LA GRAZIA E LA GLORIA (48)

LA GRAZIA E LA GLORIA (48)

Del R. P. J-B TERRIEN S.J.

II.

Nihil obstat, M-G. LABROSSE, S. J. Biturici, 17 feb. 1901

Imprimatur: Parisiis, die 20 feb. 1901 Ed. Thomas, v. g.

LIBRO IX

LA PERFEZIONE FINALE DEI FIGLI DI DIO. QUESTA PERFEZIONE CONSIDERATA DAL LATO DELL’ANIMA

CAPITOLO VI

Dell’amore beatifico. Il suo principio, le sue proprietà.

1. I figli di Dio, al termine della loro crescita spirituale, vedranno Dio; questo è ciò che abbiamo cercato di spiegare come balbettando. Solo loro potrebbero dirci chiaramente cosa contemplano e come lo contemplano: ma, oltre al fatto che questo è il segreto del cielo, la nostra infermità sarebbe impotente a comprendere ciò che essi ci direbbero. La stessa impotenza nei confronti del loro amore è quella che ci rende così incomprensibile la visione, di cui è la naturale conseguenza. – Essi vedono, amano. Figli a lungo esiliati che si trovano per la prima volta alla presenza del più amabile dei padri: una pallida immagine dell’ingresso degli eletti nella visione che ci è stata promessa. Non possono i loro cuori sussultare d’amore fino a rompersi il petto, quando lo vedono così buono, così grande, così regale, così glorioso? Lo amavano già tanto, senza averlo visto se non attraverso le fitte tenebre, alla luce della fede, nei suoi effetti, e come da lontano. Ora che lo contemplano apertamente, e che con un solo colpo d’occhio, così fermo che nulla lo abbaglia, così libero che nulla lo ferma, entrano nell’abisso due volte insondabile delle sue processioni interiori e delle sue perfezioni essenziali; ora che lo possiedono, che lo toccano e che sanno di essere indissolubilmente posseduti da Lui, quali non debbano essere i loro impulsi, il loro ardore e il loro trasporto! – Incapace da sola di informarci su questi alti destini, perché rispondono non alla natura ma alla grazia, la filosofia può comunque aiutare la nostra fede, con le sue luci, a farci intravedere la loro grandezza e sublimità. Infatti, cosa ci si insegna della nostra facoltà di amare, cioè della volontà? È che ogni suo atto è essenzialmente un movimento verso il bene e il buono. È solo questo che la muove; è, per usare il linguaggio dei teologi e dei filosofi, il suo oggetto formale, come il colore è l’oggetto della vista, la verità quello dell’intelligenza. Certamente, è in nostro potere far vagare i nostri desideri su un numero infinito di oggetti diversi; ma a condizione che l’occhio dello spirito ci mostri in essi il solo magnete che ci attrae, una realizzazione più o meno perfetta dell’idea del bene. È impossibile per noi volere il male per il male, così come è impossibile affermare interiormente il falso, perché è il falso. E questo è talmente vero che per amare ciò che non è degno della nostra stima o dei nostri affetti, dobbiamo, con una grossolana illusione, attribuirgli le perfezioni che non ha. – Andiamo oltre e chiediamoci da dove provenga a questi particolari beni, che sono l’oggetto delle nostre concupiscenze, la perfezione che ci spinge a cercarli; cerchiamo, in altre parole, dove questa idea, questa ragione del bene, « ratio boni », la cui sola attrazione è in grado di muoverci, abbia il suo pieno e totale compimento. La sana filosofia risponde: da Dio e in Dio. Sì, tutti questi raggi di bontà, che si diffondono sulle creature, emanano da Lui, come dalla loro sorgente originaria: sì, solo in Lui si condensa, per così dire, con infinita pienezza la materia universale delle nostre aspirazioni e dei nostri amori; Egli è il bene per essenza, il Bene sovrano, totale, puro, assoluto. – Ed è per questo che il Dottore Angelico ci dice che quella parte che il primo motore di ogni potenza appetitiva è Dio. (« Omnia appetunt Deum ut finem, appetendo quodcumque bonum: quia nihil habet rationem boni et appetibilis, nisi secundum quod participat Dei similitudinem » Thom. 1 p., q. 44, a. 4 ad 3). La potenza appetitiva è Dio, perché solo Lui ha nella sua infinita perfezione il potere di attirare ogni volontà; solo Lui, facendo la creatura ad immagine della sua bontà, le comunica in vari gradi e le conserva questa attrazione. (S. Thom., de Verit., q. 22, a. 2). Nessuna volontà, per quanto perversa, può tendere verso l’oggetto dei suoi appetiti senza tendere implicitamente verso Dio, poiché questo oggetto è, in virtù della sua stessa natura, una partecipazione finita della bontà infinita. Non è forse stato Sant’Agostino, nel suo magnifico linguaggio, a definire Dio « il bene di tutti i beni; il bene da cui proviene ogni bene; il bene che è solo bene »? (Sant’Agostino, Enarr. in Psalm, XXVI, n. 8; col. De Trinit. L. VI, C. 3. N. 4). – Guardate ora questo figlio di Dio, tormentato dalla sete inestinguibile che lo porta e lo spinge al cuore di ciò che è buono e perfetto. Cosa farà se non si abbandonerà con tutta l’impetuosità del suo cuore a questa bontà che si manifesta così chiaramente e che si dona così liberamente a lui? Essa è in sé stessa il Bene supremo, poiché è tutto l’essere e tutta la perfezione; essa è ancora per lui il suo Bene supremo: possederlo non è forse raggiungere la pienezza del suo essere e della sua stessa perfezione allo stesso tempo? – Dio, essendo il Bene sovrano, è anche il supremo amore. Egli ci ama, non come ama tutte le cose, ma come un amico che apre il suo cuore all’amico, che condivide con lui i suoi segreti più intimi, che lo chiama alla comunione di tutti i suoi tesori e della sua stessa vita. Che modo c’è di non rispondere con amore a questo amore incomparabile, quando lo si vede, quando lo si tocca, e quando è più impossibile distrarsi da esso, anche solo per un momento, più di quanto si possa ignorare se stesso? – Essi vedranno ed ameranno. La teologia ci insegna che nel seno della divinità la conoscenza e l’amore vanno di pari passo: in altre parole, se Dio è per essenza l’infinita comprensione di se stesso, è anche l’infinito amore. Da ciò sappiamo che dal Padre e dal Verbo di Dio, termine eterno della conoscenza eterna del Padre della loro comune bontà, procede eternamente lo Spirito divino, cioè l’amore vivo e consustanziale di questa stessa bontà. Pertanto, affinché l’immagine corrisponda al suo esemplare, affinché la copia riproduca il suo modello, ai contemplatori creati della bontà divina abbisogna un amore che si armonizzi con la loro conoscenza, che scaturisca da essa come lo Spirito di Dio scaturisce dal suo Verbo, ed è pari ad esso in perfezione. – Considerato nel suo principio, l’amore dei figli adottivi che hanno raggiunto il termine, non differisce da quello che hanno avuto nel cammino: entrambi scaturiscono dalla stessa fonte che è la carità divina. Così, la perfezione finale della volontà non corrisponde in tutto e per tutto a quella dell’intelligenza. In quest’ultima, la luce della gloria succede alla fede; con le sue oscurità e i suoi veli, la fede non può essere il principio della visione faccia a faccia, né è compatibile con essa. Come si può credere, anche sull’autorità di Dio, a ciò che si contempla in una luce nebulosa, senza che sia possibile distogliere per un attimo lo sguardo da essa? Ma la carità rimane nella volontà, secondo le parole dell’Apostolo: « La carità non avrà mai fine » (Cor. XIII, 8). – La ragione di questa differenza è la stessa che dà alla carità la sua preminenza sulle altre due virtù teologali. Tutte e tre, è vero, hanno Dio come oggetto proprio, e di conseguenza non è con l’eccellenza relativa del loro oggetto che possiamo stabilire un titolo di superiorità per l’una o per l’altra. La disuguaglianza in questa comunità di oggetti è data dal rapporto di maggiore o minore vicinanza che essi hanno con Lui. La fede e la speranza non sono, in virtù della loro stessa natura, prive dell’idea di distanza; infatti, l’una crede ciò che non vede, l’altra spera in ciò che non possiede ancora. D’altra parte, la carità non si concepisce senza un certo possesso di ciò che ama, poiché ha per sua natura il carattere dell’unione. « Chi rimane nella carità – dice l’Apostolo dell’amore – rimane in Dio e Dio in lui » (I Joan, IV, 16). Come può la carità, le cui aspirazioni e desideri tendono ad un’unione sempre più stretta, svanire quando questa unione si consuma nella presenza? (S. Thom. 1. 2. D. 66, a. 6). Il suo singolare privilegio è quindi quello di condurci a Dio e di rimanere con noi alla fine del nostro cammino, quando saremo pienamente in Dio. Essa è il peso che ci traporta lì, e il peso che ci fissa lì; nasce e cresce sulla terra e solo in cielo fiorisce pienamente. Nascendo e crescendo sulla terra, essa non si espande pienamente che in cielo, glorioso in questo doppio soggiorno, ma più felice nel secondo, perché nulla potrà mai minacciare la sua esistenza né turbarla nelle sue ineffabili effusioni.

