LA VITA INTERIORE DEL CATTOLICO (5)
Mons. ALBAN GOODIER S.J. (Arcivescovo di Hierapolis)
Morcelliana Ed. Brescia 1935
Traduzione di Bice Masperi
CAPITOLO II
LA VITA IN GESÙ CRISTO
1. Il Corpo Mistico
Si è già accennato a Gesù Cristo nostro Signore come a capo del genere umano, e al suo Corpo mistico al quale tutti i Cristiani sono incorporati. Ma questa espressione, del Corpo mistico, va studiata particolarmente per poter arrivare a meglio comprendere la vita spirituale e la Chiesa Madre secondo i Cattolici. Poiché per essi il Corpo mistico è assai più che una metafora, assai più che una felice espressione dei nostri rapporti con Gesù Cristo nostro Signore. Alcune parole di Lui, spesso ripetute, e altre di chi, come S. Paolo o S. Pietro, fu tra i suoi migliori interpreti non possono lasciarci alcun dubbio che questa incorporazione non sia in un certo senso una realtà. Il Corpo mistico del quale Cristo è il capo e i suoi seguaci sono le membra ha un’esistenza vera viva e vitale i cui frutti sono visibili sia nell’anima di ogni Cattolico che nel mondo circostante. – Possiamo innanzi tutto considerare l’insegnamento di Cristo stesso. E qui notiamo che nello studiare le parole di Lui, in questo caso come in altri, non cerchiamo tanto l’interpretazione letterale, quanto il pensiero che le dettò. A considerarle isolatamente è facile esagerarne o attenuarne la portata, ma raggruppandole e confrontandole possiamo sperare ch’esse ci diano il substrato del suo pensiero, vale a dire quanto maggiormente ci interessa. Incominciamo dall’ultimo episodio sul pendio del monte Oliveto, quando la predicazione di Gesù era ormai terminata ed Egli la concluse preannunciando ai dodici la fine del mondo e il giudizio universale. I giusti saranno separati dagli empi e riceveranno il premio: “Venite, benedetti dal Padre mio”, perché lo hanno servito. “Perchè ebbi fame e mi rifocillaste;. Ebbi sete e mi deste da bere; fui pellegrino e mi ricoveraste; ignudo, e mi copriste; infermo, e mi visitaste; carcerato, e veniste da me”. (Matt. XXV, 35, 36). – I giusti chiederanno quando mai fecero a Lui tali cose, quando mai lo videro in quelle condizioni, ed Egli risponderà: « In verità vi dico: quante volte avete fatto qualche cosa a uno di questi minimi tra i miei fratelli l’avete fatto a me ». (Matt. XXV, 40). Sono forti parole che aprono un nuovo orizzonte sulle relazioni fra uomo e uomo, fra il beneficato e il benefattore, e li pongono sopra un piano affatto nuovo. Anche se considerate isolatamente, esse significano, né più né meno, che Cristo ritiene fatto a se stesso ogni atto di bontà compiuto verso il povero e il sofferente, ed è già cosa meravigliosa che basta a dare un significato nuovo alla carità. Ma se riavviciniamo quelle parole ad altre pronunciate da Cristo in occasioni diverse, vi scorgiamo facilmente un’importanza ancor maggiore, un’intenzione che va più lontano. Disse un giorno Gesù ai dodici a parte: « Chi ascolta voi ascolta me, chi disprezza voi disprezza me ». E non fu mai più esplicito che nel discorso dell’ultima cena, in cui diede ai suoi discepoli quello che chiamò “un comandamento nuovo”. “Vi dò un nuovo comandamento, d’amarvi scambievolmente; amatevi l’un l’altro così come Io v’ho amato ». (Giov. XIII, 34). È molto più di quanto finora fosse stato detto, molto più del precetto generale che ci impone di amare il nostro prossimo come noi stessi. ,Questo precetto ci offre a modello lo stesso amore disinteressato che ridusse Cristo ad annientarsi per amore di noi. Amare il mio prossimo come me stesso è una cosa, amarlo come mi ha amato Cristo è ben altro, poiché Egli mi ama assai più di quanto io non