LA GRAZIA E LA GLORIA (48)

LA GRAZIA E LA GLORIA (48)

Del R. P. J-B TERRIEN S.J.

II.

Nihil obstat, M-G. LABROSSE, S. J. Biturici, 17 feb. 1901

Imprimatur: Parisiis, die 20 feb. 1901 Ed. Thomas, v. g.

LIBRO IX

LA PERFEZIONE FINALE DEI FIGLI DI DIO. QUESTA PERFEZIONE CONSIDERATA DAL LATO DELL’ANIMA

CAPITOLO VI

Dell’amore beatifico. Il suo principio, le sue proprietà.

1. I figli di Dio, al termine della loro crescita spirituale, vedranno Dio; questo è ciò che abbiamo cercato di spiegare come balbettando. Solo loro potrebbero dirci chiaramente cosa contemplano e come lo contemplano: ma, oltre al fatto che questo è il segreto del cielo, la nostra infermità sarebbe impotente a comprendere ciò che essi ci direbbero. La stessa impotenza nei confronti del loro amore è quella che ci rende così incomprensibile la visione, di cui è la naturale conseguenza. – Essi vedono, amano. Figli a lungo esiliati che si trovano per la prima volta alla presenza del più amabile dei padri: una pallida immagine dell’ingresso degli eletti nella visione che ci è stata promessa. Non possono i loro cuori sussultare d’amore fino a rompersi il petto, quando lo vedono così buono, così grande, così regale, così glorioso? Lo amavano già tanto, senza averlo visto se non attraverso le fitte tenebre, alla luce della fede, nei suoi effetti, e come da lontano. Ora che lo contemplano apertamente, e che con un solo colpo d’occhio, così fermo che nulla lo abbaglia, così libero che nulla lo ferma, entrano nell’abisso due volte insondabile delle sue processioni interiori e delle sue perfezioni essenziali; ora che lo possiedono, che lo toccano e che sanno di essere indissolubilmente posseduti da Lui, quali non debbano essere i loro impulsi, il loro ardore e il loro trasporto! – Incapace da sola di informarci su questi alti destini, perché rispondono non alla natura ma alla grazia, la filosofia può comunque aiutare la nostra fede, con le sue luci, a farci intravedere la loro grandezza e sublimità. Infatti, cosa ci si insegna della nostra facoltà di amare, cioè della volontà? È che ogni suo atto è essenzialmente un movimento verso il bene e il buono. È solo questo che la muove; è, per usare il linguaggio dei teologi e dei filosofi, il suo oggetto formale, come il colore è l’oggetto della vista, la verità quello dell’intelligenza. Certamente, è in nostro potere far vagare i nostri desideri su un numero infinito di oggetti diversi; ma a condizione che l’occhio dello spirito ci mostri in essi il solo magnete che ci attrae, una realizzazione più o meno perfetta dell’idea del bene. È impossibile per noi volere il male per il male, così come è impossibile affermare interiormente il falso, perché è il falso. E questo è talmente vero che per amare ciò che non è degno della nostra stima o dei nostri affetti, dobbiamo, con una grossolana illusione, attribuirgli le perfezioni che non ha. – Andiamo oltre e chiediamoci da dove provenga a questi particolari beni, che sono l’oggetto delle nostre concupiscenze, la perfezione che ci spinge a cercarli; cerchiamo, in altre parole, dove questa idea, questa ragione del bene, « ratio boni », la cui sola attrazione è in grado di muoverci, abbia il suo pieno e totale compimento. La sana filosofia risponde: da Dio e in Dio. Sì, tutti questi raggi di bontà, che si diffondono sulle creature, emanano da Lui, come dalla loro sorgente originaria: sì, solo in Lui si condensa, per così dire, con infinita pienezza la materia universale delle nostre aspirazioni e dei nostri amori; Egli è il bene per essenza, il Bene sovrano, totale, puro, assoluto. – Ed è per questo che il Dottore Angelico ci dice che quella parte che il primo motore di ogni potenza appetitiva è Dio. (« Omnia appetunt Deum ut finem, appetendo quodcumque bonum: quia nihil habet rationem boni et appetibilis, nisi secundum quod participat Dei similitudinem » Thom. 1 p., q. 44, a. 4 ad 3). La potenza appetitiva è Dio, perché solo Lui ha nella sua infinita perfezione il potere di attirare ogni volontà; solo Lui, facendo la creatura ad immagine della sua bontà, le comunica in vari gradi e le conserva questa attrazione. (S. Thom., de Verit., q. 22, a. 2). Nessuna volontà, per quanto perversa, può tendere verso l’oggetto dei suoi appetiti senza tendere implicitamente verso Dio, poiché questo oggetto è, in virtù della sua stessa natura, una partecipazione finita della