UN’ENCICLICA AL GIORNO TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI DI TORNO: S. S. BENEDETTO XIV – “ALLATÆ SUNT” (2)

Benedto XIV
Allatæ sunt (2)

28. Nella Liturgia Latina e Greca si recita il Simbolo; la sua recitazione nella Messa, stabilita prima nella Chiesa Orientale, venne poi trasferita in quella Occidentale, come risulta dal terzo Concilio di Toledo del 589, che letteralmente dice: “In tutte le Chiese della Spagna o della Galizia, secondo la norma delle Chiese Orientali, del Concilio di Costantinopoli, cioè di centocinquanta Vescovi, si reciti il Simbolo della Fede, in modo che prima di dire l’Orazione Domenicale, sia recitato a chiara voce dal popolo” (can 2, tomo 5, p. 1009 della Collezione di Filippo Labbe). Per cui, dal momento che i Padri del Concilio di Toledo, stabilendo l’ordine di recitare il Simbolo nella Messa, si sono riferiti al Rito Orientale, è lecito riconoscere che questa disciplina, istituita per prima in Oriente, si era poi diffusa in Occidente: come dicono il Cardinale Bona nel Rerum Lyturgicarum (libro 2, cap. 8, n. 2) e il Giorgio nel De Lyturgia Romani Pontificis (tomo 2, cap. 20, n. 2, p. 176). Ma, continuando l’argomento, Amalario (nel libro De Divinis Officiis, cap. 14), dopo che, fondandosi sull’autorità di San Paolino nella Lettera a Severo, riferì che nella Chiesa di Gerusalemme solo al Venerdì Santo vigeva la consuetudine di esporre al popolo, da adorare, la Croce dalla quale pendette Cristo, attribuisce a questa abitudine greca l’adorazione della Croce, che nell’Ufficio del Venerdì Santo si fa tutt’oggi in ogni Chiesa Latina. Il Trisagio Sanctus Deus, Sanctus Fortis, Sanctus Immortalis, miserere nobis è una pia e frequentissima preghiera nella Liturgia greca, come giustamente annota Goario nelle postille all’Eucologio nella Messa di San Giovanni Crisostomo (p. 109). L’origine di questa invocazione si trae dal miracolo che a metà del secolo quinto accadde nella città di Costantinopoli. Mentre l’imperatore Teodosio, il patriarca Proclo e tutto il popolo pregavano Dio all’aperto, per essere liberati dalla prossima sciagura che li sovrastava a causa del violento terremoto, si vide un fanciullo che all’improvviso fu rapito in cielo; egli, poi, rimandato a terra riferì di aver udito gli Angeli cantare il suddetto Trisagio: per cui – poiché tutto il popolo per ordine del Patriarca Proclo cantava devotamente detto Trisagio – la terra si calmò dal terribile terremoto da cui era scossa, come narra Niceforo nel libro 14, cap. 46 e correttamente prosegue il Sommo Pontefice Felice III nella terza Epistola a Pietro Fullone, che si ha nella Collezione del Labbe, tomo 4. Lo stesso Trisagio al Venerdì Santo si canta nella Chiesa Occidentale in Greco e in Latino come puntualmente avverte il Cardinale Bona, Rerum Lyturgicarum (libro 2, cap. 10, n. 5). La benedizione dell’acqua alla vigilia dell’Epifania deriva dal Rito della Chiesa Greca, come diffusamente dimostra Goario nell’Eucologio, ovvero Rituale Greco; ora si fa questa funzione nello stesso giorno anche nella Chiesa Greca di Roma, come è ricordato nella nostra citata Costituzione 57 (paragrafo 5, n. 13), e contemporaneamente si concede che i fedeli siano aspersi della stessa acqua benedetta. Sul passaggio di questo Rito dalla Chiesa Orientale ad alcune Chiese Occidentali si può vedere quello che raccolse l’erudito Martene nel De antiqua Ecclesiae disciplina in Divinis celebrandis Officiis (tomo 4, cap. 4, n. 2) e ciò che si asserisce nella dissertazione di Padre Sebastiano Paolo della Congregazione della Madre di Dio, stampata a Napoli nel 1719 e il cui titolo è De ritu Ecclesiae Neritinae exorcizandi aquam in Epiphania, dove, fra l’altro (parte 3, p. 177 e ss.) opportunamente avverte i Vescovi, nelle cui diocesi da gran tempo si introdussero Riti derivanti dalla Chiesa Greca, che non si diano troppo da fare per eliminarli, affinché il popolo non si agiti e perché non sembrino disapprovare il modo d’agire della Sede Apostolica la quale, com’è stata al corrente di quei Riti, permise tuttavia di conservarli e di frequentarli. Egli cita anche a p. 203 la lettera del Cardinale Santoro del titolo di Santa Severina, del 1580, scritta a Fornario, Vescovo di Neritino, su questo stesso argomento e sulla benedizione dell’acqua per l’Epifania, che si fa in quella Diocesi. Del pari è Greco il Rito di spogliare e lavare l’altare il Giovedì Santo. Di questo Rito si può trovare traccia nel secolo quinto; di esso parla San Saba nel suo Typico, ossia dell’ordine di recitare l’Ufficio Ecclesiastico per tutto l’anno. Egli, secondo la testimonianza di Leone Allazio, De libris Ecclesiae Graecae dissertatio (I, p. 9), morì nel 451. Se si potesse affermare che l’Ordine Romano edito da Ittorpio fu composto per disposizione del Pontefice San Gelasio, il Rito di lavare gli altari il Giovedì Santo sarebbe quasi coevo nella Chiesa Latina alla consuetudine dei Greci, dacché il Papa San Gelasio morì nel 496. Ma essendo incerto se l’Ordine Romano pubblicato da Ittorpio sia eminente per così grande antichità e poiché, dopo di lui, lo spagnolo Sant’Isidoro fu il primo tra i Latini che parlò di questo Rito, e lo stesso Sant’Isidoro morì nel 636, è lecito che questo Rito dell’Oriente sia venuto in Occidente. Fino ai nostri tempi esso è osservato in alcune Chiese Latine, con l’approvazione dei Romani Pontefici, e nella Basilica Vaticana ogni anno si compie con grande solennità. Il Suarez, Vescovo di Vasione e Vicario della stessa Basilica, e Giovanni Crisostomo Battello, Arcivescovo di Amaseno, che era elencato tra i beneficiati minori di quella Basilica, pubblicarono due sofisticatissime dissertazioni, nelle quali illustrarono il Rito predetto. Stando così le cose, dagli esempi e dai fatti si evince chiaramente ciò che poco prima abbiamo detto, cioè che la Sede Apostolica non tralasciò, tutte le volte che lo trovò conforme a ragione, o di estendere a tutta la Chiesa Latina Riti che appartenevano alla Chiesa Greca, o di permettere che alcuni Riti importanti, che derivarono dalla Chiesa Greca, in alcune Chiese Latine fossero osservati.

