LO SCUDO DELLA FEDE (174)

A. D. SERTILLANGES, O. P.

CATECHISMO DEGLI INCREDULI (X)

[Versione autoriz. Dal francese del P. S. G. Nivoli, O. P. – III ristampa. S. E. I. – Torino 1944]

LIBRO SECONDO

I MISTERI

IV. — Il mistero del peccato originale.

D. Tu hai fatto un’asserzione relativamente al peccato originale, ma non ignori lo scandalo che provoca questa nozione nell’anima contemporanea.

R. Lo ignoro così poco che spesso ho dovuto pensarvi e sono prontissimo a udirti.

D. Donde ti viene questa idea d’un peccato originale?

R. Mi viene dalla fede.

D. Non pretendi di arrivarci anche per dimostrazione?

R. No; per quanto sia utile all’interpretazione della nostra vita, questa idea non ha nulla di assolutamente indispensabile. Tuttavia la sua forza esplicativa è tale, che si ha il diritto di sottoscrivere a questa proposizione di Pascal: « L’uomo è inconcepibile senza questo mistero più che questo mistero non sia inconcepibile all’uomo ».

D. Pascal confessa una difficoltà dalle due parti.

R. Vi è difficoltà dalle due parti, e per questo noi collochiamo il peccato originale tra i misteri. Ma la partita non è uguale; si deve riconoscere insieme l’eminente difficoltà di concepire l’uomo senza il peccato originale, e la sparizione della difficoltà in presenza del dogma.

D. Dove sta la difficoltà di cui parli?

R. In quelle contradizioni della natura umana — grandezza e miseria — di cui l’autore dei Pensieri e dopo di lui Bossuet fecero un così incomparabile quadro.

D. In che cosa ciò si risolve?

R. In questo che la condizione umana apparisce così come un paradosso. Se noi siamo a un tempo grandi e miserabili, e non solo sotto diversi aspetti, ciò che si potrebbe comprendere, ma in qualche modo sotto lo stesso aspetto, considerato che le nostre stesse miserie sono grandi e le nostre stesse grandezze sono miserabili, considerato che le nostre miserie procedono da aspirazioni sublimi e le nostre grandezze vanno scegliendo miserabili oggetti, allora non siamo noi inclinati a pensare che lì sotto vi è qualche mistero?

D. Perché?

È. Perché la natura non conosce il paradosso; perché sembra che così la Provvidenza, nel suo più alto campo, contradica a se stessa.

D. Il caso dell’uomo è forse singolare a questo riguardo?

R. Sì, perché il contrasto del quale parliamo dipende da quel potere infinito di aspirazione che appartiene solo all’uomo. Lì sta il tragico della nostra condizione. Onde Pascal si arroga il diritto di dire: «Solo l’uomo è miserabile ».

D. Non assicurate voi che le contradizioni di questa vita si devono risolvere altrove?

R. Noi lo diciamo, e senza questo la nostra condizione umana sarebbe inaccettabile. Ma quando pure ciò fosse a titolo provvisorio, il piano della natura sembra veramente mancato; esso ci urta; ci pare un’organizzazione della sconfitta, e per giunta un’arte di assecondare l’ingiustizia; perché là dove la natura non ci affligge, ci tenta; per lo più ci trascina, ed è peggio.

D. Non esageri forse?

R. I segni della nostra ingiustizia nativa sono abbastanza visibili; noi siamo dediti a un egoismo mostruoso, a un orgoglio incoercibile, a una cupidigia sfrenata. In noi, l’iniquità è costitutiva, e colui che non la trova in sé la denunzia tutti i giorni negli altri; colui che non la trova in sé prova del resto un accecamento che conclude per il vizio originale di un’altra specie. «Forse che l’uomo che è diventato veramente cosciente di se stesso può veramente rispettare se stesso? » scrive Dostojewski. Questa vita che è molto al di sotto della nostra attesa, è pure, sembra, al di sotto del suo proprio diritto; essa non soddisfa alla sua propria destinazione, neppure provvisoria, e pare che accusi il suo autore, una volta ammesso il carattere del vero Dio: bontà e sapienza.

