontanano da lui: Elongaverunt a me; (GER. II, 5) ma il Signore abbandona alla sua volta questi peccatori e si fa lontano da essi: Longe est Dominus ab impiis. (Prov. xv, 29) Allora poi soprattutto, quando gli sciagurati si sono ostinati nella via dell’impenitenza e han fatto i sordi ai non pochi richiami della divina misericordia, allora Iddio pronunzia per essi la sentenza dell’eterno abbandono: Curavimus Babylonem, et non est sanata, derelinquamus eam. (GER. LI, 9) Ed allora effettuandosi questa feribile sentenza, verrà giorno, in cui i peccatori grideranno come Gesù Cristo: Deus, Deus meus, ut quid dereliquisti meiE questa straziante elegia del loro cuore, affranto da una maledizione irrimediabile, riempirà l’eco della loro eternità. Ecco la pena terribile, che Gesù Cristo ci ha posto innanzi in quel suo grido. E tutto ciò non fu un’altra prova della sua Carità infinita per noi? Non ha voluto per tal guisa animarci quanto più gli era possibile a non voltargli più mai le spalle, a non volerlo più. abbandonare? Ah! che le mire caritatevoli del Cuore di Gesù Cristo non siano frustrate! Che tutti abbiamo pietà dell’anima nostra! Che tutti prontamente risolviamo di unirci a Gesù Cristo per non abbandonarlo più mal e per non esserne più mai abbandonati. Sì, o Cuore Santissimo, noi ci stringiamo in questo momento alla vostra croce, e confidati nei meriti infiniti del vostro Sangue e delle vostre Piaghe, noi giuriamo solennemente di star sempre d’ora innanzi a voi uniti colla grazia vostra, di seguirvi dappertutto, in tutta la vostra dottrina e in tutti i vostri esempi, per meritarci un giorno la felicissima sorte di unirci a voi con un nodo indissolubile e godere della vostra beata compagnia per tutti i secoli.