29. Già poco prima parlammo del Trisagio, del modo meraviglioso con cui il suo canto fu introdotto nelle Sacre Liturgie della Chiesa Greca. Avendo tuttavia Pietro Fullo soprannominato Gnafeo, fautore dell’eresia degli Apollinaristi che si chiamano Teopasciti, osato aggiungere al Trisagio queste parole “Che fu crocifisso per noi“, come ampiamente ricorda Teodoro Lettore nelle Collectanearum, libro I, ed avendo alcune Chiese Orientali, soprattutto Siriache e Armene, per opera di certo Giacomo Siro, secondo la testimonianza di Niceforo (libro 18, cap. 52), accolto questa aggiunta; i Romani Pontefici, con quella vigile cura e sollecitudine che in casi simili furono soliti avere, non tralasciarono di opporsi al nascente errore e di interdire l’aggiunta fatta al Trisagio, respingendo l’interpretazione per la quale, riferendosi il Trisagio alla sola persona del Figlio, non alle tre Divine persone, si provvedeva a che fosse eliminato qualsiasi sospetto di eresia, sia perché restava sempre il pericolo di aderire al dogma eretico, sia perché la presunzione della mente umana non poteva riferire al solo Cristo l’inno cantato dagli Angeli in onore della Santissima Trinità. Il Lupo giustamente – dopo che aveva riferito che da Felice III e dal Concilio Romano era stata condannata l’aggiunta fatta al Trisagio – così dice: “L’inno cantato dagli Angeli sempre Santi alla sola Divina Trinità, affidato alla Chiesa da Dio stesso e dagli stessi Santi Angeli attraverso il sullodato fanciullo, confermato dall’allontanamento delle sciagure incombenti sulla Regia Città e inteso nel medesimo senso e ragione da tutto il Sinodo Calcedonese (parla sia dei Vescovi adunati nel predetto Concilio, sia degli altri contrari all’aggiunta fatta al Trisagio), tutto ciò attesta costantemente che per umana presunzione non poteva riferirsi al solo Cristo” (Concilio Trullano, note al can. 81). San Gregorio VII, con lo stesso zelo religioso, riprovò quell’aggiunta nella sua prima lettera del libro 8 scritta all’Arcivescovo, ossia al Patriarca degli Armeni. Lo stesso sostenne Gregorio XIII in alcune sue lettere scritte in forma di Breve al Patriarca dei Maroniti il 14 febbraio 1577. Il 30 gennaio 1635, essendo poi stata sottoposta all’esame della Congregazione di Propaganda Fide la Liturgia degli Armeni, ed essendo stato, fra l’altro, oggetto di più accurata discussione se l’aggiunta fatta al Trisagio poteva essere tollerata, per il motivo che sembrava potesse essere riferita alla sola persona del Figlio, fu risposto che ciò non si doveva permettere e che l’aggiunta doveva essere assolutamente eliminata. Il Sommo Pontefice Gelasio, nella sua lettera nona ai Vescovi della Lucania, cap. 26, riprovò la cattiva consuetudine, già entrata, secondo la quale le donne servivano la Messa al Sacerdote celebrante; ed essendo passato lo stesso abuso ai Greci, Innocenzo IV nella lettera che scrisse al Vescovo di Tuscolo lo condannò severamente: “Le donne non osino servire all’altare, ma siano inesorabilmente allontanate da questo ministero“. Con le stesse parole viene proibito da Noi nella nostra Costituzione citata più volte Etsi Pastoralis (§ 6, n. 21, tomo 1 del nostro Bollario). Il Giovedì Santo, a venerare il ricordo dell’Ultima Cena, si fa una funzione sacra nella quale si consacra il pane che si conserva per un anno intero perché con esso vengano ristorati i candidati alla morte, che chiedono per sé la Sacra Comunione in forma di Viatico, e talora al pane consacrato si aggiunge una piccola parte di vino consacrato. Siffatto Rito è descritto da Leone Allazio nel suo Trattato De Communione Orientalium sub specie unica (n. 7). Il Sommo Pontefice Innocenzo IV, nella citata lettera al Vescovo di Tuscolo, interdisse tale Rito ai Greci con queste parole: “Non conservino l’Eucaristia consacrata il Giovedì Santo per un anno col pretesto degli infermi per comunicare con essa se stessi” e aggiunse che avrebbero sempre l’Eucaristia preparata per gli infermi, ma da rinnovare ogni quindici giorni. Arcudio, nel trattato De concordia Ecclesiae Occidentalis et Orientalis, libro 3, capitoli 55 e 56, non tralasciò di indicare le assurdità che derivavano da quel Rito, supplicando i Romani Pontefici perché lo abrogassero definitivamente. Decise questo Clemente VIII nella sua Istruzione e anche Noi ci prestammo nella nostra Costituzione Etsi Pastoralis (57, § 6, n. 3 e ss.) Nel Concilio di Zamoscia, esaminato da due Congregazioni, cioè del Concilio e di Propaganda Fide (De Eucharistia, § 3) si legge che se in qualche luogo vige ancora il Rito di consacrare l’Eucaristia il Giovedì Santo e di bagnarla con qualche goccia di Sangue e di conservarla per gli infermi per un anno intero, in seguito non lo si faccia più; ma i Parroci conservino l’Eucaristia per gli infermi, rinnovandola ogni otto o quindici giorni. La stessa via percorsero i Padri del Concilio Libanese, da Noi approvati, come risulta dal De Sacramento Eucharistiae (cap. 12, n. 24). Da questi esempi viene provato che la Sede Apostolica mai trascurò di proibire ai Greci alcuni Riti – quantunque da molto tempo durassero presso di loro – tutte le volte che essi erano perniciosi e cattivi.