bontà infinita. Non è forse stato Sant’Agostino, nel suo magnifico linguaggio, a definire Dio « il bene di tutti i beni; il bene da cui proviene ogni bene; il bene che è solo bene »? (Sant’Agostino, Enarr. in Psalm, XXVI, n. 8; col. De Trinit. L. VI, C. 3. N. 4). – Guardate ora questo figlio di Dio, tormentato dalla sete inestinguibile che lo porta e lo spinge al cuore di ciò che è buono e perfetto. Cosa farà se non si abbandonerà con tutta l’impetuosità del suo cuore a questa bontà che si manifesta così chiaramente e che si dona così liberamente a lui? Essa è in sé stessa il Bene supremo, poiché è tutto l’essere e tutta la perfezione; essa è ancora per lui il suo Bene supremo: possederlo non è forse raggiungere la pienezza del suo essere e della sua stessa perfezione allo stesso tempo? – Dio, essendo il Bene sovrano, è anche il supremo amore. Egli ci ama, non come ama tutte le cose, ma come un amico che apre il suo cuore all’amico, che condivide con lui i suoi segreti più intimi, che lo chiama alla comunione di tutti i suoi tesori e della sua stessa vita. Che modo c’è di non rispondere con amore a questo amore incomparabile, quando lo si vede, quando lo si tocca, e quando è più impossibile distrarsi da esso, anche solo per un momento, più di quanto si possa ignorare se stesso? – Essi vedranno ed ameranno. La teologia ci insegna che nel seno della divinità la conoscenza e l’amore vanno di pari passo: in altre parole, se Dio è per essenza l’infinita comprensione di se stesso, è anche l’infinito amore. Da ciò sappiamo che dal Padre e dal Verbo di Dio, termine eterno della conoscenza eterna del Padre della loro comune bontà, procede eternamente lo Spirito divino, cioè l’amore vivo e consustanziale di questa stessa bontà. Pertanto, affinché l’immagine corrisponda al suo esemplare, affinché la copia riproduca il suo modello, ai contemplatori creati della bontà divina abbisogna un amore che si armonizzi con la loro conoscenza, che scaturisca da essa come lo Spirito di Dio scaturisce dal suo Verbo, ed è pari ad esso in perfezione. – Considerato nel suo principio, l’amore dei figli adottivi che hanno raggiunto il termine, non differisce da quello che hanno avuto nel cammino: entrambi scaturiscono dalla stessa fonte che è la carità divina. Così, la perfezione finale della volontà non corrisponde in tutto e per tutto a quella dell’intelligenza. In quest’ultima, la luce della gloria succede alla fede; con le sue oscurità e i suoi veli, la fede non può essere il principio della visione faccia a faccia, né è compatibile con essa. Come si può credere, anche sull’autorità di Dio, a ciò che si contempla in una luce nebulosa, senza che sia possibile distogliere per un attimo lo sguardo da essa? Ma la carità rimane nella volontà, secondo le parole dell’Apostolo: « La carità non avrà mai fine » (Cor. XIII, 8). – La ragione di questa differenza è la stessa che dà alla carità la sua preminenza sulle altre due virtù teologali. Tutte e tre, è vero, hanno Dio come oggetto proprio, e di conseguenza non è con l’eccellenza relativa del loro oggetto che possiamo stabilire un titolo di superiorità per l’una o per l’altra. La disuguaglianza in questa comunità di oggetti è data dal rapporto di maggiore o minore vicinanza che essi hanno con Lui. La fede e la speranza non sono, in virtù della loro stessa natura, prive dell’idea di distanza; infatti, l’una crede ciò che non vede, l’altra spera in ciò che non possiede ancora. D’altra parte, la carità non si concepisce senza un certo possesso di ciò che ama, poiché ha per sua natura il carattere dell’unione. « Chi rimane nella carità – dice l’Apostolo dell’amore – rimane in Dio e Dio in lui » (I Joan, IV, 16). Come può la carità, le cui aspirazioni e desideri tendono ad un’unione sempre più stretta, svanire quando questa unione si consuma nella presenza? (S. Thom. 1. 2. D. 66, a. 6). Il suo singolare privilegio è quindi quello di condurci a Dio e di rimanere con noi alla fine del nostro cammino, quando saremo pienamente in Dio. Essa è il peso che ci traporta lì, e il peso che ci fissa lì; nasce e cresce sulla terra e solo in cielo fiorisce pienamente. Nascendo e crescendo sulla terra, essa non si espande pienamente che in cielo, glorioso in questo doppio soggiorno, ma più felice nel secondo, perché nulla potrà mai minacciare la sua esistenza né turbarla nelle sue ineffabili effusioni.