2. – Dopo questi pochi accenni alle cause dell’amore beatifico, meditiamone le proprietà. La carità può essere perfetta in questa vita? Questa è una delle domande che si pongono universalmente i teologi quando devono trattare di questa virtù. Ora, la perfezione della carità può essere considerata da due punti di vista: dal punto di vista dell’oggetto e da quello del soggetto. Dal primo punto di vista, c’è solo una carità assolutamente perfetta, con cui Dio ama Se stesso, perché solo Lui può amare Se stesso in quanto amabile, così come solo Lui può conoscere Se stesso in quanto intelligibile. La misura della sua amabilità è la sua stessa bontà; e poiché la sua bontà non ha limiti, anche l’amore di questa bontà, per essere adeguato alla sua amabilità, deve escludere ogni limite, essere infinito. Riunite, se possibile, tutte le potenze dell’amore che possano trovarsi nelle creature, mai uguaglieranno le divine amabilità; infatti, queste potenze, per quanto grandi e numerose possiate immaginare, saranno sempre di una virtù limitata, perché sono di una virtù creata. Ma dal secondo punto di vista, la creatura può amare Dio perfettamente: poiché amarlo in questo modo significa adempiere al precetto della carità: « Amerete il Signore vostro Dio con tutto il vostro cuore, con tutta la vostra anima, con tutta la vostra forza e con tutta la vostra mente » (Lc., X, 27; Deut., VI, 5). – Facciamo notare, tuttavia, che l’adempimento del precetto ha i suoi gradi. Ogni uomo può, con l’aiuto della grazia, avere abitualmente il cuore in Dio, in modo da non pensare e fare nulla di contrario al suo amore; e non solo può farlo, ma deve farlo, pena la perdita dell’amicizia divina e la compromissione della salvezza eterna della sua anima. La creatura ragionevole può e riesce a salire ancora più in alto nello stato di prova che è il nostro, quando si dedica interamente alle cose di Dio e non è disposta a prestare alcuna attenzione alle altre se non quella richiesta dalle necessità della vita presente. Al di sopra di questa perfezione, la più alta possibile per l’uomo, finché è in cammino, trovo il terzo e supremo grado della carità, che non è più della terra ma del cielo: tutto il cuore dell’uomo è diretto attualmente e sempre verso Dio (S. Thom, 2, q. 24, a. 8; de Carit, a. 10). – Cerchiamo di capire qual sia l’eccellenza della carità nella patria. Quaggiù, quanti ostacoli impediscono alle anime più generose di correre, come vorrebbero, verso la Bontà sovrana, unico oggetto del loro amore. Infatti, per non parlare delle inclinazioni disordinate che tendono incessantemente a piegarci verso beni fragili e bugiardi, ci sono le occupazioni volgari della vita che ci dividono (I Cor., VII, 24); e, anche se arrivassimo a respingere questi impedimenti con una rinuncia totale, il peso della mortalità, che grava su tutti i figli di Adamo, sarebbe comunque sufficiente a paralizzare o almeno a ritardare il libero volo dell’amore. Tale è il lamento dei Santi e la materia dei loro gemiti, che non possono cioè amare il loro Dio con tutto lo sforzo della loro volontà, senza alcun cedimento, senza interruzioni, costantemente e sempre. – Chi può meravigliarsi che la meta verso cui essi tendono sfugga in mille modi ai loro sforzi? L’amore dipende dalla conoscenza: perché il cuore sia attualmente in Dio, è necessario che l’intelletto lo mostri attualmente come sovranamente amabile. Ora non è possibile per la nostra debolezza avere l’occhio dell’anima così costantemente fisso su Dio da non perderlo mai di vista. Quando anche, quindi, tutti gli altri ostacoli venissero rimossi, queste distrazioni necessarie sarebbero sufficienti a sospendere l’impulso del nostro amore. Ma in cielo, come sappiamo, l’intelligenza è necessariamente e perennemente nell’atto stesso di contemplare Dio, e questa visione faccia a faccia, dalla quale nulla può distrarre, termina nell’amore. Il vedere sempre, porta ad amare sempre ciò che vediamo, perché lo vediamo infinitamente amabile. Questa è dunque la prima proprietà della carità nella patria: essa è sempre in azione. – La seconda proprietà è che si tratta dell’atto di amare come la visione beatifica: è eternamente immutabile, eternamente uguale. Quaggiù, anche quando la carità sia così profondamente radicata in un cuore e che da esso nulla possa strapparla, gli atti d’amore che ne derivano sono successivi e molteplici; ciò è dovuto alle infermità di cui abbiamo parlato prima. Ma perché dovrebbe esserci una successione nella gloria se la luce è sempre presente e l’attenzione sempre vigile? È possibile che la volontà sia incostante e mutevole? Lo capirei, se l’occhio dell’anima le presentasse una bontà finita, o se la conoscenza che ha della bontà infinita non fosse la visione immediata e perfettamente chiara di essa. Ma il Bene perfetto, contemplato senza ombre e veli attira necessariamente l’amore a sé, poiché si offre come è in sé, come il bene, il bene non mescolato, tutto il bene. È un motore la cui potenza infinita non lascia alcuna possibilità di resistenza alla volontà a cui esso sia applicato da se stesso. Poiché, dunque, nulla può ostacolare questa applicazione, nulla può interrompere il suo effetto, intendo dire il movimento d’amore che porta la volontà verso il suo Dio. – Sarebbe una fatica l’amare sempre? Ma quale stanchezza si può immaginare in una potenza dell’Anima, quando raggiunge con la sua operazione più perfetta l’oggetto più perfetto della sua attività? Ripetiamo quanto già detto a proposito dell’intelligenza: nulla danneggia o affatica l’esercizio di un potere spirituale più della concomitanza obbligatoria delle facoltà organiche. Ora, questa dipendenza che si trova ovunque nella condizione attuale della nostra natura, la vita beata non la conosce né la può ammettere. Potrebbe essere, infine, che la necessità di crescere nell’amore richieda una successione di atti? Ma una volta che gli eletti sono con Dio, non c’è più crescita. Alt alla crescita nella virtù, perché la carità risponde alla grazia e la grazia non può essere aumentata dai Sacramenti che non vengono dal cielo, né da meriti il cui tempo è passato. Non c’è quindi un’ulteriore crescita nell’atto d’amore, poiché, fin dall’inizio, l’anima, divinizzata dalla grazia e rafforzata dalla virtù, si dirige verso Dio con tutto il fervore e l’intensità di cui questi principii l’hanno resa capace. Quindi, dal punto di vista dell’amore e della conoscenza, questo è il termine. Pretendere che negli eletti ci sarà un futuro perfezionamento nel loro amore dell’infinita bontà, equivarrebbe a dire o che la virtù possa essere in loro ulteriormente sviluppata, o che essi non abbiano amato fin dall’inizio con tutta la misura delle loro forze e la piena capacità del loro cuore. – Ora, se l’atto di amore beatifico non ammette cambiamenti, esclude, a maggior ragione, qualsiasi molteplicità simultanea negli atti. Una visione unica richiede un amore unico, e non è nemmeno pensabile che due movimenti affettivi dello stesso tipo, che rispondano alla stessa conoscenza e riguardino lo stesso oggetto, possano coesistere contemporaneamente nella stessa volontà. – Tuttavia, questo atto, per quanto unico, include nella sua eminente semplicità tutte le perfezioni richieste dalla bontà divina, il suo termine ed il suo oggetto. È benevolenza, compiacimento e gratitudine senza limiti; è l’amore di un figlio per il migliore dei padri, di un amico per il più generoso degli amici, di una sposa per lo sposo sovranamente amabile; un amore al tempo stesso tenero e forte come la morte, ardente e riverente, che si innalza fino alla bontà suprema e si abbassa davanti ad essa fino al nulla, sempre sazio e sempre insaziabile, il più spontaneo di tutti e tuttavia il più necessario, che non sa cosa sia l’invidia ed è geloso all’eccesso nel vedere ciò che ama unicamente amato; un amore che, essendo solo amore, persegue con odio implacabile tutto ciò che si opponga all’onore di Dio: perché se non fosse tutto questo, non sarebbe più una partecipazione perfetta all’Amore infinito di cui è l’immagine più eccellente. – Un’altra caratteristica che è sufficiente segnalare nell’amore degli eletti è la loro disuguaglianza. Disuguali nella grazia, disuguali nella visione, come non sarebbero disuguali anche nella virtù dell’amore e nel suo atto? Lampade luminose e ardenti, sospese nel firmamento del cielo, non emanano la stessa intensità di luce e di fuoco, sebbene ognuna di esse sia inondata di luce e si sciolga negli ardori. Chi dirà che la B. Vergine, Madre di Dio, non ami incomparabilmente più di tutti gli uomini e di tutti i Serafini, anche se i loro atti d’amore sono uniti in un unico e medesimo amore? Come abbiamo già osservato, se tutti i figli di Dio vanno nell’amore fino al termine del loro potere di amare, le capacità, così come la grazia e la gloria, sono diverse. Chi sente in sé la nobile ambizione di amare eternamente Dio senza misura, lavori per perfezionarsi nella santa virtù della carità, perché è alla perfezione della via che l’amore corrisponderà in patria. – Un’ultima proprietà dell’amore beatifico, implicita nelle precedenti, è che esso esclude non solo il peccato, ma pure la possibilità stessa di commetterlo. Se quaggiù capita, anche alle anime più ferventi, di cadere in qualche infedeltà, io ne trovo due ragioni principali. In primo luogo, esse non hanno sempre le infinite bontà di Dio davanti agli occhi della loro anima, e anche se il ricordo di Dio fosse presente per loro, esso non sarebbe la chiarezza della visione; in secondo luogo, e per naturale conseguenza, esse non sono sempre in un necessario e attualissimo esercizio di perfetta carità. Perciò, dove non si è e non si può essere privi della visione più immediata e chiara della bontà divina; là dove l’amore di Dio regni attualmente e necessariamente nel cuore, re e padrone di tutti gli affetti, non c’è spazio per le piccole offese, incompatibili non dico con l’abitudine, ma con l’atto sovrano della carità. – Datemi un uomo che possa amare una cosa indipendentemente dal bene che vede o pensa di vedere in essa, e vi mostrerò un uomo benedetto che ama un bene finito con un amore che non si armonizza con l’amore perfetto di Dio. La vista di Dio compie questa meraviglia, fa sì che « la volontà ami altrettanto necessariamente ciò che ama, in relazione a Dio, come in coloro che non vedono ancora, essa ama tutto ciò che essa ama sotto la ragione comune del bene. » (S. Thom., 1, 2, q. 4 a. 4). La ragione di ciò è ovvia, se si è disposti a riflettere. Poiché la mia volontà è fatta per il bene, posso distoglierla da un bene particolare verso un altro bene finito: nessuno dei due realizza pienamente in esso quella nozione generale di bene, al di fuori della quale non posso amare o volere nulla. Ma quando Dio mi si rivela manifestamente come la piena, universale e perfetta comprensione di ogni bene, la stessa impossibilità che mi impedisce di amare qualcosa di diverso dal bene, mi proibisce anche di guardare e amare come mio bene ciò che non si riferisca al Bene supremo, tesoro e fonte di ogni bene. – Un esempio, dato dall’Angelo della Scuola, completerà il portare in pieno alla luce queste verità. La mente umana può indulgere in deviazioni finché non abbia trovato il principio evidente su cui poggia l’oggetto dei suoi pensieri; ma una volta che questa verità maestra abbia gettato la sua luce sulle conclusioni fino ad allora più o meno incerte, l’errore, a meno che non si chiudano gli occhi, non è più possibile. Ora, quali siano i principi nell’ordine delle cose intelligibili, l’ultimo fine, ossia il Bene sovrano dell’uomo, è nell’ordine degli oggetti dell’appetito (S. Thom. Compend. Theolog., c. 166). Ditemi: che cosa vi allontana da questo oggetto amato per inclinare i vostri affetti verso un altro indipendente dal primo? È che esso non sia, o almeno che non vi appaia manifestamente adeguato ai vostri desideri. Così l’anima a cui Dio si mostra e si dona nella pienezza della sua infinita bontà, non può più amare nulla né cercare nulla al di fuori di Lui. È una beata impossibilità che fa sospirare tante anime, innamorate dell’Amore divino, verso una condizione in cui la loro debolezza sarà salvaguardata per sempre dal più grande dei mali, l’offesa di Dio, il peccato.

LA VITA INTIMA DEL CATTOLICO (10)

LA VITA INTERIORE DEL CATTOLICO (10)

Mons. ALBAN GOODIER S.J. (Arcivescovo di Hierapolis)

Morcelliana Ed. Brescia 1935

Traduzione di Bice Masperi

CAPITOLO III

La vita nella Chiesa

3. – Corrispondenza dell’uomo.

