LA VITA INTERIORE DEL CATTOLICO (10)
Mons. ALBAN GOODIER S.J. (Arcivescovo di Hierapolis)
Morcelliana Ed. Brescia 1935
Traduzione di Bice Masperi
CAPITOLO III
La vita nella Chiesa
3. – Corrispondenza dell’uomo.
Ci viene insegnato che, per mezzo dei sacramenti e in altri modi ancora, lo Spirito Santo operi in noi. A noi spetta fare quanto è in potere nostro per possedere la presenza viva dello Spirito e, sapendo di possederlo, per dargli tutto l’onore che gli è dovuto. È questo precisamente ciò che intendiamo per pratica interiore della religione, o religione del cuore. È primo dovere del Cristiano ricordare sempre il Dio che ha tanto fatto per lui, che lo ha tratto dalle tenebre alla luce soprannaturale, che è così vicino a lui, che si degna anzi farsi ospite della sua anima. Per un visitatore regale faremmo qualunque cosa; potremo rimanere indifferenti alla visita della SS. Trinità? Questo pensiero è bastato molte volte a fare i Santi; Santa Teresa ne è un esempio. E il metodo è semplice. Chi crede nella dimora della SS. Trinità nell’anima fedele farà ogni sforzo, dovunque e in qualsiasi condizione sia posto, per vivere ed agire come si conviene ad uno che si trovi in sì augusta compagnia. Ecco perché, nel secoli, il Cattolico si è abituato ed affezionato al segno della croce. Con quel segno egli affronta e vince ogni nemico; ogni azione della giornata egli inizia “nel nome del Padre e del Figliuolo e dello Spirito Santo”. In ogni vicissitudine egli offre al Padre, quale omaggio filiale, tutta la gloria che quell’avvenimento può dargli, e la stessa gloria vuole offrire al Figlio, memore di essere stato da Lui riscattato a prezzo del suo sangue e trasformato da schiavo in amico per l’eternità, e allo Spirito Santo che tanto gli ha dato, compresa l’ispirazione e la forza di fare in quel momento quello stesso segno di croce. L’uomo di vita interiore non sarà pago di dedicare a Dio tutte le azioni ordinarie della giornata e a Lui si terrà unito di continuo, “sollevando. la mente e il cuore a Dio” non solo nel tempo della preghiera, ma in ogni momento, secondo l’insegnamento di San Paolo che ci ammonisce di “pregar sempre”. E nelle ore buie si ricorderà ancora del Padre della luce, e a Lui farà ricorso. “Fin quando, o Signore, persisterai sempre a dimenticarmi e rivolgerai la tua faccia da me?… Guarda e ascoltami, Signore mio Dio, dà luce ai miei occhi”, (Sal. XII 1.4). Nel constatare la propria debolezza, molto spesso, purtroppo! troverà coraggio anche contro di sé nella presenza di Colui che è onnipotente: « In te, Signore, io spero: ch’io non resti confuso giammai… Sii per me un Dio protettore e un asilo di rifugio per trarmi in salvo. Poiché la mia fortezza e il mio rifugio sei tu, e per il tuo nome mi guiderai e mi sosterrai”. (Sal. XXX, 2-4). – Nella desolazione e nell’aridità, quando il cielo sembra chiudersi e la preghiera stessa diventa un peso, ricorderà Colui che pregò così: “Padre, se è possibile passi da me questo calice, … Se non è possibile che questo calice sia rimosso da me senza che io lo beva, sia fatta la tua volontà ». (Matt., XXVI, 42). Quando invece si sentirà facilmente portato all’orazione, seguirà il consiglio di Colui che è il modello di ogni orante: « Ma tu, quando vuoi pregare, entra nella tua camera, chiudi la porta e prega il Padre tuo in segreto; e il Padre tuo che vede nel segreto ti esaudirà”. (Matt. VI, 6). È ovvio che questo spontaneo, fiducioso, continuo ricorso a Dio è la prima conseguenza pratica della nostra adesione alla verità della sua presenza nell’anima nostra. La seconda è analoga alla prima e ne deriva naturalmente: è l’adorazione. « L’anima mia magnifica il Signore e il mio spirito esulta in Dio mio Salvatore… Perché grandi cose ha fatto in me Colui che è potente e il cui nome è santo”. (Luca I, 46, 49). Così ci ha insegnato a dire la Regina dei credenti, con una spontaneità che ci rivela gli intimi tesori dell’anima sua. E la Chiesa continua a farle eco, ripetendo