30. Della processione dello Spirito Santo dal Padre e dal Figlio, come sopra dicemmo, si disputò principalmente tutte le volte che si trattò dell’Unione della Chiesa Greca e Orientale con la Latina ed Occidentale. L’esame di questo articolo presentò come tre aspetti; così fu redatto secondo questi tre capitoli. Primo: se la processione dello Spirito Santo dal Padre e dal Figlio fosse dogma di Fede, e circa questo primo punto fu sempre risposto fermamente che non si doveva in alcun modo dubitare che la processione dello Spirito Santo dal Padre e dal Figlio era da annoverarsi tra i dogmi di fede, e non c’era cattolico che non lo credesse e non lo professasse. Secondo: posto che questo era dogma di fede, se era lecito nel Simbolo della Messa aggiungere la parola Filioque quantunque essa non si trovasse né nel Concilio di Nicea né in quello di Costantinopoli, dal momento che dal Concilio di Efeso era stato decretato di nulla aggiungere al Simbolo Niceno: “Il Santo Sinodo stabilì che a nessuno è lecito professare, redigere o disporre un’altra Fede, all’infuori di quella stabilita dai Santi Padri che si radunarono a Nicea con lo Spirito Santo“. Per quanto riguarda questo secondo punto, si confermò che non solo era lecito, ma era anche molto conveniente che questa aggiunta si facesse al Simbolo Niceno, dal momento che il Concilio di Efeso aveva proibito soltanto le aggiunte contrarie alla Fede, o temerarie e diverse dal comune sentire, ma non quelle ortodosse e dalle quali qualche articolo di Fede implicitamente contenuto nel Simbolo venisse dichiarato in maniera più esplicita. Terzo: se, posto come indubbio dogma la processione dello Spirito Santo dal Padre e dal Figlio e riconosciuto il potere della Chiesa di aggiungere al Simbolo la voce Filioque, si poteva permettere che Orientali e Greci nella Messa recitassero il Simbolo a quel modo che usavano un tempo, prima dello scisma, come a dire che tralasciassero la voce Filioque. Per quanto riguarda quest’ultimo punto, la disciplina della Chiesa non fu sempre la stessa; talora permise agli Orientali e ai Greci di recitare il Simbolo senza il Filioque, allorché era risultato per certo che da loro erano accettati i primi due punti, o articoli, e che, se ad essi veniva negato ciò che con tanto amore chiedevano, veniva chiusa la possibilità dell’auspicata Unione. Talora poi si volle che dai Greci e dagli Orientali fosse recitato il Simbolo con l’aggiunta Filioque quando a buon diritto si poteva dubitare che essi non volevano recitare il Simbolo con l’aggiunta perché aderivano all’errore di coloro che opinavano e asserivano che lo Spirito Santo non procedeva dal Padre e dal Figlio, o che dalla Chiesa non si poteva fare al Simbolo quell’aggiunta Filioque. Due Sommi Pontefici, il Beato Gregorio X nel Concilio di Lione ed Eugenio IV in quello di Firenze usarono con i Greci il primo modo di comportamento per i motivi indicati, come consta dalla Collezione dei Concilii di Arduino (tomo 9, p. 698, D e tomo 9, 395, D). Altro modo, per le ragioni parimenti sopra esposte, abbracciò e osservò il Sommo Pontefice Nicolò III allorché rimproverò all’imperatore Michele di non agire in buona fede e di non stare a quello che aveva promesso nel patteggiare l’Unione che aveva stipulato e confermato con il Pontefice suo Predecessore Gregorio X. Documento di questo fatto, tratto dall’Archivio Vaticano, è stampato negli Annali di Raynaldo (Anno 1278, § 7). La stessa strada percorsero Martino IV e Nicolò III. E quantunque di questi Pontefici, sull’argomento, gli scrittori ci abbiano lasciato notizie divergenti, tuttavia Pachimere che allora affidava alla memoria dei posteri la storia di Costantinopoli (libro 6, cap. 14) dice apertamente che essi non seguirono l’indirizzo concessivo dei suoi Predecessori, ma vollero che dagli Orientali e dai Greci si recitasse il Simbolo con l’aggiunta del Filioque per togliersi il dubbio della loro Fede ortodossa, “per avere una certezza concreta della Fede e del parere dei Greci: il loro pegno sarà idoneo, se avranno pronunciato il Simbolo come i Latini“. Lo stesso Pontefice Eugenio, che nel Concilio di Firenze aveva concesso agli Orientali che senza quella parola Filioque potessero recitare il Simbolo, ricevendo nell’unità di Santa Chiesa gli Armeni, ordinò agli stessi che usassero il Simbolo aumentato della predetta aggiunta, come si può vedere nella Collezione dei Concili di Arduino (tomo 9, p. 435, B), per la ragione che aveva saputo che gli Armeni, non come i Greci, erano contrari a questa aggiunta. Il Romano Pontefice Callisto III, mentre mandava a Creta Fra Simone, domenicano, insignito dell’incarico di Inquisitore – nell’isola di Creta, nella quale si erano ritirati molti Greci fuggendo dalla città di Costantinopoli, di cui due anni prima si erano impadroniti i Turchi – comandò di osservare attentamente che i Greci recitassero il Simbolo con l’aggiunta Filioque, come narra Gregorio Trapezonzio nella sua lettera Ad Cretenses (tomo I, Graeciae Orthodoxae, presso Allazio, p. 537); ciò è confermato anche da Giacomo Échard, tomo I dell’opera Scriptorum Ordinis Sancti Dominici (p. 762). Forse il Papa temeva che i predetti Greci, come coloro che venivano da Costantinopoli, fossero meno sicuri in quel dogma di Fede. Nelle due formule della professione di Fede, che già sopra abbiamo ricordate (una delle quali Gregorio XIII aveva prescritto ai Greci, e l’altra Urbano VIII agli Orientali) non è contenuto null’altro che quanto fu stabilito nel Concilio di Firenze. Nelle due Costituzioni – una di Clemente VIII (che è la 34 del vecchio Bollario Romano,tomo 3, § 6), e l’altra nostra che comincia Etsi Pastoralis (nel nostro Bollario, tomo I, pars I) – ambedue edite per i Vescovi latini nelle cui Diocesi abitano dei Greci e degli Albanesi che osservano il Rito Greco, purché costoro dichiarino che lo Spirito Santo procede dal Padre e dal Figlio, e riconoscano che la Chiesa ha il potere di aggiungere al Simbolo la parola Filioque, non sono obbligati a recitare il Simbolo con questa aggiunta, a meno che, tralasciandola, non ci sia pericolo di scandalo, o in qualche luogo sia ormai invalsa la consuetudine di recitare il Simbolo con l’aggiunta del Filioque; o finalmente si reputi necessario che si dica il Simbolo con l’aggiunta predetta per manifestare l’indubbia prova della loro retta Fede. Rettamente non solo i Padri del Concilio di Zamoscia (tit. I De Fide Catholica), ma anche i Padri del Concilio Libanese (parte I della stessa opera, n. 12), per rimuovere ogni scrupolo stabilirono provvidenzialmente che tutti i Sacerdoti soggetti alle loro leggi usino il Simbolo secondo la consuetudine della Chiesa Romana con la particella Filioque.

31. Da quello che è stato detto finora si conclude chiaramente che la Sede Apostolica, sullo stesso argomento, talvolta per particolari circostanze, considerata l’indole di certe popolazioni, consentì di usare un certo modo, che tuttavia non permise affatto che fosse usato da altri per circostanze diverse e per le diverse caratteristiche di luoghi e di popoli. Per la qual cosa, per soddisfare all’incarico assunto, non resta altro che dimostrare che la stessa Sede Apostolica, mentre riconobbe certi popoli Orientali e Greci, fu più severa nell’uso di qualche Rito Latino, lo permise benevolmente, soprattutto se la consuetudine di usare questo Rito fiorì fin dai tempi più antichi e i Vescovi non solo non sono mai stati contrari ma o tacitamente o espressamente lo approvarono. Essendo stati portati in precedenza perspicui esempi di ciò, quando parlammo di quella categoria di Orientali e di Greci che, mantenendo in gran parte i propri Riti e venerando parimenti i Riti Latini e Orientali, abbracciarono qualche nostro Rito, ci asterremo da un’inutile ripetizione richiamando qui ciò che sopra fu esposto chiaramente in questa stessa Lettera. Aggiungeremo soltanto due esempi, presi dai Maroniti, a quelli già addotti. Da alcuni secoli i Maroniti usano i paramenti Pontificali e Sacerdotali della stessa forma che prescrive il Rito Latino, come nel citato Concilio Libanese del 1736 si legge (cap. 12 sul Sacramento dell’Eucaristia, n. 7). Il Sommo Pontefice Innocenzo III nella lettera al Patriarca Geremia del 1215, che inizia Quia Divinae Sapientiae bonitas, li esorta a conformarsi alla Chiesa Latina negli ornamenti pontificali. Per questa ragione lo stesso Pontefice e i suoi successori mandarono loro in dono paramenti sacri, calici e patene, come narra il Patriarca Pietro nelle due lettere mandate a Leone X, riportate nella Collezione dei Concilii di Filippo Labbe (tomo 14, p. 346 e ss.). Ora, nel citato Concilio Libanese al cap. 13, per unanime decisione e con la nostra approvazione, gli stessi Maroniti, quanto alla Messa dei Presantificati, hanno abbracciato il Rito Latino, celebrandola soltanto il Venerdì Santo, tralasciando, per cause giuste e gravi, la disciplina dei Greci i quali celebrano solo la Messa dei Presantificati nei giorni del digiuno quaresimale, eccetto il sabato, la domenica e la festa dell’Annunciazione della Beata Vergine, se per caso cade in Quaresima, secondo quanto prescritto nel Concilio Trullano (can. 52). In questi giorni il Sacerdote divide il Pane consacrato in tante particelle quanti sono i giorni che seguiranno, nei quali si celebra la Messa dei Presantificati, in cui si mangia il Pane Eucaristico, che prima consacrò, conservando nel Ciborio le altre particole consacrate, perché nei giorni seguenti, in cui celebrerà la Messa dei Presantificati, ne mangi e ne distribuisca anche agli altri presenti che ne facciano richiesta, come diffusamente ricorda Leone Allazio (Prolegomeni a Gabriele Naudeo, La Messa dei Presantificati, p. 1531, n. 1).

