LA GRAZIA E LA GLORIA (42)

LA GRAZIA E LA GLORIA (42)

Del R. P. J-B TERRIEN S.J.

II.

Nihil obstat, M-G. LABROSSE, S. J. Biturici, 17 feb. 1901

Imprimatur: Parisiis, die 20 feb. 1901 Ed. Thomas, v. g.

LIBRO VIII

LA CRESCITA SPIRITUALE DEI FIGLI ADOTTIVI DI DIO. — I SACREMENTI, E SPECIALMENTE L’EUCARISTIA, SECONDO MEZZO DI CRESCITA.

CAPITOLO IV

In cui si mostra come l’Eucaristia, per la natura stessa del suo frutto, sia l’agente più efficace della nostra crescita spirituale, e in qual misura la operi.

1. – Non è senza un disegno che io abbia sviluppato così a lungo, forse troppo a lungo se ci atteniamo alle apparenze, i principali effetti della Santa Eucaristia. Era necessario esporli, per così dire, davanti agli occhi del lettore per mostrare che esso è, in modo eccellente per i figli di Dio, il Sacramento della crescita. Partiamo dal presupposto che, per ricevere questo nutrimento divino con frutto, bisogna avere regolarmente la grazia di Dio nel cuore (Un gran numero di teologi di ogni scuola, e dei più gravi, insegnano che, in alcuni casi particolari, si può, accostandosi alla sacra mensa con una colpa mortale che non sarebbe stata né accusata né perdonata, non solo non è peccare, – cosa su cui tutti sono d’accordo – ma anche si riceve la Comunione con frutto. Ma perché ciò avvenga, sono assolutamente necessarie due condizioni. In primo luogo, il colpevole non deve essere consapevole del suo peccato, perché se ne fosse consapevole dovrebbe innanzitutto presentarsi al Sacerdote per ricevere l’assoluzione. In secondo luogo, nel cuore non deve esserci nulla che si opponga al recupero della grazia, e di conseguenza nessun attaccamento al peccato commesso, poiché senza pentimento e senza un proposito è impossibile riconciliarsi con Dio. Quando queste due condizioni sono soddisfatte, l’Eucaristia produce i suoi effetti di grazia, cosicché chi l’ha ricevuta da peccatore torna ad essere quello che in buona fede avrebbe dovuto essere: un figlio e un amico di Dio. Essi sostengono questa opinione con autorità così forti e ragioni così convincenti che non ho alcuna esitazione ad essere del loro avviso). Prenderla consapevolmente e volontariamente con una di quelle colpe che ci renderebbero sacrileghi nemici di Dio, sarebbe un attacco sacrilego al corpo e al sangue di Gesù Cristo. Le ragioni di ciò, per non parlare del costante insegnamento della Chiesa, sono evidenti e numerose. Ricevere la Comunione significa mangiare. E mangiare è l’atto di un essere vivente. Vivete della vita spirituale e divina, prendete questo pane della vita, mangiatelo: è per voi, è vostro. Ma se voi siete morti, che diritto avete di avvicinarvi ad una tavola imbandita solo per i vivi, e che potere avete di ricevere e assimilare il suo cibo celeste? – Ricevere la Comunione significa agire da amico. Ascoltate coloro che la Sapienza chiama al banchetto: « Amici miei, mangiate e bevete, inebriatevi, miei diletti » (Cant. V., 1). Chi sono coloro che Gesù Cristo ha invitato per la prima volta al banchetto dell’Eucaristia? Gli Apostoli ai quali aveva appena detto: « Voi siete miei amici, ed è con questo nome che voglio chiamarvi » (Gv. XV, 14-15); gli Apostoli ai quali Egli aveva lavato i piedi, per insegnare loro la purezza di cuore che chiede ai suoi commensali. Il figliol prodigo che torna dai suoi lunghi errori non si siede al banchetto preparato per celebrare la gioia del suo ritorno, se non prima di aver ricevuto il bacio paterno ed aver scambiato la sua sordida veste con quella che indossava prima. Ricevere la Comunione significa prendere, sotto le sfumature appropriate al nostro stato di prova, il cibo divino, oggetto e fonte della beatitudine eterna. Ora alla cena beata delle nozze dell’Agnello non ci sarà posto per « cani, avvelenatori, fornicatori, assassini, idolatri, per chiunque ami e pratichi la menzogna » (Apoc. XXI, 8; XXII, 15). – Infine, ricevere la Comunione significa affermare che si appartiene a Cristo; diciamo di più, che si è, in una certa misura, Cristo stesso. « I fedeli conoscono il corpo di Cristo, se essi non dimenticano di essere del Corpo del Cristo. I fedeli conoscono il corpo di Cristo, se non trascurano di essere del corpo di Cristo. Che diventino il corpo di Cristo, se pretendono di vivere dello Spirito di Cristo: perché nulla vive dello Spirito di Cristo, se non il corpo di Cristo » (S. August., Tract. XXXVII in Joan. N. 13). Così parla Sant’Agostino. E altrove: « Chi mangia a questa tavola è tenuto ad essere ciò che viene a mangiare » (Sant’Agostino nel Salmo XLVIII, Serm. 1 n. 3). È per farci comprendere questa bella dottrina che il Salvatore, prima di dare il suo corpo ai suoi discepoli, se ne è nutrito per primo; e che, prima di distribuire il suo calice, vi intinse le sue divine labbra. Il corpo e il sangue di Gesù Cristo, che appartengono solo a Lui, abbiamo il diritto di prenderli solo a condizione di essere incorporati alla sua Persona mistica. Che cos’è il Cristiano che fa la Comunione? Un dio che si nutre di Dio (anche Giovanni Crisostomo parla della Comunione del Salvatore). La ragione che egli adduce, sebbene diversa, non ne è però contraria. « Egli non voleva che gli Apostoli lo sentissero dire: questo è il mio corpo, questo è il mio sangue; mangiate e bevete, e che fossero perciò turbati e pensassero: E che, mangeremo della carne e berremo del sangue? Perciò Egli stesso fu il primo a compiere ciò che li esortava a fare. Affinché potessero partecipare ai misteri con animo tranquillo, Egli stesso bevve il proprio sangue » – Homil. 82, al. 83 in Matth, n. 1. P. Gr., t. 5, p. 58, 79).

2. – Qual conclusione dobbiamo trarre da questo? Lo stesso che stiamo perseguendo dall’inizio della nostra meditazione sulla Santa Eucaristia. Poiché l’Eucaristia presuppone tutto ciò che fa lo stato di grazia e che tuttavia essa produce, ed è per questo che viene istituita non per introdurla nell’anima, ma per darle sviluppo e crescita. Quelle cose grandi e sublimi che si trovano nel profondo di ogni anima fedele, la grazia santificante, la carità con il suo corteo di virtù, l’unione più intima con Dio, l’immagine del Figlio eterno del Padre, la vita soprannaturale, in una parola: tutto questo, dico, attende dall’Eucarestia il suo complemento e la sua pienezza. Spetta all’Eucaristia farci passare con un continuo progresso dalle debolezze e dalle imperfezioni dell’infanzia spirituale alla maturità dei figli di adozione. Questa è la sua funzione propria, il suo privilegio e, per così dire, il suo destino, in quell’insieme incomparabile di mezzi di santificazione che sono chiamati i Sacramenti della Nuova Alleanza. – La teologia non si accontenta di affermarlo, fondandosi sulla Sacra Scrittura, sui Padri e sui Concili. Per rendere più evidente questa verità per contrasto, confronta il frutto del sacramento dell’altare con quello degli altri sacramenti. Questo frutto differisce dall’effetto del Battesimo: infatti il Battesimo ha come fine diretto non quello di farci crescere nella grazia, ma di darci una nascita spirituale, né quello di stringere i legami che ci incorporano a Cristo, ma di crearli. Non dico che se il catecumeno è già giustificato dalla carità perfetta, il Battesimo non operi in lui l’aumento della grazia in proporzione alla sua disposizione; affermo solo che il motivo determinante dell’istituzione del Battesimo non è stato quello di farne un sacramento di crescita ma di rigenerazione. Ecco perché nessuno può diventare figlio di Dio, per quanto perfetta sia la sua disposizione, senza aver fatto almeno il voto del Battesimo, e come il Battesimo stesso sia necessario per entrare nella partecipazione dei beni affidati alla nostra madre, la Santa Chiesa. San Tommaso riassume questa dottrina in poche parole: « La ricezione del Battesimo è necessaria per iniziare la vita spirituale; l’Eucaristia, per perfezionarla e consumarla. » – Sembrerebbe, a prima vista, che il contrasto non sia più lo stesso, quando si confronta la Confermazione e l’Eucaristia insieme. L’effetto della Confermazione non è forse come il passaggio dall’infanzia spirituale alla maturità dell’uomo fatto? È questa che, prendendo il bambino appena nato dalle acque del Battesimo, gli infonde quel vigore che si addice al soldato della fede. Quel che fa il progresso dell’età nell’ordine della natura per la formazione dell’essere umano la Confermazione lo fa nell’ordine soprannaturale per la perfezione del nostro essere di grazia. Attraverso di essa noi raggiungiamo lo sviluppo della forza e della vita che contraddistingue la maggiore età. Questo bambino di pochi anni, una volta cresimato, non è più un bambino nella sua anima e davanti a Dio: è un uomo (vir), ufficialmente arruolato nell’esercito di Cristo e consacrato a combattere le battaglie della fede. Questo, se non mi sbaglio, è il frutto proprio della Confermazione. – Ma per quanto possa sembrare simile a quella prodotta dalla Comunione, c’è comunque una grande differenza tra la crescita di cui i due sacramenti sono il principio. Infatti, dice San Tommaso d’Aquino, « la Confermazione aumenta la grazia in noi, in modo da rafforzarci contro i nemici esterni di Cristo; mentre nell’Eucaristia, l’aumento della grazia e della vita spirituale tende a rendere l’uomo perfetto in se stesso mediante un’unione sempre più stretta con Dio » (S. Thom. 3. P.; 4. 79, a. 1, ad 1.). E questa differenza si rivela anche nel modo di ricevere i due sacramenti. La Cresima viene data una sola volta, come il Battesimo, perché non si tende all’infinito verso la virilità. L’Eucaristia, invece, può essere l’alimento di tutti i giorni intimo tra l’uomo e la bontà divina, che può essere interrotta solo alla fine del cammino, cioè alla morte. Di per sé questi effetti non hanno limiti oltre i quali non possano essere perfezionati o estesi. – Passate in rassegna tutti gli altri sacramenti e non ne troverete uno che sia solo e direttamente un principio di crescita e che tenda a questo come a un fine proprio. Il sacramento della Penitenza restituisce la grazia o la aumenta, ma a scopo di riparazione: è il rimedio divinamente istituito per richiamare in vita i morti spirituali e per perdonare le colpe ai colpevoli. Essa presuppone il peccato nel Cristiano; così che chi, per un privilegio specialissimo, non ha macchiato con alcuna colpa il candore immacolato del suo Battesimo, pur potendo crescere nella grazia, non potrebbe chiedere la perfezione nella Penitenza. Non più di questa, l’Unzione dei morenti non è ordinata direttamente alla crescita dell’uomo interiore. Dio ce l’ha data come rimedio supremo contro le infermità e la debilità spirituale, gli sfortunati resti del peccato. Ma, poiché è la grazia a fortificarci contro queste debolezze, essa ce la conferisce e attraverso di essa rimette il peccato, se nulla si oppone al perdono (S. Thom. Q. 30, a.2). Da ciò risulta evidente che l’effetto dell’Estrema Unzione è ben diverso da quello dell’Eucaristia. – Finora ho parlato solo di quei sacramenti che riguardano il bene individuale dei Cristiani; ma ciò che ho detto di essi si applica ai due Sacramenti che per loro natura riguardano la vita sociale, i Sacramenti dell’Ordine e del Matrimonio. Quest’ultimo, infatti, riversa su di loro la grazia, affinché la loro alleanza sia fedele e santa, ad immagine dell’unione di Gesù Cristo con la sua Chiesa; e il primo, consacrando a Dio i suoi ministri, li santifica, affinché essi possano esercitare degnamente le funzioni sacre in mezzo al suo popolo. – Il Santo Concilio di Firenze, nel suo Decreto per gli Armeni, stabilisce con grande chiarezza questa differenza di effetto tra il Sacramento del corpo del Signore e gli altri sacramenti. « L’effetto dell’Eucaristia –  esso afferma – quello che produce nell’anima di chi la riceve degnamente è l’unione dell’uomo con Cristo. E poiché è la grazia che incorpora l’anima a Cristo e la unisce alle sue membra, questo Sacramento accresce in noi la grazia ed apporta un aumento di virtù » (Decreto pro Armenis, in Bulla Eugen. IV “Exultate Deo“). – Riassumiamo tutto questo insegnamento in un brano di un grande teologo e servo di Dio, padre Francis Suarez. « Il Sacramento dell’Eucaristia – egli ci dice – ha nei suoi effetti un carattere essenzialmente proprio. Gli altri non vanno solo e direttamente a nutrire la carità, per crescere nell’anima e unirci più strettamente a Gesù Cristo. Ma ognuna di essi ha un proprio fine speciale, per il quale conferisce un aiuto particolare con un aumento della grazia. Quanto a questo Sacramento, esso è ordinato di per sé a completare l’unione dei fedeli con Cristo e il Corpo di Cristo « (Suarez, de Euchar., D. 63, S. 1). – San Bonaventura aveva scritto con meno parole, un pensiero simile: « Questo Sacramento è quello dell’unione; di conseguenza il suo effetto primario è quello di unire, non producendo la prima unione, ma stringendo l’unione già fatta » (S. Bonav. in IV. D. 12, a. . a. 2). Pertanto, crescere in Gesù Cristo per grazia, per carità, per una sempre maggiore somiglianza di affetti, di operazioni, di vita soprannaturale, questa è la parola finale dell’Eucaristia. – E questa crescita dei figli di Dio non si ferma all’anima: come abbiamo visto, anche il corpo partecipa ai frutti del Sacramento. Ogni comunione le infonderà quindi un germe più potente di risurrezione: attraverso ognuna di esse diventerà più duttile e docile ai movimenti della grazia, e parteciperà di più, almeno in linea di principio, a quello stato beato che la attende nella gloria. E questo è ciò di cui Dio si è compiaciuto di darci segni e testimonianze nelle meraviglie che talvolta mostra ai corpi dei santi: luminosità, profumi celestiali, preservazione dalla corruzione della tomba, per non parlare delle altre ben note. E questo è di per sé una vera crescita per il corpo, poiché tutto ciò tende per sua natura ad assimilarlo al Corpo glorificato dell’uomo perfetto, Gesù Cristo Nostro Signore.

3. In che misura e secondo quali leggi l’Eucaristia produce questa crescita? Certamente, se guardiamo solo alla potenza del principio da cui emana, l’incremento spirituale proveniente dall’Eucaristia dovrebbe essere infinito, poiché la causa immediata e diretta è Gesù Cristo stesso in persona. Ma non dobbiamo dimenticare che questa causa è libera, e che l’alimento eucaristico non agisce per principio cieco ma per volontà. Come Dio, nel creare il mondo, pur essendo l’Onnipotente, ha saputo confinare le sue opere entro i limiti determinati dalla sua infinita bontà, così sa anche definire i limiti della sua volontà. Sa anche come definire la misura della grazia che deve rispondere ad ogni Comunione della sua sacra carne. Ci basti pensare che la Sua liberalità supera di gran lunga le nostre deboli concezioni. – Una cosa, però, che ci è estremamente utile sapere è che questo Agente divino produce i suoi effetti in noi in proporzione alle disposizioni che ci preparano a riceverli. Cosa facciamo quando andiamo a sederci alla sacra mensa? Portiamo il nostro cuore ad essa, come un recipiente immerso in una sorgente traboccante d’acqua. Più è grande la sua capacità, più sarà riempita con l’acqua vivificante che è il dono dell’Eucaristia. Ora, cosa determina nella nostra anima la prossima capacità di ricevere la grazia del Sacramento? La disposizione che Gesù Cristo Nostro Signore vi trova; diciamo meglio, che vi produce con la nostra cooperazione. – Conosciamo già la disposizione assolutamente indispensabile. « Innocentiam ad altare apportate; portate l’innocenza all’altare », diceva Sant’Agostino ai fedeli del suo tempo; e la Chiesa, allo stesso tempo, ripeteva per bocca dei suoi ministri: « Sancta sanctis, ai santi le cose sante ». Ma oltre a questa disposizione generale che purifica il vaso, ve ne sono altre che lo dilatano: e tra queste disposizioni la più eccellente e la più efficace è l’amore della carità. È la carità che ha fatto dire a San Paolo, scrivendo ai fedeli di Corinto: « Per voi la nostra bocca si è aperta ed il nostro cuore si è dilatato. Non siete allo stretto in noi »  (1 Cor. VI. 11). Che questa santa carità, dunque, venga ad allargarsi riscaldandola con i suoi fuochi e moltiplichi, per così dire, la capacità che il Dio dell’Eucaristia vuole riempire con la sua grazia. – Questa prerogativa della tua carità è dovuta alla natura stessa delle cose: esso è il sacramento dell’amore, perché nasce, per così dire, dall’eccesso di amore, e perché va con tutto il suo peso all’amore perfetto. Come ricevere l’Eucaristia in modo più fruttuoso se non con l’amore? Senza dubbio, l’amore è al fondo di ogni anima che si accosta ad essa con la necessaria preparazione: perché dove c’è la grazia santificante, c’è la carità, suo inseparabile accompagnamento. – Ma l’amore di cui parlo come la disposizione più eccellente non è un amore addormentato nell’anima. È un amore che si risveglia all’avvicinarsi del Diletto, che risponde ai suoi atti con degli atti: un amore vivo, che agisce e parla. « E lo Spirito e la Sposa dicono: “Venite”. E chi ascolta dica a sua volta: Venite, venite, Signore Gesù. E chi ha sete venga, e chi vuole riceva gratuitamente l’acqua della vita » (Ap., XXII, 17, 20). È un amore che si estende da Gesù ai fratelli di Gesù, che soffoca ogni avversione e dissipa ogni ira: perché Gesù viene a noi con tutto il suo Corpo; non entra nelle anime mutilate, e chi avesse solo indifferenza per le sue membra, si lusingherebbe invano di essere tutto amore per Lui. – Ma qual è questo amore che rende migliore e più fruttuosa la preparazione a ricevere l’Eucaristia? È una domanda di grande importanza, perché è proprio perché non ne conoscono, o almeno perché troppo spesso ne dimenticano la risposta esatta che tante anime confondono o si illudono nel giudicare le loro disposizioni. Ora, questa risposta io la trovo nella contemplazione di ciò che mi viene dato quando faccio la Comunione. Gesù Cristo è ora nel seno della gloria, impassibile, immortale nel suo corpo, come lo è nella sua anima. Così la carne che ricevo, è una carne glorificata che non soffre né può soffrire; come quella che è uscita trionfalmente dal sepolcro il giorno della risurrezione. Eppure, non è in questa forma e in questa gloria, anche se temperata per occhi mortali, che Gesù Cristo me la dà. « Questo è il mio corpo dato, spezzato per voi; questo è il mio sangue versato », ci dice il Salvatore nella persona dei suoi discepoli. – Le specie eucaristiche mi mostrano sia il corpo che il sangue nello stato indicato dalle parole del Maestro, cioè nello stato di vittima immolata. Non che la doppia formula consacratoria lo richieda, la vera separazione del corpo e del sangue di Gesù Cristo, avvenuta sul Calvario.  Ma ciò che non richiede o fa per l’essere fisico del Salvatore, lo richiede e lo fa per il suo essere sacramentale. In altre parole, Gesù Cristo, in virtù di queste formule divine, riveste per noi, sotto i simboli che lo manifestano, l’intero aspetto esteriore di una vittima: è infatti solo la sua carne che esse uniscono alle specie del pane, solo il suo sangue che esse pongono sotto gli accidenti visibili del vino. Se il corpo non è separato dal sangue, né il sangue dal corpo, la ragione di ciò va ricercata non nel significato delle parole sacramentali, ma nell’unione inseparabile stabilita tra loro dalla vita immortale del Salvatore. È questo che rende la Consacrazione un Sacrificio commemorativo dell’immolazione cruenta nella Passione. – Così « il Cristo, immolato una sola volta nella sua propria natura, viene immolato ogni giorno per il popolo nel Sacramento del suo corpo e del suo sangue divino » (S. August., ep. 99, n. 9. Cfr. Bossuet, Exposition de la doct. § 14; Explicat. De la messe, § 17). Questo è ciò che sentiamo nella stessa voce in tutte le Liturgie della santa Chiesa, anche quelle stesse che, separate da noi da scismi ed eresie, delle comunioni hanno conservato l’uso. Ovunque e sempre si parla del Sacrificio presente e perpetuo, dell’ostia propiziatoria, dell’agnello sgozzato, dell’immolazione che avviene sotto gli occhi dei fedeli, di Cristo che viene offerto, come se stesse ancora compiendo in se stesso l’opera di Dio.: « offertur, quasi recipiens passionem ». – Questa idea è così familiare nel Cristianesimo che si ritrova naturalmente anche nello stile epistolare: ne è testimonianza la conclusione di una lettera scritta da san Gregorio di Nazianzo al suo amico, il Vescovo Anfiloco: « O santissimo adoratore di Dio, non mancate di pregare o intercedere per noi, quando con la parola attirate la Parola eterna, quando, usando la vostra voce come una spada, separate con una sezione incruenta il corpo ed il sangue del Signore » (« O Dei cultor sanctissime, ne cuncteris orare et legatione fungi pro nobis, quando verbo Verbum attrahis, quando incruenta sectione secas corpus et sanguinem dominicum, vocem adhibens pro gladio ». – S. Gregorio Nazareno, 171, ad Amphil. P. Gr., vol. 37, p. 279). – Ecco, dunque, Gesù Cristo disteso sull’altare e rivestito dei sacri segni di una vittima sempre viva e sempre sacrificante; eccolo, dico, ed è in questo stato che mi viene presentato da mangiare, che lo ricevo e che devo assimilarlo nel riceverlo. – Posso, dopo questo, non capire il carattere dell’amore che mi dispone a mangiare questo Agnello di Dio, e dell’amore che sarà l’effetto naturale di tale cibo. Posso capire che i beati abitanti del cielo si nutrano del mio Salvatore nell’eccitazione di un amore piacevole: lo possiedono senza veli e nella sua gloria. Ma l’amore che ci si addice è quello che corrisponde allo stato di nostra ostia, un amore modellato su Colui che ce lo ha donato nell’Ultima Cena; un amore che si arrende, che è l’unico che può dirsi un amore per il Signore. È un amore che si dona, che si offre, che non si sottrae alla sofferenza e vive di rinuncia e sacrificio. E quanto più di questo amore portiamo al banchetto divino, tanto più la nostra anima sarà pronta a infiammarsi al contatto con la sacra carne del Salvatore; tanto più abbondanti saranno i frutti di grazia che speriamo dall’Eucaristia. – Quindi non è tanto il numero quanto il fervore delle Comunioni a far progredire la santità. Qual è l’effetto santificante di mille Comunioni di un’anima tiepida, rispetto a una sola comunione eucaristica della Vergine, Madre di Dio! Il corpo del suo Figlio unigenito che Lei ha ricevuto, lo ricevono pure queste anime e la sua virtù sacramentale non varia. Da dove deriva allora la differenza? Dalla preparazione d’amore. – Avremmo meditato solo in modo molto imperfetto su ciò che l’Eucaristia è per la crescita spirituale dei figli di Dio, se ci limitassimo all’effetto presente che essa produce. Ricordiamo che si tratta, secondo il pensiero dei Padri, di quel carbone ardente di cui parla Isaia (S. J. Damasc., de Fid. Orth, L. IV: c, 141). Il fuoco che essa accende non è quindi un fuoco che si spegne quando cessa la presenza sacramentale. La carità che ha vivificato nell’anima tende a crescere, a diffondersi. Essa moltiplica le sue azioni ed è necessario che estenda la sua influenza salutare su tutta la vita, tutte le opere, tutti i movimenti del fedele. –  A questo punto, le due cause principali del nostro sviluppo si uniscono per darsi un aiuto potente e reciproco. Infatti, da un lato, la cooperazione che diamo alla grazia è una disposizione tanto più perfetta per ricevere i frutti del Sacramento, in quanto più meritoria in sé; e dall’altro, il Sacramento per i frutti che porta, contribuisce direttamente a rendere le nostre opere buone non solo più numerose, ma soprattutto più meritorie, poiché sviluppa in noi il regno e l’azione della carità. – Da tutta questa dottrina sull’Eucaristia, emerge una grande e preziosa conclusione per la nostra vita spirituale: è della massima importanza che noi veniamo a questo banchetto celeste il più spesso possibile e, ancor più, di prepararci con scrupolosa applicazione a mangiare il cibo divino che l’amore vi serve all’amore. Non diamo retta a quei moralisti disperanti che respingono dalla santa mensa, o che ammettono solo a rarissimi intervalli chi non è grande in grazia e carità. In passato la Chiesa dava il corpo del Signore ai bambini piccoli. Lo offre ancora a coloro che sono piccoli e deboli, non per età ma per virtù. Per loro, se hanno un umile senso della loro infermità, se vengono con cuore sincero a cercare nell’Eucaristia ciò che manchi alla loro anima, il Sacramento diventerà l’alimento della grande “cibus grandium“, perché produrrà il suo effetto proprio e diretto, la crescita nel Cristo. Lo dirò dunque? All’estremo rigorismo che in passato faceva della Comunione, soprattutto di quella frequente, il premio di un’eminente perfezione, succede talvolta ai nostri giorni una facilità davvero eccessiva da parte di alcuni direttori d’anime. Li vediamo permettere quasi indistintamente alle persone che governano di venire a sedersi alla sacra mensa spesso, persino ogni giorno; e non solo lo permettono, ma addirittura li esortano a farlo. Eppure, nessun serio emendamento nella vita; nessuno sforzo nemmeno per superare se stessi e avanzare nella virtù. Cercate la preparazione del cuore per un mistero così grande, e troverete il più delle volte solo mollezza, divagazioni ostinate, lo stesso attaccamento alle cose vane, le stesse abitudini irregolari e gli stessi difetti caramente trattenuti nel fondo del cuore. Si arriva per consuetudine, per moda, sotto l’impulso di non so qual segreta vanità. Si tratta davvero di una risposta ai disegni del Salvatore e di « mettere alla prova se stesso », come chiede l’Apostolo? – Lungi da me sottolineare che queste Comunioni siano sacrileghe. So che c’è una sola disposizione assolutamente necessaria, lo stato di grazia, e la presumo nelle anime tiepide e codarde di cui parlo. Né affermo che non ne traggano un aumento di grazia, almeno abituale. Ma ciò che mi sembra indubbio è che ci sarebbe un vantaggio generale per le anime di questo tipo, se il permesso di ricevere la divina Eucaristia fosse saggiamente misurato per loro. – Avvicinandosi ad essa con maggiore riverenza, un umile pentimento, il raccoglimento e la santa avidità, troverebbero in un’unica Comunione ciò che non avrebbero ricevuto in tutte quelle di cui sono stati privati. Imparerebbero anche che la vita spirituale si nutre meno di pratiche facili che di sforzi generosi a cui ci prepara la grazia del Sacramento. Finalmente, per dire tutto in una parola, invece di vegetare miseramente, sempre deboli e quasi sterili nelle opere sante, pur mangiando il pane della vita, presto forse usciranno da questa deplorevole inerzia e si rinnoveranno nello spirito del fervore. Da quel momento in poi, potranno prendere parte al cibo celeste e, poiché nulla paralizzerà la virtù di questo cibo divino, si ammirerà in esso una crescita sempre nuova con una meravigliosa fecondità (Cfr. Bourdaloue. Essai d’Octave du S. Sacrament, 5° giorno. Sermone sulla comunione frequente).

UN’ENCICLICA AL GIORNO TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI DI TORNO: S. S. LEONE XIII “ETSI CUNCTAS “

Breve è questa lettera Enciclica che S. S. Leone XIII indirizza al Primate di Irlanda per trasmettere i sensi del suo paterno affetto verso il popolo a lui spiritualmente soggetto colpito da attacchi ripetuti alle proprie ataviche tradizioni cattoliche e al tenace attaccamento alla Cattedra di San Pietro. Era già iniziata da tempo la ribellione dei popoli europei alla Chiesa Cattolica, unica vera Chiesa fondata e voluta dal Figlio di Dio incarnato ed affidata al suo Vicario in terra, il Santo Padre, il Papa, Pastore universale dei fedeli e dei prelati del collegio apostolico a lui associati. I ripetuti attacchi si sono poi moltiplicati sia dall’esterno della Santa Chiesa, sia soprattutto dal suo interno, infiltrata dalla quinta colonna dei marrani e degli adepti delle logge di perdizione che sono giunti a ribaltare, come sappiamo, tradizione divina, dottrina, culto ecclesiastico, pubblica morale e tutto quanto di sacro la Chiesa conservava, con il conciliabolo di stampo massonico, roncallo-montiniano, i cui effetti funesti sono sotto gli occhi delle persone ancor sane di mente dell’intero contesto umano. I vari focolai di ribellione al Cristo, di cui quello irlandese costituiva un segnale piccolo ma importante, si sono ingigantiti e moltiplicati convergendo sul fulcro dell’intero Cristianesimo, il Santo Padre, cacciato da Roma, impedito e sostituito da fantocci, burattini manipolati e teatranti ipocriti, canonicamente falsi e teologicamente eretici fino a sfociare nell’apostasia esoterico-pagana attuale nella quale sono immerse la totalità delle Nazioni un tempo fedeli seguaci del Credo evangelico e del Magistero infallibile della Sposa di Cristo, sgorgata dal costato del Cristo morto sulla croce. Ma certi che le porte del male e degli inferi non prevarranno mai sulla vera Chiesa di Cristo, e che il calcagno della Santa Vergine schiaccerà alfine il capo del dragone maledetto e dei suoi servi immondi fin nello stagno di fuoco eterno, leggiamo con serenità questo breve documento.

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Leone XIII
Etsi cunctas

Lettera Enciclica

Sebbene Noi abbracciamo con paterno sentimento di carità tutti e ogni singolo componente del gregge del Signore di cui Ci fu affidata la cura, tuttavia le Nostre premure e il Nostro pensiero si rivolgono in particolare a coloro che avvertiamo afflitti da qualche difficoltà. Sperimentiamo infatti in Noi stessi ciò che dalla natura è stato prescritto ai genitori, cioè d’incoraggiare e proteggere, primi tra gli altri, quei figli che sono stati colpiti da qualche sventura. Perciò con singolare benevolenza abbiamo sempre nutrito un affetto particolare per i Cattolici d’Irlanda, messi a dura prova da varie e insistenti disgrazie; per consuetudine li avemmo molto più cari, poiché furono ammirevoli per pazienza e tenacia, in quanto nessun dolore valse a distruggere o a diminuire il loro avito sentimento religioso. – Noi li abbiamo spesso ammoniti, e in questi ultimi tempi abbiamo emesso un decreto: cioè, abbiamo decretato e ammonito in quanto vedevamo che tali provvedimenti da una parte erano coerenti con la verità e la giustizia, e dall’altra giovevoli ai vostri interessi. Infatti, il Nostro animo non può rivolgersi a voi col rischio di nuocere in qualche modo alla causa per la quale si batte l’Irlanda, qualora s’interferisca in modo da essere giustamente riprovati. Pertanto, affinché sia più esplicita questa Nostra volontà nei confronti degl’Irlandesi, mandiamo costà dei doni, una parte dei quali consiste in paramenti, vasi e ornamenti d’arredo sacro, che destiniamo alle Chiese Cattedrali d’Irlanda perché sia più splendido il decoro della casa di Dio e del culto divino; l’altra parte consiste in offerte di minor pregio che Noi stessi abbiamo valorizzato con la benedizione e che sono strumenti atti a favorire la pietà dei singoli; con essi abbiamo voluto compensare i privati, come ti spiegheremo in modo più esplicito. Non dubitiamo che questo Nostro gesto possa rendere più evidente che il Nostro paterno amore verso gli Irlandesi è rimasto sempre immutato. Di questo amore essi saranno ancor più degni in futuro, se sapranno perseverare in una disposizione d’animo docile e fiducioso verso di Noi, se eviteranno attentamente gl’inganni di coloro che non esitano a interpretare i Nostri suggerimenti nel senso peggiore per sradicare, se fosse possibile, quel nobile ossequio verso la Chiesa cattolica che è da annoverare tra i più insigni meriti degl’Irlandesi, e che hanno ricevuto dai padri e dagli avi come un’importante e nobilissima eredità. – Invocando tutti i più preziosi doni della grazia celeste, a te, Venerabile Fratello, al Clero e al popolo che tu governi, e a tutta l’Irlanda, impartiamo con molto affetto l’Apostolica Benedizione.

Dato a Roma, presso San Pietro, il 21 dicembre 1888, nell’anno undecimo del Nostro Pontificato.

DOMENICA XXII DOPO PENTECOSTE

DOMENICA XXII DOPO PENTECOSTE (2022)

(Messale Romano di S. Bertola e G. Destefani, comm. di D. G. LEFEBVRE O. S. B; L. I. C. E. – R. Berruti & C. Torino 1950)

Semidoppio. – Paramenti verdi.