ami me stesso, ha fatto per me assai più di quanto io abbia mai fatto o mai possa fare. Mi domanda un amore per gli altri superiore a quello che da me posso dare: vuole ch’io li ami col suo stesso amore. Ma subito, per mostrarmi dove troverò il mezzo di fare l’impossibile e per metterlo alla mia portata, Cristo fa la nota similitudine. « Rimanete in me, e io in voi. Come il tralcio non può da sé dar frutto, se non rimane nella vite, così nemmeno voi se non rimanete in me. Io sono la vite, voi i tralci. Se uno rimane in me e Io in lui, questo porta molto frutto; perché senza me non potete far niente…. Come il Padre ha amato me, così ho amato voi. Perseverate nell’amor mio”. (Giov. XV: 1,9). Così ci rende possibile l’osservanza del suo “comandamento nuovo”. Dobbiamo amare il nostro prossimo non solo come noi stessi ma come ci ama Cristo, e, cosa ancor più sublime, come Cristo è amato dal Padre. “Come il Padre ha amato me, così Io vi ho amato. Come io vi ho amato, amatevi l’un l’altro”. Cosa impossibile alle nostre povere forze; possibile solo se “rimaniamo in Lui*, se “rimaniamo nell’amor suo”, se amiamo col suo amore, se viviamo della sua vita. – In una maniera mistica, ma non per questo meno reale, altrimenti le parole ora citate non significherebbero più nulla, noi siamo uniti a Gesù Cristo, al Verbo Incarnato, all’Uomo-Dio, così che la sua vita e il suo amore diventan nostri. Come il tralcio è unito alla vite e fatto con essa una cosa sola, come la vita di questa diventa la vita di quello, così noi siamo uniti a Lui, con questo risultato, che mentre da noi soli nulla potremmo, ora, uniti a Lui, possiamo fare ciò che fa Cristo stesso. “Il Verbo si fece carne e abitò noi…. pieno di grazia e di verità… e della pienezza di Lui tutti abbiamo ricevuto”, (Giov. I, 14, 16) non solo nella elargizione di un dono, come da amico ad amico, ma per una vera e propria comunicazione di vita. E non solo di vita, ma anche di ciò che la contiene, che è il corpo: se facciamo una sola vita con Cristo, faremo anche un corpo solo con Lui. Siamo incorporati a Cristo, siamo membri di quell’organismo di cui Egli è il capo; in un senso affatto nuovo, ma altrettanto reale, in Lui “viviamo e ci muoviamo e abbiamo il nostro essere”; viviamo, non più noi, ma Egli vive in noi; portiamo sul nostro corpo le stimmate di Cristo. – E sullo stesso concetto il Signore insiste nella solenne preghiera con cui termina l’ultima cena. Prima domanda che ai suoi venga concessa la vita eterna, e dicendo “i suoi” fa capire che non intende solo gli Apostoli ma anche i loro discepoli, tutti i Cristiani, tutti i credenti in Lui, sino alla fine del mondo; poi prega il Padre così: “Né soltanto prego per questi, ma anche per quelli i quali per la loro parola crederanno in me, che siano tutti uno, come tu sei in me, Padre, e Io in te: siano anch’essi uno in noi, sicché creda il mondo che tu m’hai mandato. E la gloria che tu mi desti io ho data ad essi, affinché siano uno come uno siamo noi. Io in essi, tu in me; affinché siano perfetti nell’unità, me affinché conosca il mondo che tu mi mandasti e amasti essi come amasti me”. (Giov. XVII, 20, 23). “Come Tu, Padre, in me ed Io in Te”. “Affinché siano uno in noi”. “ Affinché siano uno come uno siamo noi”. “Affinché siano perfetti nell’unità”. Affinché questa perfezione nell’unità convinca il mondo “che Tu mi mandasti, e che amasti essi come amasti me”. Non si tratta qui di una semplice metafora; non è il solito linguaggio iperbolico dell’amore, ma qualche cosa di più, assai di più; ha troppo l’accento della verità ed è concetto ripetuto con troppo calore e con troppa insistenza per poter essere