32. Qualcuno potrebbe ritenere che si debba concludere questa Lettera, poiché in essa è già stato risposto alle domande poste dal Sacerdote Missionario di Balsera: cioè Non si deve cambiare nulla, e sono qui indicate le regole precise che devono seguire i Missionari i quali cercano di portare gli Orientali all’Unità e alla Santa Fede Cattolica dallo scisma e dagli errori; né si comporta secondo le regole dei Canoni e delle Costituzioni Apostoliche colui che, nel convertire gli Orientali, cerca di togliere di mezzo il Rito Orientale e Greco, in ciò che è tollerato e ammesso dalla Sede Apostolica, o agisce in modo che coloro che si convertono abbandonino il Rito che fino allora seguirono, e abbraccino il Latino. Tuttavia, prima di por fine a questa Lettera è molto conveniente che si tocchino alcuni argomenti che appartengono propriamente alle questioni poste da detto Missionario, alle quali già fu risposto che non si deve cambiare nulla.

33. Inoltre, se nella città di Balsera dimorano Cattolici di Rito orientale, Armenio Siriaci, e mancano di una Chiesa particolare, si radunano nella Chiesa dei Missionari Latini, dove Sacerdoti di Rito Orientale celebrano il Divino Sacrificio e le altre cerimonie nei loro Riti, e i Laici intervengono alla Messa e ricevono i Sacramenti, non c’è molto da fare per difendere il principio che non si deve cambiare nulla come è stato scritto: e ciò che fu valido prima, deve essere conservato in futuro, permettendo ai predetti Sacerdoti e Laici che nella Chiesa Latina continuino a fare quello che hanno fatto finora. Infatti nel diritto canonico è stabilito che il Rito Orientale e Greco non si deve mescolare con quello Latino, come si può vedere nella Decretale di Celestino III presso Gonzales (cap. Cum secundumDe temporibus Ordinationum)e nella Decretale di Innocenzo III (cap. QuantoDe consuetudine, cap. QuoniamDe Officio Iudic. Ordinar.),e nella Decretale di Onorio III (cap. Litteras: De celebrat. Missar.), ma a nessun diritto si può affermare che la miscela di Riti, vietata da qualche Costituzione Apostolica, sia concessa per il fatto che l’Armeno, il Maronita, o il Greco secondo il proprio Rito celebrino nella Chiesa Latina il Sacrificio della Messa o altre cerimonie col popolo del proprio Rito, o viceversa il Latino faccia la stessa cosa nella Chiesa degli Orientali: mentre c’è una certa causa legittima, di cui nella presente fattispecie non si può in alcun modo dubitare, quando gli Orientali non hanno una loro Chiesa nella città di Balsera, che se ad essi non si aprisse la Chiesa dei Latini, mancherebbero assolutamente di un posto dove potessero celebrare il Sacrificio della Messa ed esercitare col popolo del proprio Rito quello che c’è da fare: essi devono essere tenuti in Santa Unione e riscaldati.

34. Sarebbe proibita la miscela di Riti, se il Latino celebrasse con pane fermentato e desse ai Latini l’Eucaristia consacrata a quel modo. La stessa cosa si dovrebbe dire se gli Orientali, che non abbracciarono la consuetudine del pane azimo, celebrassero in azimo e distribuissero alla loro gente l’Eucaristia così consacrata. Quindi i Vescovi latini cui sono soggetti gli Italo-Greci devono curare che i Latini si comunichino sempre in azimo e i Greci, dove hanno una propria parrocchia, sempre in fermentato, come è stabilito nella nostra Costituzione Etsi Pastoralis 57 (n. 6 e n. 14, tomo 1 del nostro Bollario)Sarebbe pure vietata la miscela del Rito se un Sacerdote Latino celebrasse la Messa ora in Rito Latino, ora Greco, o se un Sacerdote Greco celebrasse ora in Greco ora in Latino. Ciò è proibito nella Costituzione di San Pio V che inizia Providentia (21, tomo 4, parte 2 del nuovo Bollario stampato a Roma dove sono revocate tutte le facoltà che in precedenza erano state concesse ad alcuni Sacerdoti in questa materia). A questa Costituzione di San Pio V è conforme anche la nostra citata (§ 7, n. 10). Ché se ai Sacerdoti della Compagnia di Gesù che sono a capo dei Collegi delle Nazioni Orientali eretti a Roma e che abbracciando la regola della predetta Compagnia erano passati dal Rito Greco al Latino fu concesso, come sopra accennato, di celebrare talvolta la Messa in Rito Greco e Orientale, questo fu fatto, come sopra spiegato, perché gli alunni che devono praticare il Rito Greco e Maronita imparino a celebrare la Messa nel predetto Rito e secondo il medesimo a celebrare i Divini Uffici per tutta la vita. Ma le particolari circostanze di questo caso singolare dicono che non si possono portare ad esempio per ottenere simili indulti: ciò è così vero che quantunque il Cardinale Leopoldo Kollonitz abbia esposto al nostro Predecessore Clemente XI che avrebbe giovato molto alla Chiesa Cattolica se si fosse permesso ai Missionari Latini di celebrare, in Ungheria, col Rito Greco tutte le volte che lo richiedesse la necessità, lasciando loro la libertà di tornare al Rito Latino, lo stesso Pontefice riflettendo che, secondo le leggi canoniche, ciascuno doveva restare nel suo Rito e non era lecito al Sacerdote celebrare ora in Rito Latino, ora in Rito Greco, rifiutò di concedere la facoltà richiesta dal predetto Cardinale, come risulta dalla lettera in forma di Breve che indirizzò allo stesso Cardinale il 9 maggio 1705 (pubblicata nel tomo 1, Epistolar. et Brev. selectior. Eiusdem Pontificis, typis editor, p. 205).