In quest’epoca le letture dell’Officiatura sono spesso tolte dal Libro dei Maccabei. Giuda Maccabeo, avendo udito quanto potenti fossero i Romani e come avessero sottomesso dei paesi assai lontani ed obbligato tanti re a pagar loro un tributo annuale, e d’altra parte sapendo che essi solevano acconsentire a quanto veniva loro chiesto e che avevano stretto amicizia con tutti coloro che con essi si erano alleati, mandò a Roma alcuni messi per fare amicizia ed alleanza con loro. Il Senato romano accolse favorevolmente la loro domanda e rinnovò più tardi questo trattato di pace con Gionata, e poi con Simeone che succedettero a Giuda Maccabeo, loro fratello. Ma ben presto la guerra civile sconvolse questo piccolo regno, poiché dei fratelli si disputarono tra di loro la corona. Uno di questi credette fare una mossa abile chiamando i Romani in aiuto; essi vennero infatti e nel 63 Pompeo prese Gerusalemme. Roma non soleva mai rendere quello che le sue armi avevano conquistato e la Palestina divenne quindi e restò una provincia romana. Il Senato nominò Erode re degli Ebrei ed egli, per compiacere costoro, fece ingrandire il Tempio di Gerusalemme e fu in questo terzo tempio che il Redentore fece più tardi il suo ingresso trionfale. Da quel momento il popolo di Dio dovette pagare un tributo all’imperatore romano ed è a ciò che allude il Vangelo di oggi. Questo episodio avvenne in uno degli ultimi giorni della vita di Gesù. Con una risposta piena di sapienza divina, il Maestro confuse i suoi nemici, che erano più che mai accaniti per perderlo. L’obbligo di pagare un tributo a Cesare era tanto più odioso agli Ebrei in quanto contrastava allo spirito di dominio universale che Israele era convinto di aver ricevuto con la promessa. Quelli che dicevano che si doveva pagarlo, avevano contro di loro l’opinione pubblica, quelli che dicevano che non si dovesse farlo, incorrevano nell’ira dell’autorità romana imperante e degli Ebrei che erano a questa favorevoli e che si chiamavano erodiani. I farisei pensavano dunque che forzare Gesù a rispondere a questo dilemma voleva sicuramente dire perderlo, sia davanti al popolo, sia davanti ai Romani, e che tanto dagli uni come dagli altri avrebbero potuto farlo arrestare. Per essere sicuri di riuscirvi gli mandarono una deputazione di Giudei che appartenevano ai due partiti, « alcuni dei loro discepoli con degli erodiani », dice S. Matteo. Questi uomini, per ottenere una risposta, cominciarono col dire a Gesù che sapevano come Egli dicesse sempre la verità e non fosse accettatore di persone; poi gli tesero un tranello: « È permesso o no pagare il tributo a Cesare?». Gesù, conoscendo la loro malizia, disse loro: « Ipocriti, perché mi tentate?» Poi, sfuggendo loro destramente, domandò che gli mostrassero la moneta del tributo, per forzarli, come sempre faceva in queste circostanze, a rispondere essi stessi alla loro domanda. Infatti, quando gli Ebrei gli ebbero presentato un danaro che serviva per pagare il tributo: « Di chi è questa effigie e questa iscrizione? » chiese loro. «Di Cesare», risposero quelli. Bisognava infatti per pagare il tributo, cambiare prima la moneta nazionale in quella che portava l’effigie dell’imperatore romano. Con questo scambio gli Ebrei venivano ad ammettere di essere sotto la dominazione di Cesare, poiché una moneta non ha valore in un paese se non porta l’effigie del suo sovrano. Acquistando dunque quel denaro con l’impronta di Cesare, riconoscevano essere egli il signore del loro paese, al quale essi avevano l’intenzione di pagare il tributo. « Rendete dunque a Cesare — disse loro Gesù — quello che è di Cesare ». Ma allora il Maestro, diventando ad un tratto il giudice dei suoi interlocutori interdetti, aggiunse: « Rendete a Dio quello Che è di Dio ». Ciò vuol dire: che appartenendo l’anima umana a Dio, che l’ha fatta a propria immagine, tutte le facoltà di quest’anima devono far ritorno a Lui, pagando il tributo di adorazione e di obbedienza. « Noi siamo la moneta di Dio, coniata con la sua effigie, dice S. Agostino – e Dio esige il suo denaro, come Cesare il proprio » (In JOANN.). « Diamo a Cesare la moneta che porta l’impronta sua, aggiunge S. Girolamo,, poiché non possiamo fare diversamente, ma diamoci anche spontaneamente, volontariamente e liberamente a Dio, poiché l’anima nostra porta l’immagine sfolgorante di Dio e non quella più o meno maestosa di un imperatore ». (In MATT.). – « Questa immagine, che è l’anima nostra – dice ancora Bossuet – passerà un giorno di nuovo per le mani e davanti agli occhi di Gesù Cristo. Egli dirà ancora una volta guardandoci: Di chi è quest’immagine e quest’iscrizione? E l’anima risponderà: di Dio. È per Lui ch’eravamo stati fatti: dovevamo portare l’immagine di Dio, che il Battesimo aveva riparato, poiché questo è il suo effetto e il suo carattere. Ma che cosa è diventata questa immagine divina che dovevamo portare? Essa doveva essere nella tua ragione, o anima cristiana! e tu l’hai annegata nell’ebbrezza; tu l’hai sommersa nell’amore dei piaceri; tu l’hai data in mano all’ambizione; l’hai resa prigioniera dell’oro, il che è un’idolatria; l’hai sacrificata al tuo ventre, di cui hai fatto un dio; ne hai fatto un idolo della vanagloria; invece di lodare e benedire Iddio notte e giorno, essa si è lodata e ammirata da sé. In verità, in verità, dirà il Signore, non vi conosco; voi non siete opera mia, non vedo più in voi quello che vi ho messo. Avete voluto fare a modo vostro, siete l’opera del piacere e dell’ambizione; siete l’opera del diavolo di cui avete seguito le opere, di cui, imitandolo, vi siete fatto un padre. Andate con lui, che vi conosce e di cui avete seguito le suggestioni; andate al fuoco eterno che per lui è stato preparato. O giusto giudice! dove sarò io allora? mi riconoscerò io stesso, dopo che il mio Creatore non mi avrà riconosciuto? » (Medit. sur l’Èvangile, 39e jour) In questo modo dobbiamo interpretare il Vangelo, in questa Domenica, che è una delle ultime dell’anno ecclesiastico e che segna per la Chiesa gli ultimi tempi del mondo. Infatti, a due riprese, l’Epistola parla dell’Avvento di Gesù, che è vicino. S. Paolo prega Dio che ha cominciato il bene nelle anime, di compierlo fino al giorno del Cristo Gesù », poiché è da Lui che viene la perseveranza finale. E l’Apostolo invoca appunto questa grazia: che « la nostra carità abbondi vieppiù in cognizione e discernimento, affinché siamo puri e senza rimproveri nel giorno di Gesù Cristo » (Epistola). In questo terribile momento, infatti se il Signore tiene conto delle nostre iniquità, chi potrà sussistere davanti a Lui? (Introito). « Ma il Signore è il sostegno e il protettore di coloro che sperano in Lui » (Alleluia), poiché « la misericordia si trova nel Dio d’Israele » (Intr., Segret.). E noi risentiremo gli effetti di questa misericordia se saremo noi stessi misericordiosi verso il prossimo. « Come bello è soave è per i fratelli essere uniti! » dice il Graduale. E dobbiamo esserlo soprattutto nella preghiera, all’ora del pericolo, poiché se gridiamo verso il Signore, Egli ci esaudirà » (Com.). E la preghiera eminentemente sociale e fraterna, alla quale Dio è più specialmente propizio, è la pregherà della Chiesa, sua sposa, che Egli ascolta ed esaudisce come fece il re Assuero, allorché, come ricorda l’Offertorio, la sua sposa Ester si rivolse a Lui per salvare dalla morte il popolo di Dio (v. 19a Domenica dopo Pentecoste). Il dono della perseveranza nel bene ci viene da Dio. San Paolo domanda a Dio di accordarlo ai Filippesi, che gli sono sempre stati uniti nelle sue sofferenze e nelle sue fatiche apostoliche e che egli ama, come Cristo Gesù stesso li ama. La loro carità dunque cresca continuamente, affinché il giorno dell’avvento di Gesù, colmi di buone opere, rendano gloria a Dio. « Se noi siamo attaccati ai beni che dipendono da Cesare, dice S. Ilario, non possiamo lamentarci dell’obbligo di rendere a Cesare quello che è di Cesare; ma dobbiamo anche rendere a Dio quello che gli appartiene in proprio, cioè consacrargli il nostro corpo, l’anima nostra, la nostra volontà » (Mattutino).

Incipit

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Adjutórium nostrum in nómine Dómini.
R. Qui fecit cælum et terram.
Confíteor Deo omnipoténti, beátæ Maríæ semper Vírgini, beáto Michaéli Archángelo, beáto Joánni Baptístæ, sanctis Apóstolis Petro et Paulo, ómnibus Sanctis, et vobis, fratres: quia peccávi nimis cogitatióne, verbo et ópere: mea culpa, mea culpa, mea máxima culpa. Ideo precor beátam Maríam semper Vírginem, beátum Michaélem Archángelum, beátum Joánnem Baptístam, sanctos Apóstolos Petrum et Paulum, omnes Sanctos, et vos, fratres, oráre pro me ad Dóminum, Deum nostrum.
S. Misereátur nostri omnípotens Deus, et, dimíssis peccátis nostris, perdúcat nos ad vitam ætérnam.
R. Amen.
S. Indulgéntiam, absolutiónem et remissiónem peccatórum nostrórum tríbuat nobis omnípotens et miséricors Dóminus.
R. Amen.

V. Deus, tu convérsus vivificábis nos.
R. Et plebs tua lætábitur in te.
V. Osténde nobis, Dómine, misericórdiam tuam.
R. Et salutáre tuum da nobis.
V. Dómine, exáudi oratiónem meam.
R. Et clamor meus ad te véniat.
V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.

Introitus

Ps. CXXIX: 3-4

Si iniquitátes observáveris, Dómine: Dómine, quis sustinébit? quia apud te propitiátio est, Deus Israël.

[Se tieni conto delle colpe, o Signore, o Signore chi potrà sostenersi? Ma presso di Te si trova misericordia, o Dio di Israele.]

Ps CXXIX: 1-2

De profúndis clamávi ad te, Dómine: Dómine, exáudi vocem meam.

[Dal profondo Ti invoco, o Signore: O Signore, esaudisci la mia supplica.]

Si iniquitátes observáveris, Dómine: Dómine, quis sustinébit? quia apud te propitiátio est, Deus Israël.

[Se tieni conto delle colpe, o Signore, o Signore chi potrà sostenersi? Ma presso di Te si trova misericordia, o Dio di Israele.]

Kyrie

S. Kýrie, eléison.
M. Kýrie, eléison.
S. Kýrie, eléison.
M. Christe, eléison.
S. Christe, eléison.
M. Christe, eléison.
S. Kýrie, eléison.
M. Kýrie, eléison.
S. Kýrie, eléison.

Gloria

Glória in excélsis Deo. Et in terra pax homínibus bonæ voluntátis. Laudámus te. Benedícimus te. Adorámus te. Glorificámus te. Grátias ágimus tibi propter magnam glóriam tuam. Dómine Deus, Rex cæléstis, Deus Pater omnípotens. Dómine Fili unigénite, Jesu Christe. Dómine Deus, Agnus Dei, Fílius Patris. Qui tollis peccáta mundi, miserére nobis. Qui tollis peccáta mundi, súscipe deprecatiónem nostram. Qui sedes ad déxteram Patris, miserére nobis. Quóniam tu solus Sanctus. Tu solus Dóminus. Tu solus Altíssimus, Jesu Christe. Cum Sancto Spíritu ✠ in glória Dei Patris. Amen.

Oratio

Orémus.

Deus, refúgium nostrum et virtus: adésto piis Ecclésiæ tuæ précibus, auctor ipse pietátis, et præsta; ut, quod fidéliter pétimus, efficáciter consequámur.

[Dio, nostro rifugio e nostra forza, ascolta favorevolmente le umili preghiere della tua Chiesa, Tu che sei l’autore stesso di ogni pietà, e fa che quanto con fede domandiamo, lo conseguiamo nella realtà.]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Philippénses

Phil I: 6-11

“Fratres: Confídimus in Dómino Jesu, quia, qui cœpit in vobis opus bonum, perfíciet usque in diem Christi Jesu. Sicut est mihi justum hoc sentíre pro ómnibus vobis: eo quod hábeam vos in corde, et in vínculis meis, et in defensióne, et confirmatióne Evangélii, sócios gáudii mei omnes vos esse. Testis enim mihi est Deus, quómodo cúpiam omnes vos in viscéribus Jesu Christi. Et hoc oro, ut cáritas vestra magis ac magis abúndet in sciéntia et in omni sensu: ut probétis potióra, ut sitis sincéri et sine offénsa in diem Christi, repléti fructu justítiæ per Jesum Christum, in glóriam et laudem Dei”.

(“Fratelli: Abbiam fiducia nel Signore Gesù, che colui il quale ha cominciato in voi l’opera buona la condurrà a termine fino al giorno di Cristo Gesù. Ed è ben giusto ch’io nutra questi sentimenti per voi tutti; poiché io vi porto in cuore, partecipi come siete del mio gaudio, e nelle mie catene, e nella difesa e nel consolidamento del Vangelo. Mi è, infatti, testimonio Dio come ami voi tutti nelle viscere di Gesù Cristo. E questa è la mia preghiera: che il vostro amore vada crescendo di più in più in cognizione e in ogni discernimento, si da distinguere il meglio, affinché siate puri e incensurati per il giorno di Cristo, ripieni di frutti di giustizia, mediante Gesù Cristo, a gloria e lode di Dio”).

AUGURI CRISTIANI DI UN APOSTOLO.

Che cosa dobbiamo noi Cristiani desiderare ed augurare a noi stessi e agli altri? dico così: a noi e agli altri, perché dovendo noi amare il prossimo come noi stessi, s’ha da desiderare agli altri ed augurare né più, né meno di quello che desideriamo ed auguriamo a noi. È un problema molto pratico, se si consideri il gran numero d’auguri che per consuetudine antica, si scambiano in mille circostanze diverse, anche fra noi Cristiani. I quali spesso, troppo spesso, ci auguriamo, quello stesso che si augurano fra di loro i pagani, come se il Cristianesimo non esistesse, come se nelle fatti specie non avesse un bel nulla da insegnarci. Opportunissima è al proposito l’Epistola paolina di questa domenica, nella quale San Paolo lascia libero sfogo al suo grande cuore. E dice ai suoi figli, ai Cristiani da lui convertiti, da lui rigenerati al fonte battesimale, quale sia l’oggetto precipuo e costante delle sue preghiere per loro. La preghiera, giova ricordarlo tra parentesi, è la forma cristiana dell’augurio. Il pagano augura, il Cristiano prega. Ordunque che cosa augura e prega il grande Apostolo ai suoi cari? Una carità in un aumento costantemente progressivo. « Chiedo a Dio che la vostra carità abbondi più e più ». Che cosa auguriamo noi istintivamente a quelli che amiamo? Lo si sa: salute e felicità. E dicendo salute, quando parliamo il linguaggio comune, fondato sulla comune psicologia, intendiamo la salute del corpo, e la felicità del tempo. Ebbene: noi Cristiani sappiamo che c’è una salute più preziosa della corporea: è la salute dell’anima; c’è una felicità più vera della comunemente intesa, è la felicità spirituale ed eterna. Tutto questo è nella carità. La carità cristiana, amore fervido di Dio e dei fratelli, unico moto con due poli ed estremità, la carità; l’ardore di essa è la vita dell’anima. Si vive di carità; senza essa si muore, muore la parte più vera, più intima, più umana di noi: « qui non diligîit, manet in morte. » E questo amore divino, divino sempre, divino ancora quando sembra diventare umano, è la gioia più profonda ed indistruttibile. L’amore profano con le sue gioie è un abbozzo della gioia che porta nell’anima l’amore celeste. Desiderare la carità agli altri (e a noi) significa desiderare (e chiedere, per conseguenza), la vita, la salute più vera e la felicità più completa. Lo sentiamo noi questo? ne siamo noi veramente convinti? Ecco, se mai, una buona occasione per ridestare in noi questa convinzione, per rettificare nella nostra anima, come dicono oggi, la scala dei valori. In cima a questa benedetta scala, che regola poi in pratica i moti, i voli della nostra anima; in cima la carità. Nella quale non si progredisce mai abbastanza e bisogna progredire sempre. Quando si è convinti della preziosità di una cosa qualsiasi, non se ne ha, non si crede mai di averne abbastanza, se ne desidera sempre di più. La carità è il nostro tesoro per eccellenza, il vero tesoro cristiano. Paolo la desidera, la prega ai fedeli sempre maggiore, in aumento continuo e indefinito. E sempre meglio. Fiamma più ardente e fiamma più pura. Progresso in quantità e in qualità. In che cosa l’Apostolo faccia consistere il miglioramento qualitativo, non è chiarissimo. Ma tra le interpretazioni in cui s’indugiano i critici, gli esegeti, la migliore mi par questa: la nostra carità S. Paolo desidera e prega diventi sempre più conscia (questo significa quello che il testo chiama progresso in scientia), alimentata cioè da una conoscenza sempre più chiara, esatta, profonda di Dio, Signor Nostro. – Meglio si vede una cosa o persona bella e più acceso ne ferve in noi il desiderio, nell’ordine naturale. Lo stesso nell’ordine soprannaturale: più, meglio, si conosce Dio e più e meglio lo si ama. E anche il prossimo nostro lo amiamo tanto più quanto più lo guardiamo, e vediamo in una luce divina colta, afferrata bene dal nostro occhio interiore. Ma lì nel prossimo ci vuol giudizio. San Paolo dice proprio: la carità divina verso Dio sempre più conscia; la carità verso il prossimo sempre più giudiziosa. Non si potrebbe dire di meglio.

P. G. Semeria: Le epistole delle Domeniche, Op. naz. Per il mezzogiorno d’Italia, Milano, 1939.

(Nihil obstat sac. P. De Ambroggi – Imprim. P. Castiglioni vic. Gen. Curia Arch, Mediolani, 1-3-1938)

Graduale

  Ps CXXXII: 1-2

Ecce, quam bonum et quam jucúndum, habitáre fratres in unum!

[Oh, come è bello, com’è giocondo il convivere di tanti fratelli insieme!]

V. Sicut unguéntum in cápite, quod descéndit in barbam, barbam Aaron.

[È come l’unguento versato sul capo, che scende alla barba, la barba di Aronne. ]

Alleluja

Allelúja, allelúja

Ps CXIII: 11

Qui timent Dóminum sperent in eo: adjútor et protéctor eórum est. Allelúja.

[Quelli che temono il Signore sperino in Lui: Egli è loro protettore e loro rifugio. Allelúia.]

Evangelium

Sequéntia sancti Evangélii secúndum Matthæum.

Matt XXII: 15-21

In illo témpore: Abeúntes pharisæi consílium iniérunt, ut cáperent Jesum in sermóne. Et mittunt ei discípulos suos cum Herodiánis, dicéntes: Magíster, scimus, quia verax es et viam Dei in veritáte doces, et non est tibi cura de áliquo: non enim réspicis persónam hóminum: dic ergo nobis, quid tibi vidétur, licet censum dare Caesari, an non? Cógnita autem Jesus nequítia eórum, ait: Quid me tentátis, hypócritæ? Osténdite mihi numísma census. At illi obtulérunt ei denárium. Et ait illis Jesus: Cujus est imágo hæc et superscríptio? Dicunt ei: Caesaris. Tunc ait illis: Réddite ergo, quæ sunt Cæsaris, Cæsari; et, quæ sunt Dei, Deo.

( “In quel tempo, i Farisei ritiratisi, tennero consiglio per coglierlo in parole. E mandano da lui i loro discepoli con degli Erodiani, i quali dissero: Maestro, noi sappiamo che tu sei verace, e insegni la via di Dio secondo la verità, senza badare a chicchessia; imperocché non guardi in faccia gli uomini. Spiegaci adunque il tuo parere: È egli lecito, o no, di pagare il tributo a Cesare? Ma Gesù conoscendo la loro malizia, disse: Ipocriti, perché mi tentate? Mostratemi la moneta del tributo. Ed essi gli presentarono un danaro. E Gesù disse loro: Di chi è questa immagine e questa iscrizione? Gli risposero: Di Cesare. Allora egli disse loro: Rendete dunque a Cesare quel che è di Cesare, e a Dio quel che è di Dio”).

OMELIA

(G. Colombo: Pensieri sui Vangeli e sulle feste del Signore e dei Santi; VI  ediz. Soc. Ed. Vita e pensiero – Milano).