Ci viene insegnato che, per mezzo dei sacramenti e in altri modi ancora, lo Spirito Santo operi in noi. A noi spetta fare quanto è in potere nostro per possedere la presenza viva dello Spirito e, sapendo di possederlo, per dargli tutto l’onore che gli è dovuto. È questo precisamente ciò che intendiamo per pratica interiore della religione, o religione del cuore. È primo dovere del Cristiano ricordare sempre il Dio che ha tanto fatto per lui, che lo ha tratto dalle tenebre alla luce soprannaturale, che è così vicino a lui, che si degna anzi farsi ospite della sua anima. Per un visitatore regale faremmo qualunque cosa; potremo rimanere indifferenti alla visita della SS. Trinità? Questo pensiero è bastato molte volte a fare i Santi; Santa Teresa ne è un esempio. E il metodo è semplice. Chi crede nella dimora della SS. Trinità nell’anima fedele farà ogni sforzo, dovunque e in qualsiasi condizione sia posto, per vivere ed agire come si conviene ad uno che si trovi in sì augusta compagnia. Ecco perché, nel secoli, il Cattolico si è abituato ed affezionato al segno della croce. Con quel segno egli affronta e vince ogni nemico; ogni azione della giornata egli inizia “nel nome del Padre e del Figliuolo e dello Spirito Santo”. In ogni vicissitudine egli offre al Padre, quale omaggio filiale, tutta la gloria che quell’avvenimento può dargli, e la stessa gloria vuole offrire al Figlio, memore di essere stato da Lui riscattato a prezzo del suo sangue e trasformato da schiavo in amico per l’eternità, e allo Spirito Santo che tanto gli ha dato, compresa l’ispirazione e la forza di fare in quel momento quello stesso segno di croce. L’uomo di vita interiore non sarà pago di dedicare a Dio tutte le azioni ordinarie della giornata e a Lui si terrà unito di continuo, “sollevando. la mente e il cuore a Dio” non solo nel tempo della preghiera, ma in ogni momento, secondo l’insegnamento di San Paolo che ci ammonisce di “pregar sempre”. E nelle ore buie si ricorderà ancora del Padre della luce, e a Lui farà ricorso. “Fin quando, o Signore, persisterai sempre a dimenticarmi e rivolgerai la tua faccia da me?… Guarda e ascoltami, Signore mio Dio, dà luce ai miei occhi”, (Sal. XII 1.4). Nel constatare la propria debolezza, molto spesso, purtroppo! troverà coraggio anche contro di sé nella presenza di Colui che è onnipotente: « In te, Signore, io spero: ch’io non resti confuso giammai… Sii per me un Dio protettore e un asilo di rifugio per trarmi in salvo. Poiché la mia fortezza e il mio rifugio sei tu, e per il tuo nome mi guiderai e mi sosterrai”. (Sal. XXX, 2-4). – Nella desolazione e nell’aridità, quando il cielo sembra chiudersi e la preghiera stessa diventa un peso, ricorderà Colui che pregò così: “Padre, se è possibile passi da me questo calice, … Se non è possibile che questo calice sia rimosso da me senza che io lo beva, sia fatta la tua volontà ». (Matt., XXVI, 42). Quando invece si sentirà facilmente portato all’orazione, seguirà il consiglio di Colui che è il modello di ogni orante: « Ma tu, quando vuoi pregare, entra nella tua camera, chiudi la porta e prega il Padre tuo in segreto; e il Padre tuo che vede nel segreto ti esaudirà”. (Matt. VI, 6). È ovvio che questo spontaneo, fiducioso, continuo ricorso a Dio è la prima conseguenza pratica della nostra adesione alla verità della sua presenza nell’anima nostra. La seconda è analoga alla prima e ne deriva naturalmente: è l’adorazione. « L’anima mia magnifica il Signore e il mio spirito esulta in Dio mio Salvatore… Perché  grandi cose ha fatto in me Colui che è potente e il cui nome è santo”. (Luca I, 46, 49). Così ci ha insegnato a dire la Regina dei credenti, con una spontaneità che ci rivela gli intimi tesori dell’anima sua. E la Chiesa continua a farle eco, ripetendo senza posa: “Sia gloria al Padre, al Figliuolo e allo Spirito Santo”. Terza conseguenza è l’amore, quella divina ricchezza che è la nostra perfezione in quanto esseri umani e in quanto figli di Dio. Senz’amore, nulla vale; con esso, qualunque cosa acquista valore. E siccome l’amore è generoso e attivo per natura, non potrà limitarsi alle parole e al sentimento, e tanto meno lo potrà l’amore verso Dio: esso dovrà dimostrarsi con l’azione e col sacrificio. Che cosa dare? Che cosa fare? “Che cosa renderò al Signore mio Dio per tutto ciò che mi ha dato?” Il peccatore pentito dimostrerà l’amor suo facendo tutta la riparazione di cui sarà capace, incoraggiato dalla misericordia di Colui che disse: “Le sono rimessi i suoi molti peccati perché molto ha amato”. (Luca VII, 47). L’amore dei puri di cuore che vedono Dio e le sue vie sarà un amore di riconoscenza, che non cesserà di ringraziare il datore di ogni bene e sempre cercherà di offrirgli un contraccambio d’amore, non già degno di Lui né adeguato ai suoi doni, ma secondo la debole misura delle proprie forze. E l’amore di pura amicizia andrà ancor più lontano, accettando con umile gioia l’intimità alla quale Dio l’ha benevolmente ammesso, gli parlerà con la confidenza di un amico, vorrà prodigarsi in atti di generosità, offrendo e donando sempre, dimenticando se stesso e i propri meschini interessi per il beneplacito del suo Diletto, e si rallegrerà, all’occasione, di esser trovato degno di soffrire ingiuria per amor suo, accettando anche la morte con gioia se per Lui sarà chiamato a sacrificare la vita. – E queste disposizioni condurranno al quarto dovere che è quello della imitazione. “L’amore rende simili”, e chi ama Dio non può che rallegrarsi di ogni barlume di rassomiglianza con Lui che possa in sé conseguire. Essendo tempio di Dio, si sforzerà di assicurare la massima purezza di quel tempio, purezza sia di corpo che di pensiero. Abbiamo visto come S. Paolo si sia servito di questo incentivo per contenere e purificare i suoi Gentili convertiti: “Non sapete che siete il tempio di Dio e che lo Spirito di Dio in voi abita? Se alcuno guasta il tempio di Dio, Iddio guasterà lui; poiché il tempio di Dio è santo quali pur voi siete ». (I Cor. III, 16, 17). E una volta purificato il santuario, il tempio del Dio vivo, non vi sarà ornamento troppo prezioso né troppo trascendente per abbellirlo. È questo il significato e il motivo della perfezione; il Santo la persegue non tanto per sé quanto per amore del Santo dei Santi che in lui vive. Cristo stesso ci ha additato la misura della nostra perfezione: “Siate perfetti come è perfetto il Padre vostro che è nei cieli ». (Matt. V, 48). Né pensiamo che sia ideale troppo alto; date le meraviglie che si sono compiute in noi e per noi, dal momento che Iddio ci ha fatto suoi figli adottivi e vuole che lo chiamiamo Padre, Egli dovrà necessariamente volere che rassomigliamo a Lui e dovrà darci i mezzi per attuare quella rassomiglianza. Che cosa significa infatti l’Incarnazione se non questo? Il Figlio di Dio è divenuto uomo; si è fatto “simile all’uomo in ogni cosa eccetto che nel peccato” affinché l’uomo a sua volta diventi simile a Dio. Ha vissuto la vita umana e ha subito la morte umana affinché l’uomo possa vivere e morire come Lui. E rassomigliare al Figlio è rassomigliare al Padre: “Chi vede me vede il Padre mio”. (Giov. XIV, 9). “Nessuno viene al Padre se non per mezzo mio”. (Giov. XIV, 6). – Ma sopra tutte le altre virtù, una ve n’è che Gesù Cristo pone dinanzi ai suoi discepoli come quella che più li rassomiglia al Dio uno e trino; è la virtù della carità fraterna, dell’amore fra uomo e uomo. È questa la caratteristica alla quale dovrebbe il mondo riconoscere i veri discepoli di Cristo. Egli l’impone loro come un comandamento nuovo, proponendo a modello il suo stesso immenso amore per gli uomini. “Io vi do il comandamento nuovo: Amatevi a vicenda. Da questo tutti conosceranno che siete miei discepoli: se vi amerete scambievolmente”. (Giov. XIII 34-35). “Come il Padre ha amato me, così anch’Io amo voi: perseverate nel mio amore… Ecco il mio comandamento: Amatevi gli uni gli altri come Io ho amato voi?’ (Giov. XV, 3, 12). Alla fine della Cena, nel pronunciare l’ultima preghiera per i suoi, Cristo domandò ancora: “… affinché siano tutti una cosa sola; come tu, Padre, sei in me e io sono in te, così anch’essi siano in noi” (Giov. XVII, 21), perché sapeva che precisamente l’amore e l’unità li avrebbero resi più simili a Dio. Non mediteremo mai abbastanza questa preghiera finale che nessuno all’infuori di Cristo, vero Figlio di Dio, avrebbe potuto formulare né concepire. L’unità ideale è quella della SS. Trinità; l’unità dell’uomo coi suoi simili sarà tanto più perfetta quanto più si avvicinerà a quell’ideale. E perché l’ideale divenga realtà possibile, Cristo stesso viene a vivere nell’uomo, in tutti ed in ciascuno; e quando la sua vita in noi ha portato frutto, allora, e a quell’evidenza, il mondo conoscerà che Dio lo ha mandato. La carità fraterna, l’amore fra tutti gli uomini, è o dovrebbe essere la grande caratteristica della sua Chiesa fin dal principio, il «segno» ch’Egli stesso ha preconizzato. La santità, la cattolicità, la successione apostolica, per la loro stessa natura, non possono che essere risultati del tempo, ma il segno dell’unità è evidente fin dagli inizi: “E la moltitudine dei credenti era un cuor solo e un’anima sola” (Atti IV, 32). Così intese S. Paolo il comandamento nuovo. Per quante virtù egli abbia esaltato e raccomandato, alla fine Egli sempre ritornava a questa. Per quanti mali Egli abbia condannato, nessuno mai ne ha attaccato con maggior veemenza di questo: la rottura dell’unità. Egli per esperienza già sapeva quanto fosse vero l’ammonimento del Maestro che a questa unità più che a qualsiasi altra cosa gli uomini riconoscerebbero i suoi discepoli. Abbiamo già visto come S. Paolo non deprecasse nulla più del disaccordo, come non si stancasse mai di rammentare ai suoi seguaci che erano un corpo e uno spirito solo, che avevano avuto un unico e stesso Padre dimorante in loro tutti, e che dovevano sopra ogni cosa sforzarsi di mantenere “l’unità dello spirito nel vincolo della pace” (Efes. IV, 3-6). E ciò che costituiva il suo insegnamento era, si vede bene, nel pensiero di tutti i primi Cristiani, Provenivano da origini diverse, Giudei e Gentili, Greci e Romani, Asiatici e Africani, schiavi, liberi e nobili. Si trovavano in loro, per natura, quasi tutte le cause che avrebbero potuto disgregarli, antipatie sociali, pregiudizi e aspirazioni nazionali, divergenze filosofiche, rivalità nell’insegnamento stesso delle verità di fede quando ancora non erano scritti i Vangeli, infiltrazioni dall’ esterno, parallelismi apparenti con altre forme di religione, contrasti politici nel trattamento dei neofiti, perplessità riguardo all’antica legge giudaica, oscurità ed incertezze riguardo all’avvenire, e i bisogni vari di certe chiese che richiedevano sacrifici anche dalle altre. Tuttavia, malgrado queste e altre forme di disgregazione, senza nulla che fosse di natura sufficiente ad aiutarli e sebbene a volte non potessero veder chiaro neppure come dovessero definire gli articoli della propria fede, una sola grande cosa questi Cristiani primitivi sapevano con certezza: che la loro Cristianità doveva essere una, che senza unità non poteva darsi Cristianesimo autentico, che chiunque, per qualsiasi motivo, si separasse non poteva più considerarsi vero Cristiano. Questo era il loro spirito, questa la forza che maggiormente s’imponeva al mondo pagano circostante. “Vedete come si amano questi Cristiani” dicevano gli estranei; e sentivano che in quell’amore era la vita. E contro di essa insorsero, tentando per secoli di soffocarla, ma non vi riuscirono, ché si trattava di una vita più che umana, di una unità ch’era di origine divina. Era una vita risorta da morte, che, una volta risorta, non poteva più morire. “La morte non poteva più aver dominio su di lei” (Rom. VI, 9). Allora i nemici, non potendo distruggerla, fecero tutto il possibile per ricopiarla, e allo scopo di indebolire la testimonianza di quella, produssero una “religione che in molti punti le rassomigliava. Ne adottarono gli usi, il cerimoniale, l’ordinamento, perfino i sacramenti; un sovrano, sostenuto dalle forze del suo impero, costituì una gerarchia ad imitazione della sua. Ma tutte queste cose andarono in dissoluzione: erano cose umane e perciò destinate a perire. La loro unità veniva dall’esterno, non era sorta dall’interno. E caddero ad una ad una: il mondo stesso non seppe più che farsene. Solo l’unica Chiesa vivente, perché unita, la Vigna il cui coltivatore era lo stesso Padre, continuò a prosperare. È sempre stato così, ed è così ancor oggi. La forza della Chiesa è la sua unità che nulla può spezzare, non perché essa sia troppo forte, ché anzi, umanamente, è debole, ma perché la sua unità non è di questa terra. “Le cose stolte del mondo ha scelto Dio per svergognare i sapienti, le debolezze del mondo ha scelto per svergognare i forti, e le cose vili del mondo e le spregevoli elesse Dio, cose che non son nulla, per annientare le cose che sono: acciocché nessun individuo si glorii al cospetto di Dio. Orbene, per opera di Lui voi siete in Cristo Gesù il quale è stato fatto da Dio sapienza per noi e giustizia e santificazione e redenzione”. (I Cor. I, 27-30). – Nella storia della Chiesa di Dio possono riscontrarsi divergenze e divisioni, separazioni, perfino scandali, ma, ciò malgrado, la Chiesa una e cattolica continua a vivere. Il suo stesso Fondatore aveva predetto questi mali, conseguenze necessarie dell’elemento umano con cui Egli intendeva di operare. D’altra parte, i fratelli separati si riuniscono, o tentano di riunirsi. Essi vantano una unità di nome che non ha di fatto alcuna consistenza, tentano di assumere una apparenza di unità con metodi loro propri; possa Iddio benedire i loro sforzi. Essi si accordano qualche volta fra loro per timore di mali peggiori. Ma la loro unità non è né può pretender di essere una cosa viva: non viene che dall’esterno, è una convenzione e nulla più; solo alla superficie sembra rassomigliare a quella unità che è il Cristo vivo. Non può vantarsi di risalire a quella unità di fede e di amore e di speranza che S. Paolo e i suoi seguaci conoscevano, comprendevano e amavano, e per la quale sacrificarono anche la vita. L’unità che viene dall’esterno è cosa meccanica, non un organismo vivo; non ha capo, né corpo, né membra unite da una vita comune che tutte le pervada. Il mondo pagano guarda e non si illude, non rimane edificato, né si piega a credere; ed è contro la roccia del paganesimo che si misura il vero Cristianesimo. Una, non solo per convenzione, non solo per comprensione, ma in forza di un ordinamento eterno, non per ricchezza o vincolo sociale, e neppure per una gerarchia, ma per una vita che deve esistere prima che la gerarchia possa incominciare a costituirsi: ecco il segreto della Chiesa Cattolica. “Prima che Abramo fosse io sono?”. Prima dell’organizzazione c’è Cristo. La Chiesa Cattolica, come efficacemente dice S. Agostino, è Gesù Cristo in terra. Sovente si ode ripetere il grido: “Ritorniamo a Cristo”, ed è grido sincero, da qualunque parte venga. Ma perché la meta sia certa, il grido deve invocare qualche cosa di più. Non ci si dovrà fermare al Cristo uomo; si dovrà arrivare, in Cristo, fino a Dio, poiché è quello lo scopo della sua venuta sulla terra, ed Egli ce lo ha detto esplicitamente. Bisogna arrivare più avanti e più in alto: fino alle tre Persone divine nell’unico Dio che abita in noi, il centro di ogni vera Religione, la forza per la quale siamo e viviamo, l’ideale cui tende la natura umana, consapevole o no, il modello di quella vera unità e carità che sono o dovrebbero essere segno distintivo del Cristiano, la miglior garanzia per lui di essere realmente, come aspira ad essere, amico di Dio.