D. Di fronte a questi mali, il peccato originale è la sola ipotesi?

R. È la più naturale. Nell’umanità, tutto succede come in un individuo che si fosse liberamente corrotto, o in una razza imbastardita per i suoi vizi.

D. Riprendi tu così il ragionamento di Pascal?

R. «Per me, dice egli, confesso che appena la religione cristiana scopre questo principio che la natura degli uomini è corrotta e decaduta da Dio, questo apre gli occhi a vedere dovunque il carattere di questa Verità; perché la natura è tale, che marca dovunque un Dio perduto, e nell’uomo, e fuori dell’uomo, e una natura corrotta ». E ancora: « L’uomo non sa in quale posto mettersi; egli è visibilmente traviato e caduto dal suo vero posto senza poterlo ritrovare. Egli lo cerca con inquietudine e senza successo, nelle tenebre impenetrabili », « Ciò che c’è di grande nell’uomo, dice alla sua volta Bossuet, è un resto della sua prima istituzione; ciò che c’è di basso è il disgraziato effetto della sua caduta». Sono « miserie di grande signore » aveva detto più brevemente Pascal, « miserie d’un re spodestato ». « Contempla questo edifizio, si legge nel Sermone per la professione della signora di La Vallière, e ci vedrai dei segni di una mano divina; ma la disuguaglianza dell’opera ti farà presto osservare che il peccato vi ha mescolato del suo ».

D. Pascal pretende che la natura marchi un Dio perduto  «e nell’uomo, e fuori dell’uomo », e tu estendi forse gli effetti del peccato originale alla stessa creazione materiale?

R. Abbiamo veduto che l’uomo e il suo ambiente sono a questo riguardo solidali, e necessariamente solidali. Onde San Paolo dice senza distinguere: La creazione geme tutta quanta e soffre quasi le doglie del parto. « E i gemiti della creazione sono pieni della miseria non scandagliabile dell’uomo » (V. Hugo).

D. Ciò può sollevare attorno al peccato originale molti problemi!

R. Renouvier li solleva tutti, e prima di lui, Schopenhauer, Kant, e molti altri. Per Schopenhauer, vi è un peccato alla base dell’essere stesso, Il Cristianesimo è più riservato. Ma, come ti dicevo, sollevando un problema, avviene che se ne sollevino mille, e dei più gravi. I nostri misteri sono oscuri, ma sono grandi e, quando sono ammessi, tutto si spiega; senza di essi, tutto è miserabilmente piccolo, e niente si spiega.

D. Insomma tu ripeti dei vecchi miti.

R. Sì, il mito di Prometeo, il mito di Pandora, ed altri. Ho detto che è naturale il ritrovare nelle religioni istintive degli elementi della religione rivelata; è una confermazione; forse è l’indicazione d’una sorgente comune, rispettata qui, e alterata là.

D. In che consiste materialmente questo peccato di razza? Bisogna prendere alla lettera la storia del « frutto proibito »?

R. Nulla a ciò ti obbliga. Si tratta d’un fatto morale.

D. E qual è questo fatto morale?

R. Si può discutere della sua natura precisa; ma ogni peccato è una rivolta contro Dio, un rifiuto dell’ordine, e, a questo titolo, un orgoglio folle, anche se l’occasione di questo orgoglio è un fatto di sensualità, come si crede qui di solito.

D. Si tratterebbe in qualche modo di un doppio peccato?

E. Siccome la caduta originale ha deciso di tutto l’uomo, sarebbe naturale pensare che essa comprendesse a un tempo la sensualità, quest’orgoglio della carne, e l’orgoglio, questa sensualità dello spirito. Tuttavia, come nell’uomo ancora giusto lo spirito è a capo e facilmente domina, il primo peccato dev’essere prima di tutto un peccato d’orgoglio. Ecco l’opinione di S. Tommaso. È anche quella di Pascal, perché l’uomo peccatore « volle rendersi centro di se stesso », in vece di gravitare intorno al suo Sole.

D. Ciò si comprende con facilità per quello che riguarda un individuo; ma ciò che apparisce odioso, è la trasmissione d’un peccato individuale a tutta una razza.