CESARE E DIO

Per tutta l’ultima settimana di sua vita mortale, Gesù fu assalito dai suoi nemici con un’esasperazione accanita e coperta. Volevano ad ogni costo ucciderlo, salvando però le apparenze legali. Vanno dunque da Lui e scaltramente gli dicono: « Maestro, noi sappiamo che tu sei sincero, e non guardi in faccia a nessuno e non defletti minimamente quando si tratta della verità. Dicci, dunque: è permesso o no pagare la tassa a Cesare? La dobbiamo o non la dobbiamo pagare? ». La questione posta in questi termini era terribilmente insidiosa. Per le autorità romane, il rifiuto della tassa era un atto tale di ribellione da far mandare alla morte; ma agli occhi del popolo, pagare la tassa era il più odioso segno di sottomissione alla tirannia prepotente dello straniero. Che cosa avrebbe, ora, risposto Gesù? La risposta di Gesù fu semplice e decisa. Chiese di vedere una moneta e gliene presentarono una ch’era romana, con la sua brava faccia dell’imperatore circondata da queste parole: « Tiberio Cesare figlio del divo Augusto ». Allora domandò: « Di chi è questa faccia e di chi è questo nome? », « Di Cesare ». « Date dunque a Cesare quel ch’è di Cesare e a Dio quel ch’è di Dio ». In queste parole c’è una regola divinamente equilibrata, la sola che può dare al mondo l’ordine e la pace, la sola che può nel medesimo tempo conservare agli uomini la vera libertà. Agli Ebrei che, fieri del loro antico regime teocratico, rifiutavano ogni autorità di re o d’imperatore decisi a sottomettersi soltanto a Dio, Gesù insegna che bisogna rispettare e ubbidire anche le autorità costituite: « Date a Cesare quello che è di Cesare ». Ai Romani che, sostenendo il pregiudizio opposto, facevano dello Stato un potere assoluto, e davano a Cesare un ossequio illimitato, Gesù insegna che il potere politico ha dei limiti e non può violentare le leggi della coscienza e della fede che sono di Dio: « Date a Dio quello che è Dio ». A questo proposito si è rifatta oggi nel mondo tanta confusione e molti oscillano tra due estremi opposti: dall’anarchia e dall’individualismo esagerato che rifiutano l’autorità e il controllo dello Stato, sì giunge fino a certi nazionalismi assurdi, che soffocano la libertà e la personalità. Fra tanto strepito e smarrimento, il Vangelo soltanto ha una parola giusta da metterci; tanto giusta che dagli esagerati dall’una e dall’altra parte viene combattuta: combattuta perché gli uni la trovano troppo servile e gli altri troppo poco favorevole all’autorità dello Stato. Assalita sempre, spenta mai, la parola di Cristo, resta accesa sugli ondeggiamenti della storia come un faro di salvezza per gli uomini di buona volontà. – 1. DATE A CESARE QUEL CHE È DI CESARE. Che cosa deve dare un Cristiano a Cesare, cioè alla sua patria terrena e a quelli che la governano? a) Anzitutto la preghiera. S. Paolo in una lettera scrive queste raccomandazioni: « Vi supplico per prima cosa che facciate suppliche e voti per tutti gli uomini, per i re e per tutti quelli costituiti in alte cariche, affinché possiamo menare vita quieta e tranquilla con tutta pietà ed onestà. Vi assicuro che questo sarà ben fatto e molto gradito al cospetto del Signore Dio nostro, il quale vuole che tutti gli uomini si salvino ed arrivino al conoscimento della verità ». b) E poi deve amore. Il nostro divin Salvatore, che pure era disceso in terra per la salute di tutti gli uomini, diceva che voleva evangelizzare i suoi connazionali per i primi. Questi lo ripudiarono, ma Egli non cessò d’amare la patria sua che lo maltrattava. E pensando alla rovina imminente che sovrastava alla capitale, non poté trattenere le lagrime e pianse. Nessun patriota ha versato un pianto, così puro e intenso d’amore come quello!… Dobbiamo essere Cristiani, cioè imitatori di Cristo, anche nell’amore alla patria godere dei suoi trionfi, piangere delle sue sventure, cooperare alla sua prosperità. Ricordiamoci pure che l’amore vero non è mai scompagnato dal sacrificio. c) Il Cristiano deve saper fare molti sacrifici per la sua patria. Il sacrificio dell’ubbidienza alle leggi: e S. Paolo ne dà il motivo profondo, osservando che ogni potere viene da Dio, e chi resiste al potere legittimo resiste a Dio.  Il sacrificio del proprio danaro: pagando senza inganni le imposte e persuadendoci che in certi momenti di crisi e angustia mondiale bisogna sobbarcarci anche a pesi straordinari, perché è necessario per il benessere sociale, e per l’indipendenza morale della patria. Il sacrificio del proprio tempo e delle proprie capacità, quando la patria ci affida un compito di responsabilità e di governo. Formiamoci intanto una coscienza diritta, inflessibile, religiosa anche per amore della nostra patria. C’è un’altra rivoluzione da fare, e bisogna avere il coraggio d’affrontarla: la riforma e il miglioramento interiore di ciascuno di noi. Solo i cittadini e i magistrati di coscienza incorrotta e disinteressata che fanno la prosperità di un popolo. Anche il sacrificio della vita ci può essere chiesto dalla patria in certe ore d’estrema necessità. E il Cristiano non deve mancare neppure alla prova più grande dell’amore: la morte. – 2. DATE A DIO QUEL CHE È DI DIO. La patria terrena però non è l’unico fine e nemmeno il principale. Educare delle generazioni fisicamente forti, addestrarle al pericolo, agili nel maneggio delle armi, abituare alla disciplina militare, è buona cosa, ma non è tutto. Lo scopo supremo della nostra vita sulla terra è di conoscere, amare, servire il Signore, per meritare poi dopo la morte di vederlo e goderlo per sempre in paradiso. Nessuno può toglierci o diminuirci in qualsiasi modo questa libertà di andare a Dio e di raggiungere la nostra piena felicità. A Tangeri, il 21 luglio dell’anno 298, si celebrava il giorno natalizio dell’Imperatore. Gli Ufficiali della legione Traiana avevano organizzato una festa patriottica con banchetti, baldorie invereconde, e sacrifici agli dei e al Genio del divo imperatore. Solo il centurione Marcello se ne stava in disparte, stomacato. I suoi camerati vollero costringerlo a partecipare alla festa come loro, e per il suo contegno l’accusavano di scarsa fedeltà all’esercito e alle sorti delle armi imperiali. Il centurione Marcello, convinto che quel festino era un’indegna profanazione, gettò a terra il cinturone militare e anche il bastone flessibile di legno di vite che era il segno del suo grado, e davanti alle insegne della legione fece questa dichiarazione: « Se non si può essere soldati che a condizione di offrire sacrificio agli dei e agli Imperatori, e di prostituire la mia coscienza, rinunzio al mio grado, ed esco dall’esercito ». Rimasero stupiti soldati ed ufficiali all’udire parole così inattese; poi lo afferrarono e lo trascinarono nel carcere militare. Il 30 ottobre fu processato. L’ufficiale giudiziario, di nome Agricolano, cominciò l’interrogatorio. « Militavi come centurione regolare? », Marcello rispose :« Sì ». Agricolano disse: « Che pazzia t’ha preso, da rinnegare il tuo giuramento e parlare in tal modo? ». Marcello rispose: « Servire e temere Dio, tu lo chiami pazzia? ». Agricolano soggiunse: « Hai proprio detto tutte le frasi di cui sei accusato? ». Marcello rispose: « Le ho dette ». « E hai gettato le armi? ». « Le ho gettate perché non m’era più lecito, come Cristiano, di portarle ». Allora Agricolano concluse: « Il caso del centurione Marcello è tale che deve essere punito per tutelare la disciplina militare ». E pronunziò la sentenza. « Ordino che sia decapitato Marcello, il quale, militando come centurione regolare, ha pubblicamente rinnegato il giuramento dichiarando di esserne disonorato, e inoltre ha proferito frasi ingiuriose ». Mentre veniva tratto al supplizio, si voltò indietro e disse ad Agricolano: « Dio ti dia bene, poiché non m’hai fatto applicare pene infamanti: così, di spada, conveniva che un centurione uscisse da questo mondo» (S. Colombo, Atti dei Martiri, S.E.L,, pag. 259, ss.).  Dal commovente episodio emergono chiaramente due concetti: a) Il Cattolicesimo non è una religione nazionale. E come un giorno non si lasciò confondere con la politica dell’Impero Romano, così ora non può lasciarsi confondere con la politica di nessun Stato moderno. Esso è religione del Dio vero ed unico, del Dio Padre di tutti: perciò non è di nessuna nazione esclusivamente, ma di tutte le umane coscienze, senza distinzione di classe o di paese. Di fronte a Dio, di fronte al Cattolicesimo un selvaggio del Kenia è sullo stesso piano di un lord Inglese. b) Il martirio del centurione Marcello ci insegna ancora che il potere dello Stato ha dei limiti. La Religione è superiore alla politica, la vita eterna deve soprastare alla vita terrena; e la coscienza morale e religiosa ha le sue inviolabili libertà che nessuna legge d’un uomo può soffocare. Cesare non deve pretendere ciò che è di Dio; e se lo pretendesse, ogni vero Cristiano deve morire piuttosto che cedere. Per questa libertà, hanno saputo morire molti Cristiani in ogni secolo e anche nel nostro. – Machiavelli ha detto che la religione cristiana impedisce l’eroismo patriottico per la difesa e per la grandezza della patria, poiché avvezzando gli uomini a collocare nel paradiso le speranze e i desideri, li rende fiacchi e indifferenti per gli interessi di quaggiù (Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, libro, II, cap. II). Di quando in quando c’è qualcuno che rimette a nuovo questo rugginoso ferramento e vuol farne un’arma d’offesa contro la Chiesa e impedirle di educare la gioventù, quasi ne fosse intrinsecamente incapace. Che il Cattolico, per ragione della sua fede nel paradiso, non possa essere patriota con giustizia e con libertà, patriota ardente fino all’eroica morte, questo è smentito dai fatti, è smentito dalla dottrina… Con maggiore slancio può morire sul campo di battaglia chi è certo che la vita data per Cesare gli viene resa da Dio, più grande e più bella. – – LA ROBA D’ALTRI. Non vi siete mai chiesto qual peccato nel mondo si detesti di più? Provate a pensarci. E vedrete che è quello contro al settimo comandamento: Non rubare. Non all’ateo, non al libertino, ma alla persona che, in qualsiasi modo, si appropria l’altrui, il mondo getta in faccia il suo anatema: « Tu sei un disonesto ». Onestà e disonestà per il mondo sono quindi in rapporto al non rubare. Ma se il furto è il peccato più aborrito e temuto dagli uomini, pure ben pochi se ne possono dire innocenti. E doveva essere così fin dal tempo di S. Giovanni Crisostomo al sec. IV, perché è lui che fa questa osservazione. Sul furto perciò mediteremo deducendo qualche pensiero dal Vangelo domenicale.  Dare a ciascuno il suo: ecco la giustizia. Quella giustizia che gli uomini violano in due modi: o rubando o non restituendo roba già rubata. E quanto è facile rubare, altrettanto è poi difficile restituire. Sono questi i due pensieri della nostra riflessione. Ma prima è bene ricordare l’osservazione di S. Tommaso: perché Gesù Cristo parla prima di restituire a Cesare e poi a Dio? Non già che l’interesse del prossimo prevalga sull’interesse di Dio, ma perché nessuno può dare a Dio ciò che gli spetta, se prima non ha dato al prossimo ciò che gli è dovuto. Reddite ergo quæ sunt Cæsaris Cæsari! – 1. È FACILE RUBARE. Il figlio di Sirach cercava da per tutto un uomo che avesse le mani nette dalla roba d’altri. E girando in cerca, vide una moltitudine di gente che correva dietro l’ingiustizia; gente che arricchiva troppo in fretta per arricchire onestamente; gente che, abbagliata dal luccicore dell’oro, non sapeva più distinguere il « tuo dal mio ». Dice la Sacra Scrittura: « Fatemi vedere un ricco senza macchia ed io lo chiamerò uomo miracoloso ». Quis est hic, et laudabimus eum? (Eccl., XXXI, 9). Sì, è davvero un miracolo della grazia di Dio che l’uomo si conservi lontano da ogni usurpazione verso il suo prossimo. Due sono le cause che ci spingono a trasgredire il « non rubare » del decalogo: l’attacco bramoso che ognuno sente alla roba del mondo, e la continua occasione in cui ci troviamo di poter facilmente, e senza rischio, appropriarci danaro o roba d’altri. Domandiamoci: perché, quando osserviamo un nostro vicino più ricco di noi, più benedetto negli affari di noi, dal mondo cupo della nostra natura si eleva un sentimento di gelosia, che diventa invidia, la quale se non è repressa, diventa rabbia di non possedere anche noi quanto egli, e più ancora? È l’avidità dei beni terreni che ci assale; è l’avarizia che non dice mai basta; è uno dei sette vizi capitali che ha radice in ogni cuor d’uomo. Fu questa cupidigia che insegnò le vie più losche dell’arricchire: l’usura, il contratto falso, il fallimento doloso, il furto sfacciato. Se a questa mal nata tendenza; aggiungete le minute occasioni che ogni giorno ci si offrono per rubare, abbastanza onorevolmente, si capisce perché il figlio di Sirach abbia cercato invano l’uomo con le mani nette dalla roba altrui. Un servo ha sempre tra le mani i beni del suo padrone: se non ha la coscienza più che timorosa, un po’ oggi e un po’ domani, sapreste calcolar voi quanto ruba in un anno? Un negoziante vende e compra continuamente: un decimetro di più quando si compra, un decimetro meno quando si vende, due pesi e due misure, ed egli crede di saper fare il proprio mestiere e invece fa il ladro. Un principale che defraudasse anche di mezza lira al giorno, i suoi operai, sa egli a quanto ammonta il suo furto ogni mese? Lo stipendiato che alla sera, sotto gli abiti, trafuga un ferro, un legno, un articolo del suo lavoro, non s’illuderà forse d’aver coscienza chiara? E tutti quelli che dopo aver contratto un debito si rifiutano di pagare, e aspetta un mese e pazienta un altro mese, fanno bestemmiare i creditori, forse che non rubano? Per rubare non è necessario forzare una toppa col grimaldello, o saltare entro una finestra di notte, ma basta aiutare, consigliare in qualsiasi modo un altro a rubare; basta comprare la roba rubata, basta ritenere la roba trovata. – 2. È DIFFICILE RESTITUIRE « Io voglio, o fratelli, — scrive S. Agostino nel libro delle cinquanta omelie — voglio raccontarvi ciò che ho visto, ciò che mi ha tanto commosso, perché ecciti in voi pure un forte sentimento di religione. Viveva a Milano un uomo, povero di beni terreni ma ricco di beni celesti. Un giorno per una via trovò una borsetta, l’aperse e vide luccicarvi dentro duecento monete d’oro. Per lui che viveva in caldo e in gelo nelle strettezze di un abbaino rappresentavano un patrimonio più che discreto. Lo illumina un sorriso di gioia, ma per un istante, poi il suo volto si fa scuro e triste: roba trovata non si può tenere. E si affliggeva più lui a possedere — benché innocentemente — danaro non suo, che non l’altro d’averlo smarrito. E non ha pace: quella borsa gli scotta nelle mani, nel petto lo soffoca, in casa gli brucia. S’informa, cerca e finalmente trova: mandò un grido di gioia. « Ah, sei tu! prendi ch’è tuo ». E gli buttò nelle mani la borsa e, levati gli occhi al cielo, sospirò come se si fosse sgravata una pietra dal petto. L’altro, per una giusta ricompensa, gli offre venti di quelle monete d’oro; ma il povero nasconde le mani dietro la schiena e si mostra offeso. L’altro insiste: « Prendete, è giusto: vi spettano ». « Non voglio, non mi spettano, tenetele ». Il padrone del danaro, commosso, lo guardava: guardava quegli abiti dimessi e smunti, quelle mani incallite sul lavoro opprimente, guardava impressi in quel volto onesto i segni della miseria. Preso, allora, da un sentimento vivo d’ammirazione per la nobiltà di quell’anima, gli abbandonò la borsa nelle mani, gridando « Tutto vostro: non pretendo più nulla ». « Ed io pretendo meno ancora di voi: niente è mio », ribatté il povero e, aprendo le mani, lasciò che la borsa cadesse per terra, facendo tintinnare le duecento monete d’oro. — Esempio memorabile — conclude S. Agostino — nobile gara di due anime oneste veramente! — Ma dove sono ora gli imitatori di questa lealtà? Dove sono anime così delicate riguardo alla roba degli altri, che non possono ritenere presso a sé un oggetto trovato? Non è più così: a molte coscienze non solo non pesa più la roba trovata, ma neppure la roba rubata. « Ma io non posso più restituire! » ecco il gemito di scusa di molti che non san decidersi al proprio dovere. « Non posso restituire, perché rovinerei la famiglia; rovinerei i miei figliuoli che innocenti della mia ingiustizia, ne porterebbero la pena s’io li privassi di una eredità che già aspettano ». A questa scusa rispondo con l’austera parola del Crisostomo: « E non è meglio rovinar la famiglia nei beni passeggeri di questo mondo, piuttosto che farla bruciare nell’inferno per tutta l’eternità? Quando i tuoi figliuoli avranno questa sostanza che tu hai rubato, credi tu che nelle loro mani cesserà d’essere roba rubata? E pensi forse che Dio la vorrà benedire e farla prosperare? No: le cose di cattiva origine hanno un pessimo fine » — Ci son altri che dicono: « Non posso restituire, altrimenti dovrei perdere la mia condizione in società, mettermi anch’io in qualche bottega ». Ricordate che in paradiso si può entrare vivendo in qualsiasi condizioni nella società, ma non si può entrare senza restituzione. — Altri ancora soggiungono: « Non posso restituire, perché mi mancherebbe il necessario per la vita ». A costoro si può rispondere. che vi è una Provvidenza in cui sono obbligati a confidare, e che certamente non li lascerà morir di fame quando avranno compiuto tutto il loro dovere. — Un’ultima scusa, la più futile, è di coloro che dicono: « Non posso restituire perché mi farei conoscere per chi sono: un ladro ». Ma non sanno dunque costoro per quante vie occulte si può fare la restituzione senza perdere il proprio onore? E se quelli a cui s’è derubato non esistessero più o non si potessero più rintracciare, ci sono sempre però i poveri, le chiese, le opere pie. Ma la roba rubata va restituita perché nessun ladro, nessun avaro, nessun ingordo entrerà in paradiso. Neque fures, neque avari, neque rapaces, regnum Dei possidebunt (I Cor., VI, 10). Se rincasando di notte, per un sentiero boschivo, un’ombra vi afferrasse per il petto e sibilasse: « o la borsa o la vita » e intanto sentiste alla gola la lama fredda d’un pugnale, che fareste voi? Vi lascereste uccidere? Non credo; ma gli buttereste il portafoglio e fuggireste. Ebbene non è un assassino, ma la giustizia di Dio che ci grida: « o la borsa rubata o la vita eterna! o restituzione o dannazione ». Perdiamo pure il denaro o la roba non nostra, ma sia salva l’anima. « Perde pecuniam ne perdas animam » (S. Agostino). – Un sarto lavorando nel suo mestiere aveva messo da parte alcuni ritagli di qualche considerazione. È troppo facile lasciarsi vincere dalle piccole cose: il sarto comincia con gli scampoli, il fabbro con i ritagli di ferro, il falegname con quelli del legno. Ma quel poverino d’un sarto venne in punto di morte e si vide arrivare al suo letto il diavolo, in atto d’alfiere che porti bandiera: una strana bandiera fatta di ritagli diversi, cuciti assieme. Egli, con sbarrate ciglia, li vedeva tutti; li distingueva: ecco quel ritaglio di velluto sottratto a un abito per signora; quell’altro è un pezzo d’orléans fatto avanzare dal taglio di un soprabito; ecco quel tabì, quel crépe, anche il tulle, anche lo zendado, perfino quella saglia a grossa spiga… tutti, tutti… E il diavolo, ridendo a pie’ del letto, gli faceva vento con quello stendardo, e glielo faceva fischiare nell’aria e ondeggiare sul volto. Ad ogni contatto il morente smaniava come se fosse scottato da una fiamma. Dio, per quella volta, gliela fece buona ancora, e guarì. Il sarto volle emendarsi e comandò alla moglie, ai figli, ai garzoni che ad ogni drappo che lo vedessero tagliare, gli dicessero: « ricordati della bandiera ». E non sapevano perché, ma lo sapeva bene il sarto. Questa bandiera ricordiamo anche noi, sempre che qualche po’ di roba altrui ci faccia gola; e temiamo che il diavolo non ce la porti, ghignando, sul letto dell’agonia per tormentarci in quel supremo istante. — A CIASCUNO IL SUO. Presso gli antichi violare i diritti del prossimo non sempre era delitto; anzi in qualche popolo il rubare, quando non ci si lasciava sorprendere in flagrante, non era punito dalla legge. Per Gesù Cristo, no: ad ognuno si deve dare il suo. Ledere i diritti del prossimo è un peccato come quello di ledere i diritti di Dio. Reddite Cæsari quæ sunt Cæsaris. I veri Cristiani hanno sempre sentito questa parola di giustizia.Nel 921 quando Roberto duca di Normandia col suo esempio indusse il suo popolo ad abbracciare la religione di Cristo e a ricevere il Battesimo, non s’intese più parlare di furto o di violenza in quella gente fino allora vissuta di rapina. Anzi era tale il rispetto che si aveva della roba altrui, che il duca Roberto avendo dimenticato, in un giorno di caccia, il suo mantello sopra un albero, tre anni dopo ripassando di là lo trovò sospeso come l’aveva lasciato. Forse non è con questa delicatezza di coscienza che noi conviviamo. Eppure cidiciamo Cristiani. Eppure ciascuno professa un grande orrore per il peccato di furto: e se si domandasse ad un uomo qualsiasi se talvolta si è impossessato della roba altrui, lo vedreste indietreggiare ed esclamare: « Questo poi, mai! Sarò un bestemmiatore,un bevitore, ma ladro no! ». Ma se nessuno ruba, come mai tanto spesso capita di sentire gente violata nei propri diritti?Esaminiamo la nostra coscienza se forse non ci rimorde di qualche coserella, in proposito. In due modi si viola la giustizia: col prendersi ciò che si dovrebbe lasciare, e col tenere ciò che si dovrebbe consegnare.1. COL Prendere. Se uno si mette sopra una strada e di notte assalta i viandanti e li spoglia; se uno entra nascostamente nella casa d’un altro e cerca di portar via roba o danaro costui è un ladro. Tutto il mondo si leva a condannarlo, a cacciarlo in prigione, e mettere in guardia! Bisognerebbe avere la mente guasta o il cuore degenerato per toccare il fondo di quest’abisso di miseria. Ci sono però altri modi più educati e galanti di prendersi la sostanza degli altri; contro questa specie di furto il mondo non grida perché vi è immerso fino alla gola e ciascuno cerca d’ingannare la coscienza dicendo: « Io faccio il mio interesse ». Ma davanti a Dio non è così: la sua legge parla poco, ma chiaro: date a Cesare quel ch’è di Cesare. Comincerò a spiegarmi con un esempio della Storia Sacra. Il vecchio Tobia era tanto povero e per di più gli era capitato la disgrazia di perdere anche la vista. Anna, la sua donna, era costretta ogni giorno ad andare a lavorare al telaio e dal lavoro delle sue mani portava in casa quel poco ch’era necessario per tirare innanzi. Accadde che una sera tornò con un capretto: Tobia ne udì il belato ed un sospetto lo angustiò. Sapeva bene che la moglie in una giornata non poteva averlo guadagnato e temette che la necessità, in cui vivevano, non l’avesse spinta a rubarlo. « Guarda bene, — disse il santo vecchio — che questo capretto non sia venuto per mala via; e se fosse così, restituiscilo a’ suoi padroni perché a noi non è lecito né di mangiare né di toccare la roba degli altri. In realtà ad Anna quel capretto era stato regalato, ma essa sdegnata rispose al marito: « Sì! fatti scrupolo di queste sciocchezze: intanto guarda in che miseria sei ridotto. Gli altri, che sono più avveduti di te, sanno godersela » (Tob.; II, 19-23). Com’è pieno di verità e di insegnamento questo episodio! Sembra raccolto dalla vita dei nostri giorni. Ma non tutti hanno la delicatezza di Tobia, e troppi ragionano con la coscienza di Anna. a) Molti genitori vedono che i figliuoli tornando dal lavoro portando in casa qualche oggetto, sia pure di poco valore, ma senza diritto: eppure tacciono, se non approvano. Se fanno qualche rimprovero, lo esprimono così: « Guarda che il padrone ci può cogliere e scacciare con una gran figura ». E non dicono che il Signore, il vero padrone, li ha già colti fin dalla prima volta. b) Oltre alla rapina e al furto, altri modi ci sono e più onorati ancora, per violare la giustizia. Forse che non si macchia la propria coscienza colui che consiglia il furto o aiuta a nascondere la roba di male acquisto? E non dite che questo è saper fare buoni affari; questo è rubare. c) C’è poi la frode: guardate i commerci degli uomini e li troverete pieni. Chi vende una merce per un’altra, chi falsifica i pesi, chi inganna sulle misure, chi non mantiene i patti stabiliti. E tutti costoro son persuasi di non rubare. (Sarò un bestemmiatore, sarò quel che volete, ma ladro poi mai!…). d) C’è l’usura: gente che approfitta delle necessità altrui per imprestare danaro ad un interesse superiore a quello che di solito si usa, e poi si vanta d’aiutare il prossimo. e) Ci sono anche i processi ingiusti. Capita, e non di raro, specialmente nelle questioni di eredità di ricorrere al tribunale per difendere del danaro che in coscienza si conosce di non poter tenere. E poi, se la sentenza riesce favorevole, si crede di essere in pace anche in faccia a Dio. Ma non è così. Reddite Cæsari quæ sunt Cæsaris. Davanti a Dio non si potrà mai essere in pace: se prima non si restituisce al suo padrone la cosa rubata. E se la cosa non si possiede più, si è obbligati a rendere un equivalente in danaro. E se il padrone è morto, si deve restituire ai’ suoi eredi; e se non ha eredi si deve dare in elemosina ai poveri. Solo dopo questo la coscienza può stare in pace e dire: « Ho dato a Cesare ciò che era di Cesare e a Dio ciò che era di Dio ».2. COL Tenere. S. Francesco da Paola prima di intraprendere un lungo viaggio per la Francia, si recò a far visita al re di Napoli. Questi gli si presentò con un bacile colmo di monete d’oro, perché ne prendesse per l’erezione di nuovi conventi. Il Santo le guardò un momento e poi con la mano fece cenno di rifiutarle. « Prendetene quante ne volete! Prendetene! » insisteva il re di Napoli. Allora il Santo disse: « Io non desidero il sudore e il sangue dei sudditi ». E dicendo così, prese una moneta, la spezzò, ed ecco! stillava sangue vivo. Il re di Napoli vide e non senza terrore. Dite, Cristiani: se un Santo o un Angelo, passando da casa nostra, spezzasse il danaro che noi possediamo, nessuna moneta gronderebbe sudore o sangue? Sudore di operai che hanno faticato nell’officina per settimane intere; sudore di vedove che agucchiano tutta la giornata per campare la vita; sudore di onesti padri di famiglia che hanno numerosi figli a cui preparare l’avvenire; sudore di orfani a cui fu contesa una giusta eredità. Fin tanto che si tiene danaro o roba tolta ingiustamente al prossimo, gronda sudore e sangue. Gronda sudore e sangue anche la cosa trovata di cui si conosce il padrone, ma che non si vuol restituire. Quando si trova un oggetto di valore si ha l’obbligo grave di farlo annunciare perché il proprietario venga a riprenderla. E se nonostante la buona diligenza usata il proprietario non risulta, quantunque non si abbia più nessun obbligo, è buona cosa largire in carità e in opere buone. Contro la giustizia vanno pure quelli che potendolo non pagano i debiti a tempo opportuno. Il creditore ha diritto di essere soddisfatto, poiché anch’egli ha interessi da compiere. È vero che talvolta si è nell’impossibilità di pagare, ma allora si ha l’obbligo di fare delle economie più rigorose, di tagliar via ogni superfluo, per rendersi, il più presto possibile, in grado di compiere il proprio dovere. Invece ci sono di quelli che hanno debiti e, senza darsene pensiero, non li pagano mai, e vivono senza imporsi delle restrizioni e che aggravano di giorno in giorno la loro situazione finanziaria. Questo non è secondo la nostra religione. Reddite, quæ sunt Cæsaris, Cæsari.Sentite com’è significativa la leggenda di S. Medardo! Sui pascoli di Piccardia, il giovinetto custodiva le mandrie del padre suo. Un meriggio, mentre dormiva passò di là una ladro e gli portò via un torello che aveva al collo un campanello che serviva di richiamo a tutta la mandria. Il ladro con la sua preda fuggì lontano lontano, e confuso tra le sue bestie nella sua stalla legò il torello rubato. Ma anche quando l’animale ruminava anche di notte in riposo, il campanello sonava, sonava. Spaventato dal prodigio, il ladro glielo strappò dal collo, e lo nascose, sotto tanta roba, in una cassa: ma il campanello come prima sonava, sonava. Allora scavò un buco profondo nel suolo e lo seppellì con sassi e con terra, poi stette in ascolto: il campanello sonava ancora. Tremando e piangendo quell’uomo prese il torello e lo restituì a S. Medardo che sui pascoli di Piccardia custodiva le mandrie paterne. E il campanello cessò di suonare. Fermatevi un momento, Cristiani, e tendete l’orecchio nel silenzio della vostra coscienza. Non udite un simbolico campanello suonare? Colui che ha preso o ritiene roba e danaro del prossimo ha nel proprio cuore uno squillo continuo che dice « Se non restituisci, sei dannato ». Accettate un consiglio salutare: se le riflessioni che abbiamo dedotte dal Santo Vangelo vi hanno destato qualche pena, esponetela senza timore a un buon confessore, che vi insegnerà la maniera facile per riacquistare la pace con Dio, col prossimo, col vostro cuore. E il campanello, anche per voi, cesserà di suonare.

IL CREDO

Offertorium

Orémus

Esth XIV: 12; 13

Recordáre mei, Dómine, omni potentátui dóminans: et da sermónem rectum in os meum, ut pláceant verba mea in conspéctu príncipis.

[Ricòrdati di me, o Signore, Tu che dòmini ogni potestà: e metti sulle mie labbra un linguaggio retto, affinché le mie parole siano gradite al cospetto del príncipe.]

Secreta

Tua, Dómine, propitiatióne, et beátæ Maríæ semper Vírginis intercessióne, ad perpétuam atque præséntem hæc oblátio nobis profíciat prosperitátem et pacem.

[Per la tua clemenza, Signore, e per l’intercessione della beata sempre vergine Maria, l’offerta di questo sacrificio giovi alla nostra prosperità e pace nella vita presente e nella futura.]

Præfatio

V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.
V. Sursum corda.
R. Habémus ad Dóminum.
V. Grátias agámus Dómino, Deo nostro.
R. Dignum et justum est.

de sanctissima Trinitate

Vere dignum et justum est, æquum et salutáre, nos tibi semper et ubíque grátias ágere: Dómine sancte, Pater omnípotens, ætérne Deus: Qui cum unigénito Fílio tuo et Spíritu Sancto unus es Deus, unus es Dóminus: non in uníus singularitáte persónæ, sed in uníus Trinitáte substántiæ. Quod enim de tua glória, revelánte te, crédimus, hoc de Fílio tuo, hoc de Spíritu Sancto sine differéntia discretiónis sentímus. Ut in confessióne veræ sempiternǽque Deitátis, et in persónis propríetas, et in esséntia únitas, et in majestáte adorétur æquálitas. Quam laudant Angeli atque Archángeli, Chérubim quoque ac Séraphim: qui non cessant clamáre quotídie, una voce dicéntes:

[È veramente degno e giusto, conveniente e salutare, che noi, sempre e in ogni luogo, Ti rendiamo grazie, o Signore Santo, Padre Onnipotente, Eterno Iddio: che col Figlio tuo unigénito e con lo Spirito Santo, sei un Dio solo ed un solo Signore, non nella singolarità di una sola persona, ma nella Trinità di una sola sostanza. Cosí che quanto per tua rivelazione crediamo della tua gloria, il medesimo sentiamo, senza distinzione, e di tuo Figlio e dello Spirito Santo. Affinché nella professione della vera e sempiterna Divinità, si adori: e la proprietà nelle persone e l’unità nell’essenza e l’uguaglianza nella maestà. La quale lodano gli Angeli e gli Arcangeli, i Cherubini e i Serafini, che non cessano ogni giorno di acclamare, dicendo ad una voce:]

Sanctus, Sanctus, Sanctus Dóminus, Deus Sábaoth. Pleni sunt cæli et terra glória tua. Hosánna in excélsis. Benedíctus, qui venit in nómine Dómini. Hosánna in excélsis.

Preparatio Communionis

Orémus: Præcéptis salutáribus móniti, et divína institutióne formáti audémus dícere:

Pater noster,

qui es in cælis. Sanctificétur nomen tuum. Advéniat regnum tuum. Fiat volúntas tua, sicut in cælo et in terra. Panem nostrum quotidiánum da nobis hódie. Et dimítte nobis débita nostra, sicut et nos dimíttimus debitóribus nostris. Et ne nos indúcas in tentatiónem:
R. Sed líbera nos a malo.
S. Amen.

Agnus Dei

Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: dona nobis pacem.

Panem cæléstem accípiam, et nomen Dómini invocábo.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

Ps XVI: 6

Ego clamávi, quóniam exaudísti me, Deus: inclína aurem tuam et exáudi verba mea.

[Ho gridato verso di Te, a ché Tu mi esaudisca, o Dio: porgi il tuo orecchio ed esaudisci le mie parole.]

Postcommunio

Orémus.

Súmpsimus, Dómine, sacri dona mystérii, humíliter deprecántes: ut, quæ in tui commemoratiónem nos fácere præcepísti, in nostræ profíciant infirmitátis auxílium.

[Ricevuti, o Signore, i doni di questo sacro mistero, umilmente Ti supplichiamo: affinché ciò che comandasti di compiere in memoria di Te, torni di aiuto alla nostra debolezza.]

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (1)

ORDINARIO DELLA MESSA

LO SCUDO DELLA FEDE (226)

MEDITAZIO LO SCUDO DELLA FEDE (226)

MEDITAZIONI AI POPOLI (XIII)

Mons. ANTONIO MARIA BELASIO

Torino, Tip. e libr. Sales. 1883

MEDITAZIONE XIV

Il Santissimo Sacramento (2)