senza posa: “Sia gloria al Padre, al Figliuolo e allo Spirito Santo”. Terza conseguenza è l’amore, quella divina ricchezza che è la nostra perfezione in quanto esseri umani e in quanto figli di Dio. Senz’amore, nulla vale; con esso, qualunque cosa acquista valore. E siccome l’amore è generoso e attivo per natura, non potrà limitarsi alle parole e al sentimento, e tanto meno lo potrà l’amore verso Dio: esso dovrà dimostrarsi con l’azione e col sacrificio. Che cosa dare? Che cosa fare? “Che cosa renderò al Signore mio Dio per tutto ciò che mi ha dato?” Il peccatore pentito dimostrerà l’amor suo facendo tutta la riparazione di cui sarà capace, incoraggiato dalla misericordia di Colui che disse: “Le sono rimessi i suoi molti peccati perché molto ha amato”. (Luca VII, 47). L’amore dei puri di cuore che vedono Dio e le sue vie sarà un amore di riconoscenza, che non cesserà di ringraziare il datore di ogni bene e sempre cercherà di offrirgli un contraccambio d’amore, non già degno di Lui né adeguato ai suoi doni, ma secondo la debole misura delle proprie forze. E l’amore di pura amicizia andrà ancor più lontano, accettando con umile gioia l’intimità alla quale Dio l’ha benevolmente ammesso, gli parlerà con la confidenza di un amico, vorrà prodigarsi in atti di generosità, offrendo e donando sempre, dimenticando se stesso e i propri meschini interessi per il beneplacito del suo Diletto, e si rallegrerà, all’occasione, di esser trovato degno di soffrire ingiuria per amor suo, accettando anche la morte con gioia se per Lui sarà chiamato a sacrificare la vita. – E queste disposizioni condurranno al quarto dovere che è quello della imitazione. “L’amore rende simili”, e chi ama Dio non può che rallegrarsi di ogni barlume di rassomiglianza con Lui che possa in sé conseguire. Essendo tempio di Dio, si sforzerà di assicurare la massima purezza di quel tempio, purezza sia di corpo che di pensiero. Abbiamo visto come S. Paolo si sia servito di questo incentivo per contenere e purificare i suoi Gentili convertiti: “Non sapete che siete il tempio di Dio e che lo Spirito di Dio in voi abita? Se alcuno guasta il tempio di Dio, Iddio guasterà lui; poiché il tempio di Dio è santo quali pur voi siete ». (I Cor. III, 16, 17). E una volta purificato il santuario, il tempio del Dio vivo, non vi sarà ornamento troppo prezioso né troppo trascendente per abbellirlo. È questo il significato e il motivo della perfezione; il Santo la persegue non tanto per sé quanto per amore del Santo dei Santi che in lui vive. Cristo stesso ci ha additato la misura della nostra perfezione: “Siate perfetti come è perfetto il Padre vostro che è nei cieli ». (Matt. V, 48). Né pensiamo che sia ideale troppo alto; date le meraviglie che si sono compiute in noi e per noi, dal momento che Iddio ci ha fatto suoi figli adottivi e vuole che lo chiamiamo Padre, Egli dovrà necessariamente volere che rassomigliamo a Lui e dovrà darci i mezzi per attuare quella rassomiglianza. Che cosa significa infatti l’Incarnazione se non questo? Il Figlio di Dio è divenuto uomo; si è fatto “simile all’uomo in ogni cosa eccetto che nel peccato” affinché l’uomo a sua volta diventi simile a Dio. Ha vissuto la vita umana e ha subito la morte umana affinché l’uomo possa vivere e morire come Lui. E rassomigliare al Figlio è rassomigliare al Padre: “Chi vede me vede il Padre mio”. (Giov. XIV, 9). “Nessuno viene al Padre se non per mezzo mio”. (Giov. XIV, 6). – Ma sopra tutte le altre virtù, una ve n’è che Gesù Cristo pone dinanzi ai suoi discepoli come quella che più li rassomiglia al Dio uno e trino; è la virtù della carità fraterna, dell’amore fra uomo e uomo. È questa la caratteristica alla quale dovrebbe il mondo riconoscere i veri discepoli di Cristo. Egli l’impone loro come un comandamento nuovo, proponendo a modello il suo stesso immenso amore per gli uomini. “Io vi do il comandamento nuovo: Amatevi a vicenda. Da questo tutti conosceranno che siete miei discepoli: se vi amerete scambievolmente”. (Giov. XIII 34-35). “Come il Padre ha amato me, così anch’Io amo voi: perseverate nel mio amore… Ecco il mio comandamento: Amatevi gli uni gli altri come Io ho amato voi?’ (Giov. XV, 3, 12). Alla fine della Cena, nel pronunciare l’ultima preghiera per i suoi, Cristo domandò ancora: “… affinché siano tutti una cosa sola; come tu, Padre, sei in me e io sono in te, così anch’essi siano in noi” (Giov. XVII, 21), perché sapeva che precisamente l’amore e l’unità li avrebbero resi più simili a Dio. Non mediteremo mai abbastanza questa preghiera finale che nessuno all’infuori di Cristo, vero Figlio di Dio, avrebbe potuto formulare né concepire. L’unità ideale è quella della SS. Trinità; l’unità dell’uomo coi suoi simili sarà tanto più perfetta quanto più si avvicinerà a quell’ideale. E perché l’ideale divenga realtà possibile, Cristo stesso viene a vivere nell’uomo, in tutti ed in ciascuno; e quando la sua vita in noi ha portato frutto, allora, e a quell’evidenza, il mondo conoscerà che Dio lo ha mandato. La carità fraterna, l’amore fra tutti gli uomini, è o dovrebbe essere la grande caratteristica della sua Chiesa fin dal principio, il «segno» ch’Egli stesso ha preconizzato. La santità, la cattolicità, la successione apostolica, per la loro stessa natura, non possono che essere risultati del tempo, ma il segno dell’unità è evidente fin dagli inizi: “E la moltitudine dei credenti era un cuor solo e un’anima sola” (Atti IV, 32). Così intese S. Paolo il comandamento nuovo. Per quante virtù egli abbia esaltato e raccomandato, alla fine Egli sempre ritornava a questa. Per quanti mali Egli abbia condannato, nessuno mai ne ha attaccato con maggior veemenza di questo: la rottura dell’unità. Egli per esperienza già sapeva quanto fosse vero l’ammonimento del Maestro che a questa unità più che a qualsiasi altra cosa gli uomini riconoscerebbero i suoi discepoli. Abbiamo già visto come S. Paolo non deprecasse nulla più del disaccordo, come non si stancasse mai di rammentare ai suoi seguaci che erano un corpo e uno spirito solo, che avevano avuto un unico e stesso Padre dimorante in loro tutti, e che dovevano sopra ogni cosa sforzarsi di mantenere “l’unità dello spirito nel vincolo della pace” (Efes. IV, 3-6). E ciò che costituiva il suo insegnamento era, si vede bene, nel pensiero di tutti i primi Cristiani, Provenivano da origini diverse, Giudei e Gentili, Greci e Romani, Asiatici e Africani, schiavi, liberi e nobili. Si trovavano in loro, per natura, quasi tutte le cause che avrebbero potuto disgregarli, antipatie sociali, pregiudizi e aspirazioni nazionali, divergenze filosofiche, rivalità nell’insegnamento stesso delle verità di fede quando ancora non erano scritti i Vangeli, infiltrazioni dall’ esterno, parallelismi apparenti con altre forme di religione, contrasti politici nel trattamento dei neofiti, perplessità riguardo all’antica legge giudaica, oscurità ed incertezze riguardo all’avvenire, e i bisogni vari di certe chiese che richiedevano sacrifici anche dalle altre. Tuttavia, malgrado queste e altre forme di disgregazione, senza nulla che fosse di natura sufficiente ad aiutarli e sebbene a volte non potessero veder chiaro neppure come dovessero definire gli articoli della propria fede, una sola grande cosa questi Cristiani primitivi sapevano con certezza: che la loro Cristianità doveva essere una, che senza unità non poteva darsi Cristianesimo autentico, che chiunque, per qualsiasi motivo, si separasse non poteva più considerarsi vero Cristiano. Questo era il loro spirito, questa la forza che maggiormente s’imponeva al mondo pagano circostante. “Vedete come si amano questi Cristiani” dicevano gli estranei; e sentivano che in quell’amore era la vita. E contro di essa insorsero, tentando per secoli di soffocarla, ma non vi riuscirono, ché si trattava di una vita più che umana, di una unità ch’era di origine divina. Era una vita risorta da morte, che, una volta risorta, non poteva più morire. “La morte