2. – Dopo questi pochi accenni alle cause dell’amore beatifico, meditiamone le proprietà. La carità può essere perfetta in questa vita? Questa è una delle domande che si pongono universalmente i teologi quando devono trattare di questa virtù. Ora, la perfezione della carità può essere considerata da due punti di vista: dal punto di vista dell’oggetto e da quello del soggetto. Dal primo punto di vista, c’è solo una carità assolutamente perfetta, con cui Dio ama Se stesso, perché solo Lui può amare Se stesso in quanto amabile, così come solo Lui può conoscere Se stesso in quanto intelligibile. La misura della sua amabilità è la sua stessa bontà; e poiché la sua bontà non ha limiti, anche l’amore di questa bontà, per essere adeguato alla sua amabilità, deve escludere ogni limite, essere infinito. Riunite, se possibile, tutte le potenze dell’amore che possano trovarsi nelle creature, mai uguaglieranno le divine amabilità; infatti, queste potenze, per quanto grandi e numerose possiate immaginare, saranno sempre di una virtù limitata, perché sono di una virtù creata. Ma dal secondo punto di vista, la creatura può amare Dio perfettamente: poiché amarlo in questo modo significa adempiere al precetto della carità: « Amerete il Signore vostro Dio con tutto il vostro cuore, con tutta la vostra anima, con tutta la vostra forza e con tutta la vostra mente » (Lc., X, 27; Deut., VI, 5). – Facciamo notare, tuttavia, che l’adempimento del precetto ha i suoi gradi. Ogni uomo può, con l’aiuto della grazia, avere abitualmente il cuore in Dio, in modo da non pensare e fare nulla di contrario al suo amore; e non solo può farlo, ma deve farlo, pena la perdita dell’amicizia divina e la compromissione della salvezza eterna della sua anima. La creatura ragionevole può e riesce a salire ancora più in alto nello stato di prova che è il nostro, quando si dedica interamente alle cose di Dio e non è disposta a prestare alcuna attenzione alle altre se non quella richiesta dalle necessità della vita presente. Al di sopra di questa perfezione, la più alta possibile per l’uomo, finché è in cammino, trovo il terzo e supremo grado della carità, che non è più della terra ma del cielo: tutto il cuore dell’uomo è diretto attualmente e sempre verso Dio (S. Thom, 2, q. 24, a. 8; de Carit, a. 10). – Cerchiamo di capire qual sia l’eccellenza della carità nella patria. Quaggiù, quanti ostacoli impediscono alle anime più generose di correre, come vorrebbero, verso la Bontà sovrana, unico oggetto del loro amore. Infatti, per non parlare delle inclinazioni disordinate che tendono incessantemente a piegarci verso beni fragili e bugiardi, ci sono le occupazioni volgari della vita che ci dividono (I Cor., VII, 24); e, anche se arrivassimo a respingere questi impedimenti con una rinuncia totale, il peso della mortalità, che grava su tutti i figli di Adamo, sarebbe comunque sufficiente a paralizzare o almeno a ritardare il libero volo dell’amore. Tale è il lamento dei Santi e la materia dei loro gemiti, che non possono cioè amare il loro Dio con tutto lo sforzo della loro volontà, senza alcun cedimento, senza interruzioni, costantemente e sempre. – Chi può meravigliarsi che la meta verso cui essi tendono sfugga in mille modi ai loro sforzi? L’amore dipende dalla conoscenza: perché il cuore sia attualmente in Dio, è necessario che l’intelletto lo mostri attualmente come sovranamente amabile. Ora non è possibile per la nostra debolezza avere l’occhio dell’anima così costantemente fisso su Dio da non perderlo mai di vista. Quando anche, quindi, tutti gli altri ostacoli venissero rimossi, queste distrazioni necessarie sarebbero sufficienti a sospendere l’impulso del nostro amore. Ma in cielo, come sappiamo, l’intelligenza è necessariamente e perennemente nell’atto stesso di contemplare Dio, e questa visione faccia a faccia, dalla quale nulla può distrarre, termina nell’amore. Il vedere sempre, porta ad amare sempre ciò che vediamo, perché lo vediamo infinitamente amabile. Questa è dunque la prima proprietà della carità nella patria: essa è sempre in azione. – La seconda