“Ascoltate: Se mentre voi siete qui raccolti, proprio in questo istante giungesse uomo a tutta carriera sulla porta della Chiesa, e gridasse in terrore: Il tale è qui fra voi?… — ciascuno di noi al sentirsi chiamar col nome balzerebbe innanzi rispondendo: sì, sono io qui…. e che è mai? — Il vostro padre, o la vostra madre… la persona insomma che avete più cara al mondo, venuta è or ora da lontano paese per consolarvi del suo amore… ma ahi! là sopra via ve l’ha assalito un vostro nemico, e percosso sul capo! L’ha ferito nelle mani: cadde squarciato orribilmente nel petto; ed ora per terra col cuor caldo che sanguina ancora… — Oh buon Dio!… ci mancherebbe la vita, se il dolore infuocato non ci slanciasse a cercare quella cara persona… Ma se si spalancasse la porta, ohimé! e ci venissero a deporre quella cara vita trafitta qui in mezzo di noi!… Dite: io, voi, che faremmo? Buttatici sopra quel corpo, vorremmo… ah, ci treman le viscere al solo pensarvi!… Deh, figlioli miei, è proprio qui Gesù: ma affinché niente ci turbi la tenerezza, e per non lasciarci egli che consolazioni a godere, è qui con quelle piaghe aperte si, però son gloriose; è qui con quel Cuor che fa sangue; però in fiamme d’amore che vuol travolgerci in beatitudine seco. Per noi qui è cielo, ed un sovrabbondare di gaudio più che celeste, perché qui è il nostro Gesù… (Imit. Di G. C., lib. 4). Infelice chi non l’amò mai! E noi? E noi, come lo trattiamo? e come lo dobbiamo trattare? – Come lo dovremmo trattare? Risponderò?… Come debbe volere il cuor nostro, e come vuole il Cuor di Gesù, il quale sta qui nel Sacramento, appunto come per fare un’unione di vita con Lui in paradiso. Ma dirò prima che mi compunge alle lacrime un pensiero confondere!… Eh pensare che sono mille ottocento e più anni che Gesù la dura in questo mistero d’amore!… Fa male al cuore il ricordare che se ne ebbe da soffrir delle crude da’ suoi nemici …. e i più atroci insulti di quei crudeli inveleniti di rabbia proprio il Sacramento del suo amore … Ma egli soffre; e questo ancor più amaro per lui torna, che Egli soffre la villana indifferenza e l’ingrata dimenticanza, in cui lo lasciano anche i fedeli suoi che non sono cattivi. Pure Egli continua a soffrire, perché ha i suoi secreti interessi tenerissimi colle anime, le quali l’intendono per bene. Sì, soffre tutto e sta sempre qui, perché ha cuori che hanno bisogno che riceva le suppliche, le confidenze, gli sfoghi cuore a cuore delle anime, le quali, disingannate dal mondo cercano un po’ di pace in seno al Padre della bontà. Ma voi ricordatevelo a conforto come Egli non lascia andare perduto un sospiro, un gemito, non una sola parola, ma si riceve tutto nel Cuore e vi prepara per tutti una grazia. Soffre tutto tutto, e resta sempre qui, perché poi alla fine, quando ci troveremo nella paura della morte, e sopra il baratro dell’eternità cogli occhi sbarrati metteremo un grido di raccapriccio a chiamar aiuto, egli correrà nel santissimo Viatico, si siederà sulle sponde del nostro letto, ci stenderà la sua mano sul cuore; e quando ahi! lotteremo colla morte in gelido sudore, in quell’ansia tremenda, ci scalderà coi suoi palpiti divini il nostro povero petto. Oh Gesù mio, noi nell’ultimo anelito dell’agonia spireremo l’anima, e allora… Deh silenzio, silenzio!… parla Gesù: figliuol del mio sangue, ti porto ecco io stesso in braccio al Padre nostro in paradiso! ubi ego sum… (Jo. XVII, 24). Mio Gesù! si inaridisca fin d’ora la mia lingua sul labbro se lasciasse mai di parlare di Voi nel Santissimo Sacramento. Deh facciamo dunque di rispondere d’amore a tanto suo amore divino; e vediamo ora come lo dobbiamo trattare qui sempre in mezzo di noi. – Ma io son troppo povero di cuore non so più che dirvi. Guardo come estatico la Chiesa, quasi la città santa nuova caduta dal cielo, in cui noi facciamo a coro cogli angioli appresso di Dio come essi in paradiso fanno, fortunati domestici di Gesù: contemplo nel santuario una porzione di quella terra nuova preparata pei predestinati a vita eterna, e qui caduta, nel mondo del tempo a maniera di nuovo paradiso terrestre; e l’albero della vita in mezzo, cioè il santissimo Sacramento, che alimenta nei fedeli la vita intima iniziale dell’immortale beatitudine. Ma qui, miei fratelli, che faremo noi?… All’altare, all’altare dov’è il nostro Gesù. Oh santa Madre Chiesa, che vivi in terra palpitando sul Cuore di Gesù nel Sacramento, quanto è grande la tenerezza tua, che può infondere la vita fino nelle morte cose, e scuotendo i freddi metalli delle campane, con essi sospiri, piangi, preghi e chiami tanto sovente i tuoi figliuoli, cui vorresti avere sempre a Lui intorno. Eh! ti sentiamo quando suoni! Sull’ali dei venti, colle onde sonore tu ci vieni a cercare da Per tutto, e con ogni tocco di campana ci comunichi un palpito del tuo cuore per farci teco viver d’amore col nostro Gesù. Per questo, miei fratelli, non appena comincia a ridere coll’aurora la luce del giorno, Ella si affretta a sorprenderci tra il sonno e la veglia, rompendo il silenzio coll’argentino tintinni la campanella dell’Ave Maria, a fine di chiederci il primo vergine pensiero da offrire a Luì, che qui vigila sempre amoroso. Su su dunque, o figliuoli, allo squillo dell’Ave Maria diamo la mano alla Madonna; ché la benedetta! anch’Ella ha qui il suo cuore, perché il Verbo Figliuolo di Dio suo Sangue restò sempre ad abitare tra noi. Ave Maria… benedicta tu … et Verbum caro factum est a habitavit in nobis. A mezzo giorno fermatevi un e, posate a terra la croce dei vostri travagli; che la Chiesa vi viene ad abbracciare nel petto per farvi dire: Ave Maria: o Maria, a quest’ora voi incontraste il vostro Figliuolo sul Calvario, l’abbracciaste sotto la croce, e restaste tutta bagnata di Sangue. Deh! Confortateci sotto le nostre croci, e pregate Gesù qui tra noi, affinché ci piova del suo Sangue sui travagli di questa povera vita. — Alla sera poi sull’Ave Maria ritiratevi come in famiglia intorno a Maria, e confidatele piangendo le mancanze del giorno. Ella è Madre, ed alle madri sì possono dire fino alle più abbiette nostre miserie: e pregatela che vi metta a dormire col Cuore di Gesù in una Comunione spirituale. Dormite allora sicuri; ché, se la morte credesse sorprendervi, oh la sorpresa vostra con Gesù finirebbe in paradiso: Ad gloriam perducamur; per Christum Dominum nostrum… Ma non sentite che le campane suonano a gioia? È la Chiesa che ci annuncia giubilante come l’Amor suo Divino esce fuori in Sacramento a guisa di un principe ben amato, il quale viene fuori dall’appartamento per gettarsi in braccio al suo caro popolo. Ricchi e poveri, a gara a gara in processione festeggiatelo in mezzo di voi, portatevelocorteggiandolo per le vostre contrade, mostrategli iluoghi delle più care vostre affezioni, dei vostri patimenti. Ma la campana ancora pare che sospiri tante volte alla mattina. Egli è per avvisarvi proprio in quest’ora che Gesù nella Messa va sull’altare a trattare insiem col Padre col Cuore suo aperto i vostri interessi. Se non potete andarvi a Lui in queste occasioni, confortatevi, ché resta qui sempre in mezzo di noi; e noi possiamo almeno anche da lontano, come la santa Sposa dei cantici tra le gelosie della sua casa, mandargli mille volte al dì i nostri sospiri. Sì si, o Gesù Cristo, il nostro cuore in ogni luogo vi arderà sempre davanti come il turibolo dell’incenso arde i profumi, come arde continuamente quella lampadella di lato all’altare. Lampada fortunata, io t’invidio, perché, posata davanti a Gesù, sfavilli per l’onor suo, e nel tremolio della tua fiammetta sembri consumarti palpitando come il mio cuore. Deh, com’io ardo di desiderio di consumarmi come tu fai! Mi possa io consumare in santo amore col diletto nostro di paradiso Gesù, nel fare il bene per tutta la vita col cuore in lui! Questa lampada, o fratelli, vi ricordi di mandare delle giaculatorie da qualunque luogo voi siate a Gesù, sempre in mezzo di noi, vero tesoro dei nostri cuori. – Noi crediamo fermamente che Gesù è proprio qui. Dunque tutta la vita cristiana sta qui, cercar di unirci a Gesù nel Sacramento e far tutto il bene con Lui. Io sono la vite, dice Gesù, con bontà divina, e voi i tralci; e i tralci allora sì fanno vivi e producono i grappoli del liquor prezioso, quando sono colla vite uniti. — Dunque dobbiamo essere in Gesù come sono colla radice i germogli. Gesù è dunque la vita, è il Cuore della Chiesa. No, non abbiamo paura noi che la nostra Madre Chiesa ci possa mancare. Quando pure non ce l’assicurasse l’infallibile promessa divina, solo perché Gesù ci dice: « Io son qui con voi per sempre, » noi non ne temiamo la morte, perché è con Gesù, il Verbo Creatore, il quale mantiene la vita in tutte le creature; e con Gesù si vive la vita eterna. Come poi noi nella vita umana, quando ci s’ammortisce un membro nella nostra persona, cerchiamo cogli stimoli per mezzo del sangue di riammetterlo in comunicazione col cuore, perché riabbiasi alla vita; così la Chiesa, quando si risente di umanità, e par che le si affievolisca la vita, ed alcune membra le vengon meno e le si distaccano dal corpo suo, ella si scuote: colla disciplina, colle pratiche della pietà, e coi Sacramenti rimette i suoi figli in comunicazione viva viva con Gesù Cristo. Allora le sue membra rivivono, ed essa si ristora, si rinnovella sempre a gioventù eterna. Al tempo del furore del protestantesimo le si straziavano le membra d’intorno: i suoi nemici gridavano: « Riforma! riforma! E a colpi di scure distruggevano culto, Sacramenti, altari, la Messa, tutto mettendo a pezzi fino il Crocifisso. Allora la Chiesa si raccolse nel Concilio di Trento intorno a Gesù nel santissimo Sacramento, richiamò i fedeli ad adorarlo, nobilitò i modi di onorarlo, animò tutti a vivere in maniera da riceverlo in tutte le Messe; e disse che lo desidererebbe sì: optaret; e così fu ristorata. Essa allora alla riforma della distruzione contrappose la riforma della carità nelle opere sante; e quindi, riscaldati a questo focolare di vita divina, che è l’altare, sorsero quegli operatori di miracoli di divozione e di carità, che furono s. Carlo Borromeo, s. Filippo, s. Luigi, s. Gaetano, s. Vincenzo, e poi santa Teresa di Gesù e cento altre anime santissime, spettacolo al mondo caro e agli angioli (Questi pensieri seguenti si vollero aggiungere per accennare quanto debba influire in tutta la vita cristiana il dogma della Presenza Reale. No, finché non si farà dell’educazione, delle pratiche di pietà, di tutta la vita insomma delle persone che si vogliono salvare, centro Gesù Cristo col Cuore aperto qui con noi nel Sacramento, e non si piglieranno da Lui le inspirazioni, e a Lui non si dirigerà l’insieme della vita cristiana si otterrà ben poco e con molta perdita di tempo, e di profitto delle anime. Questo il sommo Pontefice raccomanda in tante occasioni; e noi non ne abbiamo fatto un argomento di particolare meditazione, perché a tale scopo sono dirette tutte le scritture nostre, massime quella che ha per titolo: La Madre Chiesa nelle sue relazioni con Dio e coi suoi figliuoli. Se siamo lunghi, si perdoni: è perché il cuore non finirebbe mai.). Eh converrebbe avere il cuore di sant’Alfonso Maria per saper comprendere quante generose risoluzioni si pigliano, quanti generosi proponimenti si fanno coi cuori sul Cuor di Gesù! Si può dire che le anime buone tutti i dì a gara intorno al Sacramento in contemplando il Corpo santissimo con santo entusiasmo gli bacian le Piaghe per dirgli a furia di baci: Gesù Cristo!!! lasciate fare a noi che ve le medicheremo per bene!… e sopra ciascuna Piaga mettono una promessa d’un’opera di carità, un fior di virtù, un profumo di sacrifici sempre nuovi. – Quanti sacerdoti che, innamorati di Gesù, come san Giovanni sul petto riposando di Lui, metton la bocca al suo Costato nella santa Messa e quindi discendendo dall’altare nell’estasi d’un’anima innamorata dappertutto travedono l’amato Gesù. Gesù mirano nei bimbi; e lasciateli fare che nei catechismi, nelle confessioni ve li abbracceranno per formare di loro il regno de’ cieli: Gesù raffigurano nelle anime devote, e le voglion tutte condurre al tanto amato Gesù: Gesù negli infermi: Gesù in tutti i più miserabili; e. si battono, si direbbe, petto a petto coll’umane sciagure a fine di porre al coperto dei loro colpi quei cari che sono membra di Gesù Cristo. Se poi nelle pesti trionfa la morte, e l’inferno fa calcolo di poter tanti ingoiare, ed eglino si slanciano ardimentosi a strappar via le anime figliuole del Sangue di Gesù Cristo, come soldati in attacco rianimati dalla presenza, e dalla parola che Gesù dice al loro cuore dal Sacramento. Cadranno forse morti tra gli appestati, ma partiranno colle loro anime salve in paradiso portando seco le anime dei morienti da loro assistiti. – Eh lasciateli andare a sfidare le tempeste dei mari, a cimentarsi coi feroci delle orde selvagge, ne andasse la vita! Son là da tre mila proprio ai nostri di nell’America e nell’Oceania, fra gli orsi bianchi del polo, forse a farsi mangiar vivi, ma al tutto vogliono sposare le anime a Gesù in Sacramento. Il mondo che si arrovella nella cerchia dell’amor proprio a fabbricarsi comodità, quando vede i sacerdoti uscire fuori dell’orbita di quella loro ragione, li chiama pazzi. Li chiami pur tali: ma, signori miei, la loro è pazzia sublime che inspira l’eroismo nel sacrificio tutte mattine sull’altare con Gesù: è pazzia epidemica la quale si attacca al contatto di Gesù. Ma ve? che, fatta la Comunione, discendono dall’altare ardite tante figliuole, formate alla purità di Maria Vergine, all’amor di Maria Madre e, al coraggio di Maria Addolorata; e corrono appresso di Lei, come le buone Marie, fin sul Calvario per medicar le piaghe all’umanità più abbandonata. Sono le monache dei vari Ordini della Carità le quali si han sentito a dire da Gesù ricevuto nel loro petto: andate; quel che fate ai miserabili più meschini, lo fate a me stesso. – Vi hanno poi dei cuori così delicati come sono certe pianticelle che si pascolano sol volentieri di rugiada; e la Chiesa le coltiva queste pianticelle, quasi in orti chiusi nei monasteri dove sì espandono come gigli nel candor della vita intorno a Gesù. Benedette voi, o monache sante, che nelle vostre clausure fate sentire intorno a Gesù in terra il cantico delle nozze eterne, che gli cantano le vergini celesti in paradiso! E benedette voi, Sacramentine! Come la colomba escita fuori dell’arca in quel diluvio di immondezze sorvolava, e vedendo cadaveri, belletta e ributti dell’acque in marciume dappertutto, non sapeva dove posar il piede color di rosa senza lordarlo, quindi batteva l’ali immacolate e volava volava intorno all’arca pigolando e gemendo, finché il salvatore Noè non aperse la finestrina e se la raccolse in seno, non altrimenti voi non sapendo far posata sopra questa povera terra gemeste intorno alla tenda del vostro Amore. Gesù ve l’apri, vi si espose in mezzo a voi col Cuore aperto; e voi, espandendovi innanzi coi cantici dell’amore, il dì e la notte gli fate provare nel Sacramento, che Egli non s’ingannò che vi sarebbero dei cuori in terra capaci di amarlo indivisibili come sì ama in cielo. Col cuor sulle labbra noi vi ringraziamo, perché ci fate la bella carità di farvi interpreti dei nostri poveri cuori. Qui nell’Eucaristia è il tesoro dei nostri cuori; è qui dunque il centro della vita cristiana. – Genitori, il vostro matrimonio è gran Sacramento, perché esprime questo sposalizio di Gesù colla sua Chiesa in terra: deh portate i figli, di cui vi feconda la sua benedizione, ancor bambini a bamboleggiare col Bambino Gesù. La pietà cristiana sa che i bambini se la intendono con Lui Bambino; ond’ella volle far dipingere, ed ama vagheggiare il san Giovannino con Lui sulle ginocchia alla Madre di tutte le grazie. Crescerannovi intorno alla santa Mensa ridenti come le olivette queste care speranze. Volete poi grandicelli bellamente educarli al sant’amore di Dio ed al vostro affetto? Portateli tutte le mattine alla chiesa, e, palpitando voi d’amor con Gesù sui figliuoli delle viscere vostre che vi tenete davanti, fate con loro unione di intima vita con Gesù. Assuefateli nelle vostre case a tenersi con Lui, a guardarlo come un Compagnetto il quale abita nella stessa contrada, il quale dal suo Tabernacoletto sta in mezzo nelle vostre famiglie.. Egli sarà come se il vedessero crescer con loro, e lavorar come garzoncin di bottega con Giuseppe e Maria, tanto quasi da mettergli nel grembiule i loro lavorietti, i loro piaceri e tutti i sacrifici, ché ne han tanti da fare anch’essi avvegnaché piccini. Ma più di tutto assuefateli a prepararsi, come alla più cara festa, a ricevere Gesù nella Comunione. L’innocenza ed il cuore amoroso dei fanciulletti è la più bella disposizione alla Comunione. E perché aspettare tanto a far loro ricevere il Signore, mentre i fiorelli in sullo sbucciare sono il più bell’ornamento intorno all’altare suo Santo? – Signori maestri, a voi rivolgo questa solenne parola. Voi, pigliando a coltivare la gioventù delle famiglie cattoliche, vi assumete una terribile responsabilità, che non è già una morta parola come è quella delle carte degli umani statuti, ma è un obbligo da renderne conto all’inesorabile Esattore della giustizia eterna. Voi dovete educare i giovani a vita proba; e proba, disingannatevi, non è la nostra vita, se non é cristiana; e non è cristiana la vita senza di Gesù Cristo. Signori maestri, voi tradite le famiglie, tradite voi stessi, tradite i giovani se non li menate alla Comunione con Gesù Cristo nei Sacramenti; tradite la vostra missione, dice il grande Agostino (Tract. 45 in Io. post. Ini.), se lasciate che per ignoranza non conoscano, o per superbia disprezzino chi li indirizza, chi li sostiene, chi li conduce al loro fine, che è Gesù Cristo. Dotti, anche a voi da Gesù Cristo scendono le più sublimi ispirazioni. Fu il Santissimo Sacramento che rifulse come mistico sole in petto a quell’uom più dotto del mondo, che fu s. Tommaso. Egli lasciò un dolcissimo monumento del suo genio nell’officio della SS. Eucaristia. Amò, amò in un modo indicibile Gesù Sacramento; a lui sciolse l’ultimo cantico dell’amore nell’interpretare la Cantica: palpitò come sposa divina, e, nello sciogliere quel cantico volò al suo Diletto in paradiso. – Artisti, fino a voi io discendo, o meglio mi slancio ad elevarmi col vostro genio. Ma se Michelangelo potente ad erigere il Panteon della grandezza romana fin fra le nubi, è per innalzarlo in cupola in San Pietro sul tabernacolo di Gesù Cristo. Ma Leonardo nella Cena trasfuse quella maestosa, immensa bontà di Dio sul volto al Salvatore, è perché lo dipinse in atto di dar tutto Se stesso in Comunione. Ma se Tiziano mostrò nella gran Vergine Maria la purità e l’amor divinizzati, e se Rafaello trasfigurò Gesù in quel mar di beatitudine, è per esprimere come l’umanità si ha da immergere in Dio. E dove mai, in terra, o fratelli, l’umanità si può immergere in Dio se non nel Sacramento?… O figliuoli degli uomini, perché brancicando le vanità della terra vi andate a perdere?… Finite una volta d’ingannarvi: supremo Bene dell’umanità è Dio. Venite adunque a Gesù che col darvi Se stesso vi unisce a Dio in Comunione. – Si, Gesù si dà a noi in Comunione. Contempliamo con quanto amore diede Se stesso a fine di esser dentro di noi ricevuto; e facciamo di comprendere nel modo più possibile quanto tesoro di bontà vi sia in questo abisso d’amore, che è la Comunione. Ah io vi confesso, che nella foga dei troppi affetti mi si affollano le idee! Io resto confuso, e sento che con lingua d’uomo, ma neppure di angelo potrebbe dir degnamente di tanto amore divino. La povera mia parola finisce in un sospiro… Eh! Sarà meglio contemplare Gesù come racconta nella semplicità divina il santo Vangelo. – Stava Gesù in mezzo ai discepoli in quella notte in cui disponeva nel suo amore ogni cosa per andare domani a morire per noi. Che istante solenne e troppo tenero per un padre il quale dir dovesse: Dimani io voglio andare, o cari figliuoli, a morire per voi!… Ma e che tento io mai coll’amor di un tenero padre terreno misurare l’amor di Gesù? Adoriamo! è in Lui, nel più bel Cuore d’uòmo la onnipotenza dell’amor di un Dio! Profondità di mistero, che accresce la beatitudine a contemplarlo dentro fino in paradiso! Meditiamo l’amore divino con cui si diede a noi nell’istituire il santissimo Sacramento. Dio è carità, Deus charitas est (Jo. II, 16), e carità è l’essenziale bontà, la quale sente il bisogno di dare del suo bene a tutte le creature; e ne dà tanto all’insettuccio anche più minuto, al più piccol germoglio di pianticella, e tanto fino al granellino di polvere, quanto son così capaci di riceverne. A versare poi la ricchezza di tutta la sua bontà Dio creò noi uomini con un cuor così vasto, che quando bene v’entrasse tutto, fosse pur l’universo, gli farebbe sempre sentire il vuoto maggiore; poiché noi siamo capaci di posseder Dio! E Dio per abbassarsi a noi si fece uomo, assunse l’umana natura, le comunicò la pienezza della Divinità, la mise seco in comunicazione di Vita; e così Dio fatto uomo è Gesù Cristo. Dio così umanato si trovò con noi uomini in relazione nuova, in relazione di fratello, in relazione di sangue; ché Dio è carne della nostra carne: Verbum caro factum. Laonde in Gesù l’uomo è personificato con Dio. Quindi l’Uomo-Dio sente in sé il suo Corpo attivo dell’onnipotente attività di Dio, sente che il suo Sangue è fonte inesauribile saliente a vita eterna, com’è fonte di tutta vita Iddio istesso, sente il suo Corpo, il Sangue divino che sono espansivi e comunicabili, com’è espansiva, e comunicabile la bontà di Dio. –  Venuto in terra, per unire in Sé gli uomini con Dio, nell’ultimo istante non poté più soffrire ritegno, e si diede tutto a noi Dio-Uomo in questo amplesso che è la Comunione, mistero d’amore divino, fine di tutti i misteri: cum dilexisset suos, in finem dilexit eos (Jo. XIII, 1). Deh deh, che fa Egli?… La ragione, il cuor si annientino davanti all’operazione divina!… Piglia in mano il pane, lo benedice, e: « Prendete, questo è il mio CORPO …. Poi: questo è il mio SANGUE… » Pietro dal carattere ardente si dovette trovar per terra esterrefatto, ed avrà esclamato: O Signor mio Dio, che fate? Mai no, chè noi siamo peccatori: Exi a me, quia homo peccator sum, Do mine (Luc. V, 8). Giovanni dall’amor tenerissimo slanciato si sarà ad abbracciarlo nel petto e: Signore, no, non fate; Gesù mio buono, non vi date agli uomini: han troppo poco cuore per Voi!… Tutti gli Apostoli in ginocchio allargargli le braccia, e coi cuori trepidante ripetergli: Signore, non siamo degni, noi!… non siamo degni!… Ma Gesù: Taci, Pietro! lascia fare. Giovanni! pigliate animo, amici… ricevetemi! Mettetemi nel vostro cuore; mi sarà cara questa dimora.. Signore! non sapendo più dire vi adoriamo confusi. Ma tant’è: rapito in santo entusiasmo, coll’arditezza dell’amore, audace interprete dei più segreti misteri, con una lingua da innamorato, lasciate pur che io balbetti in qualche espansione. E seabbiamo contemplato con quanto amore Gesù diedeSe stesso ad essere ricevuto nella Comunione, portiamo l’amoroso ardimento fino a meditare ben dentro perché ci si dia nella Comunione in cibo.Oh le fiamme del Cuor di Gesù mandano in questo abisso di Amore una mistica luce, che ci pare,..pare che ne faccia comprendere ben qualche cosa.  Ecco insomma: noi veniamo da Dio; Dio ci vuolseco beati, e chi ci ha da portare a Lui è questoSignor Dio nostro Gesù. Noi meschini ci troviamptroppo lontani e indegni di Dio: troppo più grande è Dio; e noi proprio nulla, noi. Eppure Dioci fece per sé: fecisti nos ad te. Troppo poi altosi è il cielo, e noi troppo in basso sprofondati nell’abissodelle nostre miserie: ma questo abisso inGesù è scomparso. In Gesù i due termini, Dio el’uomo, sono uniti in una sola Persona; Dio assunsela carne: Verbum caro factum est (Jo. I, 14); umanacarne resta assorbita dalla Divinità… e 1’Uom-Dioresta di noi.Fermatevi ora un istante a pensare come l’anima nostra colla potenza della sua vita per mezzo del corpo attinge le materiali cose, ne fa suo cibo; e così assorbe il cibo materiale nel vortice dell’animalità, lo assimila a se stesso, lo diffonde in tutta la sua persona, lo fa diventare personale. Sicché quel cibo diventa porzione del corpo animale, e vive nell’anima della sua vita, partecipa, direi, a’ suoi pensieri, a’ suoi affetti, brilla con lei lieto, con lei triste impallidisce. Per simil guisa Gesù Cristo nella Comunione si mette in relazione personale per mezzo del suo Corpo con esso noi: piglia la sua carne come inzuppata (deh deh perdonate la espressione alla parola umana troppo meschina per cose tanto divine!), la sua Carne piglia come imbevuta del balsamo ristoratore e vivificante della Divinità, la trasfonde dentro di noi per santificare colla sua Divinità, col Corpo e coll’Anima sua divina l’anima nostra e il corpo nostro. Perocché l’uomo è anima e corpo; e con questa unione Egli è bella immagine di Dio-Uomo. E come Gesù Dio si comunica alle anime nostre coll’effusione della grazia, così Gesù Uomo Divino si trasfonde col suo Corpo, e col suo Sangue nel nostro corpo, e nel nostro sangue, quando si fa nostro cibo spirituale; ci compenetra tanto, da doverci dir sue membra, da tenerci in rispetto santo; di modo che contaminare le nostre persone, è un contaminare ahi! Le membra di Gesù Cristo. Siamo diventati corpo del suo Corpo, sangue del suo Sangue, partecipi della natura di Dio, capaci anche col corpo di esser immersi nella beatitudine della vita eterna, come ce lo assicura quell’amabile sua bocca divina: qui manducat meam Carnem et bibit meum Sanguinem,vivet in æternum (Jo. VI, 55, 57). Che diremo? noi esclameremocon una parola da non si poter tradurre per benecol linguaggio umano: « Dii estis! (Ps. LXXXI, 6 – Jo. X, 34): siamo invita di Dio! » Come dice Dionisio, diventiamo deificati: participes divinæ naturæ. perché siamo degni di esser amati da Dio, gli attiriamo il Cuore così, da volerci seco persempre. Poiché l’amore vuole l’unione; e l’amore èsempre con persone fra le quali sì sia stabilita unacerta quale equazione per una qualche somiglianza odi età o di condizioni, od almeno di affezioni che s’incontrano.Ora per mezzo di Gesù tra noi e Dio esisterelazione di vero amore nel Sacramento; essendonoi elevati fino a Dio in Gesù, ‘gli siam tanto carie troppo preziosi, poiché ci siamo uniti anche colcorpo a Lui.Provate un poco voi unire dell’oro in grande abbondanzacon poco piombo: quando i due metalli sianofusi insieme, il piombo muta il suo valore da nulla, ecoll’oro è computato prezioso anche il piombo. Noici eleviamo più in su, perché ci richiama la parola stessadel Salvator nostro. Uniti che siamo in Gesù, noiattiriamo lo sguardo di Dio: Iddio Padre guarda innoi la sua sostanziale Immagine del Figliuolo, e vedeil Sangue divino dentro di noi; col suo Amor Sostanzialelo Spirito Santo si abbassa in noi, ci abbraccia,in noi dimora, e vuol sommergerci nella beatitudinesua… ad eum veniemus et mansionem apud eum faciemus (Jo. XIV, 23).Ancora ancora (e se siamo arditi, o Signore, ci fatali il troppo grande amore vostro). Noi vogliamodire di voi, santissimo Iddio, come di un padre edi una madre. I genitori guardano nella loro proleil proprio loro sangue, ravvisano in essi l’un dell’altrola propria immagine e una porzione di loro;di che vogliono dare ai figli di ogni lor bene, esospirano di averli seco felici. In tale maniera sospira Gesù che nessun si perda: O Padre, questi,che mi avete dati, li voglio meco dove son io, ubi ego sum (Jo. XII, 26), nel celestiale gaudio della nostra Divinità.Così il Sacramento resta pegno di vitaeterna.Per potere meglio ciò comprendere, considerateuna madre (poiché noi crediamo che Dio nel formareil cuor della madre guardasse al proprio Cuore). Èda vedere la madre quando si delizia col bimbo suo.In quei cari vezzi, in quelle innocenti delizie guardacon tutta l’anima negli occhi del bimbo, amor suo:se lo stringe al cuore, lo bacia; poi torna a riguardarlo,e sel ribacia più infervorata, quasi volesse labuona per la bocca versare l’anima nel suo bambino,e col cuore nel cuore compenetrarlo, e darglitutto il suo bene. Ma ella trova quel corpicciuol chele si attraversa, e l’impedisce; ed ella in baciarlovorrebbe come assorbirsi quel corpicciuol delle visceresue, e con un cotal amoroso furore quasi mangiarseloa furia di baci, inviscerarsi quella caravita come porzion della sua. Ora la madre nonpuò mettersi dentro del petto il suo bambino. Ebbene,quello che non può, e vorrebbe pur fare lamadre colla potenza del suo amore, lo può Gesùcoll’onnipotenza dell’amor divino. E li sull’altarenella santa Messa, pacifica il Padre colle sue Piaghe,e col suo Cuore squarciato; e dopo essersi sacrificatotutto per noi, cerca noi tutti d’intorno; ètutto nostro, vuol darsi tutto a noi… A Lui dunque,a Lui! ché Egli trovò modo di darci sotto le speciesminuzzate del pane e del vino il suo Corpo e ilsuo Sangue a fine di penetrarsi nella nostra personasotto specie le quali in noi si dileguano. Pertal maniera diventa nostro cibo la sua Carne sposataalla Divinità. Apri adunque, dice Gesù col Sacramento, apri, o diletto mio, ché io sto per entrare! allarga il tuo cuore, dammi te stesso, come Io a te mi dono. Così entra nella nostra persona il suo Corpo e il suo Sangue e si mischiano col corpo e col sangue nostro! Egli scende ad abbracciar l’anima nel più intimo centro della vita umana; ed allora la nostra persona umana sì tocca, si bacia la sua Persona divina, e in lei si unisce. Dio è nell’uomo, l’uomo in Dio, tanto ché con san Paolo può dire il fortunato fedele: vivo io; ma no, non son già io che vivo, ma vive in me Gesù Cristo. Deh, corriamogli in braccio! Per questo la vita dei Santi è un sospiro d’amore a Gesù, ed un continuo a Lui anelare; ond’ei non sanno altrimenti quietare ed empiere la propria fame se non hanno con dolcezza infinita e spirituale avidità preso il santissimo Corpo. Ed oh, quanto Gesù si compiace di abbandonarsi a loro che l’amano così! Santo Stanislao Kostka: « Signore, vi voglio! Sospirava d’in mezzo a quel gentame che non permettevano lo ricevesse: Signore, vi voglio! E Gesù adorato appare a lui personalmente a dargli il suo santissimo Corpo. S. Luigi Gonzaga non può più mai, mai il cuore, il pensiero e la persona sua disgiungere da Gesù; e: se io debbo, gli dice, per poco dimenticarvi, allontanatevi Voi da me!… ah no, che io non posso! … — Sorgete, o padre, gridava santa Caterina da Siena, prevenendo l’aurora alla porta del Beato Raimondo: sorgete a comunicarmi, o che io muoio per volar con Gesù! — S. Giuseppe da Copertino che fa mai? Ammirate! fa la Comunione spirituale; ma vola col corpo in aria verso al Ciborio dov’è personalmente Gesù. E l’innamorato s. Filippo Neri riceve Gesù, e in tal enfasi di gaudio il cuore gli batte sì forte, che trovando troppo angusto il petto all’amore divino, gli solleva due coste. Oh sentite una vocina di bimba che piange: ma, Gesù mio, a me, a me!… È la beata Imelda la quale grida di mezzo alla chiesa, in vedendo Gesù in mano al sacerdote che comunicava. Le monache a lei: taci, bambina, lo riceverai quando sarai ammessa. Ella non sente, e grida più forte: Gesù mio, vi voglio! Gesù mio, vi voglio! e Gesù parte di mano dal sacerdote, vola a lei. Lo riceve la bimba, palpita, palpita di quell’amore, di cui non si vive in terra, e vola subito in paradiso. Che bella morte improvvisa in quella prima Comunione in seno a Gesù! E fino là morto sul feretro in mezzo della chiesa s. Pasquale di Bailon alla elevazione della Messa solleva la testa, guarda l’Ostia santissima, e a Lei si inchina sì che direste che il suo corpo morto si vivificasse ancora della vita di cui già l’anima beata viveva in Dio. – Miei fratelli, e noi e noi che facciamo? Deh, non mi ricordate i villani rifiuti all’invito del Signore del Vangelo; ché troppo mi fa male al cuore sentire a dirgli: ho una creatura che amo, ho campi, ho bestie da curarmene troppo più che non del vostro convito. Sento le fiamme al volto al pensare a quegli sciagurati… Lo riceveremo noi, sì, lo riceveremo tutti i dì, lo riceveremo a tutte ore nella Comunione spirituale, e vivremo in modo da poterlo sempre ricevere, stimando con sant’Ambrogio essere per noi troppo pauroso castigo della Comunione Santissima esser privati. Su su, d’ogni condizione fedeli, facciamo una lega, corriamo ad ascriverci alla santa crociata, diventiam tutti, ché ci vien concesso, cavalieri di onore, e portiamo sulla nostra bandiera: — Viva Gesù nel Sacramento, — A lui sia tutta sacra la nostra vita; corriamo, a Lui; corriamo dove è tutto il nostro cuore, e vegliamo di e notte intorno al Re del nostro amore… – A questo fine di non lasciare Gesù Cristo in mezzo a noi da noi abbandonato si va stabilendo la cara società che è chiamata col bel nome di Guardia d’onore. In essa gli ascritti d’ogni condizione si recano all’ora stabilita, d’accordo fra loro, per far la guardia al SS. Sacramento; ed è bello il vedere come s’ingegnano di surrogarsi l’un l’altro nelle ore concertate. Oh l’amor verace e vivo sa pure trovar tempo, inventare industrie ed adoperare argomenti, per fare che il Diletto divino Gesù nelle nostre chiese abbia sempre un cuor umano che palpiti d’amore per Lui a nome di tutti i fedeli! Nelle parrocchie, dove è istituita siffatta Guardia d’onore, a qualunque ora voi entriate nelle chiese, vi accorgete se vi è il Santissimo, più che dalle fiamme delle lampadelle o dei ceri, dai cuori dei fedeli che gli palpitano intorno a fargli la guardia. O Maria, quanto sarete contenta voi che quei buoni vi accompagnino là dove deve essere il vostro cuore. Signori, viva Dio! La pietà e l’amor di Gesù non sono spenti nei fedeli. Lo prova oggi questo fatto che l’amore è come potenza elettrica latente…. Su via adunque, su via, uomini di gran Cuore, date le scosse, e scintillerà una luce vivace d’amor celeste dappertutto. Voi vi commovete? Aveva dunque ragione di dirvi io in sul principio, che solo per vedervi ricevere tutti Gesù mi trovo già consolato. Egli è perché vi amo d’amor di madre! Figliuoli del nostro Sangue di Gesù, che in tutti scalda la nostra vita, stendete le mani verso Maria, tra le sue braccia ponetevi al sicuro, riparandovi nel Cuor di Gesù: Vita vestra abscondita cum Christo (Colos. III, 3). Come sta il bimbo in grembo alla mamma; e come quando il bambino balzato dalle sue ginocchia si allontana per poco, e sentendo rumor che lo spaventi, ed egli torna correndo subito ancor alla mamma; così fate voi ad ogni principio di tentazione: ad ogni pensiero cattivo correte subito col cuor a Gesù nel Sacramento, sempre col grido: — Gesù e Maria. — E siccome se mai entrasse in casa un tale che minacciasse di metter le mani sul bambino, egli balza prestamente in seno alla madre, le nasconde dentro nel petto la sua testolina, e allora non ha più paura! Anche noi, anche noi adoperiamo così: nelle tentazioni più forti, rifuggiamoci nel Costato aperto di Gesù, stringendoci al suo Cuore in una Comunione spirituale: La tentazione continua? e noi sempre in Comunione spirituale con Gesù. Sfidiamo in Gesù i demoni; e quanto più saranno, e continui negli attacchi, noi più vivamente attaccati a Gesù, farem cum tentatione proventum (Cor. X, 13). Ieri, oggi, sempre in eterno in Gesù: con lui in combattimento, con lui in agonia e con lui finalmente in gloria nella beatitudine in paradiso; perché la Comunione è il pegno della vita eterna.

IL SACRO CUORE DI GESÙ (59)

IL SACRO CUORE (59)

J. V. BAINVEL – prof. teologia Ist. Catt. Di Parigi;

LA DEVOZIONE AL S. CUORE DI GESÙ-

[Milano Soc. Ed. “V,ita e Pensiero, 1919]

PARTE TERZA.

Sviluppo storico della divozione.

CAPITOLO SESTO

MARGHERITA MARIA E I SUOI PRIMI COLLABORATORI

III. – STATO DELLA DIVOZIONE ALLA MORTE DI MARGHERITA MARIA

Le rivelazioni del 1688 e del 1689 (messaggio del re, missione affidata alla Visitazione e alla Compagnia di Gesù) aprirono un campo più vasto all’apostolato della santa e la spinsero ad estendere la cerchia delle sue relazioni. Ella si adoperava con un’attività incredibile per la sua cara divozione. Ella non era più in rapporto soltanto con le sue sorelle in religione. Da tutte le parti le scrivevano, andavano a vederla, e, malgrado la sua ripugnanza, ella andava al parlatorio, moltiplicava le sue lettere. Qual gioia, in compenso, quando ella sapeva qualche nuovo progresso della divozione! A Digione, l’autorità diocesana, alla quale Roma aveva rinviata la pratica, accorda alle Visitandine la festa desiderata, e il primo venerdì del febbraio del 1689, ottava di S. Francesco di Sales, vi si canta solennemente l’Ufficio e la Messa di suor Joly. Alcuni Gesuiti, per la maggior parte amici o figli spirituali del Padre de la Colombière, si accendevano di entusiasmo per la nuova divozione, l’ispiravano ai loro allievi, ne parlavano ad ogni occasione; a Lione, a Marsiglia soprattutto, era quasi un’esagerazione. Le ultime lettere della santa sono piene di particolari interessanti a questo proposito. La vediamo ella stessa tutta occupata a scrivere libri da divulgare. Il libretto di Moulins non basta più, né quello di suor Joly. Questo è riveduto dal P. Croiset, che lo pubblica a Lione, aumentandolo. Le edizioni andavano a ruba come le immagini. Sotto l’influenza della santa, il P. Froment, che era a Paray, incominciò un libro sul sacro Cuore: il P. Croiset pure si mise all’opera; emulazione inconscia che mise però la santa in qualche imbarazzo. Del P. Croiset e del suo libro essa si interessa di più. Si ha, almeno in buona parte, la sua corrispondenza con lui su questo soggetto. Ella suggeriva delle idee, dava, per quanto le costasse, i particolari necessari sulle origini della divozione; leggeva il manoscritto a misura che andava avanti. Ella aveva trovato nel P. Croiset come un secondo P. de la Colombière, non tanto per la divozione dell’anima sua, quanto per l’apostolato del sacro Cuore. Lei sola, così diceva, metteva ostacolo alla divozione; era meglio che morisse. Era vero, benché in un senso differente dal suo. Mentre ella era viva, non si poteva dire tutto. Il 17 ottobre, senza che si fossero decisi a crederla seriamente malata, ella, in un atto di amore, « si inabissò nel sacro Cuore ». Il libro del P. Croiset (seconda edizione) era quasi finito (Il P. Croiset dà il suo libro del 169: come una seconda edizione, perché egli lo riguarda come sostanzialmente identico a quello del 1689, col quale egli sviluppava e aumentava il libretto di suor Joly.). Egli aggiunse in fretta un Compendio della vita di una religiosa della Visitazione della quale Dio si è servito per stabilire la divozione al sacro Cuore di Gesù Cristo, morta in odore di santità il 17 ottobre dell’anno 1690; vi inserì, con i documenti forniti dalla Visitazione, lunghi estratti delle lettere che aveva ricevuto da lei e l’opera fu pubblicata a Lione nel 1691. – Si indovina quanto la divozione vi guadagnò. Prima di continuare la storia, vediamo rapidamente a che punto essa era quando la santa morì. Essa era costituita nella sua parte intima. Molto precisa e nello stesso tempo molto larga, riuniva tutti gli elementi esistenti, e li orientava verso una nuova meta ben chiara, l’amore reciproco e riparatore. Essa aveva le sue pratiche principali: tutte quelle del passato vi si incorporavano senza difficoltà, le nuove erano semplici e poco numerose. Esistevano dei libretti che aiutavano la fusione e aggruppavano, accanto agli esercizî antichi, le nuove preghiere. Ma più che un insieme di pratiche, più che una raccolta di esercizi antichi, o nuovi era uno spirito, tutta una spiritualità d’amore, tenera e forte insieme, per Gesù amante amabilissimo. Essa era accettata in diversi monasteri della Visitazione e risplendeva al di fuori in diverse città di Francia. Altrove era un po’ mescolata talvolta alla divozione del P. Eudes, che essa stava per assorbire; e, se Roma, sollecitata fin dal 1687, non aveva accordato né la Messa, né l’Ufficio, né la festa, aveva però rinviata la causa agli OrdinarI; e gli Ordinarî, a Langres per esempio, avevano fatto buona accoglienza. Alcune cappelle esistevano presso le Visitandine o altrove, le immagini e i quadri erano diffusi, i libretti in voga. Alcuni predicatori ne parlavano per raccomandarla. Il fuoco sacro era acceso in alcune anime ardenti; in due comunità il fiore delle religiose riguardava come un dovere del loro stato il propagarla. Si preparavano libri che l’avrebbero spiegata chiaramente e avrebbero detto delle sue origini celesti. Infine, la grazia di Dio era con i suoi apostoli e la trasformazione visibile che essa operava entrando; nelle anime o nelle comunità, aggiungeva una testimonianza viva alla parola e al libro. Morendo Margherita Maria lasciava la divozione viva, vitale, piena di avvenire. – Ma c’erano ostacoli formidabili. La Visione, come corpo, e la Compagnia di Gesù non erano conquistate alla nuova divozione. Le contraddizioni che dovettero subire Margherita Maria e il P. de la Colmbière non dovevano cedere tanto presto. Al di fuori i Giansenisti, che avevano già gridato tanto contro il P. Eudes, non erano pronti a disarmare davanti a Margherita Maria E ai Gesuiti. Roma in fine aspettava, secondo la sua abitudine, e osservava; essa non era ostile, ma non era neppure conquistata.