È. Respingo la parola odioso, ma ammetto una volta di più il mistero.

D. Un mistero d’ingiustizia?

È. Rigetto ancora questa parola. Il pregiudizio è antico e molto diffuso: nondimeno chiedo alla tua lealtà di rinunziarvi, dopo la spiegazione che sta per seguire.

D. Ascolto.

R. Anzitutto mi permetto di osservare che migliaia d’anime purissime infinitamente delicate in fatto di giustizia, hanno riverito questo mistero, e l’incredulo, anche virtuoso, qui non ha privilegio.

D. Ammetto.

R. Dopo ciò io ragiono. Un’ingiustizia è la privazione d’un diritto. Là dove non c’è nessun diritto, ci può essere dell’arbitrio, del capriccio, tutto quello che vuoi; ma non c’è ingiustizia. Trovi tu ingiusto che un figlio di tubercolotico sia tubercolotico? che il figlio di un degenerato per colpa sua sia anche lui degenerato, anzi proclive a certi vizi senza che ci sia colpa da parte sua?

D. Ne domanderei volentieri conto alla Provvidenza.

E. La Provvidenza ti ha già esposto che essa s’incarica di trarre da ciò del bene, se gl’interessati vi consentono. Ma proseguo. Condizioni originali ci sono imposte a tutti per il fatto dei nostri ascendenti. A volte noi lo possiamo deplorare; ma non abbiamo il diritto di dire: È ingiusto. Non vi è mai ingiustizia nei dati d’un problema morale; ce ne potrebbe essere solamente nella sua soluzione, e la ragione è che l’ingiustizia suppone una giustizia a cui essa si opponga, e la giustizia il diritto. Ora di che cosa siamo noi privati in conseguenza del peccato originale? Siamo noi privati d’un diritto acquisito, d’una situazione meritata, o anche solo d’un bene in proporzione con ciò che noi siamo? No. Ci si ritira quella grazia di prima creazione alla quale l’obiettante non crede punto; si mette fine a quello stato quasi miracoloso che lo scandalizza, intendo la nostra elevazione al di sopra della natura e di quei formidabili poteri che alternativamente ci affascinano e ci schiacciano. L’incredulo ride di questi privilegi, li trova superflui: è davvero curioso vederli reclamare sotto pena d’ingiustizia!

D. L’ingiustizia è nel fatto che ci si ritira questa grazia per causa di altri.

R. Si taccerebbe d’ingiustizia un monarca che concedesse a un signore della sua corte un privilegio ereditario sotto certe condizioni di servizio, e che poi lo ritirasse perché  il servizio non è stato compiuto? La discendenza di quel signore sarebbe intanto privata; ma essa non avrebbe il diritto di lagnarsi salvo che le si togliessero inoltre i diritti che essa può avere d’altronde.

D. Ma se il vassallo rientrasse più tardi in grazia? Ora non è questo il caso nostro? Adamo, provando la sventura, non si è rialzato dalla sua colpa?

R. Sì certamente.

D. Perché egli non ci ha trasmesso il suo ravvedimento?

R. Perché questo ravvedimento non gli appartiene. Noi siamo potenti per demolire, ma nel soprannaturale non potremmo ricostruire. Il ravvedimento di Adamo e la grazia che lo consacra vengono ad Adamo per il canale della redenzione, per mezzo di quel Figlio lontano e meritevole che è Cristo, nuovo Adamo, « secondo primo uomo », che salva l’altro salvando tutta la stirpe. Di questa salute, Adamo pentito può ben godere il beneficio, e dopo lui i suoi discendenti; ma né essi né lui sono atti a trasmetterla. Se un capo di famiglia rovina i suoi figli e dissipa le loro speranze, è se poi un benefattore sostiene la sua vita e quella de’ suoi figli stessi, il danaro ricevuto non passerà per questo in eredità.

D. Ciò sarebbe possibile e sarebbe più generoso.

R. Sarebbe un altro piano, e ne giudicheremo un po’ più innanzi.

D. Ad ogni modo, tu ragioni come se gli effetti della caduta fossero tutti negativi. Ora si può ridurre così al negativo tutta « questa miseria dell’uomo » di cuì tu facesti così caso?