non poteva più aver dominio su di lei” (Rom. VI, 9). Allora i nemici, non potendo distruggerla, fecero tutto il possibile per ricopiarla, e allo scopo di indebolire la testimonianza di quella, produssero una “religione che in molti punti le rassomigliava. Ne adottarono gli usi, il cerimoniale, l’ordinamento, perfino i sacramenti; un sovrano, sostenuto dalle forze del suo impero, costituì una gerarchia ad imitazione della sua. Ma tutte queste cose andarono in dissoluzione: erano cose umane e perciò destinate a perire. La loro unità veniva dall’esterno, non era sorta dall’interno. E caddero ad una ad una: il mondo stesso non seppe più che farsene. Solo l’unica Chiesa vivente, perché unita, la Vigna il cui coltivatore era lo stesso Padre, continuò a prosperare. È sempre stato così, ed è così ancor oggi. La forza della Chiesa è la sua unità che nulla può spezzare, non perché essa sia troppo forte, ché anzi, umanamente, è debole, ma perché la sua unità non è di questa terra. “Le cose stolte del mondo ha scelto Dio per svergognare i sapienti, le debolezze del mondo ha scelto per svergognare i forti, e le cose vili del mondo e le spregevoli elesse Dio, cose che non son nulla, per annientare le cose che sono: acciocché nessun individuo si glorii al cospetto di Dio. Orbene, per opera di Lui voi siete in Cristo Gesù il quale è stato fatto da Dio sapienza per noi e giustizia e santificazione e redenzione”. (I Cor. I, 27-30). – Nella storia della Chiesa di Dio possono riscontrarsi divergenze e divisioni, separazioni, perfino scandali, ma, ciò malgrado, la Chiesa una e cattolica continua a vivere. Il suo stesso Fondatore aveva predetto questi mali, conseguenze necessarie dell’elemento umano con cui Egli intendeva di operare. D’altra parte, i fratelli separati si riuniscono, o tentano di riunirsi. Essi vantano una unità di nome che non ha di fatto alcuna consistenza, tentano di assumere una apparenza di unità con metodi loro propri; possa Iddio benedire i loro sforzi. Essi si accordano qualche volta fra loro per timore di mali peggiori. Ma la loro unità non è né può pretender di essere una cosa viva: non viene che dall’esterno, è una convenzione e nulla più; solo alla superficie sembra rassomigliare a quella unità che è il Cristo vivo. Non può vantarsi di risalire a quella unità di fede e di amore e di speranza che S. Paolo e i suoi seguaci conoscevano, comprendevano e amavano, e per la quale sacrificarono anche la vita. L’unità che viene dall’esterno è cosa meccanica, non un organismo vivo; non ha capo, né corpo, né membra unite da una vita comune che tutte le pervada. Il mondo pagano guarda e non si illude, non rimane edificato, né si piega a credere; ed è contro la roccia del paganesimo che si misura il vero Cristianesimo. Una, non solo per convenzione, non solo per comprensione, ma in forza di un ordinamento eterno, non per ricchezza o vincolo sociale, e neppure per una gerarchia, ma per una vita che deve esistere prima che la gerarchia possa incominciare a costituirsi: ecco il segreto della Chiesa Cattolica. “Prima che Abramo fosse io sono?”. Prima dell’organizzazione c’è Cristo. La Chiesa Cattolica, come efficacemente dice S. Agostino, è Gesù Cristo in terra. Sovente si ode ripetere il grido: “Ritorniamo a Cristo”, ed è grido sincero, da qualunque parte venga. Ma perché la meta sia certa, il grido deve invocare qualche cosa di più. Non ci si dovrà fermare al Cristo uomo; si dovrà arrivare, in Cristo, fino a Dio, poiché è quello lo scopo della sua venuta sulla terra, ed Egli ce lo ha detto esplicitamente. Bisogna arrivare più avanti e più in alto: fino alle tre Persone divine nell’unico Dio che abita in noi, il centro di ogni vera Religione, la forza per la quale siamo e viviamo, l’ideale cui tende la natura umana, consapevole o no, il modello di quella vera unità e carità che sono o dovrebbero essere segno distintivo del Cristiano, la miglior garanzia per lui di essere realmente, come aspira ad essere, amico di Dio.