NOVENA A S. ANDREA APOSTOLO

NOVENA A S. ANDREA APOSTOLO

(G. Riva: Manuale di Filotea – XXX Ed. Milano, 1888)

(inizia il 21 novembre, festa il 30 novembre)

crocefisso in Acaja dal Proconsole Egea l’anno 69, traslocato poi in Costantinopoli.

I. Per quell’ammirabil prontezza onde voi, o glorioso S. Andrea, vi deste a seguir Gesù Cristo, appena lo sentiste qualificato da S. Giovanni per l’Agnello di Dio che toglie i peccati del mondo, indi a lui conduceste il vostro fratello, che divenne poi il capo dell’apostolico collegio e la pietra fondamentale della Chiesa, ottenete a noi tutti la grazia di seguir prontamente tutte le divine ispirazioni, e di adoperarci con tutte le forze per avviare e tenere sul buon sentiero tutti quanti i nostri prossimi. Gloria.

II. Per quell’ammirabile zelo, onde voi, o glorioso S. Andrea, scorreste la Tracia, l’Epiro, la Scizia, la Cappadocia, la Bitinia e l’Acaja, predicando il Vangelo della salute, e convertendo infiniti popoli all’adorazione di Gesù Cristo, ottenete a noi tutti la grazia di confessar sempre generosamente la verità, e di zelar sempre la gloria di nostra santissima Religione, malgrado tutte le dicerie e le persecuzioni del mondo. Gloria.

III. Per quella santa allegrezza onde voi, o glorioso S. Andrea, salutaste da lungi ed abbracciaste quella croce su cui dovevate essere confitto, e per quel vivissimo desiderio che aveste del martirio, fino a pregare il Signore a non permettere che foste staccato dal vostro patibolo allorquando, per timore di una popolare sedizione voleva il proconsole Egea restituirvi alla pristina libertà, ottenete a noi tutti la grazia d’amar sempre le croci e i patimenti di questa terra, affine di assicurarci i beni perfetti ed eterni del Paradiso. Gloria.

21 NOVEMBRE (2022) FESTA DELLA PRESENTAZIONE DI MARIA AL TEMPIO

21 Novembre

PRESENTAZIONE DELLA B. VERGINE MARIA

Doppio maggiore Colore bianco.

[A. Mistrorigo: Messale romano quotidiano]

Secondo un’antica tradizione, a tre anni, guidata dallo Spirito Santo, Maria SS. andò al Tempio a rinnovare al Signore l’offerta di se stessa che gli aveva fatto fin dall’istante  del suo Immacolato Concepimento. Sotto le arcate silenziose del tempio di Gerusalemme ella si preparava così a diventare il Santuario della Divinità, la Madre del Figlio di Dio fatto uomo. Questa festa, amico mio, ti ricorda come anche tu, ad imitazione di Maria, devi fare l’offerta di te stesso a Dio: promettigli di non macchiare la tua innocenza, di evitare le occasioni della colpa, di amarlo con tutto il cuore e di servirlo fino alla fine. Come le Vergine, ama il ritiro, la vita raccolta, la preghiera, il lavoro; sii umile e modesto in modo che, dopo una vita santa, possa meritare di essere presentato nel Tempio del Paradiso a godere eternamente con Maria SS..

Incipit

In nómine Patris, ✠ et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Adjutórium nostrum in nómine Dómini.
R. Qui fecit cælum et terram.
Confíteor Deo omnipoténti, beátæ Maríæ semper Vírgini, beáto Michaéli Archángelo, beáto Joánni Baptístæ, sanctis Apóstolis Petro et Paulo, ómnibus Sanctis, et vobis, fratres: quia peccávi nimis cogitatióne, verbo et ópere: mea culpa, mea culpa, mea máxima culpa. Ideo precor beátam Maríam semper Vírginem, beátum Michaélem Archángelum, beátum Joánnem Baptístam, sanctos Apóstolos Petrum et Paulum, omnes Sanctos, et vos, fratres, oráre pro me ad Dóminum, Deum nostrum.
S. Misereátur nostri omnípotens Deus, et, dimíssis peccátis nostris, perdúcat nos ad vitam ætérnam.
R. Amen.
S. Indulgéntiam, absolutiónem et remissiónem peccatórum nostrórum tríbuat nobis omnípotens et miséricors Dóminus.
R. Amen.

V. Deus, tu convérsus vivificábis nos.
R. Et plebs tua lætábitur in te.
V. Osténde nobis, Dómine, misericórdiam tuam.
R. Et salutáre tuum da nobis.
V. Dómine, exáudi oratiónem meam.
R. Et clamor meus ad te véniat.
V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.

Introitus

Sedulius

Salve, sancta Parens, eníxa puérpera Regem: qui cœlum terrámque regit in sǽcula sæculórum.
Ps 44:2
Eructávit cor meum verbum bonum: dico ego ópera mea Regi.
V. Glória Patri, et Fílio, et Spirítui Sancto.
R. Sicut erat in princípio, et nunc, et semper, et in sǽcula sæculórum. Amen.

Salve, sancta Parens, eníxa puérpera Regem: qui cœlum terrámque regit in sǽcula sæculórum.

[Salve, o Madre santa, tu hai partorito il Re gloriosamente; egli governa il cielo e la terra per i secoli in eterno.
Vibra nel mio cuore un ispirato pensiero, mentre al Sovrano canto il mio poema.
Salve, o Madre santa, tu hai partorito il Re gloriosamente; egli governa il cielo e la terra per i secoli in eterno.]

Kyrie

S. Kýrie, eléison.
M. Kýrie, eléison.
S. Kýrie, eléison.
M. Christe, eléison.
S. Christe, eléison.
M. Christe, eléison.
S. Kýrie, eléison.
M. Kýrie, eléison.
S. Kýrie, eléison.

Gloria

Glória in excélsis Deo. Et in terra pax homínibus bonæ voluntátis. Laudámus te. Benedícimus te. Adorámus te. Glorificámus te. Grátias ágimus tibi propter magnam glóriam tuam. Dómine Deus, Rex cæléstis, Deus Pater omnípotens. Dómine Fili unigénite, Jesu Christe. Dómine Deus, Agnus Dei, Fílius Patris. Qui tollis peccáta mundi, miserére nobis. Qui tollis peccáta mundi, súscipe deprecatiónem nostram. Qui sedes ad déxteram Patris, miserére nobis. Quóniam tu solus Sanctus. Tu solus Dóminus. Tu solus Altíssimus, Jesu Christe. Cum Sancto Spíritu ✠ in glória Dei Patris. Amen.

Oratio

Orémus.
Deus, qui beátam Maríam semper Vírginem, Spíritus Sancti habitáculum, hodiérna die in templo præsentári voluísti: præsta, quǽsumus; ut, ejus intercessióne, in templo glóriæ tuæ præsentári mereámur.

[O Dio, che volesti la beata Maria sempre vergine, abitacolo dello Spirito Santo, oggi presentata al tempio; fa’ che noi, per sua intercessione, meritiamo di essere presentati nel tempio della tua gloria.]
Per Dóminum nostrum Jesum Christum, Fílium tuum: qui tecum vivit et regnat in unitáte ejúsdem Spíritus Sancti Deus, per ómnia sǽcula sæculórum.
R. Amen.

Lectio

Léctio libri Sapiéntiæ.
Eccli 24:14-16.
Ab inítio et ante sǽcula creáta sum, et usque ad futúrum sǽculum non désinam, et in habitatióne sancta coram ipso ministrávi. Et sic in Sion firmáta sum, et in civitáte sanctificáta simíliter requiévi, et in Jerúsalem potéstas mea. Et radicávi in pópulo honorificáto, et in parte Dei mei heréditas illíus, et in plenitúdine sanctórum deténtio mea.