R. Gli effetti del peccato originale son negativi alla base, o per dir meglio privativi; noi siamo spogliati, e ne seguono degli effetti positivi per il corso naturale delle cose, come se i miei eredi di cui sopra, privati della loro nobiltà, cadessero per fatto loro o per fatto altrui in nuove sventure.

D. Tu chiami gli uomini peccatori in Adamo: dunque li ritieni responsabili, e una responsabilità non è una cosa negativa.

R. Qui vi è un equivoco. Il peccato originale è un peccato in noi; ma è un peccato di natura, uno stato, e che implica una responsabilità collettiva, in ragione del capo della stirpe, ma non una responsabilità individuale. Perciò non puniamo, propriamente parlando, colui che ne è affetto; ma poiché egli appartiene a una stirpe peccatrice, non sarà trattato come colui che appartiene a una stirpe fedele, e questa disuguaglianza non sarà ingiusta più che non lo siano le ineguaglianze sociali sotto un regime di uguaglianza di fronte alla legge, o ancora alle disuguaglianze naturali.

D. Pure tu dici dannati i bambini morti senza battesimo, ed è veramente a cagione del peccato originale.

R. Questi bambini son degli innocenti in ciò che li riguarda personalmente; d’altra parte hanno sopra di sé una colpevolezza di stirpe, e per questa ragione non godranno del benefizio gratuito annesso all’integrità di questa stirpe, all’innocenza primitiva o alla redenzione. Ma noi non li diciamo dannati in questo senso che essi sarebbero infelici; i più dei teologi, tra i quali S. Tommaso, prevedono anzi per essi una beatitudine naturale. Onde conviene eliminare qui questa parola dannazione che si presta a un grave equivoco.

D. Resta la privazione, come dici. Oro credi tu che vada pe’ suoi piedi che tutta una stirpe sia così rappresentata dal suo capo per il possesso o per la perdita d’un bene gratuito, sia pure, ma inestimabile?

R. Questo non va pe’ suoi piedi; è una libera disposizione divina, ma si ricollega a queste grandi leggi di solidarietà e di eredità, sempre più in onore nella scienza.

D. Queste leggi non si negano; per lo meno alla base, sono leggi fisiche: come avviene che ci sia solidarietà morale senza che la volontà dei discendenti partecipi alla volontà del peccatore? Nelle società umane, vi è solidarietà giuridica, perché vi è un vincolo giuridico delle volontà; vi è una specie di delegazione, del contratto mutuo, del consenso unanime.

R. Tu ne parli con precauzione, e a buon diritto. Il « contratto sociale » ha un valore interpretativo; ma tu ben sai che questo vincolo giuridico è fittizio nell’immensa maggioranza dei casi di responsabilità collettiva, sia in bene, sia in male. Di solito è la solidarietà naturale, è, come qui, l’eredità, che decidono di tutto. Difatti un’anima individuale non è attaccata a un solo corpo, ma a parecchi, a tutti quelli della sua discendenza, e per essa di tutta la stirpe.

D. Tu fai poco conto dell’individuo.

R. Sono oggi ben rari quelli i quali non riconoscono che la responsabilità puramente individuale è un pregiudizio razionalista, condannato dalla scienza sociale e dall’esperienza.

D. Confessa che qui ci resta molta oscurità.

R. Lo riconosco, ma tu parlavi di scandalo. Del resto io ho da presentare più di un’altra considerazione. Anzitutto queste leggi di solidarietà, che si sono rivolte contro di noi, potevano pure lavorare per noi; Adamo fedele ci avrebbe trasmesso tutti i suoi privilegi.