LA VITA INTERIORE DEL CATTOLICO (5)

LA VITA INTERIORE DEL CATTOLICO (5)

Mons. ALBAN GOODIER S.J. (Arcivescovo di Hierapolis)

Morcelliana Ed. Brescia 1935

Traduzione di Bice Masperi

CAPITOLO II

LA VITA IN GESÙ CRISTO

1. Il Corpo Mistico

Si è già accennato a Gesù Cristo nostro Signore come a capo del genere umano, e al suo Corpo mistico al quale tutti i Cristiani sono incorporati. Ma questa espressione, del Corpo mistico, va studiata particolarmente per poter arrivare a meglio comprendere la vita spirituale e la Chiesa Madre secondo i Cattolici. Poiché per essi il Corpo mistico è assai più che una metafora, assai più che una felice espressione dei nostri rapporti con Gesù Cristo nostro Signore. Alcune parole di Lui, spesso ripetute, e altre di chi, come S. Paolo o S. Pietro, fu tra i suoi migliori interpreti non possono lasciarci alcun dubbio che questa incorporazione non sia in un certo senso una realtà. Il Corpo mistico del quale Cristo è il capo e i suoi seguaci sono le membra ha un’esistenza vera viva e vitale i cui frutti sono visibili sia nell’anima di ogni Cattolico che nel mondo circostante. – Possiamo innanzi tutto considerare l’insegnamento di Cristo stesso. E qui notiamo che nello studiare le parole di Lui, in questo caso come in altri, non cerchiamo tanto l’interpretazione letterale, quanto il pensiero che le dettò. A considerarle isolatamente è facile esagerarne o attenuarne la portata, ma raggruppandole e confrontandole possiamo sperare ch’esse ci diano il substrato del suo pensiero, vale a dire quanto maggiormente ci interessa. Incominciamo dall’ultimo episodio sul pendio del monte Oliveto, quando la predicazione di Gesù era ormai terminata ed Egli la concluse preannunciando ai dodici la fine del mondo e il giudizio universale. I giusti saranno separati dagli empi e riceveranno il premio: “Venite, benedetti dal Padre mio”, perché lo hanno servito. “Perchè ebbi fame e mi rifocillaste;. Ebbi sete e mi deste da bere; fui pellegrino e mi ricoveraste; ignudo, e mi copriste; infermo, e mi visitaste; carcerato, e veniste da me”. (Matt. XXV, 35, 36). – I giusti chiederanno quando mai fecero a Lui tali cose, quando mai lo videro in quelle condizioni, ed Egli risponderà: « In verità vi dico: quante volte avete fatto qualche cosa a uno di questi minimi tra i miei fratelli l’avete fatto a me ». (Matt. XXV, 40). Sono forti parole che aprono un nuovo orizzonte sulle relazioni fra uomo e uomo, fra il beneficato e il benefattore, e li pongono sopra un piano affatto nuovo. Anche se considerate isolatamente, esse significano, né più né meno, che Cristo ritiene fatto a se stesso ogni atto di bontà compiuto verso il povero e il sofferente, ed è già cosa meravigliosa che basta a dare un significato nuovo alla carità. Ma se riavviciniamo quelle parole ad altre pronunciate da Cristo in occasioni diverse, vi scorgiamo facilmente un’importanza ancor maggiore, un’intenzione che va più lontano. Disse un giorno Gesù ai dodici a parte: « Chi ascolta voi ascolta me, chi disprezza voi disprezza me ». E non fu mai più esplicito che nel discorso dell’ultima cena, in cui diede ai suoi discepoli quello che chiamò “un comandamento nuovo”. “Vi dò un nuovo comandamento, d’amarvi scambievolmente; amatevi l’un l’altro così come Io v’ho amato ». (Giov. XIII, 34). È molto più di quanto finora fosse stato detto, molto più del precetto generale che ci impone di amare il nostro prossimo come noi stessi. ,Questo precetto ci offre a modello lo stesso amore disinteressato che ridusse Cristo ad annientarsi per amore di noi. Amare il mio prossimo come me stesso è una cosa, amarlo come mi ha amato Cristo è ben altro, poiché Egli mi ama assai più di quanto io non ami me stesso, ha fatto per me assai più di quanto io abbia mai fatto o mai possa fare. Mi domanda un amore per gli altri superiore a quello che da me posso dare: vuole ch’io li ami col suo stesso amore. Ma subito, per mostrarmi dove troverò il mezzo di fare l’impossibile e per metterlo alla mia portata, Cristo fa la nota similitudine. « Rimanete in me, e io in voi. Come il tralcio non può da sé dar frutto, se non rimane nella vite, così nemmeno voi se non rimanete in me. Io sono la vite, voi i tralci. Se uno rimane in me e Io in lui, questo porta molto frutto; perché senza me non potete far niente…. Come il Padre ha amato me, così ho amato voi. Perseverate nell’amor mio”. (Giov. XV: 1,9). Così ci rende possibile l’osservanza del suo “comandamento nuovo”. Dobbiamo amare il nostro prossimo non solo come noi stessi ma come ci ama Cristo, e, cosa ancor più sublime, come Cristo è amato dal Padre. “Come il Padre ha amato me, così Io vi ho amato. Come io vi ho amato, amatevi l’un l’altro”. Cosa impossibile alle nostre povere forze; possibile solo se “rimaniamo in Lui*, se “rimaniamo nell’amor suo”, se amiamo col suo amore, se viviamo della sua vita. – In una maniera mistica, ma non per questo meno reale, altrimenti le parole ora citate non significherebbero più nulla, noi siamo uniti a Gesù Cristo, al Verbo Incarnato, all’Uomo-Dio, così che la sua vita e il suo amore diventan nostri. Come il tralcio è unito alla vite e fatto con essa una cosa sola, come la vita di questa diventa la vita di quello, così noi siamo uniti a Lui, con questo risultato, che mentre da noi soli nulla potremmo, ora, uniti a Lui, possiamo fare ciò che fa Cristo stesso. “Il Verbo si fece carne e abitò noi…. pieno di grazia e di verità… e della pienezza di Lui tutti abbiamo ricevuto”, (Giov. I, 14, 16) non solo nella elargizione di un dono, come da amico ad amico, ma per una vera e propria comunicazione di vita. E non solo di vita, ma anche di ciò che la contiene, che è il corpo: se facciamo una sola vita con Cristo, faremo anche un corpo solo con Lui. Siamo incorporati a Cristo, siamo membri di quell’organismo di cui Egli è il capo; in un senso affatto nuovo, ma altrettanto reale, in Lui “viviamo e ci muoviamo e abbiamo il nostro essere”; viviamo, non più noi, ma Egli vive in noi; portiamo sul nostro corpo le stimmate di Cristo. – E sullo stesso concetto il Signore insiste nella solenne preghiera con cui termina l’ultima cena. Prima domanda che ai suoi venga concessa la vita eterna, e dicendo “i suoi” fa capire che non intende solo gli Apostoli ma anche i loro discepoli, tutti i Cristiani, tutti i credenti in Lui, sino alla fine del mondo; poi prega il Padre così: “Né soltanto prego per questi, ma anche per quelli i quali per la loro parola crederanno in me, che siano tutti uno, come tu sei in me, Padre, e Io in te: siano anch’essi uno in noi, sicché creda il mondo che tu m’hai mandato. E la gloria che tu mi desti io ho data ad essi, affinché siano uno come uno siamo noi. Io in essi, tu in me; affinché siano perfetti nell’unità, me affinché conosca il mondo che tu mi mandasti e amasti essi come amasti me”. (Giov. XVII, 20, 23). “Come Tu, Padre, in me ed Io in Te”. “Affinché siano uno in noi”. “ Affinché siano uno come uno siamo noi”. “Affinché siano perfetti nell’unità”. Affinché questa perfezione nell’unità convinca il mondo “che Tu mi mandasti, e che amasti essi come amasti me”. Non si tratta qui di una semplice metafora; non è il solito linguaggio iperbolico dell’amore, ma qualche cosa di più, assai di più; ha troppo l’accento della verità ed è concetto ripetuto con troppo calore e con troppa insistenza per poter essere l’invenzione di uno scrittore umano. – È un insegnamento positivo, ripetuto perché non venga frainteso, è come l’idea fissa nella mente e nel cuore di Cristo al momento cruciale della sua vita; e l’unione di cui parla è arditamente paragonata all’unità che esiste tra Dio Padre e Dio Figlio, “come Tu ed io siamo uno”. Due persone, eppure un Dio solo; due persone: Cristo e me, eppure una sola vita, un corpo solo che è il corpo stesso di Cristo. Tutti possiamo affermarlo, ogni vero credente e fedele seguace di Cristo può vantare questo privilegio; perciò in Lui, fatti membri del suo unico corpo, tralci eguali di una stessa vite, ricevendo ciascuno da Lui la medesima vita, noi siamo membri l’uno dell’altro. Siamo amati dal Padre precisamente come ne è amato Cristo, perché siamo il suo corpo, apparteniamo alla famiglia del Padre quali coeredi di Cristo, veniamo innalzati a una dignità che dà un significato nuovo alla vita e alla creazione tutta. Siamo nobilitati, e perciò invitati e impegnati a sforzarci di vivere all’altezza di tale onore, rendendoci migliori. Comprendiamo meglio ormai perché Cristo ci pose dinanzi fin dal principio della sua predicazione, con espressione ardita, un modello che sembrava irraggiungibile: “Siate dunque perfetti com’è perfetto il Padre vostro nei cieli”. (Matt. V, 48). Così la dottrina dell’unione mistica, ma non perciò meno reale, del fedele con Cristo è parte essenziale dell’insegnamento di Lui. San Paolo se la appropria e ne fa la base di tutto il suo sistema, la considera fulcro del Cristianesimo e della vera Chiesa. – Per lui, più che un’organizzazione, la Chiesa è un organismo; più che una istituzione, è una cosa viva; e quanto più esperto diviene delle vie di Dio e della vita umana, tanto più l’Apostolo insiste su questo concetto. È degno di nota ch’egli lo intuì fin dall’istante della conversione, come risulta — e sempre con maggior evidenza — da ciascuna delle tre narrazioni che ce ne rimangono. Saul fu gettato a terra tramortito e la voce che udì non diceva: “Perché perseguiti i miei fedeli?” ma: “Perché mi perseguiti?” E quando Saul chiese chi parlasse, la risposta fu: “Io sono Gesù che tu perseguiti”. (Atti, IX, 9). Saul non dimenticò più la lezione implicita in quelle parole; si direbbe anzi che ne facesse soggetto speciale di meditazione per tutta la vita, di modo che sempre meglio ne penetrò la portata e le conseguenze. Esser cristiano voleva dire essere una cosa sola con Cristo; esser membro della Chiesa significava esser membro di quel corpo vivo di cui Cristo era il capo. Con ciò è detto quasi tutto quel ch’è necessario per comprendere l’anima del grande Apostolo dei Gentili. Così scrive a quei di Corinto, tuttora incerti, che pare non abbiano ancora afferrato la necessità dell’unione fra loro: “Come il corpo è uno e ha molte membra e tutte le membra del corpo pur essendo molte il corpo è uno, così anche Cristo. Poiché noi tutti, sia Giudei sia Gentili, sia schiavi sia liberi, in unico Spirito siamo stati battezzati sì da formare un corpo solo e tutti siamo stati imbevuti di unico spirito. Anche il nostro corpo non è un membro solo, ma molte membra….. Orbene, voi siete corpo di Cristo e partitamente siete membra di esso ». (I Cor. XII, 12, 27). – E il suo pensiero si fa ancora più esplicito in seguito, nell’Epistola agli Efesini. Qui è bene rilevare la diversità fra le circostanze di queste due lettere. In quella ai Corinti trattava con dei Cristiani non completamente formati, ed egli stesso non aveva ancora trovato le parole atte ad esprimere perfettamente la verità che pur possedeva. Nell’Epistola agli Efesini, invece, si rivolge a dei fedeli conosciuti fin dall’inizio del suo apostolato. Non può dubitare della loro costanza ed è egli stesso ben certo ormai di poter dar loro il meglio della sua dottrina senza pericolo di venir frainteso: tutta l’Epistola vibra della commozione di un cuore profondamente affezionato, ansioso di far parte a chi tanto ama del più e del meglio di quanto possiede. E bisogna notare inoltre che, nel frattempo, Paolo ha vissuto parecchi anni di prigionia. Molte e lunghe ore di silenzio gli hanno permesso di meditare a suo agio sulla visione avuta, osservando lo sviluppo di quell’organismo vivo che si è diffuso tutt’intorno all’Impero romano non per effetto di organizzazione e di sistema, ma precisamente come un albero che cresce in virtù di una sua forza interna. E l’Apostolo ha finalmente trovato parole tali da poter esprimere con sufficiente efficacia i suoi pensieri. Perciò in questa Epistola non descrive più il Corpo mistico solo come un vincolo magnifico di unità, ma come una consumazione, una meta accessibile anche in questo mondo, un modello, un ideale che, raggiunto, costituisce la sua stessa ricompensa ed è l’uomo perfetto. Scrive così: “Io dunque vi esorto, io, il carcerato nel Signore, di condurvi in modo degno della chiamata che avete ricevuto, con tutta umiltà e mansuetudine e con longanimità, tollerandovi a vicenda con amore, sforzandovi di conservare l’unità dello spirito nel vincolo della pace: un corpo solo, un solo spirito, come in unica speranza siete stati chiamati. Uno è il Signore, una la fede, uno il battesimo, uno Iddio e Padre di tutti, Colui che è sopra tutti e per tutti e in tutti”, (Efes. IV, 1, 6). – Questo è l’ideale; come raggiungerlo? Lo dice chiaramente il seguito dell’Epistola. Con “l’edificazione del corpo di Cristo, fino a tanto che ci riuniamo tutti nell’unità della fede e nel riconoscimento del Figlio di Dio, giungendo alla maturità d’uomo fatto, alla misura di età della pienezza di Cristo; affinché non siamo più dei bambini sballottati e portati via da ogni vento di dottrina…. Ma seguendo il vero con amore, progrediamo in tutto verso di Lui ch’è il capo, Cristo, dal quale tutto il corpo ben composto e connesso per l’utile concatenazione delle articolazioni, efficacemente, nella misura di ciascuna delle sue parti, compie il suo sviluppo per l’edificazione di se stesso nell’amore” (Efes. IV, 12, 16). – A questo modo San Paolo sviluppa il pensiero enunciato in un capitolo precedente, quando ha detto di Nostro Signore: “E tutta pose sotto i suoi piedi e Lui costituì capo supremo alla Chiesa che è il corpo di Lui, il complemento di Colui che tutto completa in tutti”. (Efes. I, 22, 23). Tutto ciò è abbastanza esplicito. Per San Paolo, e per la Chiesa tutta che gli era umita, oltre al Cristo storico che ha vissuto i suoi trentatrè anni su questa terra ed è morto, c’è anche un Cristo mistico, identico al primo eppure distinto, (come son deboli le parole e le idee umane quando si tratta di esprimere il soprannaturale!) che continua nel mondo, vivo fra gli uomini e negli uomini, un Cristo con un capo, un’anima, delle membra che formano tutte insieme un unico corpo vivente spirituale. “Benedetto Iddio e Padre del Signor nostro Gesù Cristo, il quale ci ha benedetti con ogni benedizione spirituale, celeste, in Cristo, in quanto ci ha eletti in Lui, “prima della fondazione del mondo, a esser santi e irreprensibili nel suo cospetto, per amore avendoci predestinati a esser figli suoi adottivi per mezzo di Gesù Cristo, secondo la benignità del suo volere, sì che ciò torni a lode della gloriosa manifestazione della grazia sua, di cui ci fece dono nel suo diletto Figliolo”. (Efes. I, 3-6).

LA VITA INTERIORE DEL CATTOLICO (6)

2 NOVEMBRE (2022): MESSE PER I DEFUNTI

MESSA PER I DEFUNTI (2022)

Commemorazione di tutti i Fedeli Defunti.

Doppio. – Paramenti neri.

Alla festa di tutti i Santi è intimamente legato il ricordo delle anime sante che, pur confermate in grazia, sono trattenute temporaneamente in « Purgatorio » per purificarsi dalle colpe veniali ed « espiare » le pene temporali dovute per il peccato. Perciò, dopo aver celebrato nella gioia la gloria dei Santi, che costituiscono la Chiesa trionfante, la Chiesa militante estende le sua materna sollecitudine anche a quel luogo di indicibili tormenti, ove sono prigioniere le anime che costituiscono la Chiesa purgante. Dice il Martirologio Romano: « In questo giorno si fa la commemorazione di tutti i fedeli defunti; nella quale commemorazione la Chiesa, pia Madre comune, dopo essersi adoperata a celebrare con degne lodi tutti i suoi figli che già esultano in cielo, tosto si affretta a sollevare con validi suffragi, presso il Cristo, suo Signore e Sposo, tutti gli altri suoi figli che gemono ancora nel Purgatorio, affinché possano quanto prima pervenire al consorzio dei cittadini beati ». E questo il momento in cui la liturgia della Chiesa afferma vigorosamente la misteriosa unione esistente fra la Chiesa trionfante, militante e purgante, e mai come oggi si adempie in modo tangibile, il duplice dovere di carità e di giustizia che deriva, per ciascun cristiano, dalla sua incorporazione al corpo mistico di Cristo. Per il dogma della « Comunione dei Santi» i meriti e i suffragi acquistati dagli uni possono essere applicati agli altri. In questi modo, senza ledere gli imprescrittibili diritti della divina giustizia, che sono rigorosamente applicati a tutti nella vita futura, la Chiesa può unire la sua preghiera a quella del cielo e supplire a ciò che manca alle anime del Purgatorio, offrendo a Dio per loro, per mezzo della S. Messa, delle indulgenze, delle elemosine e dei sacrifizi dei fedeli, i meriti sovrabbondanti della Passione del Cristo e delle membra del suo mistico corpo. – Con la liturgia che ha il suo centro nel Sacrificio del Calvario, rinnovantesi continuamente sull’altare, è sempre stato il mezzo principale impiegato dalla Chiesa, per applicare ai defunti la grande legge della Carità, che comanda di soccorrere il prossimo nelle sue necessità, così come vorremmo esser soccorsi noi, se ci trovassimo negli stessi bisogni. – Forse la liturgia dei defunti è la più bella e consolante di tutte, ogni giorno, al termine d’ogni ora del Dìvin Ufficio sono raccomandate alla misericordia di Dio le anime dei fedeli defunti. Al Suscipe nella Messa, il sacerdote offre il Sacrificio per i vivi e per i morti; e a uno speciale Memento egli prega il Signore di ricordarsi dei suoi servi e delle sue serve che si sono addormentati nel Cristo e di accordar loro il luogo della consolazione, della luce e della pace. – Già fin dal V secolo si celebrano Messe per i defunti. Ma la Commemorazione generale di tutti i fedeli defunti si deve a S. Odilone, quarto Abate del celebre monastero benedettino di Cluny. Egli l’istituì nel 998 fissandola per il giorno dopo la festa di Ognissanti (In seguito a questa istituzione, la S. Sede accordò un’indulgenza plenaria toties quotìes alle medesime condizioni che per il 2 agosto, applicabile ai fedeli defunti il giorno della Commemorazione dei morti, a’ tutti quelli che visiteranno una Chiesa, dal mezzogiorno di Ognissanti alla mezzanotte del giorno dopo e pregheranno secondo le intenzioni del Sommo Pontefice. — ). L’influenza di questa illustre Congregazione fece sì che si adottasse presto quest’uso da tutta la Chiesa e che questo giorno stesso fosse talvolta considerato come festivo. Nella Spagna e nel Portogallo, come anche nell’America del Sud, che fu un tempo soggetta a questi Stati, per un privilegio accordato da Benedetto XIV in questo giorno i sacerdoti celebravano tre Messe. Un decreto di Benedetto XV del 10 agosto 1915 estese ai sacerdoti del mondo intero questa autorizzazione. Pio XI con decreto 31 ottobre 1934 concesse che durante l’Ottava tutte le Messe celebrate da qualunque Sacerdote siano ritenute come privilegiate per l’anima del defunto per il quale vengono applicate. La Chiesa, in un’Epistola, tratta da S. Paolo, ci ricorda che i morti risusciteranno, e ci invita a sperare, perché in quel giorno tutti ci ritroveremo nel Signore. La Sequenza descrive in modo avvincente il giudizio finale; nel quale i buoni saranno eternamente divisi dai malvagi. – L’Offertorio ci richiama al pensiero S. Michele, che introduce le anime nel Cielo, perché, dicono le preghiere per la raccomandazione dell’anima, egli è il « capo della milizia celeste », nella quale gli uomini sono chiamati ad occupare il posto degli angeli caduti. – « Le anime del purgatorio sono aiutate dai suffragi dei fedeli, e principalmente dal sacrificio della Messa » dice il Concilio di Trento! (Sessione| XXII, cap. II). Questo perché nella S. Messa il sacerdote offre ufficialmente a Dio, per il riscatto delle anime, il sangue del Salvatore. Gesù stesso, sotto le specie del pane e del vino, rinnova misticamente il sacrificio del Golgota e prega affinché Dio ne applichi, a queste anime, la virtù espiatrice. Assistiamo in questo giorno al Santo Sacrificio, nel quale la Chiesa implora da Dio, per i defunti, che non possono più meritare, la remissione dei peccati (Or.) e il riposo eterno (Intr., Grad.). Visitiamo i cimiteri, ove i loro corpi riposano, fino al giorno nel quale, alla chiamata di Dio, essi sorgeranno immediatamente per rivestirsi dell’immortalità e riportare, per i meriti di Gesù Cristo, la definitiva vittoria sulla morte (Ep.).

(La parola Cimitero, dal greco, significa dormitorio, nel quale ci si riposa. Chi visita il cimitero durante l’Ottava e prega anche solo mentalmente per i defunti, può acquistare nei singoli giorni, con le consuete condizioni, l’indulgenza Plenaria; negli altri giorni l’indulgenza parziale di sette anni; tanto l’una che l’altra sono applicabili soltanto ai defunti – S. Penit. Ap. 31- X – 1934)

Incipit

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Adjutórium nostrum in nómine Dómini.
R. Qui fecit cælum et terram.
Confíteor Deo omnipoténti, beátæ Maríæ semper Vírgini, beáto Michaéli Archángelo, beáto Joánni Baptístæ, sanctis Apóstolis Petro et Paulo, ómnibus Sanctis, et vobis, fratres: quia peccávi nimis cogitatióne, verbo et ópere: mea culpa, mea culpa, mea máxima culpa. Ideo precor beátam Maríam semper Vírginem, beátum Michaélem Archángelum, beátum Joánnem Baptístam, sanctos Apóstolos Petrum et Paulum, omnes Sanctos, et vos, fratres, oráre pro me ad Dóminum, Deum nostrum.
S. Misereátur nostri omnípotens Deus, et, dimíssis peccátis nostris, perdúcat nos ad vitam ætérnam.
R. Amen.
S. Indulgéntiam, absolutiónem et remissiónem peccatórum nostrórum tríbuat nobis omnípotens et miséricors Dóminus.
R. Amen.

V. Deus, tu convérsus vivificábis nos.
R. Et plebs tua lætábitur in te.
V. Osténde nobis, Dómine, misericórdiam tuam.
R. Et salutáre tuum da nobis.
V. Dómine, exáudi oratiónem meam.
R. Et clamor meus ad te véniat.
V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.

Introitus

4 Esdr II: 34; 2:35
Réquiem ætérnam dona eis, Dómine: et lux perpétua lúceat eis.
Ps LXIV:2-3
Te decet hymnus, Deus, in Sion, et tibi reddétur votum in Jerúsalem: exáudi oratiónem meam, ad te omnis caro véniet.

[In Sion, Signore, ti si addice la lode, in Gerusalemme a te si compia il voto. Ascolta la preghiera del tuo servo, poiché giunge a te ogni vivente].
Réquiem ætérnam dona eis, Dómine: et lux perpétua lúceat eis.

Kyrie

S. Kýrie, eléison.
M. Kýrie, eléison.
S. Kýrie, eléison.
M. Christe, eléison.
S. Christe, eléison.
M. Christe, eléison.
S. Kýrie, eléison.
M. Kýrie, eléison.
S. Kýrie, eléison.

Gloria

Glória in excélsis Deo. Et in terra pax homínibus bonæ voluntátis. Laudámus te. Benedícimus te. Adorámus te. Glorificámus te. Grátias ágimus tibi propter magnam glóriam tuam. Dómine Deus, Rex cæléstis, Deus Pater omnípotens. Dómine Fili unigénite, Jesu Christe. Dómine Deus, Agnus Dei, Fílius Patris. Qui tollis peccáta mundi, miserére nobis. Qui tollis peccáta mundi, súscipe deprecatiónem nostram. Qui sedes ad déxteram Patris, miserére nobis. Quóniam tu solus Sanctus. Tu solus Dóminus. Tu solus Altíssimus, Jesu Christe. Cum Sancto Spíritu ✠ in glória Dei Patris. Amen.

Oratio

Orémus.
Fidélium, Deus, ómnium Cónditor et Redémptor: animábus famulórum famularúmque tuárum remissiónem cunctórum tríbue peccatórum; ut indulgéntiam, quam semper optavérunt, piis supplicatiónibus consequántur:
[O Dio, creatore e redentore di tutti i fedeli: concedi alle anime dei tuoi servi e delle tue serve la remissione di tutti i peccati; affinché, per queste nostre pie suppliche, ottengano l’indulgenza che hanno sempre desiderato:]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Corínthios.
1 Cor XV: 51-57
Fratres: Ecce, mystérium vobis dico: Omnes quidem resurgámus, sed non omnes immutábimur. In moménto, in ictu óculi, in novíssima tuba: canet enim tuba, et mórtui resúrgent incorrúpti: et nos immutábimur. Opórtet enim corruptíbile hoc induere incorruptiónem: et mortále hoc indúere immortalitátem. Cum autem mortále hoc indúerit immortalitátem, tunc fiet sermo, qui scriptus est: Absórpta est mors in victória. Ubi est, mors, victória tua? Ubi est, mors, stímulus tuus? Stímulus autem mortis peccátum est: virtus vero peccáti lex. Deo autem grátias, qui dedit nobis victóriam per Dóminum nostrum Jesum Christum.

[Fratelli: Ecco, vi dico un mistero: risorgeremo tutti, ma non tutti saremo cambiati. In un momento, in un batter d’occhi, al suono dell’ultima tromba: essa suonerà e i morti risorgeranno incorrotti: e noi saremo trasformati. Bisogna infatti che questo corruttibile rivesta l’incorruttibilità: e questo mortale rivesta l’immortalità. E quando questo mortale rivestirà l’immortalità, allora sarà ciò che è scritto: La morte è stata assorbita dalla vittoria. Dov’è, o morte, la tua vittoria? dov’è, o morte, il tuo pungiglione? Ora, il pungiglione della morte è il peccato: e la forza del peccato è la legge. Ma sia ringraziato Iddio, che ci diede la vittoria per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo].

Graduale

4 Esdr II: 34 et 35.
Réquiem ætérnam dona eis, Dómine: et lux perpétua lúceat eis.
Ps CXI: 7.
V. In memória ætérna erit justus: ab auditióne mala non timébit.
[Il giusto sarà sempre nel ricordo, non teme il giudizio sfavorevole].Tractus.
Absólve, Dómine, ánimas ómnium fidélium ab omni vínculo delictórum.
V. Et grátia tua illis succurrénte, mereántur evádere judícium ultiónis.
V. Et lucis ætérnæ beatitúdine pérfrui.

[Libera, Signore, le anime di tutti i fedeli defunti da ogni legame di peccato.
V. Con il soccorso della tua grazia possano evitare la condanna.
V. e godere la gioia della luce eterna].

Sequentia

Dies iræ, dies illa
Solvet sæclum in favílla:
Teste David cum Sibýlla.

Quantus tremor est futúrus,
Quando judex est ventúrus,
Cuncta stricte discussúrus!

Tuba mirum spargens sonum
Per sepúlcra regiónum,
Coget omnes ante thronum.

Mors stupébit et natúra,
Cum resúrget creatúra,
Judicánti responsúra.

Liber scriptus proferétur,
In quo totum continétur,
Unde mundus judicétur.

Judex ergo cum sedébit,
Quidquid latet, apparébit:
Nil multum remanébit.

Quid sum miser tunc dictúrus?
Quem patrónum rogatúrus,
Cum vix justus sit secúrus?

Rex treméndæ majestátis,
Qui salvándos salvas gratis,
Salva me, fons pietátis.

Recordáre, Jesu pie,
Quod sum causa tuæ viæ:
Ne me perdas illa die.

Quærens me, sedísti lassus:
Redemísti Crucem passus:
Tantus labor non sit cassus.

Juste judex ultiónis,
Donum fac remissiónis
Ante diem ratiónis.

Ingemísco, tamquam reus:
Culpa rubet vultus meus:
Supplicánti parce, Deus.

Qui Maríam absolvísti,
Et latrónem exaudísti,
Mihi quoque spem dedísti.

Preces meæ non sunt dignæ:
Sed tu bonus fac benígne,
Ne perénni cremer igne.

Inter oves locum præsta,
Et ab hœdis me sequéstra,
Státuens in parte dextra.

Confutátis maledíctis,
Flammis ácribus addíctis:
Voca me cum benedíctis.

Oro supplex et acclínis,
Cor contrítum quasi cinis:
Gere curam mei finis.

Lacrimósa dies illa,
Qua resúrget ex favílla
Judicándus homo reus.

Huic ergo parce, Deus:
Pie Jesu Dómine,
Dona eis réquiem.
Amen.

Evangelium

Sequéntia +︎ sancti Evangélii secúndum Joánnem.
Joann V: 25-29
In illo témpore: Dixit Jesus turbis Judæórum: Amen, amen, dico vobis, quia venit hora, et nunc est, quando mórtui áudient vocem Fílii Dei: et qui audíerint, vivent. Sicut enim Pater habet vitam in semetípso, sic dedit et Fílio habére vitam in semetípso: et potestátem dedit ei judícium fácere, quia Fílius hóminis est. Nolíte mirári hoc, quia venit hora, in qua omnes, qui in monuméntis sunt, áudient vocem Fílii Dei: et procédent, qui bona fecérunt, in resurrectiónem vitæ: qui vero mala egérunt, in resurrectiónem judícii.

[In quel tempo: Gesù disse alle turbe dei Giudei: In verità, in verità vi dico, viene l’ora, ed è questa, in cui i morti udranno la voce del Figlio di Dio: e chi l’avrà udita, vivrà. Perché come il Padre ha la vita in sé stesso, così diede al Figlio di avere la vita in se stesso: e gli ha dato il potere di giudicare, perché è Figlio dell’uomo. Non vi stupite di questo, perché viene l’ora in cui quanti sono nei sepolcri udranno la voce del Figlio di Dio: e ne usciranno, quelli che fecero il bene per una resurrezione di vita: quelli che fecero il male per una resurrezione di condanna].