[Da principio e prima dei secoli io fui creata, e per tutta l’eternità io non cesserò di essere; nel tabernacolo santo, dinanzi a Lui ho esercitato il mio ministero, poi ebbi fissa dimora in Sion. Nella città santa parimenti posai ed in Gerusalemme è il mio potere. Gettai le mie radici in un popolo illustre, nella porzione del mio Dio, nel suo retaggio, presi dimora tra i santi.]

Graduale

Benedícta et venerábilis es, Virgo María: quæ sine tactu pudóris invénta es Mater Salvatóris.
V. Virgo, Dei Génitrix, quem totus non capit orbis, in tua se clausit víscera factus homo. Allelúja, allelúja.
V. Post partum, Virgo, invioláta permansísti: Dei Génitrix, intercéde pro nobis. Allelúja.

[Tu sei benedetta e venerabile, o Vergine Maria, che senza offesa del pudore sei diventata la Madre del Salvatore.
V. O Vergine Madre di Dio, nel tuo seno, fattosi uomo, si rinchiuse Colui che l’universo non può contenere. Alleluia, alleluia.

Evangelium

Sequéntia +︎ sancti Evangélii secúndum Lucam

Luc 11:27-28

In illo témpore: Loquénte Jesu ad turbas, extóllens vocem quædam múlier de turba, dixit illi: Beátus venter, qui te portávit, et úbera, quæ suxísti. At ille dixit: Quinímmo beáti, qui áudiunt verbum Dei, et custódiunt illud.

[In quel tempo, mentre Gesù parlava alla folla, avvenne che una donna, tra la folla, alzò la voce e disse: «Beato il seno che ti ha portato e il petto che ti ha nutrito». Ma egli disse: «Beati, piuttosto, coloro che ascoltano la parola di Dio, e la custodiscono»].

Omelia

[Otto Hophan: Maria, Marietti Ed. Torino, 1955]

Da nessun artista forse la bambina Maria fu delineata così infantile e tuttavia già così sublime come dal vecchio maestro Tiziano. La Piccola di tre anni, nei lineamenti ancor bambina, ma una giovane nel portamento, ascende da sola, del tutto sola i gradini alti e faticosi che conducono nel Tempio, mentre lassù L’attende il Sommo Sacerdote, un colosso per grandezza, e in giù il popolo L’ammira e ne parla. Anna, la mamma, tien dietro con lo sguardo pensoso alla sua Fanciulla che si allontana e ascende in una mandorla di luce; la sua partenza quindi non ha nulla di opprimente; Ella va alla luce e riflette luce. La Piccola sta modesta e sicura nel mezzo dell’ingresso; ora mette il suo piede sulla seconda salita; con la manina destra raccoglie a sé l’abito e con la sinistra s’appoggia cautamente e coraggiosamente per ascendere, attratta dall’alto e sospinta dall’intimo, e si offre alla luce che piove dall’alto come il calice d’un fiore che si apre al sole del mattino. Questo quadro ritiene dell’infanzia di Maria l’essenziale: la sua completa donazione a Dio nella primissima età della sua vita. La Chiesa solennizza questa sublime ora mattutina nella festa della « Presentazione di Maria », il 21 novembre, un giorno del tardo autunno, che frattanto è di nuovo pieno di tanta quiete e già preparazione al miracolo della primavera. Le leggende — prime fra le altre quella che va sotto il nome di « Protoevangelo di Giacomo » e quell’altra « De nativitate Mariæ — della natività di Maria », scritti che in parte risalgono al secondo secolo e dai quali come a fonte attinse la maggior parte delle leggende intorno a Maria — pretendono di sapere molte cose e cose meravigliose dell’infanzia della Beatissima Vergine, del suo concepimento, della sua nascita ed educazione, e dei suoi genitori. Questi, Gioachino e Anna, dopo lunghe e ferventi suppliche, avrebbero finalmente generato Maria in avanzata età. Forse la leggenda ha qui semplicemente trasferito ai genitori di Maria la notizia, che ci riferisce la Scrittura nei riguardi dei genitori di Giovanni Battista. Maria, secondo quanto riferiscono le leggende, sarebbe nata e sarebbe stata educata a Nazaret, secondo invece le affermazioni di S. Sofronio e di S. Giovanni Damasceno, del settimo e ottavo secolo, a Gerusalemme, nelle immediate vicinanze del Tempio, accanto a quella piscina di Bethesda alla Porta delle Pecore, dove più tardi il Signore avrebbe guarito con un miracolo un uomo, che giaceva ivi, malato da 38 anni. Una Chiesa dedicata alla natività di Maria presso la piscina di Bethesda esisteva, secondo le testimonianze, già nella prima metà del secolo sesto, e ancor oggi v’è ivi un santuario di S. Anna. La fanciullina Maria sarebbe stata portata al Tempio dai suoi genitori nella tenera età di soli tre anni, questo pio viaggio mattutino viene dipinto a tinte varie e giulive: la piccola s’affrettò ad ascendere i venerandi gradini da sola, mise piede sotto gli alti portici e con cuore esultante emise nella Casa del Signore il voto di perpetua verginità. Sarebbe stata educata insieme con le altre giovani della terra sua, i suoi visitatori quotidiani sarebbero stati gli Angeli e suo quotidiano ristoro sarebbero state le divine rivelazioni. Raggiunto il decimoquarto anno d’età, il Sommo Sacerdote l’avrebbe voluta rimandare a casa per il matrimonio, ma Maria avrebbe opposto a quel disegno il proprio voto; allora il Sommo Sacerdote avrebbe interrogato il Signore, poi, riuniti insieme per ordine divino i giovani della famiglia di David, avrebbe promesso Maria quale sposa a quello, il cui bastone sarebbe fiorito e sul capo del quale avrebbe riposato lo Spirito Santo sotto forma d’una colomba; il fortunato fu Giuseppe. La badessa spagnola Maria di Agreda del secolo xv, con le sue “rivelazioni”, che mise in iscritto in un’opera di quattro volumi: « La città spirituale di Dio», Vita della verginale Madre di Dio », arricchisce le antiche leggende intorno all’infanzia di Maria con molti altri particolari: « Nello struggimento del più cocente amore la vezzosa Bambina s’affrettò a correre incontro alla soave fragranza degli unguenti del suo Amato per cercare nel Tempio Colui, che portava nel cuore. Senza guardarsi d’intorno e senza spargere una lagrima, Maria ardente di zelo santissimo e colma di letizia s’affrettò ad ascendere da sola i quindici gradini… Il Sommo Sacerdote, San Simeone (il vecchio di cui Luca II, 25), La affidò alle istitutrici. fra le quali si trovava anche la profetessa Anna ». Queste e simili leggende e “rivelazioni” sono da prendersi come pie costruzioni e graziosa poesia, non come pura realtà. Della fanciullezza e della giovinezza di Maria non possediamo nessuna informazione storica; non è probabile che, come si racconta dalle leggende, Ella abbia ricevuta una educazione nel Tempio; in tutta la letteratura giudaica del tempo non v’è un solo accenno che annesso al Tempio vi fosse una specie di istituto per le figliuole. Piuttosto corrispondono alla vita giovanile di Maria, quale in realtà dovette essere, quelle care immagini della madre Anna, che istruisce ed educa la sua Fanciulla. Già S. Ambrogio (333-397), nella sua opera sulla verginità, suppone espressamente che Maria abbia ricevuta l’educazione in una pia casa paterna, che è la più naturale e in sé la migliore, e non si è mai data creatura umana che abbia ricompensate le fatiche dei genitori con tanta purezza solare come Maria. Il profondo silenzio della Sacra Scrittura circa la sua vita precedente conviene alla magnificenza e sublimità della Beatissima Vergine; Ella entra nella storia soltanto all’Annunciazione, circonfusa dell’azzurro splendore della divina Maternità. Ella doveva « essere introdotta nel mondo », come scrive S. Lorenzo da Brindisi con profondità e bellezza, « divina quadam cum majestate — con una certa maestà divina ». Per questo la Scrittura Santa non scrive nulla dei genitori della Vergine, nulla della sua concezione e della sua nascita, nulla della sua età, delle sue abitudini di vita e della sua morte. Maria ci sta dinanzi tutt’a un tratto a somiglianza di quel gran sacerdote di Dio che fu Melchisedech, re di Salem, del quale Paolo dice che viene ricordato senza padre, senza madre, senza genealogia, senza principio dei giorni e senza fine della vita. Con questo santo silenzio lo Spirito di Dio voleva onorare la Genitrice di Dio e rinviare soltanto alla dignità di Colei, che si era data in sposa a Dio e di Dio concepì e partorì l’Unigenito. Questa riservatezza della Sacra Scrittura, che anche di Maria tanto ci riferisce quanto sta in connessione con la nostra salute, dev’esser di guida anche a noi. Il grande teologo Scheeben rimette nei limiti convenienti la nostra pia curiosità nei riguardi della vita nascosta della Vergine, quando scrive: « In mancanza di fonti realmente storiche, una storia della vita di Maria, la quale comprenda il periodo pre- e postevangelico, come spesso si è tentata nei tempi andati, è un compito fallito ». Anche il monito che egli aggiunge è pure adatto alla nostra epoca: « Quando nei libri di edificazione si fa parola di corrispondenti “tradizioni”, si dovrebbe costantemente far notare il carattere leggendario delle stesse. L’espressione: “La tradizione dice” dovrebbe essere evitata già per non scambiare quella puramente storica con quella ufficiale e così non far credere che la tradizione ufficiale… non abbia migliori sostegni di quella leggendaria ». Dovranno dunque, come fiori dai vaghi colori, essere pestate sotto i piedi tutte le graziose leggende e pie ‘“visioni” sull’infanzia di Maria, tutte, senza eccezione? No affatto! Solo si devono tenere per quello che sono: non sono storia, son però amplificazioni della storia ricche di fantasia e di poesia; leggenda non significa affatto menzogna. Anche la leggenda dell’offerta di Maria ha quindi il suo fondo di verità; il Pontefice Benedetto XIV (1740-1758) ordinò di saggiamente distinguere nell’offerta di Maria fra realtà e rivestimento leggendario. Secondo la pia consuetudine, che sussiste anche oggi nel popolo cristiano, è possibile che i genitori abbiano portato molto per tempo la loro figliolina Maria nel Tempio per ringraziare Iddio del dono, che è ogni bambino, ma che specialmente era una simile Bambina. Possiamo ammettere ancor di più: che Maria stessa sia andata misteriosamente al Tempio, di cui in profondo presentimento doveva sentirsi parente, poiché il Tempio di Gerusalemme, sebbene di pietra, era come un fratello spirituale della Vergine, che era stata prescelta ad abitazione viva di Dio; ed ivi, nel Tempio, può essere avvenuto che Ella facesse la sua donazione a Dio. Certo è che la sua santa anima, immersa nello splendore della divina grazia sin dal concepimento, al primo risvegliarsi si offrì sorridente a Dio e a Lui tutta si consacrò. Questa illimitata donazione a Dio trovò la sua più profonda espressione nella verginità di Maria, e la leggenda mostra di conoscerne l’intrinseca connessione quando ricorda quella “presentazione” e “oblazione” di Maria nel Tempio insieme con la sua verginità, poiché nella sua verginità si espresse la sua totale donazione. Maria è vergine; lo è così perfettamente, che questo titolo costituisce l’aspetto suo essenziale, caratteristico. Questa verginità sta sullo stesso piano della sua divina Maternità, è di quest’aurea dignità la cornice d’argento. « Santa Genitrice di Dio», « Santa Vergine delle vergini »: queste due prime designazioni delle Litanie Lauretane aprono la via alla nobile danza dei molti altri appellativi della Benedetta. La divina Maternità e la verginità di Maria sono inserite persino nel Credo come le due più preziose gemme mariane: « Natus ex Maria Virgine — nato da Maria Vergine ». In questi due diamanti brillano anche tutti gli altri suoi privilegi. Già il profeta Isaia aveva contemplata la madre dell’Emmanuele qual “vergine” che concepisce e partorisce. Il Vangelo stesso, ancor prima di farne il nome, introduce con enfasi Maria qual vergine: «L’angelo Gabriele fu mandato a una vergine… e la vergine si chiamava Maria » E la primissima parola, che noi sentiamo da Maria stessa, è la professione della sua verginità: « Come avverrà questo, poiché io non conosco uomo? ». Questa prima parola è nunzia della seconda, la più importante d’ogni altra: « Ecco l’ancella del Signore! Si faccia di me — Fiat! — secondo la tua parola ». Il “Fiat”, la gemma centrale nella vita di Maria, è accompagnato e preparato dall’altra gemma: Lei non conosce uomo; il “Fiat” sta nell’involucro di questa parola come il fiore nel bocciolo; Maria è pronta per Iddio, senza limiti, perché Ella stessa ha oltrepassato tutti i limiti che le cose create potevano imporLe; il suo Sì è senza riserve e senza condizioni, perché interiormente si è resa libera da tutto il creato. Verginità nel suo senso e nella sua natura più profondi significa la libertà del cuore per Iddio. Certamente verginità sotto ogni aspetto dice anche integrità corporale, e in questo senso noi lodiamo Maria nelle Litanie Lauretane: « Madre inviolata. Madre intemerata! »; la fede ci parla della perpetua verginità fisica di Maria prima, durante e dopo la nascita di Gesù; frattanto la verginità del corpo non è che il guscio, la difesa e il simbolo di quella dell’anima. Non ogni vita fuori del matrimonio è già verginità; questa candida e gentile virtù fiorisce solo ove è scelta o anche sopportata per amore di Dio; solo in questo caso si adempie la parola del Signore: « Vi son celibi che rinunciano al matrimonio per il regno dei cieli ». Paolo spiegò questo passo evangelico, che istituisce la cristiana verginità, quando espose della verginità pregio ed efficacia in ordine alla struttura della vita: « Chi è celibe si preoccupa delle cose del Signore, come possa piacerGli; chi è sposato pensa alle cose del mondo, come possa piacere alla moglie. Così il suo cuore è diviso. La donna non maritata e la vergine si danno pensiero delle cose del Signore, volendo esser sante e di corpo e di spirito; ma la maritata è preoccupata delle cose del mondo e del come possa piacere al marito ». Appare così che la verginità cristiana significa molto di più qualche cosa di spirituale che di semplicemente corporale; una verginità solamente corporale è minacciata dal pericolo di degenerare in freddezza e orgoglio e di rimanere sempre sterile; la verginità spirituale invece non è solo astinenza dall’uomo, ma espansione per Iddio, non è soltanto vuoto, ma amore, è addirittura « effetto dell’amore », come dice brevemente e felicemente Agostino, e in quest’amore essa diventa anche feconda per molti. Tale fu la verginità di Maria; essa aveva il suo senso in Dio, in Dio solo, non in se stessa. L’affermazione che Ella avrebbe acconsentito alla divina Maternità solo alla condizione che frattanto sarebbe rimasta intatta la sua verginità, è un’affermazione errata; la sua verginità non era fine e meta a se stessa, ma doveva esserLe via per ascendere a Dio; la sua verginità era donazione a Dio, non capriccio; Ella aveva scelta questa candida via solo perché, sotto l’attrattiva della grazia, s’era accorta che, donandosi vergine, si sarebbe data a Dio nel modo più perfetto; qualora il Signore avesse disposto di Lei altrimenti, Gli avrebbe fatto offerta anche del giglio, poiché la piccola ancella del Signore non può porre nessuna condizione all’Immenso. Richiamiamo alla memoria ancor una volta il quadro del Tiziano: la Piccola frettolosa, che sui grandi gradini va faticosamente incontro all’altezza, incontro al Signore; quell’alta scala — nel Vallese, in un sito meraviglioso, v’è un Santuario di Maria, che si chiama « Maria della Scala alta » — fu la sua verginità: la Benedetta consacrò felice e per tempo — secondo la leggenda l’ascesa di Maria al Tempio risalirebbe già al suo terzo anno di vita — tutte le forze del suo corpo e della sua anima al Signore per appartenerGli senza divisioni. A questo modo Ella è divenuta il modello e lo sprone di tutti coloro che eleggono per la loro vita la sublime via della verginità. Ella è la prima vergine; « la dignità della verginità ha avuto il suo inizio con la Madre del Signore », scrive in un testo solenne Agostino, che chiama Maria « dignitas terræ — l’ornamento del mondo ». Ma Maria indica la via ed è interceditrice anche a coloro, che non sono chiamati ad ascendere per questa ripida scala: Ella prega per tutti. La verginità di Maria è la risposta che Ella diede al suo immacolato concepimento: nel Mistero dell’Immacolata Concezione Iddio ha preparato Maria per Sè, nella verginità Maria ha preparato sè per Iddio; ora il “Verbo” di Dio può contrarre con la “carne” lo sposalizio progettato sin dall’eternità, poiché ogni volta che Iddio e l’uomo devono unirsi, anche l’uomo deve dare il suo contributo; ora la parte dell’uomo per l’unione con Dio nient’altro è che l’esser offerto per l’opera di Dio, e questa è la verginità interiore. Così Maria è divenuta soprattutto il simbolo della Chiesa. Cristo descrive più volte le sue relazioni con la Chiesa quali relazioni fra sposi, secondo Paolo anzi la più sublime dignità del matrimonio deriva dall’intimità di sposo che Cristo ha con la sua Chiesa. In Maria, vergine e sposa del Verbo Eterno, si manifesta la perfezione della donazione a Cristo. Ella dal supremo gradino dell’alta scala che sale a Dio, dalla sua verginità, invita la Chiesa e l’anima a tenersi costantemente e totalmente pronte per Iddio: quanto più noi ci teniamo pronti per Lui, tanto più anche il Verbo di Dio può prendere carne in noi.