D. Dio ben sapeva che cosa ne sarebbe avvenuto.

R. Questo modo di ragionare non è accettabile; è inquinato di antropomorfismo. Abbiamo veduto, parlando della Provvidenza, che le previsioni di Dio e la sua stessa causalità non sottraggono niente alle nostre responsabilità, non modificano in nulla le relazioni temporali tra effetti e cause. Del rimanente, se tu invochi le previsioni di Dio, seguile sino in fondo, e tieni conto di ciò che non è più solamente previsione, ma disposizione effettiva, disposizione ora notificata e ora operante, cioè la redenzione. Tu ti lamenti del fatto che la legge di solidarietà ci abbia nocciuto nell’Eden: rallegrati del fatto che essa ci favorisce sul Calvario. Questi due fatti sono strettamente legati dalla Provvidenza; solo un gioco di astrazione permette di dissociarli, ed è un brutto gioco; infatti trascurare di ringraziare Dio per la redenzione a fine di prenderlo in fallo nella creazione è il fatto d’una triste ingratitudine.

D. L’eredità di Cristo non è gratuita come sarebbe stata l’altra; bisogna cooperare.

R. È gratuita per il bambino battezzato. Se l’adulto deve cooperare, cioè fare atto di libera attività virtuosa, pensi tu che gli eredi di un Adamo rimasto innocente ne sarebbero stati dispensati? Quello che Adamo non avrebbe perduto per tutti, ciascuno l’avrebbe ancora potuto perdere per conto proprio; tutti in qualche modo avrebbero dovuto riconquistarlo, preservarlo, accrescerlo. In nessuna combinazione religiosa l’uomo morale è esonerato dallo sforzo.

D. Lo sforzo sarebbe stato più facile, trovando davanti a sé minori ostacoli e molto maggiori soccorsi.

R. Facciamo il conto. Dopo la nostra adesione a Cristo, le nostre debolezze congenite si volgono in diminuzione delle nostre colpe, in lode delle nostre virtù; in certi casi, la nostra responsabilità peccatrice è annullata dalla violenza improvvisa dell’allettamento; in caso di eroismo, avviene l’opposto e ci vien contato il doppio. Tutto sommato, nulla è perduto a cagione della prima colpa, nulla è perduto se non per una tenace cattiva volontà personale. Questa situazione non è ingiusta.

D. Ciononostante io non posso trattenermi dal giudicarla arbitraria, capricciosa. Riprendo così le tue proprie parole.

R. Ne siamo noi davvero giudici? È serio criticare Dio sulla costituzione del suo universo morale più che su quella dell’universo fisico, dove noi abbiamo riconosciuta la nostra incompetenza? È il fine che decide; i piani ci sfuggono. E devono sfuggirci tanto più in quanto non si tratta qui unicamente delle leggi profonde della natura umana, già così misteriose, ma di un ordine di leggi anche più recondite, quelle del soprannaturale. Il rapporto soprannaturale dell’uomo con Dio oltrepassa l’esperienza; gli effetti della sua rottura devono avere una portata non meno segreta; essi si nascondono nel mistero di Dio intimo comunicato, e dell’unione singolare, in Lui, degli esseri invitati a questo contatto, al di sopra del tempo e di tutte le condizioni particolari.

D. Questo può abolire la personalità?

R. Anzi la personalità si rinforza, come ogni cosa al tocco del suo Creatore; ma nello stesso tempo le diverse personalità si ravvicinano; per una parte esse sfuggono agli effetti del tempo, e perciò si comprende meglio come l’una conti per l’altra, come ce lo rivelerà la comunione dei santi, e come, quaggiù, siano tutte unite nel loro capo di stirpe, formando con lui una particolarissima unità.

D. I diritti della giustizia individuale rimangono.

R. Anzi sono rinforzati, come ho detto della personalità stessa; ma vi si sovrappone una giustizia collettiva, e il congegnamento esatto ci sfugge. Il bambino morto senza battesimo e il bambino battezzato ci fanno vedere la formula alla prova, ma non ce la spiegano punto. Il primo di questi due piccoli esseri non è condannato personalmente; gli si concedono all’opposto tutti i benefizi della natura nella sua piena espansione: dunque la giustizia individuale rimane. Ma a differenza del secondo che ha potuto entrare nell’unità soprannaturale costituita dalla stirpe del Nuovo Adamo, egli non ha parte alla eredità particolare di questa stirpe; egli non è stato un eletto.