proprietà è che si tratta dell’atto di amare come la visione beatifica: è eternamente immutabile, eternamente uguale. Quaggiù, anche quando la carità sia così profondamente radicata in un cuore e che da esso nulla possa strapparla, gli atti d’amore che ne derivano sono successivi e molteplici; ciò è dovuto alle infermità di cui abbiamo parlato prima. Ma perché dovrebbe esserci una successione nella gloria se la luce è sempre presente e l’attenzione sempre vigile? È possibile che la volontà sia incostante e mutevole? Lo capirei, se l’occhio dell’anima le presentasse una bontà finita, o se la conoscenza che ha della bontà infinita non fosse la visione immediata e perfettamente chiara di essa. Ma il Bene perfetto, contemplato senza ombre e veli attira necessariamente l’amore a sé, poiché si offre come è in sé, come il bene, il bene non mescolato, tutto il bene. È un motore la cui potenza infinita non lascia alcuna possibilità di resistenza alla volontà a cui esso sia applicato da se stesso. Poiché, dunque, nulla può ostacolare questa applicazione, nulla può interrompere il suo effetto, intendo dire il movimento d’amore che porta la volontà verso il suo Dio. – Sarebbe una fatica l’amare sempre? Ma quale stanchezza si può immaginare in una potenza dell’Anima, quando raggiunge con la sua operazione più perfetta l’oggetto più perfetto della sua attività? Ripetiamo quanto già detto a proposito dell’intelligenza: nulla danneggia o affatica l’esercizio di un potere spirituale più della concomitanza obbligatoria delle facoltà organiche. Ora, questa dipendenza che si trova ovunque nella condizione attuale della nostra natura, la vita beata non la conosce né la può ammettere. Potrebbe essere, infine, che la necessità di crescere nell’amore richieda una successione di atti? Ma una volta che gli eletti sono con Dio, non c’è più crescita. Alt alla crescita nella virtù, perché la carità risponde alla grazia e la grazia non può essere aumentata dai Sacramenti che non vengono dal cielo, né da meriti il cui tempo è passato. Non c’è quindi un’ulteriore crescita nell’atto d’amore, poiché, fin dall’inizio, l’anima, divinizzata dalla grazia e rafforzata dalla virtù, si dirige verso Dio con tutto il fervore e l’intensità di cui questi principii l’hanno resa capace. Quindi, dal punto di vista dell’amore e della conoscenza, questo è il termine. Pretendere che negli eletti ci sarà un futuro perfezionamento nel loro amore dell’infinita bontà, equivarrebbe a dire o che la virtù possa essere in loro ulteriormente sviluppata, o che essi non abbiano amato fin dall’inizio con tutta la misura delle loro forze e la piena capacità del loro cuore. – Ora, se l’atto di amore beatifico non ammette cambiamenti, esclude, a maggior ragione, qualsiasi molteplicità simultanea negli atti. Una visione unica richiede un amore unico, e non è nemmeno pensabile che due movimenti affettivi dello stesso tipo, che rispondano alla stessa conoscenza e riguardino lo stesso oggetto, possano coesistere contemporaneamente nella stessa volontà. – Tuttavia, questo atto, per quanto unico, include nella sua eminente semplicità tutte le perfezioni richieste dalla bontà divina, il suo termine ed il suo oggetto. È benevolenza, compiacimento e gratitudine senza limiti; è l’amore di un figlio per il migliore dei padri, di un amico per il più generoso degli amici, di una sposa per lo sposo sovranamente amabile; un amore al tempo stesso tenero e forte come la morte, ardente e riverente, che si innalza fino alla bontà suprema e si abbassa davanti ad essa fino al nulla, sempre sazio e sempre insaziabile, il più spontaneo di tutti e tuttavia il più necessario, che non sa cosa sia l’invidia ed è geloso all’eccesso nel vedere ciò che ama unicamente amato; un amore che, essendo solo amore, persegue con odio implacabile tutto ciò che si opponga all’onore di Dio: perché se non fosse tutto questo, non sarebbe più una partecipazione perfetta all’Amore infinito di cui è l’immagine più eccellente. – Un’altra caratteristica che è sufficiente segnalare nell’amore degli eletti è la loro disuguaglianza. Disuguali