IL CREDO

Offertorium

Orémus.
Luc 1:28; 1:42
Ave, María, grátia plena; Dóminus tecum: benedícta tu in muliéribus, et benedíctus fructus ventris tui.

[Ave, Maria, piena di grazia, il Signore è con te. Tu sei benedetta fra le donne, e benedetto è il frutto del seno tuo].


Secreta

Tua, Dómine, propitiatióne, et beátæ Maríæ semper Vírginis intercessióne, ad perpétuam atque præséntem hæc oblátio nobis profíciat prosperitátem et pacem.

[Per la tua clemenza, Signore, e per l’intercessione della beata sempre vergine Maria, l’offerta di questo sacrificio giovi alla nostra prosperità e pace nella vita presente e nella futura.]

Præfatio

V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.
V. Sursum corda.
R. Habémus ad Dóminum.
V. Grátias agámus Dómino, Deo nostro.

R. Dignum et justum est. est, aequum et salutàre, nos tibi semper, et ubique gràtias agere: Domine sancte, Pater omnipotens, aeterne Deus: et te in Beatae Mariae semper Virginis collaudare, benedicere et praedicare. Quae et Unigenitum  tuum Sancti Spiritus obumbratione concepit: et virginitatis gloria permanente, lumen aeternum mundo effuit, Jesum Christum Dominum nostrum. Per quem majestatem tuam laudant Angeli, adorant Dominationes, tremunt Potestates. Coeli, coelorumque Virtutes, ac beata Seraphim, socia exsultatione concelebrant. Cum quibus ed nostras voces, ut admitti jubeas, deprecamur, supplici confessione dicentes:

[È cosa veramente degna giusta, conveniente e salutare o Signore santo, Padre onnipotente, Dio eterno, che noi ti ringraziamo, benediciamo e lodiamo nella festa della Beata Vergine Maria. Ella infatti divenne madre per opera dello Spirito Santo, del tuo unico Figlio e, senza perdere la gloria della verginità, diede al mondo Nostro Signore Gesù Cristo, luce eterna delle anime. Perciò gli Angeli lodano la tua maestà, le Dominazioni l’adorano, le Potestà si piegano davanti tremanti, le Virtù celesti ed i Serafini si uniscono a celebrarla in comune esultanza. A loro ti preghiamo ti preghiamo di unire anche lo nostre vice, mentre umilmente cantiamo:]

Sanctus, Sanctus, Sanctus Dóminus, Deus Sábaoth. Pleni sunt cæli et terra glória tua. Hosánna in excélsis. Benedíctus, qui venit in nómine Dómini. Hosánna in excélsis.

Preparatio Communionis

Orémus: Præcéptis salutáribus móniti, et divína institutióne formáti audémus dícere:

Pater noster

qui es in cælis. Sanctificétur nomen tuum. Advéniat regnum tuum. Fiat volúntas tua, sicut in cælo et in terra. Panem nostrum quotidiánum da nobis hódie. Et dimítte nobis débita nostra, sicut et nos dimíttimus debitóribus nostris. Et ne nos indúcas in tentatiónem:
R. Sed líbera nos a malo.
S. Amen.

Agnus Dei

Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: dona nobis pacem.

Panem cæléstem accípiam, et nomen Dómini invocábo.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

Beáta viscera Maríæ Vírginis, quæ portavérunt ætérni Patris Fílium.

[Beato il seno della Vergine Maria, che portò il Figlio dell’ eterno Padre.]

Postcommunio

Orémus.
Sumptis, Dómine, salútis nostræ subsídiis: da, quǽsumus, beátæ Maríæ semper Vírginis patrocíniis nos ubíque prótegi; in cujus veneratióne hæc tuæ obtúlimus majestáti.
[Ricevuti i misteri della nostra salvezza, ti preghiamo, o Signore, di essere ovunque protetti dalla beata sempre vergine Maria, ad onore della quale abbiamo presentato alla tua maestà questo sacrificio.]