Omelia

[Giov. Colombo: Pensieri sui Vangeli e sulle Feste del Signore e dei Santi – Soc. Edit. Vita e Pensiero, Milano, VI ed. 1956]

LE ANIME PURGANTI

Ora che la campagna è spoglia, che i cieli si fanno grigi per le nebbie, che le foglie cadono, la Santa Chiesa con un fine intuito educativo ci richiama al pensiero della morte, al pensiero dei nostri cari morti. La nostra vita sulla terra è rapida come una stagione, poi vengono le nebbie della vecchiezza, il vento autunnale e triste della fine e ci spoglia di ogni terrestre illusione. Debemur morti nos nostraque; e noi e le nostre cose siamo destinati a morire. Quanti tra quelli stessi che conoscemmo ed amammo già sono morti; compagni di scuola, compagni d’allegria, compagni d’armi, compagni di lavoro, sono già stati innanzi tempo presi dalla morte e condotti nell’eternità. Nella nostra stessa casa forse c’è più d’un vuoto: care persone sparite da anni o solo da mesi, comunque sparite dalla nostra vista. Oggi s’aprono i cancelli e noi pellegriniamo in folla su quella terra che nasconde la loro salma. Portiamo fiori e lumi, ed è questo un atto molto gentile. Ma quei fiori e quei lumi sono uno sterile simbolo se non vi aggiungiamo preghiere, elemosine, suffragi d’opere buone. Noi sappiamo, Cristiani, che se alcuno muore in grazia di Dio, ma con qualche peccato veniale non perdonato, o con qualche debito di paradiso, è ritenuto in purgatorio finché abbia pienamente soddisfatto alla divina giustizia. Non solo, ma noi sappiamo anche un’altra verità che è molto consolante. Siccome noi, vivi o morti formiamo tutti ancora nella Santa Chiesa una famiglia sola, possiamo, noi che camminiamo sulla terra placare Dio anche per loro che più non sono qui.  S. Giovanni Crisostomo rivolgeva queste esortazioni ai fedeli del suo tempo: « Perché piangete, se al defunto si può ottenere grande perdono? Non è questo un bel guadagno, un cospicuo vantaggio? Molti furono: liberati» con un’elemosina. fatta per loro da altri; perché l’elemosina ha la virtù di togliere i peccati, se mai il morto è partito di qua con qualche venialità sulla coscienza. Vi assicuro che l’aiuto nostro per le anime non è mai vano: è Dio che vuole che ci soccorriamo l’un l’altro ». Con questa confortante fede chiudeva gli occhi S. Monica, e morendo pregò il figlio Agostino di offrire per lei il sacrificio della, Messa; E S. Agostino; come narra nelle sue Confessioni subito dopo la morte offerse per lei il sacrificio del nostro riscatto, e per lei pregò: così: «Ascoltami, Dio Onnipotente.; ascoltami, per Gesù Medico delle nostre ferite che pendette dalla croce; e ora alla tua destra supplica per noi. So che ella ha usato soave misericordia ai poveri e ha rimesso i debiti suoi debitori. E tu rimetti ora anche a lei i debiti suoi! Condonale anche il peso di quelle miserie di cui s’è caricata nei molti anni che visse dopo il lavacro del Battesimo. Perdonala, o Signore, perdonala; te ne prego, non chiamarla al tuo giudizio ». Ecco il suffragio migliore che un figlio può mandar dietro alla madre diletta: la S. Messa, accompagnata dalla sincera e personale preghiera. È vero che i nostri cari nel Purgatorio non mancano di profonde dolcissime consolazioni, tra cui la più grande è quella d’esser certi che Dio li ama, e che andranno alla fine della loro purificazione a goderlo per sempre; ma è pur vero che fin tanto che dura la loro purificazione le anime soffrono gravissime pene. Soffrono i nostri cari morti! E noi possiamo e dobbiamo aiutarli.- 1. I MORTI SOFFRONO. Un giovanetto di nome Giuseppe, un giorno, fu calato in una cisterna, e, sopra, i suoi undici fratelli vi gettarono una pietra con rimbombo, perché non potesse uscire più. Poi vi sedettero sopra mangiando, e bevendo il vino dei loro fiaschi. Comedentes et bibentes vinum in phialis. Giuseppe singhiozzava nel fondo della cisterna, ove non scendeva una boccata d’aria, ove non filtrava un filo di luce: in una cisterna stretta e profonda, umida e muffolente. Singhiozzava; ma i suoi fratelli, sopra, mangiavano e bevevano e non potevano udire il suo grido straziante. Lui moriva, essi se la godevano. Lui in prigione, essi nella libertà delle loro case e dei loro campi. Lui senza pane e senz’acqua, essi pieni di carne e di vino. Comedentes et bibentes vinum in phialis (Amos, VI, 6). Questa scena angosciosa si ripete ogni giorno, anche oggi. Nel carcere del Purgatorio c’è qualche nostro fratello, un amico, forse il babbo, forse la mamma nostra che soffre; e noi non ci ricordiamo mai di loro che sono morti. Noi ci divertiamo, bevendo e mangiando, mentr’essi soffrono tormenti più struggenti della fame e della sete. Ricordiamoli i morti perché soffrono. Che cosa soffrono? Soffrono misteriose pene, più o meno gravi, ma che sono sempre cagione d’acuto dolore. Ma la sofferenza più affliggente è il ritardo che li disgiunge da Dio. Qui sulla terra l’anima che si allontana da Dio, immersa com’è nei sensi, può non penare, può cercare conforto nelle creature. Ma nell’eternità non sarà più così: non solo l’uomo non potrà cercare un surrogato alle creature, ma si accenderà nella sua anima un bisogno, anzi una fame di felicità divina, di congiungimento nella visione col suo Signore. Pensate allora la dolorosa aspirazione nelle anime purganti: sentirsi fatte per Dio, sentirsi ormai giunte al sicuro porto, e vedersi rattenute dall’entrare in patria, impedite dell’abbraccio divino! È la penosa speranza dell’ammalato a cui il medico assicurò la guarigione, ma che intanto deve stare immobile per mesi nel letto. È la tensione acerba dell’assetato che quando crede d’essere giunto alla fonte d’acqua viva, s’accorge ch’essa gli scorre ancora molto lontana. È l’attesa struggente del prigioniero di guerra, che giunto il giorno di rimpatriare e d’abbracciare la vecchia madre e la sposa e i figliuolini, si vede messo in quarantena per una certa sua infezione. « Miseri noi: credevamo d’essere giunti al termine, ed ecco il cammino ci si allunga davanti… ». Così sospirano con pacato dolore le anime sante del Purgatorio. – 2. NOI LI POSSIAMO AIUTARE. Uno degli episodi più pietosi delle Sacre Scritture è quello del paralitico sotto i portici della piscina probatica. V’era a Gerusalemme una vasca con cinque portici in giro: ed ogni anno quell’acqua scossa da un Angelo, acquistava una virtù miracolosa, che qualunque malato per primo vi si fosse immerso ne sarebbe riuscito sanato perfettamente. Ed erano già 38 anni che un povero paralitico era là ad aspettare la smorto per tanto soffrire, le carni incadaverite, le vesti luride. Bastava soltanto che qualcuno, appena l’Angelo commoveva l’acqua, gli desse un tuffo. Eppure, dopo 38 anni ch’era là, non uno gli aveva saputo fare quel piacere. E quando Gesù Passò sotto il portico, quel poverino ruppe in singhiozzi « Domine, hominem non habeo! ». O Signore, non ho proprio nessuno! Anche molte anime del Purgatorio ripetono il grido del paralitico: non ho proprio nessuno! nessuno che si ricordi di me, nessuno che preghi, che faccia pregare… ». E son anni e anni che gemono là; e per strapparle dal fuoco non occorre enorme fatica, e neppure grosse somme di denaro: ma basta una preghiera detta col cuore, basta una Comunione fervorosa, una santa Messa ascoltata o fatta celebrare … Ed è un dovere d’amore ricordarsi, è un dovere di giustizia. Chi sono quelle povere anime? Forse i n otri fratelli, le sorelle, le spose, i padri, le mamme … Oh vi ricordate in quel giorno, di quella notte in cui morirono? Là, sul letto, disteso: già i suoi occhi dilatati v’era l’immagine della morte. Ardeva accanto una candela benedetta, quella dell’agonia. Egli non poteva parlare più, già la morte gli sigillava le labbra per sempre; eppure qualche cosa voleva pur dirci, ché tremava tutto: « Ricordati di me, quando sarò morto! » E noi scoppiammo in pianto, e tra i singhiozzi abbiamo giurato, in faccia alla morte, di non scordarlo più. Invece dopo qualche settimana noi ci demmo pace, e chi è morto, giace. « Ricordati di me, tu mi puoi aiutare! ». Non la sentite questa voce alla sera, quando invece di fermarvi in casa a rispondere il Rosario voi uscite a chiacchierare, a giocare? Non la sentite questa voce alla mattina presto, quando suonano le campane della Messa, dell’Ufficio, e voi poltrite nelle piume del letto? Non la sentite questa voce che vi supplica di cambiar vita, di frequentare i Sacramenti, di lasciare quella relazione? Non la sentite questa voce a scongiurarvi che facciate un po’ d’elemosina, che procuriate una S. Messa, un Ufficio di suffragio? Eppure dovreste sentirla: forse, quei campi che voi lavorate, quella casa che voi abitate, quel gruzzolo di danaro che avete alla banca, è il frutto del sudore dei vostri morti. Siete obbligati, per giustizia, a ricordarli! – Dall’esilio S. Giovanni poteva finalmente rientrare in Efeso. Entrando egli nella sua città incontrò un funerale: portavano a seppellire il corpo di Drusiana, la quale aveva sempre seguiti i suoi ammaestramenti. Come la gente s’accorse della presenza dell’Apostolo, a gran voce diceva: « Benedetto tu che nel nome di Dio ritorni! ». Allora le vedove che Drusiana aveva in vita consolate, i poveri che aveva nutrito, gli orfani a cui aveva fatto da madre, circondarono l’Evangelista, e col pianto nella voce cominciarono a supplicarlo: « O santo Giovanni! vedi che portiamo Drusiana morta a seppellire: ella ci ha confortati, ci ha dato da mangiare, ci ha protetti, ed ora è morta, senza poterti rivedere, che pur lo desiderava tanto ». S. Giovanni fu commosso da quelle preghiere ardenti. Fermò il funerale, fece deporre in terra la bara, e con chiara voce disse davanti a tutti: « Drusiana! Per l’amore che portasti agli orfani, per l’elemosina che facesti ai poveri, per l’aiuto che prodigasti alle vedove, il mio Signor Gesù Cristo ti risusciti ». E subito ella si levò dalla bara, sì che pareva non resuscitata da morte, ma destata da dormire (BATTELLI, Leggende cristiane). Verrà un giorno, e per quanto sia tardi non è lontano, che noi pure porteranno a seppellire. Ma la nostra anima, nuda e sola, convien che vada al tribunale di Cristo. Oh, se durante questa vita ci saremo ricordati dei poveri morti, allora molte anime si faranno intorno a Gesù giudice e a gran voce diranno: « Signore! Ricordati che costui mi ha alleviato il fuoco del Purgatorio con le sue preghiere, con le mortificazioni, con l’elemosina. Signore! Ricordati di quelle Messe e di quegli Uffici che m’ha fatto celebrare, ricordati delle Comunioni, delle elemosine che faceva in mio suffragio ». E Gesù non saprà resistere a queste suppliche e ci dirà: « Per la misericordia che hai avuto dei poveri morti, anch’io ti faccio misericordia: vieni presto in paradiso ».

IL CREDO

Offertorium

Oremus

Dómine Jesu Christe, Rex glóriæ, líbera ánimas ómnium fidélium defunctórum de pœnis inférni et de profúndo lacu: líbera eas de ore leónis, ne absórbeat eas tártarus, ne cadant in obscúrum: sed sígnifer sanctus Míchaël repræséntet eas in lucem sanctam:
* Quam olim Abrahæ promisísti et sémini ejus.
V. Hóstias et preces tibi, Dómine, laudis offérimus: tu súscipe pro animábus illis, quarum hódie memóriam fácimus: fac eas, Dómine, de morte transíre ad vitam.
* Quam olim Abrahæ promisísti et sémini ejus.

[Signore Gesù Cristo, Re della gloria, libera tutti i fedeli defunti dalle pene dell’inferno e dall’abisso. Salvali dalla bocca del leone; che non li afferri l’inferno e non scompaiano nel buio. L’arcangelo san Michele li conduca alla santa luce
* che tu un giorno hai promesso ad Abramo e alla sua discendenza.
V. Noi ti offriamo, Signore, sacrifici e preghiere di lode: accettali per l’anima di quelli di cui oggi facciamo memoria. Fa’ che passino, Signore, dalla morte alla vita,
* che tu un giorno hai promesso ad Abramo e alla sua discendenza].

Secreta

Hóstias, quǽsumus, Dómine, quas tibi pro animábus famulórum famularúmque tuárum offérimus, propitiátus inténde: ut, quibus fídei christiánæ méritum contulísti, dones et præmium. [Guarda propizio, Te ne preghiamo, o Signore, queste ostie che Ti offriamo per le ànime dei tuoi servi e delle tue serve: affinché, a coloro cui concedesti il merito della fede cristiana, ne dia anche il premio].

Præfatio

V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.
V. Sursum corda.
R. Habémus ad Dóminum.
V. Grátias agámus Dómino, Deo nostro.
R. Dignum et justum est.

Defunctorum

Vere dignum et justum est, æquum et salutáre, nos tibi semper et ubíque grátias ágere: Dómine sancte, Pater omnípotens, ætérne Deus: per Christum, Dóminum nostrum. In quo nobis spes beátæ resurrectiónis effúlsit, ut, quos contrístat certa moriéndi condício, eósdem consolétur futúræ immortalitátis promíssio. Tuis enim fidélibus, Dómine, vita mutátur, non tóllitur: et, dissolúta terréstris hujus incolátus domo, ætérna in cælis habitátio comparátur. Et ídeo cum Angelis et Archángelis, cum Thronis et Dominatiónibus cumque omni milítia cœléstis exércitus hymnum glóriæ tuæ cánimus, sine fine dicéntes:

[È veramente cosa buona e giusta, nostro dovere e fonte di salvezza, rendere grazie sempre e dovunque a te, Signore, Padre santo, Dio onnipotente ed eterno, per Cristo nostro Signore. In lui rifulse a noi la speranza della beata risurrezione: e se ci rattrista la certezza di dover morire, ci consoli la promessa dell’immortalità futura. Ai tuoi fedeli, o Signore, la vita non è tolta, ma trasformata: e mentre si distrugge la dimora di questo esilio terreno, viene preparata un’abitazione eterna nel cielo. E noi, uniti agli Angeli e agli Arcangeli ai Troni e alle Dominazioni e alla moltitudine dei Cori celesti, cantiamo con voce incessante l’inno della tua gloria:]

Sanctus, Sanctus, Sanctus Dóminus, Deus Sábaoth. Pleni sunt cæli et terra glória tua. Hosánna in excélsis. Benedíctus, qui venit in nómine Dómini. Hosánna in excélsis.

Preparatio Communionis

Orémus: Præcéptis salutáribus móniti, et divína institutióne formáti audémus dícere:

Pater noster,

qui es in cælis. Sanctificétur nomen tuum. Advéniat regnum tuum. Fiat volúntas tua, sicut in cælo et in terra. Panem nostrum quotidiánum da nobis hódie. Et dimítte nobis débita nostra, sicut et nos dimíttimus debitóribus nostris. Et ne nos indúcas in tentatiónem:
R. Sed líbera nos a malo.
S. Amen.

Agnus Dei

Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: dona nobis pacem.

Panem cæléstem accípiam, et nomen Dómini invocábo.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima me
a.

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

4 Esdr II:35; II:34
Lux ætérna lúceat eis, Dómine:
* Cum Sanctis tuis in ætérnum: quia pius es.
V. Requiem ætérnam dona eis, Dómine: et lux perpétua lúceat eis.
* Cum Sanctis tuis in ætérnum: quia pius es.

[Splenda ad essi la luce perpetua,
* insieme ai tuoi santi, in eterno, o Signore, perché tu sei buono.
V. L’eterno riposo dona loro, Signore, e splenda ad essi la luce perpetua.
* Insieme ai tuoi santi, in eterno, Signore, perché tu sei buono].

Postcommunio

Orémus.
Animábus, quǽsumus, Dómine, famulórum famularúmque tuárum orátio profíciat supplicántium: ut eas et a peccátis ómnibus éxuas, et tuæ redemptiónis fácias esse partícipes:

[Ti preghiamo, o Signore, le nostre supplici preghiere giovino alle ànime dei tuoi servi e delle tue serve: affinché Tu le purifichi da ogni colpa e le renda partecipi della tua redenzione:].

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (1)

https://www.exsurgatdeus.org/2019/05/20/ordinario-della-messa/

SECONDA MESSA

Incipit

In nómine Patris, ✠ et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Adjutórium nostrum in nómine Dómini.
R. Qui fecit cælum et terram.
Confíteor Deo omnipoténti, beátæ Maríæ semper Vírgini, beáto Michaéli Archángelo, beáto Joánni Baptístæ, sanctis Apóstolis Petro et Paulo, ómnibus Sanctis, et vobis, fratres: quia peccávi nimis cogitatióne, verbo et ópere: mea culpa, mea culpa, mea máxima culpa. Ideo precor beátam Maríam semper Vírginem, beátum Michaélem Archángelum, beátum Joánnem Baptístam, sanctos Apóstolos Petrum et Paulum, omnes Sanctos, et vos, fratres, oráre pro me ad Dóminum, Deum nostrum.
S. Misereátur nostri omnípotens Deus, et, dimíssis peccátis nostris, perdúcat nos ad vitam ætérnam.
R. Amen.
S. Indulgéntiam, absolutiónem et remissiónem peccatórum nostrórum tríbuat nobis omnípotens et miséricors Dóminus.
R. Amen.

V. Deus, tu convérsus vivificábis nos.
R. Et plebs tua lætábitur in te.
V. Osténde nobis, Dómine, misericórdiam tuam.
R. Et salutáre tuum da nobis.
V. Dómine, exáudi oratiónem meam.
R. Et clamor meus ad te véniat.
V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.

Introitus

4 Esdr II:34; II:35
Réquiem ætérnam dona eis, Dómine: et lux perpétua lúceat eis.
Ps LXIV: 2-3
Te decet hymnus, Deus, in Sion, et tibi reddétur votum in Jerúsalem: exáudi oratiónem meam, ad te omnis caro véniet.
[l’eterno riposo dona loro, Signore, e splenda ad essi la luce perpetua.
Ps LXIV: 2-3
[In Sion, Signore, ti si addice la lode, in Gerusalemme a te si compia il voto. Ascolta la preghiera del tuo servo, poiché giunge a te ogni vivente].
Réquiem ætérnam dona eis, Dómine: et lux perpétua lúceat eis. [l’eterno riposo dona loro, Signore, e splenda ad essi la luce perpetua].

Kyrie

S. Kýrie, eléison.
M. Kýrie, eléison.
S. Kýrie, eléison.
M. Christe, eléison.
S. Christe, eléison.
M. Christe, eléison.
S. Kýrie, eléison.
M. Kýrie, eléison.
S. Kýrie, eléison.

Gloria

Glória in excélsis Deo. Et in terra pax homínibus bonæ voluntátis. Laudámus te. Benedícimus te. Adorámus te. Glorificámus te. Grátias ágimus tibi propter magnam glóriam tuam. Dómine Deus, Rex cæléstis, Deus Pater omnípotens. Dómine Fili unigénite, Jesu Christe. Dómine Deus, Agnus Dei, Fílius Patris. Qui tollis peccáta mundi, miserére nobis. Qui tollis peccáta mundi, súscipe deprecatiónem nostram. Qui sedes ad déxteram Patris, miserére nobis. Quóniam tu solus Sanctus. Tu solus Dóminus. Tu solus Altíssimus, Jesu Christe. Cum Sancto Spíritu ✠ in glória Dei Patris. Amen.

Oratio

Orémus.
Deus, indulgentiárum Dómine: da animábus famulórum famularúmque tuárum refrigérii sedem, quiétis beatitúdinem et lúminis claritátem.
[ O Dio, Signore di misericordia, accorda alle anime dei tuoi servi e delle tue serve la dimora della pace, il riposo delle beatitudine e lo splendore della luce].

Lectio

Léctio libri Machabæórum.
2 Mach XII: 43-46
In diébus illis: Vir fortíssimus Judas, facta collatióne, duódecim mília drachmas argénti misit Jerosólymam, offérri pro peccátis mortuórum sacrifícium, bene et religióse de resurrectióne cógitans, nisi enim eos, qui cecíderant, resurrectúros speráret, supérfluum viderétur et vanum oráre pro mórtuis: et quia considerábat, quod hi, qui cum pietáte dormitiónem accéperant, óptimam habérent repósitam grátiam.
Sancta ergo et salúbris est cogitátio pro defunctis exoráre, ut a peccátis solvántur.

[In quei giorni: il più valoroso uomo di Giuda, fatta una colletta, con tanto a testa, per circa duemila dramme d’argento, le inviò a Gerusalemme perché fosse offerto un sacrificio espiatorio, agendo così in modo molto buono e nobile, suggerito dal pensiero della risurrezione. Perché se non avesse avuto ferma fiducia che i caduti sarebbero risuscitati, sarebbe stato superfluo e vano pregare per i morti. Ma se egli considerava la magnifica ricompensa riservata a coloro che si addormentano nella morte con sentimenti di pietà, la sua considerazione era santa e devota. Perciò egli fece offrire il sacrificio espiatorio per i morti, perché fossero assolti dal peccato].

Graduale

4 Esdr 2:34 et 35.
Réquiem ætérnam dona eis, Dómine: et lux perpétua lúceat eis.

[L’eterno riposo dona loro, o Signore, e splenda ad essi la luce perpetua].

Ps 111:7.
V. In memória ætérna erit justus: ab auditióne mala non timébit.

[V. Il giusto sarà sempre nel ricordo, non teme il giudizio sfavorevole].

Tractus.

Absólve, Dómine, ánimas ómnium fidélium ab omni vínculo delictórum.
V. Et grátia tua illis succurrénte, mereántur evádere judícium ultiónis.
V. Et lucis ætérnæ beatitúdine pérfrui.

[Libera, Signore, le anime di tutti i fedeli defunti da ogni legame di peccato.
V. Con il soccorso della tua grazia possano evitare la condanna.
V. e godere la gioia della luce eterna].
Sequentia

Dies Iræ …. [V. sopra]

Evangelium

Sequéntia +︎ sancti Evangélii secúndum Joánnem.
R. Gloria tibi, Domine!
Joann VI: 37-40
In illo témpore: Dixit Jesus turbis Judæórum: Omne, quod dat mihi Pater, ad me véniet: et eum, qui venit ad me, non ejíciam foras: quia descéndi de cælo, non ut fáciam voluntátem meam, sed voluntátem ejus, qui misit me. Hæc est autem volúntas ejus, qui misit me, Patris: ut omne, quod dedit mihi, non perdam ex eo, sed resúscitem illud in novíssimo die. Hæc est autem volúntas Patris mei, qui misit me: ut omnis, qui videt Fílium et credit in eum, hábeat vitam ætérnam, et ego resuscitábo eum in novíssimo die.

[In quel tempo: Gesù disse alla moltitudine degli Ebrei: Tutto ciò che il Padre mi dà, verrà a me; colui che viene a me, non lo respingerò, perché sono disceso dal cielo non per fare la mia volontà, ma la volontà di colui che mi ha mandato. E questa è la volontà di colui che mi ha mandato, che io non perda nulla di quanto egli mi ha dato, ma lo risusciti nell’ultimo giorno. Questa infatti è la volontà del Padre mio, che chiunque vede il Figlio e crede in lui abbia la vita eterna; io lo risusciterò nell’ultimo giorno].

IL CREDO

Offertorium

Orémus
Dómine Jesu Christe, Rex glóriæ, líbera ánimas ómnium fidélium defunctórum de pœnis inférni et de profúndo lacu: líbera eas de ore leónis, ne absórbeat eas tártarus, ne cadant in obscúrum: sed sígnifer sanctus Míchaël repræséntet eas in lucem sanctam:
* Quam olim Abrahæ promisísti et sémini ejus.
V. Hóstias et preces tibi, Dómine, laudis offérimus: tu súscipe pro animábus illis, quarum hódie memóriam fácimus: fac eas, Dómine, de morte transíre ad vitam.
* Quam olim Abrahæ promisísti et sémini ejus.

[Signore Gesù Cristo, Re della gloria, libera tutti i fedeli defunti dalle pene dell’inferno e dall’abisso. Salvali dalla bocca del leone; che non li afferri l’inferno e non scompaiano nel buio. L’arcangelo san Michele li conduca alla santa luce
* che tu un giorno hai promesso ad Abramo e alla sua discendenza.
V. Noi ti offriamo, Signore, sacrifici e preghiere di lode: accettali per l’anima di quelli di cui oggi facciamo memoria. Fa’ che passino, Signore, dalla morte alla vita,
* che tu un giorno hai promesso ad Abramo e alla sua discendenza].

Secreta

Propitiáre, Dómine, supplicatiónibus nostris, pro animábus famulórum famularúmque tuárum, pro quibus tibi offérimus sacrifícium laudis; ut eas Sanctórum tuórum consórtio sociáre dignéris.

[Sii propizio, o Signore, alle nostre suppliche in favore delle anime dei tuoi servi e delle tue serve, per le quali Ti offriamo questo sacrificio di lode, affinché Tu le accolga nella società dei tuoi Santi..]

Praefatio
Defunctorum

Vere dignum et justum est, æquum et salutáre, nos tibi semper et ubíque grátias ágere: Dómine sancte, Pater omnípotens, ætérne Deus: per Christum, Dóminum nostrum. In quo nobis spes beátæ resurrectiónis effúlsit, ut, quos contrístat certa moriéndi condício, eósdem consolétur futúræ immortalitátis promíssio. Tuis enim fidélibus, Dómine, vita mutátur, non tóllitur: et, dissolúta terréstris hujus incolátus domo, ætérna in coelis habitátio comparátur. Et ídeo cum Angelis et Archángelis, cum Thronis et Dominatiónibus cumque omni milítia coeléstis exércitus hymnum glóriæ tuæ cánimus, sine fine dicéntes:

 [È veramente cosa buona e giusta, nostro dovere e fonte di salvezza, rendere grazie sempre e dovunque a te, Signore, Padre santo, Dio onnipotente ed eterno, per Cristo nostro Signore. In lui rifulse a noi la speranza della beata risurrezione: e se ci rattrista la certezza di dover morire, ci consoli la promessa dell’immortalità futura. Ai tuoi fedeli, o Signore, la vita non è tolta, ma trasformata: e mentre si distrugge la dimora di questo esilio terreno, viene preparata un’abitazione eterna nel cielo. E noi, uniti agli Angeli e agli Arcangeli ai Troni e alle Dominazioni e alla moltitudine dei Cori celesti, cantiamo con voce incessante l’inno della tua gloria:]

Sanctus, Sanctus, Sanctus Dóminus, Deus Sábaoth. Pleni sunt cæli et terra glória tua. Hosánna in excélsis. Benedíctus, qui venit in nómine Dómini. Hosánna in excélsis.

Preparatio Communionis

Orémus: Præcéptis salutáribus móniti, et divína institutióne formáti audémus dícere:

Pater noster,

qui es in cælis. Sanctificétur nomen tuum. Advéniat regnum tuum. Fiat volúntas tua, sicut in cælo et in terra. Panem nostrum quotidiánum da nobis hódie. Et dimítte nobis débita nostra, sicut et nos dimíttimus debitóribus nostris. Et ne nos indúcas in tentatiónem:
R. Sed líbera nos a malo.
S. Amen.

Agnus Dei

Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: dona nobis pacem.

Panem cæléstem accípiam, et nomen Dómini invocábo.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

4 Esdr II:35-34
Lux ætérna lúceat eis, Dómine:
* Cum Sanctis tuis in ætérnum: quia pius es.
V. Requiem ætérnam dona eis, Dómine: et lux perpétua lúceat eis.
* Cum Sanctis tuis in ætérnum: quia pius es.

[Splenda ad essi la luce perpetua,
* insieme ai tuoi santi, in eterno, o Signore, perché tu sei buono.
V. L’eterno riposo dona loro, Signore, e splenda ad essi la luce perpetua.
* Insieme ai tuoi santi, in eterno, Signore, perché tu sei buono].

Postcommunio

Orémus.
Præsta, quǽsumus, Dómine: ut ánimæ famulórum famularúmque tuárum, his purgátæ sacrifíciis, indulgéntiam páriter et réquiem cápiant sempitérnam.
[Fa’, Te ne preghiamo, o Signore, che le anime dei tuoi servi e delle tue serve, purificate da questo sacrificio, ottengano insieme il perdono ed il riposo eterno].

TERZA MESSA

Incipit

In nómine Patris, ✠ et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Adjutórium nostrum in nómine Dómini.
R. Qui fecit cælum et terram.
Confíteor Deo omnipoténti, beátæ Maríæ semper Vírgini, beáto Michaéli Archángelo, beáto Joánni Baptístæ, sanctis Apóstolis Petro et Paulo, ómnibus Sanctis, et vobis, fratres: quia peccávi nimis cogitatióne, verbo et ópere: mea culpa, mea culpa, mea máxima culpa. Ideo precor beátam Maríam semper Vírginem, beátum Michaélem Archángelum, beátum Joánnem Baptístam, sanctos Apóstolos Petrum et Paulum, omnes Sanctos, et vos, fratres, oráre pro me ad Dóminum, Deum nostrum.
S. Misereátur nostri omnípotens Deus, et, dimíssis peccátis nostris, perdúcat nos ad vitam ætérnam.
R. Amen.
S. Indulgéntiam, absolutiónem et remissiónem peccatórum nostrórum tríbuat nobis omnípotens et miséricors Dóminus.
R. Amen.

V. Deus, tu convérsus vivificábis nos.
R. Et plebs tua lætábitur in te.
V. Osténde nobis, Dómine, misericórdiam tuam.
R. Et salutáre tuum da nobis.
V. Dómine, exáudi oratiónem meam.
R. Et clamor meus ad te véniat.
V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.

Introitus

4 Esdr 2:34; 2:35
Réquiem ætérnam dona eis, Dómine: et lux perpétua lúceat eis.
[L’eterno riposo dona loro, Signore, e splenda ad essi la luce perpetua.]
Ps LXIV:2-3
Te decet hymnus, Deus, in Sion, et tibi reddétur votum in Jerúsalem: exáudi oratiónem meam, ad te omnis caro véniet.

[In Sion, Signore, ti si addice la lode, in Gerusalemme a te si compia il voto. Ascolta la preghiera del tuo servo, poiché giunge a te ogni vivente.]


Réquiem ætérnam dona eis, Dómine: et lux perpétua lúceat eis.

[L’eterno riposo dona loro, Signore, e splenda ad essi la luce perpetua.]

Kyrie

S. Kýrie, eléison.
M. Kýrie, eléison.
S. Kýrie, eléison.
M. Christe, eléison.
S. Christe, eléison.
M. Christe, eléison.
S. Kýrie, eléison.
M. Kýrie, eléison.
S. Kýrie, eléison.

Gloria

Glória in excélsis Deo. Et in terra pax homínibus bonæ voluntátis. Laudámus te. Benedícimus te. Adorámus te. Glorificámus te. Grátias ágimus tibi propter magnam glóriam tuam. Dómine Deus, Rex cæléstis, Deus Pater omnípotens. Dómine Fili unigénite, Jesu Christe. Dómine Deus, Agnus Dei, Fílius Patris. Qui tollis peccáta mundi, miserére nobis. Qui tollis peccáta mundi, súscipe deprecatiónem nostram. Qui sedes ad déxteram Patris, miserére nobis. Quóniam tu solus Sanctus. Tu solus Dóminus. Tu solus Altíssimus, Jesu Christe. Cum Sancto Spíritu ✠ in glória Dei Patris. Amen.

Oratio

Orémus.
Deus, véniæ largítor et humánæ salútis amátor: quǽsumus cleméntiam tuam; ut nostræ congregatiónis fratres, propínquos et benefactóres, qui ex hoc sǽculo transiérunt, beáta María semper Vírgine intercedénte cum ómnibus Sanctis tuis, ad perpétuæ beatitúdinis consórtium perveníre concédas.

[O Dio, che elargisci il perdono e vuoi la salvezza degli uomini, imploriamo la tua clemenza affinché, per l’intercessione della beata Maria sempre Vergine e di tutti i tuoi Santi, Tu conceda alle anime dei tuoi servi e delle tue serve la grazia di partecipare alla beatitudine eterna..]

Lectio

Léctio libri Apocalýpsis beáti Joánnis Apóstoli
Apoc XIV:13
In diébus illis: Audívi vocem de cœlo, dicéntem mihi: Scribe: Beáti mórtui, qui in Dómino moriúntur. Amodo jam dicit Spíritus, ut requiéscant a labóribus suis: ópera enim illórum sequúntur illos.

[In quei giorni, io intesi una voce dal cielo che mi diceva: «Scrivi: “Beati i morti che muoiono nel Signore”. Sì, fin d’ora – dice lo Spirito – essi riposano dalle loro fatiche, perché le loro opere li accompagnano».]

Graduale

4 Esdr II:34 et 35.
Réquiem ætérnam dona eis, Dómine: et lux perpétua lúceat eis.

[L’eterno riposo dona loro, o Signore, e splenda ad essi la luce perpetua.]
Ps 111:7.
V. In memória ætérna erit justus: ab auditióne mala non timébit.
[Il giusto sarà sempre nel ricordo, non teme il giudizio sfavorevole.]

Tractus.

Absólve, Dómine, ánimas ómnium fidélium ab omni vínculo delictórum.
V. Et grátia tua illis succurrénte, mereántur evádere judícium ultiónis.
V. Et lucis ætérnæ beatitúdine pérfrui.
[L ibera, Signore, le anime di tutti i fedeli defunti da ogni legame di peccato.
V. Con il soccorso della tua grazia possano evitare la condanna.
V. e godere la gioia della luce eterna.]
Sequentia [ut supra]

Evangelium

Sequéntia +︎ sancti Evangélii secúndum Joánnem
Joann VI: 51-55
In illo témpore: Dixit Jesus turbis Judæórum: Ego sum panis vivus, qui de cœlo descéndi. Si quis manducáverit ex hoc pane, vivet in ætérnum: et panis, quem ego dabo, caro mea est pro mundi vita. Litigábant ergo Judæi ad ínvicem, dicéntes: Quómodo potest hic nobis carnem suam dare ad manducándum? Dixit ergo eis Jesus: Amen, amen, dico vobis: nisi manducavéritis carnem Fílii hóminis et bibéritis ejus sánguinem, non habébitis vitam in vobis. Qui mánducat meam carnem et bibit meum sánguinem, habet vitam ætérnam: et ego resuscitábo eum in novíssimo die.

[In quel tempo: Gesù disse alla moltitudine degli Ebrei: «Io sono il pane vivente, che è disceso dal cielo; se uno mangia di questo pane vivrà in eterno; e il pane che io darò per la vita del mondo è la mia carne». I Giudei dunque discutevano tra di loro, dicendo: «Come può costui darci da mangiare la sua carne?» Perciò Gesù disse loro: «In verità, in verità vi dico che se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avete vita in voi. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha vita eterna; e io lo risusciterò nell’ultimo giorno».]

OMELIA

COMMEMORAZIONE DEI FEDELI DEFUNTI.

Venit nox, quando nemo potest operati.

Vien la notte, in cui niuno può lavorare.