D. Perché lui, e non un altro?

E. Io ti rimando alla questione del Battesimo. Qui parliamo di solidarietà, e dico: La solidarietà soprannaturale è particolare. Essere uni in Dio, in Dio intimo, in Dio Trinità, è qualche cosa, e non è senza effetti; il caso di Cristo, vincolo del sacro fascio, ce lo insegnerà meglio. Io ne concludo che non possiamo giudicare del peccato originale e della sua trasmissione alla discendenza d’Adamo secondo i soli dati della nostra esperienza già così confusi. I bambini nel seno della loro madre non respirano come noi; una stirpe soprannaturalizzata parimenti non può aspirare Dio, se posso dire così, e poi espirarlo nelle stesse condizioni onde si adotta o si rigetta un servizio civile. La solidarietà è qui più stretta, perché il nodo dell’individuo alla stirpe è più stretto, e questo nodo è così serrato perché noi siamo legati a Dio, insieme, e ci premiamo in qualche modo nella Trinità.

D. In una parola, Adamo era noi, ed è per questo che noi pecchiamo in lui.

R. La formula è eccessiva; ma ridotta alla sua misura, è vera. Noi siamo in mezzo alle rovine appunto perché Adamo ha in sé compromesso l’edifizio morale.

D. Io resto un po’ perplesso.

R. Non vorrei trarti da una perplessità con un rimprovero; ma posso rischiare una questione che io risolvetti precedentemente contro me stesso: fuori del peccato originale, ti senti tu innocente?

D. No; ma è un poco la colpa del peccato originale; l’hai messo tu stesso all’origine delle fragilità.

R. Esso è all’origine delle fragilità, ma non per questo alla sorgente di ogni responsabilità. I mali che si attribuiscono al peccato originale sono in gran parte l’effetto dei peccati personali, accumulati e aggravati l’uno dall’altro. – Non fu detto a proposito della stessa morte: Gli uomini non muoiono, ma si uccidono? L’assenza dei doni soprannaturali facilita certamente questo stato di cose, ma non l’impone, non lo scusa. Pecchiamo tutti, tutti quanti; pecchiamo nonostante le grazie di riparazione; facciamo del peccato originale una specie di abitudineaccettata e della quale così noi diventiamo resèpnsabili. Il modo con cui ci comportiamo con Dio deve incuterci dei timori sopra ciò che sarebbero stati i nostri modi d’agire se fossimo nati « nell’innocenza dei primordi », come dice Bossuet.

D. Queste sono ipotesi.

E. Sono serie presunzioni, che alleggeriscono la responsabilità divina quanto all’istituzione di questo piano di solidarietà che ti urta. Perché finalmente che diresti, se Dio, apparendoti come a Giobbe per spiegarsi con te circa la sua condotta, si esprimesse così: Io vidi voi tutti, nell’Eden! I tempi si aprivano davanti a me. Trovandovi così al di sotto della vostra propria coscienza, io non Potevo attribuirvi una superiorità molto grande, per rapporto all’eredità del vostro progenitore peccatore. Taluni di noi avrebbero forse ragioni fondate di ricusare questo giudizio?  Ma non sono essi che si lamentano. I santi stimano cosa affatto naturale essere puniti in Adano: essi si sentono punibili; ma coloro che sono molto più punibili non lo sentono affatto. Essi dicono: Io non c’ero! Ma io dico loro: Tu c’eri; perché i tempi per me non hanno nessuna importanza, e fatta astrazione dal tempo, tutta questa fiumana di peccati individuali che dovevano seguire, non è forse anche un peccato di razza? Io vi ho ritenuti per peccatori in Adamo perché vi vedevo peccatori come Adamo. Qualcuno di voi si leverà per dire: Io, per conto mio, non merito di essere nato in un mondo di peccato, con le condizioni del peccato, perché, da parte mia, io sono senza peccato? Uno solo ha detto questo di sua propria autorità: il mio Cristo, e a una sola è stato dato per grazia di ripeterlo: la Madre sua. Ciò non si verifica di nessun altro.

D. Quando Dio parla, sì ha sempre torto!

R. Io credo che Egli parli, e dica come una volta: « È cosa buona! ».

Autore: Associazione Cristo-Re Rex regum

Siamo un'Associazione culturale in difesa della "vera" Chiesa Cattolica.