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (2)

ORDINARIO DELLA MESSA

UN’ENCICLICA AL GIORNO TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI DI TORNO: S. S. BENEDETTO XIV – “ALLATÆ SUNT” (2)

Benedto XIV
Allatæ sunt (2)

28. Nella Liturgia Latina e Greca si recita il Simbolo; la sua recitazione nella Messa, stabilita prima nella Chiesa Orientale, venne poi trasferita in quella Occidentale, come risulta dal terzo Concilio di Toledo del 589, che letteralmente dice: “In tutte le Chiese della Spagna o della Galizia, secondo la norma delle Chiese Orientali, del Concilio di Costantinopoli, cioè di centocinquanta Vescovi, si reciti il Simbolo della Fede, in modo che prima di dire l’Orazione Domenicale, sia recitato a chiara voce dal popolo” (can 2, tomo 5, p. 1009 della Collezione di Filippo Labbe). Per cui, dal momento che i Padri del Concilio di Toledo, stabilendo l’ordine di recitare il Simbolo nella Messa, si sono riferiti al Rito Orientale, è lecito riconoscere che questa disciplina, istituita per prima in Oriente, si era poi diffusa in Occidente: come dicono il Cardinale Bona nel Rerum Lyturgicarum (libro 2, cap. 8, n. 2) e il Giorgio nel De Lyturgia Romani Pontificis (tomo 2, cap. 20, n. 2, p. 176). Ma, continuando l’argomento, Amalario (nel libro De Divinis Officiis, cap. 14), dopo che, fondandosi sull’autorità di San Paolino nella Lettera a Severo, riferì che nella Chiesa di Gerusalemme solo al Venerdì Santo vigeva la consuetudine di esporre al popolo, da adorare, la Croce dalla quale pendette Cristo, attribuisce a questa abitudine greca l’adorazione della Croce, che nell’Ufficio del Venerdì Santo si fa tutt’oggi in ogni Chiesa Latina. Il Trisagio Sanctus Deus, Sanctus Fortis, Sanctus Immortalis, miserere nobis è una pia e frequentissima preghiera nella Liturgia greca, come giustamente annota Goario nelle postille all’Eucologio nella Messa di San Giovanni Crisostomo (p. 109). L’origine di questa invocazione si trae dal miracolo che a metà del secolo quinto accadde nella città di Costantinopoli. Mentre l’imperatore Teodosio, il patriarca Proclo e tutto il popolo pregavano Dio all’aperto, per essere liberati dalla prossima sciagura che li sovrastava a causa del violento terremoto, si vide un fanciullo che all’improvviso fu rapito in cielo; egli, poi, rimandato a terra riferì di aver udito gli Angeli cantare il suddetto Trisagio: per cui – poiché tutto il popolo per ordine del Patriarca Proclo cantava devotamente detto Trisagio – la terra si calmò dal terribile terremoto da cui era scossa, come narra Niceforo nel libro 14, cap. 46 e correttamente prosegue il Sommo Pontefice Felice III nella terza Epistola a Pietro Fullone, che si ha nella Collezione del Labbe, tomo 4. Lo stesso Trisagio al Venerdì Santo si canta nella Chiesa Occidentale in Greco e in Latino come puntualmente avverte il Cardinale Bona, Rerum Lyturgicarum (libro 2, cap. 10, n. 5). La benedizione dell’acqua alla vigilia dell’Epifania deriva dal Rito della Chiesa Greca, come diffusamente dimostra Goario nell’Eucologio, ovvero Rituale Greco; ora si fa questa funzione nello stesso giorno anche nella Chiesa Greca di Roma, come è ricordato nella nostra citata Costituzione 57 (paragrafo 5, n. 13), e contemporaneamente si concede che i fedeli siano aspersi della stessa acqua benedetta. Sul passaggio di questo Rito dalla Chiesa Orientale ad alcune Chiese Occidentali si può vedere quello che raccolse l’erudito Martene nel De antiqua Ecclesiae disciplina in Divinis celebrandis Officiis (tomo 4, cap. 4, n. 2) e ciò che si asserisce nella dissertazione di Padre Sebastiano Paolo della Congregazione della Madre di Dio, stampata a Napoli nel 1719 e il cui titolo è De ritu Ecclesiae Neritinae exorcizandi aquam in Epiphania, dove, fra l’altro (parte 3, p. 177 e ss.) opportunamente avverte i Vescovi, nelle cui diocesi da gran tempo si introdussero Riti derivanti dalla Chiesa Greca, che non si diano troppo da fare per eliminarli, affinché il popolo non si agiti e perché non sembrino disapprovare il modo d’agire della Sede Apostolica la quale, com’è stata al corrente di quei Riti, permise tuttavia di conservarli e di frequentarli. Egli cita anche a p. 203 la lettera del Cardinale Santoro del titolo di Santa Severina, del 1580, scritta a Fornario, Vescovo di Neritino, su questo stesso argomento e sulla benedizione dell’acqua per l’Epifania, che si fa in quella Diocesi. Del pari è Greco il Rito di spogliare e lavare l’altare il Giovedì Santo. Di questo Rito si può trovare traccia nel secolo quinto; di esso parla San Saba nel suo Typico, ossia dell’ordine di recitare l’Ufficio Ecclesiastico per tutto l’anno. Egli, secondo la testimonianza di Leone Allazio, De libris Ecclesiae Graecae dissertatio (I, p. 9), morì nel 451. Se si potesse affermare che l’Ordine Romano edito da Ittorpio fu composto per disposizione del Pontefice San Gelasio, il Rito di lavare gli altari il Giovedì Santo sarebbe quasi coevo nella Chiesa Latina alla consuetudine dei Greci, dacché il Papa San Gelasio morì nel 496. Ma essendo incerto se l’Ordine Romano pubblicato da Ittorpio sia eminente per così grande antichità e poiché, dopo di lui, lo spagnolo Sant’Isidoro fu il primo tra i Latini che parlò di questo Rito, e lo stesso Sant’Isidoro morì nel 636, è lecito che questo Rito dell’Oriente sia venuto in Occidente. Fino ai nostri tempi esso è osservato in alcune Chiese Latine, con l’approvazione dei Romani Pontefici, e nella Basilica Vaticana ogni anno si compie con grande solennità. Il Suarez, Vescovo di Vasione e Vicario della stessa Basilica, e Giovanni Crisostomo Battello, Arcivescovo di Amaseno, che era elencato tra i beneficiati minori di quella Basilica, pubblicarono due sofisticatissime dissertazioni, nelle quali illustrarono il Rito predetto. Stando così le cose, dagli esempi e dai fatti si evince chiaramente ciò che poco prima abbiamo detto, cioè che la Sede Apostolica non tralasciò, tutte le volte che lo trovò conforme a ragione, o di estendere a tutta la Chiesa Latina Riti che appartenevano alla Chiesa Greca, o di permettere che alcuni Riti importanti, che derivarono dalla Chiesa Greca, in alcune Chiese Latine fossero osservati.

29. Già poco prima parlammo del Trisagio, del modo meraviglioso con cui il suo canto fu introdotto nelle Sacre Liturgie della Chiesa Greca. Avendo tuttavia Pietro Fullo soprannominato Gnafeo, fautore dell’eresia degli Apollinaristi che si chiamano Teopasciti, osato aggiungere al Trisagio queste parole “Che fu crocifisso per noi“, come ampiamente ricorda Teodoro Lettore nelle Collectanearum, libro I, ed avendo alcune Chiese Orientali, soprattutto Siriache e Armene, per opera di certo Giacomo Siro, secondo la testimonianza di Niceforo (libro 18, cap. 52), accolto questa aggiunta; i Romani Pontefici, con quella vigile cura e sollecitudine che in casi simili furono soliti avere, non tralasciarono di opporsi al nascente errore e di interdire l’aggiunta fatta al Trisagio, respingendo l’interpretazione per la quale, riferendosi il Trisagio alla sola persona del Figlio, non alle tre Divine persone, si provvedeva a che fosse eliminato qualsiasi sospetto di eresia, sia perché restava sempre il pericolo di aderire al dogma eretico, sia perché la presunzione della mente umana non poteva riferire al solo Cristo l’inno cantato dagli Angeli in onore della Santissima Trinità. Il Lupo giustamente – dopo che aveva riferito che da Felice III e dal Concilio Romano era stata condannata l’aggiunta fatta al Trisagio – così dice: “L’inno cantato dagli Angeli sempre Santi alla sola Divina Trinità, affidato alla Chiesa da Dio stesso e dagli stessi Santi Angeli attraverso il sullodato fanciullo, confermato dall’allontanamento delle sciagure incombenti sulla Regia Città e inteso nel medesimo senso e ragione da tutto il Sinodo Calcedonese (parla sia dei Vescovi adunati nel predetto Concilio, sia degli altri contrari all’aggiunta fatta al Trisagio), tutto ciò attesta costantemente che per umana presunzione non poteva riferirsi al solo Cristo” (Concilio Trullano, note al can. 81). San Gregorio VII, con lo stesso zelo religioso, riprovò quell’aggiunta nella sua prima lettera del libro 8 scritta all’Arcivescovo, ossia al Patriarca degli Armeni. Lo stesso sostenne Gregorio XIII in alcune sue lettere scritte in forma di Breve al Patriarca dei Maroniti il 14 febbraio 1577. Il 30 gennaio 1635, essendo poi stata sottoposta all’esame della Congregazione di Propaganda Fide la Liturgia degli Armeni, ed essendo stato, fra l’altro, oggetto di più accurata discussione se l’aggiunta fatta al Trisagio poteva essere tollerata, per il motivo che sembrava potesse essere riferita alla sola persona del Figlio, fu risposto che ciò non si doveva permettere e che l’aggiunta doveva essere assolutamente eliminata. Il Sommo Pontefice Gelasio, nella sua lettera nona ai Vescovi della Lucania, cap. 26, riprovò la cattiva consuetudine, già entrata, secondo la quale le donne servivano la Messa al Sacerdote celebrante; ed essendo passato lo stesso abuso ai Greci, Innocenzo IV nella lettera che scrisse al Vescovo di Tuscolo lo condannò severamente: “Le donne non osino servire all’altare, ma siano inesorabilmente allontanate da questo ministero“. Con le stesse parole viene proibito da Noi nella nostra Costituzione citata più volte Etsi Pastoralis (§ 6, n. 21, tomo 1 del nostro Bollario). Il Giovedì Santo, a venerare il ricordo dell’Ultima Cena, si fa una funzione sacra nella quale si consacra il pane che si conserva per un anno intero perché con esso vengano ristorati i candidati alla morte, che chiedono per sé la Sacra Comunione in forma di Viatico, e talora al pane consacrato si aggiunge una piccola parte di vino consacrato. Siffatto Rito è descritto da Leone Allazio nel suo Trattato De Communione Orientalium sub specie unica (n. 7). Il Sommo Pontefice Innocenzo IV, nella citata lettera al Vescovo di Tuscolo, interdisse tale Rito ai Greci con queste parole: “Non conservino l’Eucaristia consacrata il Giovedì Santo per un anno col pretesto degli infermi per comunicare con essa se stessi” e aggiunse che avrebbero sempre l’Eucaristia preparata per gli infermi, ma da rinnovare ogni quindici giorni. Arcudio, nel trattato De concordia Ecclesiae Occidentalis et Orientalis, libro 3, capitoli 55 e 56, non tralasciò di indicare le assurdità che derivavano da quel Rito, supplicando i Romani Pontefici perché lo abrogassero definitivamente. Decise questo Clemente VIII nella sua Istruzione e anche Noi ci prestammo nella nostra Costituzione Etsi Pastoralis (57, § 6, n. 3 e ss.) Nel Concilio di Zamoscia, esaminato da due Congregazioni, cioè del Concilio e di Propaganda Fide (De Eucharistia, § 3) si legge che se in qualche luogo vige ancora il Rito di consacrare l’Eucaristia il Giovedì Santo e di bagnarla con qualche goccia di Sangue e di conservarla per gli infermi per un anno intero, in seguito non lo si faccia più; ma i Parroci conservino l’Eucaristia per gli infermi, rinnovandola ogni otto o quindici giorni. La stessa via percorsero i Padri del Concilio Libanese, da Noi approvati, come risulta dal De Sacramento Eucharistiae (cap. 12, n. 24). Da questi esempi viene provato che la Sede Apostolica mai trascurò di proibire ai Greci alcuni Riti – quantunque da molto tempo durassero presso di loro – tutte le volte che essi erano perniciosi e cattivi.