35. Questi ed altri esempi che si potrebbero citare facilmente riguardano la miscela dei Riti proibita dalle leggi della Chiesa. In verità, come già abbiamo detto, non si potrà mai chiamare miscela dei Riti proibita se, per una causa legittima, il Sacerdote di Rito Orientale, approvato dalla Sede Apostolica, viene ammesso nella Chiesa dei Latini per celebrarvi la Messa e le altre funzioni ed amministrare i Sacramenti al popolo della sua Nazione. Vediamo che ciò avviene pubblicamente a Roma dove ai Sacerdoti Armeni, Copti, Melchiti e Greci sono aperti i nostri templi per celebrarvi la Messa, per soddisfare la loro devozione, quantunque abbiano le loro Chiese particolari dove potrebbero celebrare: purché tuttavia portino con sé i paramenti sacri e le altre cose che sono necessarie a celebrare la Messa secondo il loro Rito e li accompagni un collaboratore della loro Nazione per servire i celebranti, e dai custodi e dai Rettori della Chiesa si provveda in modo che, per la novità della cosa, non si determinino turbolenze e tumulti fra gli astanti, come più dettagliatamente si dice nell’Editto che il 13 febbraio 1743 fu promulgato per Nostro ordine per gli Ecclesiastici e i Laici Orientali abitanti a Roma a mezzo del nostro Venerabile Fratello Giovanni Antonio, allora del titolo dei Santi Silvestro e Martino ai Monti, Presbitero, ora Vescovo di Tuscolo, Cardinale di Santa Romana Chiesa, chiamato Guadagni, nostro Vicario generale in Roma e relativo distretto. Tuttavia per questo argomento Ci sembra di fare moltissimo, e tosto lo indicheremo. A metà circa del secolo XV, com’è noto, Maometto II espugnò Costantinopoli con la forza e alcuni Greci, che avversavano gli errori degli Scismatici e avevano conservato la comunione con la Chiesa Latina, si erano trasferiti a Venezia e qui erano restati. Il Cardinale Isidoro, greco di stirpe, essendo giunto in quella città, riferì al Senato il desiderio del Romano Pontefice che venisse assegnato agli uomini di questo Rito Greco un tempio nel quale potessero esercitare le loro funzioni. La commossa compassione del Senato concesse alla gente profuga la Chiesa di San Biagio dove per la durata di molti anni in una determinata cappella della stessa Chiesa i Greci fecero i Divini Offici in Rito Greco, e nelle altre cappelle i Latini in Rito Latino, come attesta Flaminio Cornelio, scrittore di gran famaPer alcuni anni gli Uffici di ambedue i Riti furono fatti in una sola Chiesa, se pure in diverse Cappelle” (Decad. 14. Venetarum Ecclesiarum, p. 359). Ciò avvenne fino a quando, aumentato il numero dei Greci, alla predetta Chiesa di San Biagio comune a Latini e Greci, fu dato un altro tempio che fosse proprio e riservato ai Greci.

36. Questo riguarda i Greci che, per celebrare, sono accolti nelle Chiese Latine. Ma perché sia mostrato più chiaramente che da ciò non segue nessuna miscela rituale condannata dalle leggi della Chiesa, non sarà senza significato parlare anche dei Latini che per dire Messa e assolvere i Divini Offici sono ammessi per giusti motivi nelle Chiese dei Greci. Ciò non solo confermerà il pensiero suesposto, ma anche contribuirà moltissimo a dimostrare quanto siano necessarie tra i Cattolici, sia pure di Rito diverso, l’unione e la benevolenza degli animi. Nella Russia Bianca i Ruteni Cattolici che chiamano Uniati hanno molte Chiese, e poche i Latini e, ciò che conta di più, molto distanti dai villaggi dei Latini che abitano tra i Ruteni. I Latini talora per lungo tempo mancavano della Messa di Rito Latino, per la ragione che trattenuti dai loro affari non potevano fare un così lungo cammino per recarsi alle Chiese Latine; né i Preti Latini potevano facilmente andare nelle poche Chiese Latine che si trovano nella Russia Bianca a celebrare la Messa, per la ragione che le Chiese erano separate da troppo lungo cammino dal loro domicilio. Perciò affinché i Latini non mancassero per troppo tempo della Messa in Rito Latino, restava solo che i Sacerdoti Latini, a comodità dei Latini, celebrassero Messe Latine nelle Chiese Rutene. Ma anche con questa soluzione esisteva una difficoltà: gli altari dei Greci non hanno la Pietra sacra, dal momento che essi celebrano sugli Antimensi che sono lini consacrati dal Vescovo nei cui angoli sono messe le reliquie dei Santi. Pertanto i Sacerdoti Latini erano costretti a portare con sé la Pietra sacra, con non lieve incomodo e attenzione, perché nel viaggio non si spezzasse. A tutti questi ostacoli, con l’aiuto di Dio, fu trovato e applicato un rimedio opportuno: poiché, consenzienti anche gli stessi Ruteni, fu concesso ai Preti Latini di celebrare la Messa in Rito Latino nelle Chiese Rutene e sopra i loro Antimensi e, questo sembrò ancor più sbrigativo, che i Sacerdoti Ruteni, andando talora in Chiese Latine per celebrarvi la Messa, dicessero la Messa sulle nostre Pietre sacre. Tutto questo si può ricavare dalla nostra Costituzione Imposito Nobis (n. 43, tomo 3 del nostro Bollario).

37. È inoltre molto importante per il nostro argomento ciò che subito aggiungeremo. Discutono fra di loro gli studiosi se, secondo la vecchia disciplina, nelle Basiliche della Chiesa Occidentale ci fossero uno o più altari. Sostiene la prima tesi Schelestrato (part. 1 Actor. Ecclesiae Orientalis, cap. 2, De Missa privata in Ecclesia Latina)ma per contro il Cardinale Bona (Rerum Lyturgicarum, lib. 1, cap. 14, n. 3), basandosi sull’autorità di Walfrido (cap. 4), dimostra che nella Basilica romana di San Pietro vi erano più altari. Se però si parla di Templi e Basiliche Orientali e Greche, è chiaro che in esse non esisteva che un solo altare, anche se orane esistono in gran numero, come si deduce dalla descrizione lineare di questi Templi che ne fecero il Du Cange in Costantinopoli Cristiana, il Beveregio nelle note alle Pandette dei Canoni e il Goario nell’Eucologio dei Greci. E poiché nel Tempio di Sant’Atanasio, che a Roma è tenuto dai Greci, ci sono molti altari, Leone Allazio nella lettera a Giovanni Morini Sui Templi più recenti dei Greci, n. 2, non esitò ad asserire che in quella Chiesa non c’era nulla di greco all’infuori del Bema, cioè del recinto che, da tutte le parti della Chiesa, evidenzia l’Altar maggiore. A quell’Altare, al quale il Sacerdote ha celebrato la Messa, non può un altro Sacerdote nello stesso giorno offrire una seconda volta la Messa. Di questa disciplina dei Greci parlano Dionisio Barbalibeo, Giacobita, Vescovo di Amida, in Spiegazione della Messa, e Ciriaco, Patriarca dei Giacobiti presso Gregorio Barebreo, pure Giacobita, nel suo Direttorio che cita Assemano nella Biblioteca Orientale (tomo 2, p. 184 e tomo 3, parte 1, p. 248). Circa la stessa disciplina il Cardinale Bona (citato, cap. 14, n. 3), così lasciò scritto: “Nelle loro Chiese hanno un unico altare e non giudicano lecito che nello stesso giorno si ripeta la Messa entro le mura del Tempio“. Eutimio, Arcivescovo di Tiro e Sidone, e Cirillo, Patriarca Antiocheno dei Greci, durante il Pontificato di Clemente XI, Benedetto XIII e Clemente XII più volte chiesero se dovevano abbandonare la vigente disciplina che vietava si offrisse un secondo sacrificio della Messa nello stesso giorno e allo stesso altare. Ma fu sempre risposto loro che nulla si doveva cambiare, e si doveva conservare appieno il vecchio Rito. Poiché si era diffuso nel popolo l’errore che non si offriva un secondo Sacrificio della Messa nello stesso giorno, allo stesso altare dove un altro Sacerdote aveva celebrato, perché il Sacerdote che celebrava dopo, usandogli stessi paramenti che aveva usato il primo, rompeva il digiuno, perciò nella nostra Enciclica al Patriarca antiocheno dei Greci Melchiti e ai Vescovi cattolici a lui soggetti, prescrivemmo che con ogni impegno curassero di eliminare questo errore tra il popolo, in modo tuttavia da conservare integro lo spirito secondo il quale all’altare dove celebrò un Sacerdote, è escluso vi celebri un altro Sacerdote lo stesso giorno, come si può vedere nella nostra Costituzione che comincia Demandatam (87, tomo 1 del nostro Bollario).