l’invenzione di uno scrittore umano. – È un insegnamento positivo, ripetuto perché non venga frainteso, è come l’idea fissa nella mente e nel cuore di Cristo al momento cruciale della sua vita; e l’unione di cui parla è arditamente paragonata all’unità che esiste tra Dio Padre e Dio Figlio, “come Tu ed io siamo uno”. Due persone, eppure un Dio solo; due persone: Cristo e me, eppure una sola vita, un corpo solo che è il corpo stesso di Cristo. Tutti possiamo affermarlo, ogni vero credente e fedele seguace di Cristo può vantare questo privilegio; perciò in Lui, fatti membri del suo unico corpo, tralci eguali di una stessa vite, ricevendo ciascuno da Lui la medesima vita, noi siamo membri l’uno dell’altro. Siamo amati dal Padre precisamente come ne è amato Cristo, perché siamo il suo corpo, apparteniamo alla famiglia del Padre quali coeredi di Cristo, veniamo innalzati a una dignità che dà un significato nuovo alla vita e alla creazione tutta. Siamo nobilitati, e perciò invitati e impegnati a sforzarci di vivere all’altezza di tale onore, rendendoci migliori. Comprendiamo meglio ormai perché Cristo ci pose dinanzi fin dal principio della sua predicazione, con espressione ardita, un modello che sembrava irraggiungibile: “Siate dunque perfetti com’è perfetto il Padre vostro nei cieli”. (Matt. V, 48). Così la dottrina dell’unione mistica, ma non perciò meno reale, del fedele con Cristo è parte essenziale dell’insegnamento di Lui. San Paolo se la appropria e ne fa la base di tutto il suo sistema, la considera fulcro del Cristianesimo e della vera Chiesa. – Per lui, più che un’organizzazione, la Chiesa è un organismo; più che una istituzione, è una cosa viva; e quanto più esperto diviene delle vie di Dio e della vita umana, tanto più l’Apostolo insiste su questo concetto. È degno di nota ch’egli lo intuì fin dall’istante della conversione, come risulta — e sempre con maggior evidenza — da ciascuna delle tre narrazioni che ce ne rimangono. Saul fu gettato a terra tramortito e la voce che udì non diceva: “Perché perseguiti i miei fedeli?” ma: “Perché mi perseguiti?” E quando Saul chiese chi parlasse, la risposta fu: “Io sono Gesù che tu perseguiti”. (Atti, IX, 9). Saul non dimenticò più la lezione implicita in quelle parole; si direbbe anzi che ne facesse soggetto speciale di meditazione per tutta la vita, di modo che sempre meglio ne penetrò la portata e le conseguenze. Esser cristiano voleva dire essere una cosa sola con Cristo; esser membro della Chiesa significava esser membro di quel corpo vivo di cui Cristo era il capo. Con ciò è detto quasi tutto quel ch’è necessario per comprendere l’anima del grande Apostolo dei Gentili. Così scrive a quei di Corinto, tuttora incerti, che pare non abbiano ancora afferrato la necessità dell’unione fra loro: “Come il corpo è uno e ha molte membra e tutte le membra del corpo pur essendo molte il corpo è uno, così anche Cristo. Poiché noi tutti, sia Giudei sia Gentili, sia schiavi sia liberi, in unico Spirito siamo stati battezzati sì da formare un corpo solo e tutti siamo stati imbevuti di unico spirito. Anche il nostro corpo non è un membro solo, ma molte membra….. Orbene, voi siete corpo di Cristo e partitamente siete membra di esso ». (I Cor. XII, 12, 27). – E il suo pensiero si fa ancora più esplicito in seguito, nell’Epistola agli Efesini. Qui è bene rilevare la diversità fra le circostanze di queste due lettere. In quella ai Corinti trattava con dei Cristiani non completamente formati, ed egli stesso non aveva ancora trovato le parole atte ad esprimere perfettamente la verità che pur possedeva. Nell’Epistola agli Efesini, invece, si rivolge a dei fedeli