(S. GIOVANNI IX, 4).

Tal’è, miei fratelli, la crudele e terribile condizione, in cui si trovano adesso i nostri padri e le nostre madri, i nostri parenti e i nostri amici, che sono usciti da questo mondo senza aver interamente soddisfatto alla giustizia di Dio. Li ha condannati a passare lunghi anni nel carcere tenebroso del purgatorio, ove la sua giustizia rigorosamente s’aggrava su loro, finché le abbiano interamente pagato il loro debito. «Oh! com’è terribile, dice San Paolo, cader nelle mani di Dio vivente! » (Hebr., X, 31) Ma perché, fratelli miei, sono oggi salito in pulpito? Che cosa vi dirò? Ah! vengo da parte di Dio medesimo; vengo da parte de’ vostri poveri parenti, per risvegliare in voi quell’amore di riconoscenza, di cui siete ad essi debitori: vengo a rimettervi sott’occhio tutti i tratti di bontà e tutto l’amore ch’ebbero per voi, quand’erano sulla terra: vengo a dirvi che bruciano tra le fiamme, che piangono, che chiedono ad alte grida il soccorso delle vostre preghiere e delle vostre opere buone. Mi par d’udirli gridare dal fondo di quel mare di fuoco che li tormenta: « Ah! dite ai nostri padri, alle nostre madri, ai nostri figliuoli e a tutti i nostri parenti, quanto sono atroci i mali che soffriamo. Noi ci gettiamo a’ loro piedi per implorare l’aiuto delle loro preghiere. Ah! dite ad essi che da quando ci separammo da loro, siamo qui a bruciar tra le fiamme! Oh ! chi potrà rimaner insensibile al pensiero di tante pene che soffriamo? » Vedete voi, miei fratelli, e udite quella tenera madre, quel buon padre, e tutti quei vostri congiunti che vi tendono le mani? « Amici miei, gridano gemendo, strappateci a questi tormenti, poiché lo potete ». Vediamo dunque, fratelli miei,

1° la grandezza de’ tormenti che soffrono le anime nel purgatorio;

2° quali mezzi abbiamo di sollevarli, cioè le nostre preghiere, le nostre opere buone, e soprattutto il santo Sacrificio della Messa.

I . — Non voglio trattenermi a dimostrarvi l’esistenza del Purgatorio: sarebbe tempo perduto. Niuno di voi ha su questo punto alcun dubbio. La Chiesa, a cui Gesù Cristo ha promesso l’assistenza del suo Santo Spirito, e che non può quindi né ingannarsi né ingannare, ce l’insegna in modo ben chiaro ed evidente. È certo e certissimo che v’è un luogo ove le anime dei giusti finiscono d’espiare i loro peccati prima d’essere ammesse alla gloria del paradiso per esse sicura. Sì, miei fratelli, ed è articolo di fede: se non abbiam fatto penitenza proporzionata alla gravezza e all’enormità de’ nostri peccati, sebben perdonati nel santo tribunale della penitenza, saremo condannati ad espiarli nelle fiamme del purgatorio. Se Dio, essenziale giustizia, non lascia senza premio un buon pensiero, un buon desiderio e la minima buona azione, neppur lascerà impunita una colpa, per quanto leggera; e noi dovremo andare a patire in Purgatorio, onde finir di purificarci, per tutto il tempo che esigerà la divina giustizia. Gran numero di passi della santa Scrittura ci mostrano che, quantunque i nostri peccati ci siano stati perdonati, pure Iddio c’impone anche l’obbligo di patire in questo mondo per mezzo di pene temporali, o nell’altro tra le fiamme del Purgatorio. Vedete che cosa accadde ad Adamo: essendosi pentito dopo il suo peccato. Dio l’assicurò che gli aveva perdonato, e tuttavia lo condannò a far penitenza per oltre 900 anni (Gen. III, 17-19); penitenza che sorpassa quanto può immaginarsi. Osservate ancora (II Re, XXIV): David, contro il beneplacito di Dio, ordina il novero de’ suoi sudditi; ma, spinto dai rimorsi della sua coscienza, riconosce il suo peccato, si getta con la faccia per terra e prega il Signore a perdonargli. E Dio, impietosito pel suo pentimento, gli perdona di fatto; ma tuttavia gli manda Gad che gli dica: « Principe, scegli uno de’ tre flagelli, che Dio ti ha apparecchiato in pena del tuo peccato: la peste, la guerra e la fame ». David risponde: «Meglio è cadere nelle mani del Signore, di cui tante volte ho sperimentato la misericordia, che in quelle degli uomini ». Scegli quindi la peste che durò tre giorni e gli tolse 70000 sudditi: e se il Signore non avesse fermato la mano dell’Angelo, già stesa sulla città, tutta Gerusalemme sarebbe rimasta Spopolata. David, vedendo tanti mali cagionati dal suo peccato, chiese in grazia a Dio che punisse lui solo, e risparmiasse il suo popolo ch’era innocente. Ohimè! miei fratelli, per quanti anni dovremo soffrire nel purgatorio noi che abbiam commesso tanti peccati: e che, col pretesto d’averli confessati non facciamo penitenza alcuna e non li piangiamo? Quanti anni di patimenti ci aspettano nell’altra vita! Ma come potrò io farvi il quadro straziante delle pene che soffrono quelle povere anime, poiché i SS. Padri ci dicono che i mali cui esse son condannate in quel carcere, sembrano pari ai dolori che Gesù Cristo ha sofferto nel tempo della sua passione? E tuttavia è certo che se il minimo dei dolori che ha patito Gesù Cristo fosse stato diviso tra tutti gli uomini, sarebbero tutti morti per la violenza del dolore. Il fuoco del Purgatorio è il fuoco medesimo dell’inferno, con la sola differenza che non è eterno. Oh! bisognerebbe che Dio. nella sua misericordia permettesse ad una di quelle povere anime, che ardono tra quelle fiamme, di comparir qui a luogo mio, circondata dal fuoco che la divora, e farvi essa il racconto delle pene che soffre. Bisognerebbe, fratelli miei, ch’essa facesse risuonar questa chiesa delle sue grida e de’ suoi singhiozzi; forse ciò riuscirebbe alfine ad intenerire i vostri cuori. « Oh! quanto soffriamo, ci gridano quelle anime; o nostri fratelli, liberateci da questi tormenti: voi lo potete! Ah! se sentiste il dolore d’essere separate da Dio! » Crudele separazione! Ardere in un fuoco acceso dalla giustizia d’un Dio! Soffrir dolori che uomo mortale non può comprendere! Esser divorato dal rammarico, sapendo che potevamo si agevolmente sfuggirli! «Oh! miei figliuoli, gridan quei padri e quelle madri, potete abbandonarci? Abbandonar noi che vi abbiam tanto amato? Potete coricarvi su un soffice letto e lasciar noi stesi sopra un letto di fuoco? Avrete il coraggio di darvi in braccio ai piaceri e alla gioia, mentre noi notte e giorno siam qui a patire ed a piangere? Possedete pure i nostri beni e le nostre case, godete il frutto delle nostre fatiche, e ci abbandonate in questo luogo di tormenti, ove da tanti anni soffriamo pene si atroci?… E non un’elemosina, non una Messa che ci aiuti a liberarci!… Potete alleviar le nostre pene, aprir la nostra prigione e ci abbandonate! Oh! son pur crudeli i nostri patimenti! » Si, miei fratelli, in mezzo alle fiamme si giudica ben altrimenti di tutte codeste colpe leggere, seppure si può chiamar leggero ciò che fa tollerare sì rigorosi dolori. « O mio Dio, esclamava il Re-profeta, guai all’uomo, anche più giusto, se lo giudicate senza misericordia! » (Ps. CXLII, 2). « Se avete trovato macchie nel sole e malizia negli Angeli, che sarà dell’uomo peccatore? » (I Piet. IV, 18). E per noi che abbiam commesso tanti peccati mortali, e non abbiamo ancor fatto quasi nulla per soddisfare alla giustizia divina, quanti anni di purgatorio!… – « Mio Dio, diceva S. Teresa, qual anima sarà tanto pura da entrare in cielo senza passare per le fiamme vendicatrici? » Nella sua ultima malattia essa ad un tratto esclamò: «O giustizia e potenza del mio Dio, siete pur terribile! » Durante la sua agonia Dio le fece vedere la sua santità, quale la vedono in cielo gli Angeli e i Santi, il che le cagionò sì vivo terrore, che le sue suore, vedendola tutta tremante e in preda ad una straordinaria agitazione, gridarono piangendo: « Ah! madre nostra, che cosa mai vi è accaduto? Temete; ancora la morte dopo tante penitenze, e lacrime sì copiose ed amare? » — « No, mie figliuole, rispose S. Teresa, non temo la morte; anzi la desidero per unirmi eternamente al mio Dio ». — « Vi spaventano dunque i vostri peccati dopo tante macerazioni? » — « Sì, mie figliuole, rispose, temo i miei peccati, ma temo più ancora qualche altra cosa ». — « Forse il giudizio? » — « Sì, rabbrividisco alla vista del conto che dovrò rendere a Dio, il quale in quel momento sarà senza misericordia; ma vi è oltre a questo una cosa il cui solo pensiero mi fa morire di spavento ». Quelle povere suore grandemente si angustiavano. « Ohimè! Sarebbe mai l’inferno? » — « No, disse la santa, l’inferno, per grazia di Dio, non è per me: Oh! sorelle mie, è la santità di Dio! Mio Dio. abbiate pietà di ine! La mia vita dev’essere confrontata con quella di Gesù Cristo medesimo! Guai a me, se ho la minima macchia, il minimo neo! Guai a me, se ho pur l’ombra del peccato! ». — « Ohimè! esclamarono quelle povere religiose, qual sarà dunque la nostra sorte?…  E di noi che sarà, fratelli miei, di noi che forse con tutte le nostre penitenze ed opere buone non abbiamo ancor soddisfatto per un solo peccato perdonatoci nel tribunale della penitenza? Ah! quanti anni e quanti secoli di tormenti per punirci!… Pagheremo pur cari tutti quei falli che riguardiamo come un nulla, come quelle bugie dette per divertimento, le piccole maldicenze, la non curanza delle grazie che Dio ci fa ad ogni momento, quelle piccole mormorazioni nelle tribolazioni ch’Egli ci manda! No, miei fratelli, non avremmo il coraggio di commettere il minimo peccato, se potessimo intendere quale offesa fa a Dio, e come merita d’esser punito rigorosamente anche in questo mondo. – Leggiamo nella santa Scrittura (III Re, XII) che il Signore disse un giorno ad uno de’ suoi profeti: « Va a mio nome da Geroboamo per rimproverargli l’orribilità della sua idolatria: ma ti proibisco di prendere alcun nutrimento né in casa sua, né per via ». Il profeta obbedì tosto, e s’espose anche a sicuro pericolo di morte. Si presentò dinanzi al re, e gli rimproverò il suo delitto, come gli aveva detto il Signore. Il re, montato in furore perché il profeta aveva avuto ardire di riprenderlo, stende la mano e comanda che sia arrestato. La mano del re rimase tosto disseccata. Geroboamo, vedendosi punito, rientrò in se stesso; e Dio, mosso dal suo pentimento, gli perdonò il suo peccato e gli restituì sana la mano. Questo benefizio mutò il cuore del re, che invitò il profeta a mangiare con lui. « No, rispose il profeta, il Signore me l’ha proibito: quando pure mi donaste metà del vostro regno, non lo farò ». Mentre tornava indietro, trovò un falso profeta, che si diceva mandato da Dio, il quale l’invitò a mangiar seco. Si lasciò ingannare da quel discorso, e prese un poco di nutrimento. Ma, uscendo dalla casa del falso profeta, incontrò un leone d’enorme grossezza, che si gettò su lui e lo sbranò. Or se chiedete allo Spirito Santo, quale sia stata la cagione di quella morte, vi risponderà che la disobbedienza del profeta gli meritò tal castigo. Vedete pure Mosè, che era sì caro a Dio: per aver dubitato un momento della sua potenza, battendo due volte una rupe per farne zampillar l’acqua, il Signore gli disse: « Aveva promesso di farti entrare nella terra promessa, ove latte e miele scorrono a rivi; ma per punirti d’aver battuto due volte la rupe, come se una sola non fosse stata bastante, andrai fino in vista di quella terra di benedizione, e morrai prima d’entrarvi » (Num. XX, 11, 12). Se Dio, miei fratelli, punì così rigorosamente peccati così leggeri, che cosa sarà d’una distrazione nella preghiera, del girare il capo in chiesa, ecc.?.. Oh! siam pur ciechi! Quanti anni e quanti secoli di Purgatorio ci prepariamo per tutte queste colpe che riguardiam come cose da nulla! … Come muteremo linguaggio, quando saremo tra quelle fiamme ove la giustizia di Dio si fa sentire così rigorosamente!… Dio è giusto, fratelli miei, giusto in tutto quello che fa. Quando ci ricompensa della minima buona azione, lo fa oltre i confini di ciò che possiamo desiderare; un buon pensiero, un buon desiderio, cioè il desiderar di fare qualche opera buona, quand’anche non si potesse fare, Ei non lascia senza ricompensa; ma anche quando si tratta di punirci, lo fa con rigore, e quando pur fossimo rei d’una sola colpa leggera, saremmo gettati nel Purgatorio. Quest’è verissimo, perché leggiamo nelle vite de’ Santi che parecchi sono giunti al cielo sol dopo esser passati per le fiamme del Purgatorio. S. Pier Damiani racconta che sua sorella stette parecchi anni nel purgatorio per avere ascoltato una canzone cattiva con qualche po’ di piacere. – Si narra che due religiosi si promisero l’un l’altro che, chi morisse pel primo, verrebbe a dire al superstite in quale stato si trovasse; infatti Dio permise al primo che morì di comparire all’amico, egli disse ch’era stato quindici giorni al purgatorio per aver amato troppo di far la propria volontà. E siccome l’amico si rallegrava con lui perché vi fosse stato sì poco : « Avrei voluto piuttosto, gli disse il defunto, esser scorticato vivo per diecimila anni continui; perché un simile tormento non avrebbe potuto ancora paragonarsi a ciò che ho patito tra quelle fiamme ». Un prete disse ad uno de’ suoi amici che Dio l’aveva condannato a più mesi di purgatorio per aver tardato ad eseguire un testamento in cui si disponeva per opere buone. Ohimè! miei fratelli, quanti tra quei che mi ascoltano debbono rimproverarsi un simile fatto! Quanti forse da otto o dieci anni ebbero da’ loro parenti od amici l’incarico di far celebrar Messe, distribuir limosine, e han trascurato tutto! Quanti, per timore di trovar l’incarico di far qualche opera buona, non si vogliono dar la briga neppur di guardare il testamento fatto a favor loro da parenti o da amici! Ohimè! quelle povere anime son prigioniere tra quelle fiamme, perché non si vogliono compiere le loro ultime volontà! Poveri padri e povere madri, vi siete sacrificati per mettere in miglior condizione i vostri figli o i vostri eredi; avete forse trascurato la vostra salute per accrescere la loro fortuna: vi siete fidati sulle opere buone, che avreste lasciate per testamento! Poveri parenti! Foste pur ciechi a dimenticare voi stessi! – Forse mi direte: « I nostri parenti son vissuti bene, erano molto buoni ». Ah! quanto poco ci vuole per cader tra quelle fiamme! Udite ciò che disse su questo proposito Alberto Magno, le cui virtù splendettero in modo straordinario: rivelò un giorno ad un amico che Dio l’aveva fatto andare al purgatorio, perché aveva avuto un lieve pensiero di compiacenza pel suo sapere. Aggiungete (cosa che desta anche maggior meraviglia) che vi son Santi canonizzati, i quali dovettero passare pel purgatorio. S. Severino, Arcivescovo di Colonia, apparve ad uno, de’ suoi amici molto tempo dopo la sua morte, e gli disse ch’era stato al Purgatorio per aver rimandato alla sera certe preghiere che doveva dire al mattino. Oh! quanti anni di purgatorio per quei Cristiani, che senza difficoltà differiscono ad altro tempo le loro preghiere, perché han lavoro pressante! Se desiderassimo sinceramente la felicità di possedere Iddio, eviteremmo le piccole colpe, come le grandi, poiché la separazione da Dio è tormento sì orribile a quelle povere anime! – I santi Padri ci dicono che il Purgatorio è un luogo vicino all’inferno; il che si capisce agevolmente, perché il peccato veniale è vicino al peccato mortale; ma credono che non tutte le anime per soddisfare alla giustizia divina sian chiuse in quel carcere, e che molte patiscano sul luogo stesso ove hanno peccato. Infatti S. Gregorio Papa ce ne dà una prova manifesta. Riferisce che un santo prete infermo andava ogni giorno, per ordine del medico, a prender bagni in un luogo appartato; e ogni giorno vi trovava un personaggio sconosciuto, che l’aiutava a scalzarsi e, fatto il bagno, gli presentava un panno per asciugarsi. Il santo prete mosso da riconoscenza, tornando un giorno da celebrare la santa Messa, presentò allo sconosciuto un pezzo di pane benedetto. « Padre mio, gli rispose egli, voi m’offrite cosa, di cui non posso far uso, quantunque mi vediate rivestito d’un corpo. Sono il Signore di questo luogo, che faccio qui il mio purgatorio». E scomparve dicendo: «Ministro del Signore, abbiate pietà di me! Oh! quanto soffro! Voi potete liberarmi; offrite, ve ne prego, per me il santo Sacrifizio della Messa, offrite le vostre preghiere e le vostre infermità. Il Signore mi libererà ». Se fossimo ben convinti di questo, potremmo sì facilmente dimenticare i nostri parenti, che ci stanno forse continuamente d’intorno? Se Dio permettesse loro di mostrarsi visibilmente, li vedremmo gettarsi a’ nostri piedi. « Ah! figli miei, direbbero quelle povere anime, abbiate pietà di noi! Deh! non ci abbandonate! ». Sì, miei fratelli, la sera andando al riposo, vedremmo i nostri padri e le madri nostre richiedere il soccorso delle nostre preghiere; li vedremmo nelle nostre case, nei nostri campi. Quelle povere anime ci seguono dappertutto; ma, ohimè! son poveri mendicanti dietro a cattivi ricchi. Han bell’esporre ad essi le loro necessità e i loro tormenti; quei cattivi ricchi sgraziatamente non se ne commuovono punto. « Amici miei, ci gridano, un Patere un Ave! una Messa! » Ecché? Saremo ingrati a segno da negare ad un padre, ad una madre una parte sì piccola dei beni che ci hanno acquistato o conservato con tanti stenti? Ditemi, se vostro padre, vostra madre o uno de’ vostri figliuoli fossero caduti nel fuoco, e vi tendessero le mani per pregarvi a liberarli, avreste coraggio di mostrarvi insensibili, e lasciarli ardere sotto i vostri occhi? Or la fede c’insegna che quelle povere anime soffrono tali pene cui nessun uomo mortale sarà mai capace di intendere Se vogliamo assicurarci il cielo, fratelli miei, abbiamo gran divozione a pregar per le anime del Purgatorio. Può ben dirsi che questa divozione è segno quasi certo di predestinazione, ed efficace motivo di salute. La santa Scrittura nella storia di Gionata ci mette sott’occhio un mirabile paragone (1 Re XIV). Saul, padre di Gionata, aveva proibito a tutti i soldati, sotto pena di morte, di prendere alcun nutrimento prima che i Filistei fossero stati interamente disfatti. Gionata, che non aveva udito quella proibizione, sfinito com’era dalla fatica, intinse in un favo di miele la punta del suo bastone e ne gustò. Saul consultò il Signore per sapere, se alcuno aveva violato la proibizione. Saputo che l’aveva violata suo figlio, comandò che mettessero le mani su Gionata, dicendo: « Mi punisca il Signore, se oggi non morrai ». Gionata. vedendosi dal padre condannato a morte, per aver violato una proibizione che non aveva udita, volse lo sguardo al popolo, e, piangendo, pareva rammentare tutti i servigi che gli aveva reso, tutta la benevolenza che aveva loro usata, il popolo si gettò subito ai piedi di Saul: « Ecché? Farai morir Gionata, che ha poc’anzi salvato Israele?Gionata che ci ha liberati dalle inani de’ nostri nemici? No, no: non cadrà dal suo capo un capello: troppo ci sta a cuore conservarlo: troppo bene ci ha fatto, e non è possibile dimenticarlo sì presto ». Ecco l’immagine sensibile di ciò che avviene all’ora della morte. Se, per nostra buona ventura, avremo pregato per le anime del purgatorio, quando compariremo d’innanzi al tribunale di Gesù Cristo per rendergli conto di tutte le nostre azioni, quelle anime si getteranno ai piedi del Salvatore dicendo: «Signore, grazia per questa anima! Grazia, misericordia per essa! Abbiate pietà, mio Dio, di quest’anima così caritatevole, che ci ha liberate dalle flamine, e h a soddisfatto per noi alla vostra giustizia! Mio Dio, mio Dio, dimenticate, ve ne preghiamo le sue colpe, com’essa vi ha fatto dimenticare le nostre! » Oh! quanto efficaci son questi motivi per ispirarvi una tenera compassione verso quelle povere anime sofferenti! Ohimè! esse ben presto sono dimenticate! Si ha pur ragione di dire che il ricordo de’ morti svanisce insieme col suono delle campane. Soffrite, povere anime, piangete in quel fuoco acceso dalla giustizia divina; ciò non giova a nulla; nessuno vi ascolta; nessuno vi porge sollievo!… Ecco dunque, fratelli miei, la ricompensa di tanta bontà e di tanta carità ch’ebbero per noi mentre ancora vivevano. No, non siamo nel numero di questi ingrati; poiché lavorando alla loro liberazione, lavoreremo alla nostra salute.

II. — Ma, direte forse, come possiamo sollevarle e condurle al cielo! Se desiderate prestar loro soccorso, fratelli miei, vi farò vedere che è cosa facile il farlo; 1° per mezzo della preghiera e dell’elemosina; 2° per mezzo delle indulgenze; 3° soprattutto col santo sacrificio della Messa.

Dico primieramente per mezzo della preghiera.

Quando facciamo una preghiera per le anime del purgatorio, cediamo loro ciò che Dio ci concederebbe se la facessimo per noi; ma ohimè! quanto poca cosa sono le nostre preghiere, poiché è pur sempre un peccatore che prega per un colpevole! Mio Dio. Deve esser pur grande la vostra misericordia! … Possiamo ogni mattina offrire tutte le azioni della nostra giornata e tutte le nostre preghiere pel sollievo di quelle povere anime sofferenti. È ben poca cosa, certamente; ma ecco: facciamo ad esse come ad una persona, che abbia le mani legate e sia carica d’ un pesante fardello, a cui si venga di tratto in tratto a togliere qualche po’ di quel peso; a poco a poco si troverà libera del tutto. L’istesso accade alle povere anime del purgatorio, quando facciamo per esse qualche cosa: una volta abbrevieremo le loro pene di un’ora, un’altra volta d’un quarto d’ora, sicché ogni giorno avviciniamo al cielo.

Diciamo in secondo luogo che possiamo liberare le anime del purgatorio con le indulgenze, le quali a gran passi le conducono verso il paradiso. Il bene che loro comunichiamo è di prezzo infinito perché applichiamo ad essi i meriti del Sangue adorabile di Gesù Cristo, delle virtù della SS. Vergine e dei Santi, i quali han fatto maggiori penitenze che non richiedessero i loro peccati. Ah! se volessimo, quanto presto avremmo vuotato il purgatorio, applicando a queste anime sofferenti tutte le indulgenze che possiamo guadagnare!… Vedete, fratelli miei, facendo la Via Crucis, si possono guadagnare quattordici indulgenze plenarie (C. d. Ind. 1742). E si fa in più modi … (Nota del Santo andata persa – nota degli edit. francesi) . Oh! siete pur colpevoli per aver lasciato tra quelle fiamme i vostri parenti, mentre potevate così bene e facilmente liberarli!

Il mezzo più efficace per affrettare la loro felicità è la santa Messa, poiché in essa non è più un peccatore che prega per un peccatore, ma un Dio eguale al Padre, che non saprà mai negargli nulla. Gesù Cristo ce ne assicura nel Vangelo; dicendo; « Padre, ti rendo grazie perché mi ascolti sempre ! » (Joan. XI, 41-42). Per meglio persuadercene, vi citerò un esempio dei più commoventi, da cui intenderete quanto grande efficacia abbia la santa Messa. È riferito nella storia ecclesiastica che, poco dopo l a morte dell’imperator Carlo (Carlo il Calvo), un sant’uomo della diocesi di Reims, per nome Bernold, essendo caduto infermo e avendo ricevuto gli ultimi Sacramenti stette quasi un giorno senza parlare, e appena appena si poteva riconoscere che ancor vivesse; finalmente aprì gli occhi, e comandò a chi lo assisteva di far venir al più presto il suo confessore. Il prete venne tosto, e trovò il malato tutto in lacrime, il quale gli disse: «Sono stato trasportato all’altro mondo, e mi son trovato in un luogo ove ho veduto il Vescovo Pardula di Laon, che pareva vestito di cenci sudici e neri, e pativa orribilmente tra le fiamme; ei m’ha parlato così: « Poiché avete la buona sorte di tornare in terra, vi prego d’aiutarmi e darmi sollievo; potete anzi liberarmi, e assicurarmi la grande felicità di vedere Iddio ». — « Ma, gli ho risposto, come potrò procurarvi tale felicità? ». — « Andate da quelli che nel corso della mia vita ho beneficato, e dite loro che in ricambio preghino per me, e Dio mi userà misericordia ». Dopo fatto ciò che mi aveva comandato l’ho riveduto bello come un sole: non pareva più che soffrisse, e, nella sua gioia mi ringraziò dicendo: « Vedete quanti beni e quante felicità mi han procurato le preghiere e la santa Messa » . Poco più in là ho veduto re Carlo, che mi parlò così: « Amico mio, quanto soffro! Va dal Vescovo Iucmaro, e digli che son nei tormenti per non aver seguito i suoi consigli; ma faccio assegnamento su lui perché m’aiuti ad uscire da questo luogo di patimenti; raccomanda pure a tutti quelli i quali ho beneficato nel corso della mia vita che preghino per me, ed offrano il santo Sacrificio della Messa, e sarò liberato » . Andai dal Vescovo che si apparecchiava a dir Messa, e che, con tutto il suo popolo, si mise a pregare con tale intenzione. Rividi poi il re, rivestito dei suoi abiti regali, e tutto splendente di gloria: « Vedi, mi disse, qual gloria m’hai procurata: ormai eccomi felice per sempre » . In quell’istante sentii la fragranza d’uno squisito profumo, che veniva dal soggiorno de’ beati. « Mi ci accostai, dice il P. Bernold, e vidi bellezze e delizie, che lingua umana non è capace di esprimere » (V. Fleury T. VII, anno 877). Ciò dimostra quanto siano efficaci le nostre preghiere e le nostre opere buone, e specialmente la S. Messa, per liberar dai loro tormenti quelle povere anime. Ma eccone un altro esempio tratto anche questo dalla storia della Chiesa: è anche più meraviglioso. Un prete, informato della morte d’un suo amico, che amava solo per Iddio, non trovò mezzo più potente per liberarlo che andar tosto ad offrire il santo Sacrificio della Messa. Lo cominciò con tutto il possibile fervore e col dolore più vivo. Dopo aver consacrato il Corpo adorabile di Gesù Cristo, lo prese tra mano, e levando al cielo le mani e gli occhi, disse: « Eterno Padre, io vi offro il Corpo e l’Anima del vostro carissimo Figliuolo. Eterno Padre! Rendetemi l’anima dell’amico mio, che soffre tra le fiamme del Purgatorio! Sì, mio Dio, io son libero d’offrirvi o no il vostro Figliuolo, voi potete accordarmi ciò che vi domando! Mio Dio facciamo il cambio; liberate l’amico mio e vi darò il vostro Figliuolo: ciò che vi offro val molto più di ciò che vi domando ». Questa preghiera fu fatta con fede sì viva, che nel punto stesso vide l’anima dell’amico uscir dal purgatorio e salire al cielo. Si narra pure che, mentre un prete diceva la S. Messa per un’anima del Purgatorio, si vide venire in forma di colomba e volare al cielo. S. Perpetua raccomanda assai vivamente di pregare le anime del purgatorio. Dio le fece vedere in visione suo fratello che ardeva tra le fiamme, e che pure era morto di soli sette anni, dopo aver sofferto per quasi tutta la vita d’un cancro che lo faceva gridar giorno e notte. Essa fece molte preghiere e molte penitenze per la sua liberazione e lo vide salire al cielo splendente come un angelo. Oh! son pur beati, fratelli miei, quelli che hanno di tali amici! A mano a mano che quelle povere anime s’avvicinano al cielo, par che soffrano anche di più. Sono come Assalonne: dopo essere stato qualche tempo in esilio torna a Gerusalemme, ma col divieto di veder suo padre che l’amava teneramente. Quando gli si annunziò che rimarrebbe vicino a suo padre, ma non potrebbe vederlo, esclamò: « Ah! vedrò dunque le finestre e i giardini di mio padre e non lui? Ditegli che voglio piuttosto morire, anziché rimaner qui, e non aver la consolazione di vederlo. Ditegli che non mi basta aver ottenuto il suo perdono. ma è ancor necessario che mi conceda la sorte felice di rivederlo » [II Re, XIV — Veramente le parole qui citate furon dette da Assalonne, non quando udì la sentenza del Re, ma due anni dopo. (Nota del Traduttore)]. Così quelle povere anime, vedendosi tanto vicine a uscire dal loro esilio, sentono accendersi così vivamente il loro amor verso Dio, e il desiderio di possederlo, che pare non possano più resistervi. « Signore, gridano esse, rimirateci con gli occhi della vostra misericordia: eccoci al fine delle nostre pene ». — « Oh! siete pur felici, gridano a noi di mezzo alle fiamme che le tormentano, voi che potete ancora sfuggire questi patimenti! … ». Mi pare anche d’udir quelle povere anime, che non han né parenti, né amici: Ah! se vi resta ancora un poco di carità, abbiate pietà di noi, che da tanti anni siamo abbandonate in queste fiamme accese dalla giustizia divina! Oh! se poteste comprendere la grandezza de’ nostri patimenti, non ci abbandonereste come fate! Mio Dio! nessuno dunque avrà pietà di noi? È certo, miei fratelli, che quelle povere anime non possono nulla per sé; possono però molto per noi. E prova di questa verità è che nessuno ha invocate le anime del purgatorio senza aver ottenuta la grazia che domandava. E ciò s’intende agevolmente: se i Santi, che sono in cielo e non han bisogno di noi, si danno pensiero della nostra salute, quanto più le anime del purgatorio che ricevono i nostri benefìci spirituali a proporzione della nostra santità. « Non ricusate, o Signore, (dicono) questa grazia a quei Cristiani che si adoperano con ogni cura a trarci da queste fiamme! » Una madre potrà forse far a meno di chiedere a Dio qualche grazia per figli, che ha tanto amato e che pregano per la sua liberazione? Un pastore, che in tutto il corso della sua vita ebbe tanto zelo per la salute de’ suoi parrocchiani, potrà non chieder per essi, anche dal purgatorio, le grazie, di cui hanno bisogno per salvarsi? Sì, miei fratelli, quando avremo da domandar qualche grazia, rivolgiamoci con fiducia a quelle anime sante e saremo sicuri d’ottenerla. Qual buona ventura per noi avere, nella divozione alle anime del purgatorio, un mezzo così eccellente per assicurarci il cielo! Vogliamo chiedere a Dio il perdono de’ nostri peccati? Rivolgiamoci a quelle anime che da tanti anni piangono tra le fiamme le colpe da loro commesse. Vogliamo domandare a Dio il dono della perseveranza? Invochiamole, fratelli miei, che esse ne sentono tutto il pregio; poiché solo quei che perseverano vedranno Iddio. Nelle nostre malattie, nei nostri dolori volgiamo le nostre preghiere verso il Purgatorio, ed otterranno il loro frutto. Che cosa concluder, miei fratelli, da tutto questo? Eccolo. È certo molto scarso il numero degli eletti, che sfuggono interamente le pene del purgatorio; e i patimenti a cui quelle anime sono condannate, son molto superiori a quanto potremo intenderne. È certo pure che sta in nostra mano quanto può dar sollievo alle anime del Purgatorio, cioè le nostre preghiere, le nostre penitenze, le nostre elemosine e soprattutto la santa Messa. Finalmente siam certi che quelle anime, così piene di carità, ci otterranno mille volte più di quello che loro daremo. Se un giorno saremo nel Purgatorio, quelle anime non lasceranno di chiedere a Dio l’istessa grazia che avremo ad esse ottenuto; poiché han pur sentito quanto si soffre in quel luogo di dolori e quanto è crudele la separazione da Dio. Nel corso di quest’ottava consacriamo qualche momento ad opera sì bene spesa. Quante anime andranno in paradiso pel merito della santa Messa e delle nostre preghiere!… Ognun di noi pensi a’ suoi parenti, e a tutte le povere anime da lunghi anni abbandonate! Sì, fratelli miei, offriamo in loro sollievo tutte le nostre azioni. Cosi piaceremo a Dio che ne desidera tanto la liberazione, e ad esse procureremo la felicità del godimento di Dio. Il che io vi desidero.