38. Infine, un tempo fu comune il Rito nella Chiesa Occidentale e Orientale che i Preti offrissero il Sacrificio della Messa assieme al Vescovo. I documenti di questa disciplina furono raccolti da Cristiano Lupo nell’Appendice al Sinodo di Calcedonia (tomo 1, Ad Concilia generalia et provincialia, p. 994 della prima edizione), dove interpreta queste parole di Bassiano “Con me celebrava la Messa, con me comunicava“, e da Giorgio, nella Liturgia Pontificia (tomo 2, p. 1 e ss., e tomo 3, p. 1 e ss.). Ora il Rito della concelebrazione nella Chiesa Occidentale è caduto in disuso, meno che nell’ordinazione dei Sacerdoti, che il Vescovo conduce, e nella consacrazione dei Vescovi, che viene compiuta dal Vescovo con altri due Vescovi assistenti. Ma nella Chiesa Orientale sopravvisse e vige tuttora un uso più frequente della concelebrazione dei Preti col Vescovo o con un altro Sacerdote, che sostiene la persona del primo Celebrante; questo uso si riferisce alle Costituzioni che si chiamano Apostoliche, libro 8, e al Canone ottavo tra quelli che si dicono Apostolici. Dovunque questa consuetudine è in vigore tra i Greci e gli Orientali, non solo è approvata ma anche si ordina di custodirla, come consta dalla nostra stessa Costituzione sopra citata Demandatam (§ 9).

39. Da questo Rito Greco e Orientale che fin qui abbiamo ricordato, alcuni colsero l’occasione di mettere in dubbio se per le Messe private, che si dicono da un solo Sacerdote, ci possa essere posto nella Chiesa Orientale e Greca del momento che, come abbiamo detto, nelle Chiese Greche esiste un solo altare, uno solo è offerto al sacrificio della Messa e i Sacerdoti concelebrano col Vescovo o con un Sacerdote che fa da primo Presbitero. I Luterani non trascurarono di mandare a Geremia, Patriarca di Costantinopoli, la Confessione di Augusta, nella quale si sopprimono le Messe private, sollecitandolo ad accettarla; ma siccome l’uso e la disciplina della Messa privata nella Chiesa Orientale si desumono e sono rivendicati dal Canone 31 del Concilio Trullano e dalle Note che su di esso compose Teodoro Balsamon, pertanto il Rito della frequente concelebrazione dei Sacerdoti col Vescovo rimase, e parimenti la consuetudine delle Messe private restò intatta nella Chiesa Orientale. Perciò i tentativi dei Luterani si conclusero nel nulla: ad essi fu risposto che era condannato dagli Orientali, come dagli Occidentali, l’uso malvagio di coloro che per l’immondo desiderio di ricevere l’offerta sono spinti all’altare, a differenza di coloro che, secondo pietà e religione celebrano le Messe private per offrire a Dio un sacrificio accettabile. Ciò appare dagli Atti della Chiesa Orientale contro i Luterani (Schelestrato, cap. 1, De Missis privatis in Ecclesia Graeca, verso la fine). A comodo dei Sacerdoti che desiderano offrire il Sacrificio della Messa, salva sempre la consuetudine che ad un solo altare si offra un solo sacrificio nei singoli giorni, i Greci cominciarono a costituire le Paracclesie di cui parla Leone Allazio nella citata lettera a Giovanni Morini. Le Paracclesie non sono altro che Oratori i contigui alla Chiesa nei quali è stato eretto un altare dove i Sacerdoti celebrano la Messa che non possono celebrare in Chiesa perché all’altare in essa costruito ha celebrato un altro Sacerdote.

40. Altri poi, da questa disciplina degli Orientali e dei Greci, giustamente pensarono che c’era da temere che i Sacerdoti latini venissero esclusi in perpetuo dal celebrare Messe nelle Chiese Greche, perché, come sopra si è detto, in esse esiste un unico altare dove nello stesso giorno un Sacerdote solo può celebrare; né i Sacerdoti Latini potevano celebrare nelle Paracclesie, in quanto costruite solo per i Greci. Ma ad eliminare il timore, in questo periodo si vede che per lo più nelle Chiese Greche viene costruito un secondo altare, nel quale da parte dei Preti Latini si possa offrire il Divino Sacrificio. Goario espose tre forme dei Templi Greci nell’Eucologio Greco; la terza di esse presenta un secondo altare posto per i Preti Latini, come dice lo stesso Goario nel luogo citato, e come prosegue lo Schelestrato (opera sopra indicata, p. 887). Nelle Chiese della Comunità dei Maroniti e dei Greci esistenti in Roma, oltre l’altare maggiore, ci sono altri altari nei quali si celebra la Messa da parte dei Preti Latini; nella nostra Costituzione Etsi Pastoralis (57, § 6, nn. 8 e 9, tomo 1 del nostro Bollario)nella quale si offre agli Italo-Greci una sicurissima regola di agire, si vieta ai Sacerdoti latini di celebrare nei Templi Greci all’altare maggiore, se non lo richieda in tutti i modi una necessità e si abbia il consenso del Parroco greco. Inoltre, nella stessa Costituzione si concede ai Greci la possibilità di erigere nei loro Templi, oltre l’altare maggiore, altri altari nei quali i Sacerdoti latini se vogliono, possano celebrare il sacrificio della Messa.

41. Da quanto abbiamo detto finora sembra sia già chiaramente dimostrato che, come prima, così in futuro si deve permettere ai Cattolici Armeni e ai Siriaci che abitano a Balsera misti ai Latini, e che mancano di una Chiesa propria, che si radunino in quella latina e in essa svolgano le sacre funzioni col proprio Rito: tanto più che non solo non ne deriva alcuna miscela di Riti condannata dalla Chiesa, ma si esercitano i doveri dell’ospitalità o, meglio, si adempiono precetti equitativi del diritto, che esige che a chi non ha un luogo opportuno a fare quelle cose che di diritto deve compiere, il luogo stesso venga concesso volentieri. Perciò non resta altro che ordinare che tutto venga fatto secondo le leggi della dovuta carità, e cioè che agli Orientali venga assegnata una cappella o una parte della Chiesa nella quale possano celebrare le loro funzioni, e per quanto si può fare ci si adoperi affinché in alcune ore i Latini e in altre gli Orientali facciano le loro funzioni. Se capiterà di fare altrimenti, subentrerà un motivo immediato di quei dissensi che tanto tormentarono i due nostri predecessori Leone X e Clemente VII; contro i patti stipulati nel Concilio di Firenze da Eugenio IV affinché non si recasse alcuna molestia ai Greci nel compimento dei propri Riti e delle proprie cerimonie, ai predetti Pontefici fu riferito che alcuni Latini andavano nelle Chiese dei Greci e celebravano la Messa in Rito Latino presso il loro altare con l’intenzione di creare ai Preti greci ostacolo ad offrire il Sacrificio secondo il loro Rito e a poter fare le loro funzioni. Di conseguenza i Greci, talvolta anche nei giorni di festa, mancavano del Sacrificio della Messa: “Non si sa con quale spirito (si parla dei Preti latini) talora occupano gli altari di dette Chiese parrocchiali e ivi, contro la volontà degli stessi Greci, celebrano la Messa e forse altri Divini Uffici, così che i detti Greci spesso restano senza aver udito la Messa, con grande agitazione d’animo, nei giorni festivi e negli altri giorni in cui erano soliti ascoltarla“. Questi lamenti papali riporta il documento che comincia Provisionis nostrae e che si trova nell’Enchiridion dei Greci (stampato a Benevento nel 1717, p. 86). Non è certo necessario che aggiungiamo le nostre lamentele, che non sarebbero più lievi né sarebbero prive di rimedi opportuni, se mai si riferisse a Noi che a Balsera, dai nostri Latini, viene impedito agli Orientali di compiere le loro funzioni nelle Chiese Latine.