nella grazia, disuguali nella visione, come non sarebbero disuguali anche nella virtù dell’amore e nel suo atto? Lampade luminose e ardenti, sospese nel firmamento del cielo, non emanano la stessa intensità di luce e di fuoco, sebbene ognuna di esse sia inondata di luce e si sciolga negli ardori. Chi dirà che la B. Vergine, Madre di Dio, non ami incomparabilmente più di tutti gli uomini e di tutti i Serafini, anche se i loro atti d’amore sono uniti in un unico e medesimo amore? Come abbiamo già osservato, se tutti i figli di Dio vanno nell’amore fino al termine del loro potere di amare, le capacità, così come la grazia e la gloria, sono diverse. Chi sente in sé la nobile ambizione di amare eternamente Dio senza misura, lavori per perfezionarsi nella santa virtù della carità, perché è alla perfezione della via che l’amore corrisponderà in patria. – Un’ultima proprietà dell’amore beatifico, implicita nelle precedenti, è che esso esclude non solo il peccato, ma pure la possibilità stessa di commetterlo. Se quaggiù capita, anche alle anime più ferventi, di cadere in qualche infedeltà, io ne trovo due ragioni principali. In primo luogo, esse non hanno sempre le infinite bontà di Dio davanti agli occhi della loro anima, e anche se il ricordo di Dio fosse presente per loro, esso non sarebbe la chiarezza della visione; in secondo luogo, e per naturale conseguenza, esse non sono sempre in un necessario e attualissimo esercizio di perfetta carità. Perciò, dove non si è e non si può essere privi della visione più immediata e chiara della bontà divina; là dove l’amore di Dio regni attualmente e necessariamente nel cuore, re e padrone di tutti gli affetti, non c’è spazio per le piccole offese, incompatibili non dico con l’abitudine, ma con l’atto sovrano della carità. – Datemi un uomo che possa amare una cosa indipendentemente dal bene che vede o pensa di vedere in essa, e vi mostrerò un uomo benedetto che ama un bene finito con un amore che non si armonizza con l’amore perfetto di Dio. La vista di Dio compie questa meraviglia, fa sì che « la volontà ami altrettanto necessariamente ciò che ama, in relazione a Dio, come in coloro che non vedono ancora, essa ama tutto ciò che essa ama sotto la ragione comune del bene. » (S. Thom., 1, 2, q. 4 a. 4). La ragione di ciò è ovvia, se si è disposti a riflettere. Poiché la mia volontà è fatta per il bene, posso distoglierla da un bene particolare verso un altro bene finito: nessuno dei due realizza pienamente in esso quella nozione generale di bene, al di fuori della quale non posso amare o volere nulla. Ma quando Dio mi si rivela manifestamente come la piena, universale e perfetta comprensione di ogni bene, la stessa impossibilità che mi impedisce di amare qualcosa di diverso dal bene, mi proibisce anche di guardare e amare come mio bene ciò che non si riferisca al Bene supremo, tesoro e fonte di ogni bene. – Un esempio, dato dall’Angelo della Scuola, completerà il portare in pieno alla luce queste verità. La mente umana può indulgere in deviazioni finché non abbia trovato il principio evidente su cui poggia l’oggetto dei suoi pensieri; ma una volta che questa verità maestra abbia gettato la sua luce sulle conclusioni fino ad allora più o meno incerte, l’errore, a meno che non si chiudano gli occhi, non è più possibile. Ora, quali siano i principi nell’ordine delle cose intelligibili, l’ultimo fine, ossia il Bene sovrano dell’uomo, è nell’ordine degli oggetti dell’appetito (S. Thom. Compend. Theolog., c. 166). Ditemi: che cosa vi allontana da questo oggetto amato per inclinare i vostri affetti verso un altro indipendente dal primo? È che esso non sia, o almeno che non vi appaia manifestamente adeguato ai vostri desideri. Così l’anima a cui Dio si mostra e si dona nella pienezza della sua infinita bontà, non può più amare nulla né cercare nulla al di fuori di Lui. È una beata impossibilità che fa sospirare tante anime, innamorate dell’Amore divino, verso una condizione in cui la loro debolezza sarà salvaguardata per sempre dal più grande dei mali, l’offesa di Dio, il peccato.