IL CREDO

Offertorium

Orémus.
Dómine Jesu Christe, Rex glóriæ, líbera ánimas ómnium fidélium defunctórum de pœnis inférni et de profúndo lacu: líbera eas de ore leónis, ne absórbeat eas tártarus, ne cadant in obscúrum: sed sígnifer sanctus Míchaël repræséntet eas in lucem sanctam:
* Quam olim Abrahæ promisísti et sémini ejus.
V. Hóstias et preces tibi, Dómine, laudis offérimus: tu súscipe pro animábus illis, quarum hódie memóriam fácimus: fac eas, Dómine, de morte transíre ad vitam.
* Quam olim Abrahæ promisísti et sémini ejus.

[Signore Gesù Cristo, Re della gloria, libera tutti i fedeli defunti dalle pene dell’inferno e dall’abisso. Salvali dalla bocca del leone; che non li afferri l’inferno e non scompaiano nel buio. L’arcangelo san Michele li conduca alla santa luce
* che tu un giorno hai promesso ad Abramo e alla sua discendenza.
V. Noi ti offriamo, Signore, sacrifici e preghiere di lode: accettali per l’anima di quelli di cui oggi facciamo memoria. Fa’ che passino, Signore, dalla morte alla vita,
* che tu un giorno hai promesso ad Abramo e alla sua discendenza.]

Secreta

Deus, cujus misericórdiæ non est númerus, súscipe propítius preces humilitátis nostræ: et animábus fratrum, propinquórum et benefactórum nostrórum, quibus tui nóminis dedísti confessiónem, per hæc sacraménta salútis nostræ, cunctórum remissiónem tríbue peccatórum.

[Dio, la cui misericordia è infinita, accogli propizio le nostre umili preghiere, e in grazia di questo sacramento della nostra salvezza, concedi la remissione di ogni peccato a tutti i fedeli defunti a cui hai accordato di dar testimonianza al tuo nome.]

Præfatio
Defunctorum

Vere dignum et justum est, æquum et salutáre, nos tibi semper et ubíque grátias ágere: Dómine sancte, Pater omnípotens, ætérne Deus: per Christum, Dóminum nostrum. In quo nobis spes beátæ resurrectiónis effúlsit, ut, quos contrístat certa moriéndi condício, eósdem consolétur futúræ immortalitátis promíssio. Tuis enim fidélibus, Dómine, vita mutátur, non tóllitur: et, dissolúta terréstris hujus incolátus domo, ætérna in cælis habitátio comparátur. Et ídeo cum Angelis et Archángelis, cum Thronis et Dominatiónibus cumque omni milítia cœléstis exércitus hymnum glóriæ tuæ cánimus, sine fine dicéntes:

[È veramente cosa buona e giusta, nostro dovere e fonte di salvezza, rendere grazie sempre e dovunque a te, Signore, Padre santo, Dio onnipotente ed eterno, per Cristo nostro Signore. In lui rifulse a noi la speranza della beata risurrezione: e se ci rattrista la certezza di dover morire, ci consoli la promessa dell’immortalità futura. Ai tuoi fedeli, o Signore, la vita non è tolta, ma trasformata: e mentre si distrugge la dimora di questo esilio terreno, viene preparata un’abitazione eterna nel cielo. E noi, uniti agli Angeli e agli Arcangeli ai Troni e alle Dominazioni e alla moltitudine dei Cori celesti, cantiamo con voce incessante l’inno della tua gloria:

Sanctus, Sanctus, Sanctus Dóminus, Deus Sábaoth. Pleni sunt cæli et terra glória tua. Hosánna in excélsis. Benedíctus, qui venit in nómine Dómini. Hosánna in excélsis.

Preparatio Communionis

Orémus: Præcéptis salutáribus móniti, et divína institutióne formáti audémus dícere:

Pater noster,

qui es in cælis. Sanctificétur nomen tuum. Advéniat regnum tuum. Fiat volúntas tua, sicut in cælo et in terra. Panem nostrum quotidiánum da nobis hódie. Et dimítte nobis débita nostra, sicut et nos dimíttimus debitóribus nostris. Et ne nos indúcas in tentatiónem:
R. Sed líbera nos a malo.
S. Amen.

Agnus Dei

Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: dona nobis pacem.

Panem cæléstem accípiam, et nomen Dómini invocábo.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

4 Esdr II:35; 34
Lux ætérna lúceat eis, Dómine:
* Cum Sanctis tuis in ætérnum: quia pius es.
V. Requiem ætérnam dona eis, Dómine: et lux perpétua lúceat eis.
* Cum Sanctis tuis in ætérnum: quia pius es.

[Splenda ad essi la luce perpetua,
* insieme ai tuoi santi, in eterno, o Signore, perché tu sei buono.
V. L’eterno riposo dona loro, Signore, e splenda ad essi la luce perpetua.
* Insieme ai tuoi santi, in eterno, Signore, perché tu sei buono.]

Postcommunio

Orémus.
Præsta, quǽsumus, omnípotens et miséricors Deus: ut ánimæ fratrum, propinquórum et benefactórum nostrórum, pro quibus hoc sacrifícium laudis tuæ obtúlimus majestáti; per hujus virtútem sacraménti a peccátis ómnibus expiátæ, lucis perpétuæ, te miseránte, recípiant beatitúdinem.

[Fa’, o Dio onnipotente e misericordioso, che le anime dei tuoi servi e delle tue serve, per le quali abbiamo offerto alla tua maestà questo sacrificio di lode, purificate da tutti i peccati per l’efficacia di questo sacramento, ricevano per tua misericordia la felicità dell’eterna luce.]

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (2)

1° NOVEMBRE (2022) FESTA DI TUTTI I SANTI

FESTA DI TUTTI I SANTI (2022)

Doppio di 1a classe con Ottava comune. – Paramenti bianchi.

Il tempio romano di Agrippa fu dedicato, sotto Augusto, a tutti i dei pagani, perciò fu detto Pantheon. Al tempo dell’imperatore Foca, tra il 608 e il 610, Bonifacio IV Papa, vi trasportò molte ossa di martiri tolte dalle catacombe. Il 13 maggio 610 egli dedicò questa nuova basilica cristiana a « S . Maria e ai Martiri ». Più tardi la festa di questa dedicazione fu solennemente celebrata e si consacrò il tempio a « Santa Maria » e a “Tutti i Santi“. E siccome esisteva in precedenza una festa per la commemorazione di tutti i Santi, celebrata in tempi diversi dalle varie chiese e poi stabilita da Gregorio IV (827-844) il 1° novembre, papa Gregorio VII traportò in questo giorno l’anniversario della dedicazione del Panteon. La festa di Ognissanti ci ricorda il trionfo che Cristo riportò sulle antiche divinità pagane. Nel Pantheon si tiene la Stazione nel venerdì nell’Ottava di Pasqua. – Santi che la Chiesa onorò nei primi tre secoli erano tutti Martiri, e il Pantheon fu dapprima ad essi destinato: per questo la Messa di oggi è tolta dalla liturgia dei Martiri. l’Introito è quello della Messa di S. Agata, più tardi usato anche per altre feste; il Vang., l’Off., e il Com., sono tratti dal Comune dei Martiri. La Chiesa oggi ci presenta la mirabile visione del Cielo, nel quale con S. Giovanni ci mostra il trionfo dei dodicimila eletti (dodici è considerato come un numero perfetto) per ogni tribù di Israele e una grande, innumerevole folla di ogni nazione, di ogni tribù, di ogni popolo e di ogni lingua prostrata dinanzi al trono ed all’Agnello, rivestiti di bianche stole e con palme fra le mani (Ep.). Intorno al Cristo, la Vergine, gli Angeli divisi in nove cori, gli Apostoli e i Profeti, i Martiri, imporporati del loro sangue, i Confessori, rivestiti di bianchi abiti e il coro delle caste Vergini formano, canta l’Inno dei Vespri, questo maestoso corteo. Esso si compone di tutti coloro che, qui, hanno distaccato i loro cuori dai beni della terra, miti, afflitti, giusti, misericordiosi, puri, pacifici, di fronte alle persecuzioni, per il nome di Gesù. « Rallegratevi dunque perché la vostra ricompensa sarà grande nei Cieli » dice Gesù (Vang., Com.). Fra questi milioni di giusti, che sono stati discepoli fedeli di Gesù sulla terra, si trovano numerosi nostri parenti, amici, comparrocchiani, che adorano il Signore, Re dei re e corona dei santi (invit. del Matt.) e ci ottengono l’implorata abbondanza delle sue misericordie (Or.). Il sacerdozio che Gesù esercita invisibilmente sui nostri altari, dove Egli si offre a Dio, si identifica con quello che Egli esercita visibilmente in Cielo. – Gli altari della terra, sui quali si trova «l’Agnello di Dio», e quello del Cielo, ov’è l’ « Agnello immolato », sono un solo altare.: perciò la Messa ci richiama continuamente alla patria celeste. Il Prefazio unisce i nostri canti alle lodi degli Angeli, e il Communicantes ci unisce strettamente alla Vergine e ai Santi.

Incipit

In nómine Patris, ☩ et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Adjutórium nostrum ✠ in nómine Dómini.
R. Qui fecit cælum et terram.

Confíteor Deo omnipoténti, beátæ Maríæ semper Vírgini, beáto Michaéli Archángelo, beáto Joánni Baptístæ, sanctis Apóstolis Petro et Paulo, ómnibus Sanctis, et vobis, fratres: quia peccávi nimis cogitatióne, verbo et ópere: mea culpa, mea culpa, mea máxima culpa. Ideo precor beátam Maríam semper Vírginem, beátum Michaélem Archángelum, beátum Joánnem Baptístam, sanctos Apóstolos Petrum et Paulum, omnes Sanctos, et vos, fratres, oráre pro me ad Dóminum, Deum nostrum.
S. Misereátur nostri omnípotens Deus, et, dimíssis peccátis nostris, perdúcat nos ad vitam ætérnam.
R. Amen.
S. Indulgéntiam, ✠ absolutiónem et remissiónem peccatórum nostrórum tríbuat nobis omnípotens et miséricors Dóminus.
R. Amen.

V. Deus, tu convérsus vivificábis nos.
R. Et plebs tua lætábitur in te.
V. Osténde nobis, Dómine, misericórdiam tuam.
R. Et salutáre tuum da nobis.
V. Dómine, exáudi oratiónem meam.
R. Et clamor meus ad te véniat.
V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.

Introitus

Gaudeámus omnes in Dómino, diem festum celebrántes sub honóre Sanctórum ómnium: de quorum sollemnitáte gaudent Angeli et colláudant Fílium Dei

[Godiamo tutti nel Signore, celebrando questa festa in onore di tutti i Santi, della cui solennità godono gli Angeli e lodano il Figlio di Dio.]

Ps XXXII:1.
Exsultáte, justi, in Dómino: rectos decet collaudátio.

[Esultate nel Signore, o giusti: ai retti si addice il lodarLo.]

Gaudeámus omnes in Dómino, diem festum celebrántes sub honóre Sanctórum ómnium: de quorum sollemnitáte gaudent Angeli et colláudant Fílium Dei

 [Godiamo tutti nel Signore, celebrando questa festa in onore di tutti i Santi, della cui solennità godono gli Angeli e lodano il Figlio di Dio.]

Kyrie

S. Kýrie, eléison.
M. Kýrie, eléison.
S. Kýrie, eléison.
M. Christe, eléison.
S. Christe, eléison.
M. Christe, eléison.
S. Kýrie, eléison.
M. Kýrie, eléison.
S. Kýrie, eléison.

Gloria

Glória in excélsis Deo. Et in terra pax homínibus bonæ voluntátis. Laudámus te. Benedícimus te. Adorámus te. Glorificámus te. Grátias ágimus tibi propter magnam glóriam tuam. Dómine Deus, Rex cæléstis, Deus Pater omnípotens. Dómine Fili unigénite, Jesu Christe. Dómine Deus, Agnus Dei, Fílius Patris. Qui tollis peccáta mundi, miserére nobis. Qui tollis peccáta mundi, súscipe deprecatiónem nostram. Qui sedes ad déxteram Patris, miserére nobis. Quóniam tu solus Sanctus. Tu solus Dóminus. Tu solus Altíssimus, Jesu Christe. Cum Sancto Spíritu ✠ in glória Dei Patris. Amen.

Oratio

Orémus.
Omnípotens sempitérne Deus, qui nos ómnium Sanctórum tuórum mérita sub una tribuísti celebritáte venerári: quǽsumus; ut desiderátam nobis tuæ propitiatiónis abundántiam, multiplicátis intercessóribus, largiáris.
 

[O Dio onnipotente ed eterno, che ci hai concesso di celebrare con unica solennità i meriti di tutti i tuoi Santi, Ti preghiamo di elargirci la bramata abbondanza della tua propiziazione, in grazia di tanti intercessori.]

Lectio

Léctio libri Apocalýpsis beáti Joánnis Apóstoli.
Apoc VII:2-12
In diébus illis: Ecce, ego Joánnes vidi álterum Angelum ascendéntem ab ortu solis, habéntem signum Dei vivi: et clamávit voce magna quátuor Angelis, quibus datum est nocére terræ et mari, dicens: Nolíte nocére terræ et mari neque arbóribus, quoadúsque signémus servos Dei nostri in fróntibus eórum. Et audívi númerum signatórum, centum quadragínta quátuor mília signáti, ex omni tribu filiórum Israël, Ex tribu Juda duódecim mília signáti. Ex tribu Ruben duódecim mília signáti. Ex tribu Gad duódecim mília signati. Ex tribu Aser duódecim mília signáti. Ex tribu Néphthali duódecim mília signáti. Ex tribu Manásse duódecim mília signáti. Ex tribu Símeon duódecim mília signáti. Ex tribu Levi duódecim mília signáti. Ex tribu Issachar duódecim mília signati. Ex tribu Zábulon duódecim mília signáti. Ex tribu Joseph duódecim mília signati. Ex tribu Bénjamin duódecim mília signáti. Post hæc vidi turbam magnam, quam dinumeráre nemo póterat, ex ómnibus géntibus et tríbubus et pópulis et linguis: stantes ante thronum et in conspéctu Agni, amícti stolis albis, et palmæ in mánibus eórum: et clamábant voce magna, dicéntes: Salus Deo nostro, qui sedet super thronum, et Agno. Et omnes Angeli stabant in circúitu throni et seniórum et quátuor animálium: et cecidérunt in conspéctu throni in fácies suas et adoravérunt Deum, dicéntes: Amen. Benedíctio et cláritas et sapiéntia et gratiárum áctio, honor et virtus et fortitúdo Deo nostro in sǽcula sæculórum. Amen. – 

[In quei giorni: Ecco che io, Giovanni, vidi un altro Angelo salire dall’Oriente, recante il sigillo del Dio vivente: egli gridò ad alta voce ai quattro Angeli, cui era affidato l’incarico di nuocere alla terra e al mare, dicendo: Non nuocete alla terra e al mare, e alle piante, sino a che abbiamo segnato sulla fronte i servi del nostro Dio. Ed intesi che il numero dei segnati era di centoquarantaquattromila, appartenenti a tutte le tribú di Israele: della tribú di Giuda dodicimila segnati, della tribú di Ruben dodicimila segnati, della tribú di Gad dodicimila segnati, della tribú di Aser dodicimila segnati, della tribú di Nèftali dodicimila segnati, della tribú di Manasse dodicimila segnati, della tribú di Simeone dodicimila segnati, della tribú di Levi dodicimila segnati, della tribú di Issacar dodicimila segnati, della tribú di Zàbulon dodicimila segnati, della tribú di Giuseppe dodicimila segnati, della tribú di Beniamino dodicimila segnati. Dopo di questo vidi una grande moltitudine, che nessuno poteva contare, uomini di tutte le genti e tribú e popoli e lingue, che stavano davanti al trono e al cospetto dell’Agnello, vestiti con abiti bianchi e con nelle mani delle palme, che gridavano al alta voce: Salute al nostro Dio, che siede sul trono, e all’Agnello. E tutti gli Angeli che stavano intorno al trono e agli anziani e ai quattro animali, si prostrarono bocconi innanzi al trono ed adorarono Dio, dicendo: Amen. Benedizione e gloria e sapienza e rendimento di grazie, e onore e potenza e fortezza al nostro Dio per tutti i secoli dei secoli.]

Graduale

Ps XXXIII:10; 11
Timéte Dóminum, omnes Sancti ejus: quóniam nihil deest timéntibus eum.
V. Inquiréntes autem Dóminum, non defícient omni bono.

[Temete il Signore, o voi tutti suoi santi: perché nulla manca a quelli che lo temono.
V. Quelli che cercano il Signore non saranno privi di alcun bene.]

Alleluja

(Matt. XI:28)
Allelúja, allelúja – Veníte ad me, omnes, qui laborátis et oneráti estis: et ego refíciam vos. Allelúja.

[Venite a me voi tutti che siete affaticati e oppressi: e io vi ristorerò. Allelúia.]

Evangelium

Sequéntia ✠ sancti Evangélii secúndum Matthǽum.
Matt V: 1-12
“In illo témpore: Videns Jesus turbas, ascéndit in montem, et cum sedísset, accessérunt ad eum discípuli ejus, et apériens os suum, docébat eos, dicens: Beáti páuperes spíritu: quóniam ipsórum est regnum cœlórum. Beáti mites: quóniam ipsi possidébunt terram. Beáti, qui lugent: quóniam ipsi consolabúntur. Beáti, qui esúriunt et sítiunt justítiam: quóniam ipsi saturabúntur. Beáti misericórdes: quóniam ipsi misericórdiam consequéntur. Beáti mundo corde: quóniam ipsi Deum vidébunt. Beáti pacífici: quóniam fílii Dei vocabúntur. Beáti, qui persecutiónem patiúntur propter justítiam: quóniam ipsórum est regnum cælórum. Beáti estis, cum maledíxerint vobis, et persecúti vos fúerint, et díxerint omne malum advérsum vos, mentiéntes, propter me: gaudéte et exsultáte, quóniam merces vestra copiósa est in cœlis.”

[In quel tempo: Gesù, vedendo le turbe, salì sul monte, e postosi a sedere, gli si accostarono i suoi discepoli, ed Egli, aperta la bocca, li ammaestrava dicendo: « Beati i poveri di spirito, perché loro è il regno de’ cieli. Beati i mansueti, perché essi possederanno la terra. Beati coloro, che piangono, perché essi saranno consolati. Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati. Beati i misericordiosi, perché  anch’essi troveranno misericordia. Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio. Beati i pacifici, perché saranno chiamati figli di Dio. Beati quelli che sono perseguitati per cagione della giustizia, perché di loro è il regno dei cieli. Beati voi quando vi avranno vituperati e perseguitati e, mentendo, avranno detto ogni male di voi, per cagione mia. Rallegratevi e giubilate, perché grande è la mercede vostra in cielo ».]

Omelia

[Giov. Colombo: Pensieri sui Vangeli e sulle Feste del Signore e dei Santi – Soc. Edit. Vita e Pensiero, Milano, VI ed. 1956]

CHI SONO I SANTI

Prima ancora della venuta del Salvatore Gesù, un famoso architetto di nome Marco Agrippa, aveva innalzato in Roma un tempio magnifico detto Pantheon, cioè consacrato a tutti gli dei, a quelli noti e a quelli ignoti. Quando Roma fu convertita al Cristianesimo, quel tempio non fu distrutto: se i pagani avevano i loro dei bugiardi, non avevamo noi i nostri santi da onorare? Perciò dal Papa Bonifacio IV fu consacrato al culto dei Martiri che in ogni parte della terra avevano offerto il sangue e la vita a Dio. Dal culto di tutti i Martiri al culto di tutti i Santi fu breve il passo. Ed è chiara la ragione. Di quanti Santi noi non conosciamo né la storia, né il nome! Dio solo ha visto e compreso la loro anima, le loro virtù, le preghiere, le sofferenze lunghe, le penitenze aspre… E poi, anche di tutti quelli che conosciamo, non ci è possibile celebrare una festa particolare durante l’anno. Eppure non è giusto che molti di questi eroici Cristiani siano dimenticati, e non è bene perdere la protezione loro potente. Per tutte queste ragioni la santa Chiesa ha stabilito una festa per onorarli e invocarli insieme. Permettetemi ancora due altre chiarificazioni: 1. Quando veneriamo i Santi, noi non siamo idolatri, perché ogni onore dato a questi, termina sempre a Dio, a cui soltanto si deve l’onore, la gloria, l’adorazione. Se voi ammirate e lodate un quadro di valore, forse che il pittore si offenderà? Ebbene, i Santi sono le opere artistiche di Dio, il quale ha scolpito e dipinto il suo volto nella loro anima. Se voi ammirate e lodate i figlioli, forse che il padre si offenderà? ebbene i Santi sono i figli prediletti del Signore, quelli che più gli assomigliano. 2. I Santi poi si devono onorare santamente, e non come il mondo festeggia i suoi amici. Ci sono di quelli che amano la festa perché sono esercenti e sperano guadagno; amano la festa perchè potranno darsi all’allegria, al piacere della gola, allo sfoggio d’un bel vestito. « Che maniera è questa? — esclama sdegnato S. Gerolamo. — Con la sovrabbondanza del bere e del mangiare volete onorare chi ha vissuto nella solitudine e nella modestia angelica? Voi amate la festa del Santo, ma non il Santo » (S. Hier., 44 Eust.). – Ci sono poi degli altri che amano il Santo, ma non la sua santità. Ne troverete moltissimi in giro all’altare di S. Antonio, di S. Espedito, di S. Teresa; moltissimi che portano lumi e fiori agli altari; ma sono pochi quelli che si mettono dietro gli esempi che i Santi ci hanno lasciato. Eppure non v’è devozione più efficace dell’imitazione. « È falsa pietà onorare i Santi, e trascurare di seguirli nella santità » (S. Eusebio, in homilia, in homilia). E allora? allora noi dobbiamo sforzarci di raggiungere la vera devozione dei Santi, quella che è fatta di umiliazione e di preghiera, poiché i Santi sono un grande esempio ed un grande aiuto per noi. – 1. I SANTI SONO UN GRANDE ESEMPIO. Erano tristissimi giorni per il popolo israelitico. Gerusalemme posseduta dallo straniero; il tempio invaso, derubato, profanato; la gioventù uccisa o prigioniera; e per ogni villaggio s’udivano le feroci canzoni dei soldati d’Antioco, sempre bramosi di predare e di massacrare. Matatia, il vecchio genitore dei Maccabei, s’era nascosto nel deserto, ove, un po’ per l’età e molto per l’angoscia, s’ammalò da morire. Ma prima di chiudere la sua bocca nel silenzio eterno, si chiamò vicino i suoi cinque figli e disse: « Creature mie! vi tocca vivere in un mondo perverso, in un tempo di peccato e di scandalo: la nazione nostra è distrutta. Ricordate la rassegnazione di Giuseppe, venduto da’ suoi fratelli crudeli e pure tanto timoroso della legge di Dio che fuggì dall’impura donna di Putifarre, e fu promessa. Ricordate Davide, quanto fu pio, quanto fu saggio! e Dio gli diede un trono nei secoli. Ricordate Daniele che per la sua rettitudine fu messo nella fossa dei leoni, e quei tre giovanetti che preferirono farsi gettare nel forno acceso piuttosto che trasgredire la legge… ». Così di generazione in generazione, il vegliardo morente rievocava ai figli le gesta dei santi dell’Antico Testamento. E quand’ebbe finito, alzò le mani a benedire: ma già le sue labbra non si agitavano più: era spirato (I Macc., II). A me pare che, come il vecchio Matatia, anche la Chiesa raduni oggi i suoi figliuoli e additi gli esempi dei Santi. Noi viviamo in tempi di peccato e in un mondo maligno, ma prima di noi ci vissero i Santi che ora sono in paradiso. Ricordiamo i loro esempi, per imitarli e farci ancora noi Santi. « Ma io non ho tempo — si dice da alcuni — per pensare alla santificazione dell’anima, e a tante devozioni: sono troppo occupato negli affari ». E credete voi che S. Teresa di Gesù, S. Caterina da Genova, S. Filippo Neri non avessero occupazioni materiali? Ah, se deste all’anima vostra tutto il tempo che date al divertimento, alle vanità, alle conversazioni mondane e frivole, quanto grande sarebbe la vostra santificazione! Dite di non aver tempo: ma voi avete tutta la vita, perché Dio vi ha creati solo per questo. « Ma io ho famiglia, io vivo in un ambiente corrotto, io mi trovo in mezzo a scandali ». Non crediate che solo i frati o le suore possano diventare santi: ci fu S. Luigi, re di Francia; e una S. Pulcheria che viveva nella corruzione della corte di Costantinopoli; e un S. Isidoro contadino; e una S. Zita serva in famiglie private. In ogni ambiente si può salvare l’anima. « Ma io ho un temperamento focoso, superbo, sensuale… non posso resistere alle tentazioni ». Anche i Santi ebbero una carne e un sangue come il vostro; anch’essi provarono tutte le vostre tentazioni; eppure riuscirono, se quelli riuscirono, e perché non noi? Non crediate che a S. Agostino sia stato facile vivere in purità, non crediate che a S. Carlo sia costato poco vivere in umiltà, non crediate che a S. Francesco di Sales sia stato naturale vivere in soavità: studiate la loro vita, e conoscerete che furiose lotte sostennero contro le passioni! Eppure vinsero. Soltanto noi non vinceremo? – 2. I SANTI SONO UN GRANDE AIUTO. Quando la carestia affamò la terra di Canaan un vecchio e i suoi figli vennero in Egitto, e si presentarono al Faraone per avere da mangiare. Ma in Egitto, nello stesso palazzo del Faraone v’era Giuseppe. « È mio padre! Sono i miei fratelli! » disse Giuseppe presentandoli al Sovrano. E quelli ebbero da mangiare, da vivere beatamente e terre da coltivare: ebbero quello che chiedevano e molto di più. Anche noi abbiamo nella regione d’ogni abbondanza, nella magione stessa del gran sovrano Iddio, i nostri ricchi fratelli: i Santi. Ogni volta che per carestia spirituale o materiale ci rivolgiamo al cielo, essi si volgono a Dio per dirgli: « Ascoltali! Esaudiscili, perché sono i nostri fratelli minori ». Potrà il Signore non ascoltare la preghiera de’ suoi intimi amici? I Santi nel cielo non diventano egoisti che si godono la meritata felicità, essi si ricordano ancora di noi poveri mortali. Essi che soffrirono un tempo quello che oggi soffriamo noi, sanno capirci e ci seguono con ansietà per ogni peripezia del viaggio terreno e supplicano, con vive istanze Colui che comanda ai venti e al mare di proteggere la nostra barchetta dalla burrasca delle passioni. Essi che già esperimentano la infinita gioia del paradiso, tremano che noi abbiamo a perderla e supplicano perché ci si conduca nel beato porto. I Santi in cielo e i Cristiani in terra sono una famiglia unica; e come in una famiglia il fratello buono intercede presso il padre adirato per la disubbidienza dei figli discoli, così i Santi placano Iddio quando vuole castigarci per i peccati. Non avete letto nella Storia Sacra che il Signore aveva una volta deciso di sterminare la gente di Israele, perché s’era ribellata a’ suoi comandamenti? Ma in mezzo al popolo maledetto stavano due anime sante: Mosè ed Aronne. « Allontanatevi voi! — diceva nel suo furore Iddio. — Perché io voglio sterminare tutti in un momento ». Quelli invece non si ritirarono, e Dio per la loro intercessione s’accontentò di punire soltanto i tre più colpevoli (Num., XVI, 20 ss.). Come Mosè, come Aronne, i Santi si mettono tra l’ira di Dio e noi. Chi può dire quanti fulmini hanno sviato dal nostro capo? Perché non siamo morti dopo il primo peccato mortale? Perché il Signore ci lascia ancora tempo a penitenza? Oh se potessimo vedere quello che avviene in paradiso!… Se i Santi sono così potenti per chiedere ed intercedere, è tutto nostro interesse pregarli frequentemente, fervorosamente. Però non facciamo come molti Cristiani i quali ricorrono ai Santi solo per gli interessi materiali: sarebbe un grave torto verso di loro che tanto disprezzo hanno avuto per le cose mondane. Tante preghiere per la salute del corpo, e per quella dell’anima? Tanti lumi e tanti fiori per un affare di danaro o di roba, e per gli affari della gloria di Dio e della conversione dei peccatori? Chiediamo prima il regno di Dio, che il resto non ci mancherà. Il Signore ha promesso che dove sono in due o più a pregare nel suo nome, Egli è in mezzo a loro e li esaudisce: ebbene, in paradiso, non uno o due appena, ma sono migliaia e migliaia, e santi, che pregano per noi. La loro preghiera quindi è il nostro più grande aiuto. – S. Giovanni l’Evangelista, rapito in visione, vide aperta innanzi a sé una gran porta, per la quale entrava in cielo una sterminata moltitudine; d’ogni età, d’ogni sesso, d’ogni tempo, d’ogni condizione di vita. Questa rivelazione è consolante. Se il numero degli eletti è interminabile così che neppure S. Giovanni è riuscito a contarli, vuol dire che non è poi tanto difficile salvarsi, vuol dire che anche noi possiamo riuscire a passare per quella porta che è Cristo, ed entrare in compagnia dei Santi. V’è però una condizione essenziale. Quelli che giungono a salvamento, recano tutti in fronte un suggello che è come il carattere di somiglianza e di appartenenza all’Eterno Padre e al suo Figlio Unigenito. Questo suggello, — secondo il profeta Ezechiele, — ha la forma d’un T. cioè d’una croce, e vien impresso sulla fronte di coloro che piangono e gemono. Signa Thau super frontem vivorum gementium et flentium (Ezech., IX, 4). Che vuol dir ciò? vuol dire che per essere partecipi della gloria e del gaudio dei Santi, bisogna prima aver partecipato alle loro penitenze e sofferenze.

IL CREDO

Offertorium

Orémus
Sap III:1; 2; 3
Justórum ánimæ in manu Dei sunt, et non tanget illos torméntum malítiæ: visi sunt óculis insipiéntium mori: illi autem sunt in pace, allelúja.

[I giusti sono nelle mani di Dio e nessuna pena li tocca: parvero morire agli occhi degli stolti, ma invece essi sono nella pace.]

Secreta

Múnera tibi, Dómine, nostræ devotiónis offérimus: quæ et pro cunctórum tibi grata sint honóre Justórum, et nobis salutária, te miseránte, reddántur.

[Ti offriamo, o Signore, i doni della nostra devozione: Ti siano graditi in onore di tutti i Santi e tornino a noi salutari per tua misericordia.]

Præfatio

V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.
V. Sursum corda.
R. Habémus ad Dóminum.
V. Grátias agámus Dómino, Deo nostro.
R. Dignum et justum est.

Communis
Vere dignum et justum est, æquum et salutáre, nos tibi semper et ubíque grátias ágere: Dómine sancte, Pater omnípotens, ætérne Deus: per Christum, Dóminum nostrum. Per quem majestátem tuam laudant Angeli, adórant Dominatiónes, tremunt Potestátes. Cæli cælorúmque Virtútes ac beáta Séraphim sócia exsultatióne concélebrant. Cum quibus et nostras voces ut admítti jubeas, deprecámur, súpplici confessione dicéntes:
[È veramente cosa buona e giusta, nostro dovere e fonte di salvezza, rendere grazie sempre e dovunque a te, Signore, Padre santo, Dio onnipotente ed eterno, per Cristo nostro Signore. Per mezzo di lui gli Angeli:, lodano la tua gloria, le Dominazioni ti adorano, le Potenze ti venerano con tremore. A te inneggiano i Cieli, gli Spiriti celesti e i Serafini, uniti in eterna esultanza. Al loro canto concedi, o Signore, che si uniscano le nostre umili voci nell’inno di lode:]

Sanctus, Sanctus, Sanctus Dóminus, Deus Sábaoth. Pleni sunt cæli et terra glória tua. Hosánna in excélsis. Benedíctus, qui venit in nómine Dómini. Hosánna in excélsis.

Preparatio Communionis

Orémus: Præcéptis salutáribus móniti, et divína institutióne formáti audémus dícere:

Pater noster,

qui es in cælis. Sanctificétur nomen tuum. Advéniat regnum tuum. Fiat volúntas tua, sicut in cælo et in terra. Panem nostrum quotidiánum da nobis hódie. Et dimítte nobis débita nostra, sicut et nos dimíttimus debitóribus nostris. Et ne nos indúcas in tentatiónem:
R. Sed líbera nos a malo.
S. Amen.

Agnus Dei

Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: dona nobis pacem.

Panem cæléstem accípiam, et nomen Dómini invocábo.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

Matt V: 8-10
Beáti mundo corde, quóniam ipsi Deum vidébunt; beáti pacífici, quóniam filii Dei vocabúntur: beáti, qui persecutiónem patiúntur propter justítiam, quóniam ipsórum est regnum cœlórum.

[Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio: beati i pacifici, perché saranno chiamati figli di Dio: beati i perseguitati per amore della giustizia, perché di essi è il regno dei cieli.]

Postcommunio

Orémus.
Da, quǽsumus, Dómine, fidélibus pópulis ómnium Sanctórum semper veneratióne lætári: et eórum perpétua supplicatióne muníri.

[Concedi ai tuoi popoli, Te ne preghiamo, o Signore, di allietarsi sempre nel culto di tutti Santi: e di essere muniti della loro incessante intercessione.]

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (2)

ORDINARIO DELLA MESSA