42. Una seconda questione succede a questa prima: riguarda gli Armeni e i Siri. Si disquisisce se essi, nello stabilire il tempo della Pasqua e delle Feste che da essa dipendono, possano usare il vecchio Calendario, o piuttosto debbano seguire il nuovo, corretto, quando celebrano le funzioni sacre nelle Chiese Latine, e si dica fino a qual punto sia lecito da parte loro l’uso dell’antico Calendario, o tale indicazione riguardi anche quegli Orientali che hanno la loro Chiesa, ma così angusta e così piccola che non potendo tutti radunarsi in essa, per la maggior parte sono costretti a entrare nelle Chiese Latine.

43. Non è ignoto ad alcuno ciò che dai santi Papi Romani Pio e Vittore, e anche dal Concilio di Nicea fu stabilito circa la retta celebrazione della Pasqua. Tutti ugualmente sanno che dal Concilio Tridentino fu riservato al Romano Pontefice la correzione del calendario e che essendo papa Gregorio XIII la cosa fu risolta con tutti i relativi calcoli. Pertanto Bucherio nel Commentario alla dottrina dei tempi, nella prefazione al lettore scrisse: “A computare la certezza del tempo pasquale, all’ordine del Papa Gregorio XIII provvide largamente il nostro Clavio“. Egli fu un Sacerdote della Compagnia di Gesù, matematico preparatissimo, il quale diede al Pontefice un egregio contributo nella correzione del Calendario. Furono portati al Pontefice anche i calcoli di certo Luigi Lilio, il quale aveva trascorso molti anni nel comporli. Valutato e soppesato tutto in molte Congregazioni, alla presenza in consiglio di uomini eruditissimi, uscì nel 1582 la Costituzione che fissava le regole del Calendario; essa comincia: Inter gravissimas (n. 74, nel vecchio Bollario, tomo 2).

44. Abrogato il vecchio Calendario con questa Costituzione Pontificia, fu comandato ai Patriarchi, ai Primati, agli Arcivescovi, ai Vescovi, agli Abati e agli altri Prelati di servirsi del nuovo Calendario, corretto, come si può leggere nella stessa Costituzione, come si deduce dagli Annali dello stesso Pontefice (stampati a Roma nel 1742, tomo 2, p. 271). Per la verità, non essendosi fatta parola degli Orientali nella Costituzione, nasce il quesito se la stessa riguardi gli Orientali; tale questione investe non solo i dottori, come si può vedere in Azorio, Istituzioni morali (tomo 1, libro 5, cap. 11, quaest. 7), presso Baldello nella sua Teologia morale (tomo 1, libro 5, disput. 41); ma fu anche proposta e discussa in un convegno di Scienziati del 4 luglio 1631 nel palazzo del Cardinale Panfili che, salito al Papato, prese il nome di Innocenzo X. Allora uscì questa risoluzione: “I sudditi dei quattro Patriarchi d’Oriente non sono legati dai nuovi decreti pontifici se non in tre casi: primo, in materia dei dogmi di Fede; secondo, se il Papa esplicitamente nelle sue Costituzioni ne faccia menzione e disponga di essi; terzo, se implicitamente disponga di essi nelle stesse Costituzioni come nei casi di indirizzi al futuro Concilio“: viene riportata questa risoluzione sia dal Verricello (De Apostolicis Missionibus, libro 3, quest. 83, n. 4), sia nella nostra opera La canonizzazione dei Santi (libro 2, cap. 38, n. 15).

45. Noi consideriamo questa questione conclusa, non essendovi alcuna urgenza ora per discuterne. A Noi basterà indicare che cosa ha fatto la Sede Apostolica a questo proposito, quando dai fatti precedenti si evince che è quanto mai ragionevole la risposta che “non si deve cambiare nulla” data al quesito. Agli Italo-Greci che vivono tra di noi e vengono sottoposti al governo dei Vescovi Latini nelle cui Diocesi sono domiciliati, fu comandato dalla Sede Apostolica di conformarsi al nuovo Calendario, come si può vedere nella nostra citata Costituzione Etsi Pastoralis (57, § 9, nn. 3 e ss. del tomo 1 del nostro Bollario)Il clero della Collegiata di Santa Maria del Grafeo, della città di Messina, che pratica il Rito Greco, osserva il nuovo Calendario scrupolosamente, come si può vedere nell’altra nostra Costituzione Romana Ecclesia (81, par. 1 dello stesso tomo 1 del nostro Bollario)tuttavia ciò fu comandato non così severamente che talvolta, richiedendolo gravi ragioni, non si sia lasciato posto ad un indirizzo concessivo. Gli Armeni cattolici residenti a Liburni non volevano sottoporsi al Calendario gregoriano ed inoltrarono suppliche a Innocenzo XII di poter usare il vecchio Calendario. Nella Congregazione del Sant’Officio il 20 giugno 1674 era stato approvato questo decreto: “Richiamata di nuovo la lettera 10 aprile del Nunzio Apostolico di Firenze circa le richieste fattegli dagli Armeni di pregare nella Messa per il Patriarca degli Armeni e circa la celebrazione della Pasqua e delle altre feste secondo il loro Rito, cioè secondo il calcolo vecchio che esisteva prima della correzione del calendario, e circa la celebrazione della Pasqua, ecc. ; riferita la Scrittura mandata dalla Sacra Congregazione di Propaganda Fide circa il modo di pregare nella Messa per il Patriarca Armeno, si risponda al Nunzio che, circa il permesso di pregare nella Liturgia per il Patriarca degli Armeni, la Sacra Congregazione sta ai decreti emanati il 7 giugno 1673, e cioè che non si può, e quindi è vietato. Quanto alla celebrazione della Pasqua e delle altre feste, restarono del pari ancorati ai decreti: cioè nella celebrazione della Pasqua e delle altre feste gli Armeni residenti a Liburni devono osservare il Calendario Gregoriano“. Poiché gli Armeni si rifiutarono di ottemperare a questo decreto, l’esame del caso fu affidato alla particolare Congregazione di Cardinali eminenti per dottrina, tra i quali erano il cardinale Gianfrancesco Albano, che poi divenne Papa, e il cardinale Enrico Norisio, uomo famoso tra i letterati. La stessa Congregazione tenutasi il 23 settembre 1699 emise questo decreto confermato dal Pontefice nello stesso giorno: “Discussa profondamente la cosa e considerate tutte le circostanze del fatto, stabilirono, secondo quanto è proposto, che si può chiudere un occhio con i Cattolici Armeni abitanti a Liburni; circa l’uso del vecchio Calendario, coloro che ritengono peculiare la Chiesa, si dispongano ad ogni modo all’osservanza del Calendario Gregoriano e frattanto al beneplacito della Sede Apostolica, con l’aggiunta, inoltre, di questa condizione: che nei giorni di precetto, secondo il Calendario Gregoriano, si astengano dalle opere servili e ascoltino la Santa Messa“.