conosciuti fin dall’inizio del suo apostolato. Non può dubitare della loro costanza ed è egli stesso ben certo ormai di poter dar loro il meglio della sua dottrina senza pericolo di venir frainteso: tutta l’Epistola vibra della commozione di un cuore profondamente affezionato, ansioso di far parte a chi tanto ama del più e del meglio di quanto possiede. E bisogna notare inoltre che, nel frattempo, Paolo ha vissuto parecchi anni di prigionia. Molte e lunghe ore di silenzio gli hanno permesso di meditare a suo agio sulla visione avuta, osservando lo sviluppo di quell’organismo vivo che si è diffuso tutt’intorno all’Impero romano non per effetto di organizzazione e di sistema, ma precisamente come un albero che cresce in virtù di una sua forza interna. E l’Apostolo ha finalmente trovato parole tali da poter esprimere con sufficiente efficacia i suoi pensieri. Perciò in questa Epistola non descrive più il Corpo mistico solo come un vincolo magnifico di unità, ma come una consumazione, una meta accessibile anche in questo mondo, un modello, un ideale che, raggiunto, costituisce la sua stessa ricompensa ed è l’uomo perfetto. Scrive così: “Io dunque vi esorto, io, il carcerato nel Signore, di condurvi in modo degno della chiamata che avete ricevuto, con tutta umiltà e mansuetudine e con longanimità, tollerandovi a vicenda con amore, sforzandovi di conservare l’unità dello spirito nel vincolo della pace: un corpo solo, un solo spirito, come in unica speranza siete stati chiamati. Uno è il Signore, una la fede, uno il battesimo, uno Iddio e Padre di tutti, Colui che è sopra tutti e per tutti e in tutti”, (Efes. IV, 1, 6). – Questo è l’ideale; come raggiungerlo? Lo dice chiaramente il seguito dell’Epistola. Con “l’edificazione del corpo di Cristo, fino a tanto che ci riuniamo tutti nell’unità della fede e nel riconoscimento del Figlio di Dio, giungendo alla maturità d’uomo fatto, alla misura di età della pienezza di Cristo; affinché non siamo più dei bambini sballottati e portati via da ogni vento di dottrina…. Ma seguendo il vero con amore, progrediamo in tutto verso di Lui ch’è il capo, Cristo, dal quale tutto il corpo ben composto e connesso per l’utile concatenazione delle articolazioni, efficacemente, nella misura di ciascuna delle sue parti, compie il suo sviluppo per l’edificazione di se stesso nell’amore” (Efes. IV, 12, 16). – A questo modo San Paolo sviluppa il pensiero enunciato in un capitolo precedente, quando ha detto di Nostro Signore: “E tutta pose sotto i suoi piedi e Lui costituì capo supremo alla Chiesa che è il corpo di Lui, il complemento di Colui che tutto completa in tutti”. (Efes. I, 22, 23). Tutto ciò è abbastanza esplicito. Per San Paolo, e per la Chiesa tutta che gli era umita, oltre al Cristo storico che ha vissuto i suoi trentatrè anni su questa terra ed è morto, c’è anche un Cristo mistico, identico al primo eppure distinto, (come son deboli le parole e le idee umane quando si tratta di esprimere il soprannaturale!) che continua nel mondo, vivo fra gli uomini e negli uomini, un Cristo con un capo, un’anima, delle membra che formano tutte insieme un unico corpo vivente spirituale. “Benedetto Iddio e Padre del Signor nostro Gesù Cristo, il quale ci ha benedetti con ogni benedizione spirituale, celeste, in Cristo, in quanto ci ha eletti in Lui, “prima della fondazione del mondo, a esser santi e irreprensibili nel suo cospetto, per amore avendoci predestinati a esser figli suoi adottivi per mezzo di Gesù Cristo, secondo la benignità del suo volere, sì che ciò torni a lode della gloriosa manifestazione della grazia sua, di cui ci fece dono nel suo diletto Figliolo”. (Efes. I, 3-6).