46. Se si vuol parlare dei Greci Orientali, consta che talora avevano il desiderio di usare il nuovo Calendario corretto, ma questo non ebbe alcun risultato. Tra gli articoli e le condizioni poste ai Ruteni nell’Unione sotto Clemente VIII fu inserita, trattata e risolta anche quella dell’accettazione del Calendario; ad essa fu data la seguente risposta: “Assumeremo il Calendario nuovo se si può fare secondo l’antico“, come si può leggere nell’opera di Tomaso da Gesù (p. 329). Quantunque quella risposta presentasse una certa ambiguità, sappiamo che di quell’argomento non si trattò più, né su questo articolo pronunciò alcun giudizio il Teologo deputato ad esaminare la questione, come appare dalla stessa opera a p. 335 e ss. Talvolta gli Orientali stessi spontaneamente accettarono il nuovo Calendario, come si può apprendere dal più volte citato Concilio provinciale dei Maroniti del 1736: “Tanto nei digiuni quanto nelle feste dell’anno, sia mobili, sia immobili, comandiamo espressamente che il Calendario Romano, emendato con tanto merito per la nostra Nazione dal Sommo Pontefice Gregorio XIII, sia osservato in tutte le nostre Chiese e il suo metodo ed uso, come anche il Canto Ecclesiastico, comandiamo che in ogni Chiesa siano insegnati ai fanciulli dai Maestri“. Ma tutte le volte che gli Orientali non accondiscesero, ci fu il giustificato timore che nascessero tumulti e dissensi se si fosse ingiunto loro l’uso del Calendario nuovo. La Sede Apostolica permise che gli Orientali e i Greci abitanti in remote regioni conservassero la loro antica disciplina, cioè conservassero il vecchio Calendario, attendendo un’occasione più propizia per introdurre l’uso del Calendario nuovo e corretto. Sull’argomento sono concordi anche i decreti della Congregazione di Propaganda Fide e della Sacra Inquisizione, come si apprende, quanto alla prima, dai decreti del 22 agosto 1625 e 30 aprile 1631; quanto alla seconda, dai decreti del 18 luglio 1613 e del 14 dicembre 1616. Anzi, la cosa si spinse a tal punto che anche ai Missionari fu permesso l’uso del vecchio Calendario quando si trattenevano in quelle regioni in cui resisteva solo l’uso del vecchio Calendario, come si può sapere da alcuni decreti emanati dalla Congregazione di Propaganda Fide il 16 aprile 1703 e il 16 dicembre 1704.

47. Resta da parlare dell’ultimo quesito, cioè del digiuno. I Siri e gli Armeni cattolici, secondo il loro Rito, in tempo di digiuno si astengono dal mangiar pesci: ma vedendo che i Latini li mangiano ed è impossibile o almeno difficilissimo che si possano astenere dai pesci, che vedono i Latini mangiare, perciò si propone come conforme a ragione che si dia ai Missionari la facoltà di dispensare: ma prudentemente, ed escluso ogni scandalo, e surrogando con qualche buona azione l’astinenza dai pesci. Questa sarebbe un’occasione adattissima per discutere della vetustà del digiuno presso gli Orientali e della sua legge, sia pure più severa, tuttavia sempre osservata: ma per non diffonderci più del necessario diciamo solo che la Sede Apostolica si oppose ai Patriarchi tutte le volte in cui vollero attenuare l’antico rigore del digiuno prescritto ai propri sudditi. Pietro, Patriarca dei Maroniti, concesse agli Arcivescovi e Vescovi a lui soggetti di nutrirsi di carne come i Laici, quantunque secondo l’antica disciplina si astenessero dalle carni; e permise a tutto il popolo, in tempo di Quaresima, di mangiar pesci e bere vino, quantunque ciò fosse ad essi proibito. Ma il Papa Paolo V, spedendo una lettera in forma di Breve al Patriarca successore di Pietro il 9 marzo 1610, comandò che, abrogato ciò che Pietro aveva concesso, le cose venissero rimesse nella primitiva condizione. Durante il nostro Pontificato furono chiamate all’esame l’eccessiva facilità e indulgenza di Eutimio, Arcivescovo di Tiro e Sidone, e di Cirillo, Patriarca Antiocheno presso i Greci Melchiti; e furono disapprovate, come appare dalla nostra Costituzione Demandatam (87, § 6, tomo 1 del nostro Bollario): “Noi, con la nostra autorità, espressamente revochiamo l’innovazione e l’attenuazione delle astinenze, giudicando che si dimostrano di eccessivo detrimento all’antica disciplina delle Chiese Greche, quantunque altrove, venendo meno l’autorità della Sede Apostolica, vengano ritenute di nessuna importanza, e comandiamo che non abbiano alcun effetto in futuro e che ad esse non si dia esecuzione, ma in tutto il territorio del Patriarcato Antiocheno sia conservata la lodevole consuetudine derivata dagli antenati di astenersi ogni Mercoledì e venerdì dell’anno dal consumare pesce, come viene scrupolosamente osservato anche dagli altri popoli confinanti, dello stesso Rito Greco“. È assurdo asserire che si deve dare la dispensa o piuttosto una facoltà generale di dispensare perché gli Orientali, vedendo che i Latini si nutrono di pesci in tempo di digiuno, siano spinti facilmente non per un certo disprezzo, ma vinti dall’umana fragilità, a mangiare pesce in giorno di digiuno. Con questo argomento, se valesse qualcosa, prima di tutto nascerebbe una gran confusione di Riti; poi a seguire questa linea, ne conseguirebbe che i Latini vedendo i Greci vivere con particolari istituzioni, che non sono permesse ai Latini (sono anzi proibite) potrebbero chiedere la dispensa, perché fosse lecito a loro fare quello che vedono fare i Greci, dichiarando che essi riconoscono il Rito Latino, ma per la fragilità della natura non lo possono più a lungo praticare.

48. Sono queste le cose che giudicammo doversi esporre in questa nostra Enciclica, non solo per chiarire le ragioni su cui si fondano le risposte date al Missionario, che propose le questioni esposte all’inizio, ma anche perché a tutti sia chiara la benevolenza con la quale la Sede Apostolica abbraccia gli Orientali, mentre ordina che si conservino i loro antichi Riti che non si oppongono né alla Religione Cattolica né all’onestà; né chiede agli Scismatici, che tornano all’Unità Cattolica, di abbandonare i loro Riti, ma solo che abiurino le eresie, desiderando fortemente che i loro differenti popoli siano conservati, non distrutti, e che tutti (per dire molte cose con poche parole) siano Cattolici, non Latini.

Concludiamo infine questa nostra Lettera, impartendo la Benedizione Apostolica a chiunque la legga.

Roma, presso Santa Maria Maggiore, 26 luglio 1755, anno quindicesimo del Nostro Pontificato