30. Della processione dello Spirito Santo dal Padre e dal Figlio, come sopra dicemmo, si disputò principalmente tutte le volte che si trattò dell’Unione della Chiesa Greca e Orientale con la Latina ed Occidentale. L’esame di questo articolo presentò come tre aspetti; così fu redatto secondo questi tre capitoli. Primo: se la processione dello Spirito Santo dal Padre e dal Figlio fosse dogma di Fede, e circa questo primo punto fu sempre risposto fermamente che non si doveva in alcun modo dubitare che la processione dello Spirito Santo dal Padre e dal Figlio era da annoverarsi tra i dogmi di fede, e non c’era cattolico che non lo credesse e non lo professasse. Secondo: posto che questo era dogma di fede, se era lecito nel Simbolo della Messa aggiungere la parola Filioque quantunque essa non si trovasse né nel Concilio di Nicea né in quello di Costantinopoli, dal momento che dal Concilio di Efeso era stato decretato di nulla aggiungere al Simbolo Niceno: “Il Santo Sinodo stabilì che a nessuno è lecito professare, redigere o disporre un’altra Fede, all’infuori di quella stabilita dai Santi Padri che si radunarono a Nicea con lo Spirito Santo“. Per quanto riguarda questo secondo punto, si confermò che non solo era lecito, ma era anche molto conveniente che questa aggiunta si facesse al Simbolo Niceno, dal momento che il Concilio di Efeso aveva proibito soltanto le aggiunte contrarie alla Fede, o temerarie e diverse dal comune sentire, ma non quelle ortodosse e dalle quali qualche articolo di Fede implicitamente contenuto nel Simbolo venisse dichiarato in maniera più esplicita. Terzo: se, posto come indubbio dogma la processione dello Spirito Santo dal Padre e dal Figlio e riconosciuto il potere della Chiesa di aggiungere al Simbolo la voce Filioque, si poteva permettere che Orientali e Greci nella Messa recitassero il Simbolo a quel modo che usavano un tempo, prima dello scisma, come a dire che tralasciassero la voce Filioque. Per quanto riguarda quest’ultimo punto, la disciplina della Chiesa non fu sempre la stessa; talora permise agli Orientali e ai Greci di recitare il Simbolo senza il Filioque, allorché era risultato per certo che da loro erano accettati i primi due punti, o articoli, e che, se ad essi veniva negato ciò che con tanto amore chiedevano, veniva chiusa la possibilità dell’auspicata Unione. Talora poi si volle che dai Greci e dagli Orientali fosse recitato il Simbolo con l’aggiunta Filioque quando a buon diritto si poteva dubitare che essi non volevano recitare il Simbolo con l’aggiunta perché aderivano all’errore di coloro che opinavano e asserivano che lo Spirito Santo non procedeva dal Padre e dal Figlio, o che dalla Chiesa non si poteva fare al Simbolo quell’aggiunta Filioque. Due Sommi Pontefici, il Beato Gregorio X nel Concilio di Lione ed Eugenio IV in quello di Firenze usarono con i Greci il primo modo di comportamento per i motivi indicati, come consta dalla Collezione dei Concilii di Arduino (tomo 9, p. 698, D e tomo 9, 395, D). Altro modo, per le ragioni parimenti sopra esposte, abbracciò e osservò il Sommo Pontefice Nicolò III allorché rimproverò all’imperatore Michele di non agire in buona fede e di non stare a quello che aveva promesso nel patteggiare l’Unione che aveva stipulato e confermato con il Pontefice suo Predecessore Gregorio X. Documento di questo fatto, tratto dall’Archivio Vaticano, è stampato negli Annali di Raynaldo (Anno 1278, § 7). La stessa strada percorsero Martino IV e Nicolò III. E quantunque di questi Pontefici, sull’argomento, gli scrittori ci abbiano lasciato notizie divergenti, tuttavia Pachimere che allora affidava alla memoria dei posteri la storia di Costantinopoli (libro 6, cap. 14) dice apertamente che essi non seguirono l’indirizzo concessivo dei suoi Predecessori, ma vollero che dagli Orientali e dai Greci si recitasse il Simbolo con l’aggiunta del Filioque per togliersi il dubbio della loro Fede ortodossa, “per avere una certezza concreta della Fede e del parere dei Greci: il loro pegno sarà idoneo, se avranno pronunciato il Simbolo come i Latini“. Lo stesso Pontefice Eugenio, che nel Concilio di Firenze aveva concesso agli Orientali che senza quella parola Filioque potessero recitare il Simbolo, ricevendo nell’unità di Santa Chiesa gli Armeni, ordinò agli stessi che usassero il Simbolo aumentato della predetta aggiunta, come si può vedere nella Collezione dei Concili di Arduino (tomo 9, p. 435, B), per la ragione che aveva saputo che gli Armeni, non come i Greci, erano contrari a questa aggiunta. Il Romano Pontefice Callisto III, mentre mandava a Creta Fra Simone, domenicano, insignito dell’incarico di Inquisitore – nell’isola di Creta, nella quale si erano ritirati molti Greci fuggendo dalla città di Costantinopoli, di cui due anni prima si erano impadroniti i Turchi – comandò di osservare attentamente che i Greci recitassero il Simbolo con l’aggiunta Filioque, come narra Gregorio Trapezonzio nella sua lettera Ad Cretenses (tomo I, Graeciae Orthodoxae, presso Allazio, p. 537); ciò è confermato anche da Giacomo Échard, tomo I dell’opera Scriptorum Ordinis Sancti Dominici (p. 762). Forse il Papa temeva che i predetti Greci, come coloro che venivano da Costantinopoli, fossero meno sicuri in quel dogma di Fede. Nelle due formule della professione di Fede, che già sopra abbiamo ricordate (una delle quali Gregorio XIII aveva prescritto ai Greci, e l’altra Urbano VIII agli Orientali) non è contenuto null’altro che quanto fu stabilito nel Concilio di Firenze. Nelle due Costituzioni – una di Clemente VIII (che è la 34 del vecchio Bollario Romano,tomo 3, § 6), e l’altra nostra che comincia Etsi Pastoralis (nel nostro Bollario, tomo I, pars I) – ambedue edite per i Vescovi latini nelle cui Diocesi abitano dei Greci e degli Albanesi che osservano il Rito Greco, purché costoro dichiarino che lo Spirito Santo procede dal Padre e dal Figlio, e riconoscano che la Chiesa ha il potere di aggiungere al Simbolo la parola Filioque, non sono obbligati a recitare il Simbolo con questa aggiunta, a meno che, tralasciandola, non ci sia pericolo di scandalo, o in qualche luogo sia ormai invalsa la consuetudine di recitare il Simbolo con l’aggiunta del Filioque; o finalmente si reputi necessario che si dica il Simbolo con l’aggiunta predetta per manifestare l’indubbia prova della loro retta Fede. Rettamente non solo i Padri del Concilio di Zamoscia (tit. I De Fide Catholica), ma anche i Padri del Concilio Libanese (parte I della stessa opera, n. 12), per rimuovere ogni scrupolo stabilirono provvidenzialmente che tutti i Sacerdoti soggetti alle loro leggi usino il Simbolo secondo la consuetudine della Chiesa Romana con la particella Filioque.

31. Da quello che è stato detto finora si conclude chiaramente che la Sede Apostolica, sullo stesso argomento, talvolta per particolari circostanze, considerata l’indole di certe popolazioni, consentì di usare un certo modo, che tuttavia non permise affatto che fosse usato da altri per circostanze diverse e per le diverse caratteristiche di luoghi e di popoli. Per la qual cosa, per soddisfare all’incarico assunto, non resta altro che dimostrare che la stessa Sede Apostolica, mentre riconobbe certi popoli Orientali e Greci, fu più severa nell’uso di qualche Rito Latino, lo permise benevolmente, soprattutto se la consuetudine di usare questo Rito fiorì fin dai tempi più antichi e i Vescovi non solo non sono mai stati contrari ma o tacitamente o espressamente lo approvarono. Essendo stati portati in precedenza perspicui esempi di ciò, quando parlammo di quella categoria di Orientali e di Greci che, mantenendo in gran parte i propri Riti e venerando parimenti i Riti Latini e Orientali, abbracciarono qualche nostro Rito, ci asterremo da un’inutile ripetizione richiamando qui ciò che sopra fu esposto chiaramente in questa stessa Lettera. Aggiungeremo soltanto due esempi, presi dai Maroniti, a quelli già addotti. Da alcuni secoli i Maroniti usano i paramenti Pontificali e Sacerdotali della stessa forma che prescrive il Rito Latino, come nel citato Concilio Libanese del 1736 si legge (cap. 12 sul Sacramento dell’Eucaristia, n. 7). Il Sommo Pontefice Innocenzo III nella lettera al Patriarca Geremia del 1215, che inizia Quia Divinae Sapientiae bonitas, li esorta a conformarsi alla Chiesa Latina negli ornamenti pontificali. Per questa ragione lo stesso Pontefice e i suoi successori mandarono loro in dono paramenti sacri, calici e patene, come narra il Patriarca Pietro nelle due lettere mandate a Leone X, riportate nella Collezione dei Concilii di Filippo Labbe (tomo 14, p. 346 e ss.). Ora, nel citato Concilio Libanese al cap. 13, per unanime decisione e con la nostra approvazione, gli stessi Maroniti, quanto alla Messa dei Presantificati, hanno abbracciato il Rito Latino, celebrandola soltanto il Venerdì Santo, tralasciando, per cause giuste e gravi, la disciplina dei Greci i quali celebrano solo la Messa dei Presantificati nei giorni del digiuno quaresimale, eccetto il sabato, la domenica e la festa dell’Annunciazione della Beata Vergine, se per caso cade in Quaresima, secondo quanto prescritto nel Concilio Trullano (can. 52). In questi giorni il Sacerdote divide il Pane consacrato in tante particelle quanti sono i giorni che seguiranno, nei quali si celebra la Messa dei Presantificati, in cui si mangia il Pane Eucaristico, che prima consacrò, conservando nel Ciborio le altre particole consacrate, perché nei giorni seguenti, in cui celebrerà la Messa dei Presantificati, ne mangi e ne distribuisca anche agli altri presenti che ne facciano richiesta, come diffusamente ricorda Leone Allazio (Prolegomeni a Gabriele Naudeo, La Messa dei Presantificati, p. 1531, n. 1).

32. Qualcuno potrebbe ritenere che si debba concludere questa Lettera, poiché in essa è già stato risposto alle domande poste dal Sacerdote Missionario di Balsera: cioè Non si deve cambiare nulla, e sono qui indicate le regole precise che devono seguire i Missionari i quali cercano di portare gli Orientali all’Unità e alla Santa Fede Cattolica dallo scisma e dagli errori; né si comporta secondo le regole dei Canoni e delle Costituzioni Apostoliche colui che, nel convertire gli Orientali, cerca di togliere di mezzo il Rito Orientale e Greco, in ciò che è tollerato e ammesso dalla Sede Apostolica, o agisce in modo che coloro che si convertono abbandonino il Rito che fino allora seguirono, e abbraccino il Latino. Tuttavia, prima di por fine a questa Lettera è molto conveniente che si tocchino alcuni argomenti che appartengono propriamente alle questioni poste da detto Missionario, alle quali già fu risposto che non si deve cambiare nulla.

33. Inoltre, se nella città di Balsera dimorano Cattolici di Rito orientale, Armenio Siriaci, e mancano di una Chiesa particolare, si radunano nella Chiesa dei Missionari Latini, dove Sacerdoti di Rito Orientale celebrano il Divino Sacrificio e le altre cerimonie nei loro Riti, e i Laici intervengono alla Messa e ricevono i Sacramenti, non c’è molto da fare per difendere il principio che non si deve cambiare nulla come è stato scritto: e ciò che fu valido prima, deve essere conservato in futuro, permettendo ai predetti Sacerdoti e Laici che nella Chiesa Latina continuino a fare quello che hanno fatto finora. Infatti nel diritto canonico è stabilito che il Rito Orientale e Greco non si deve mescolare con quello Latino, come si può vedere nella Decretale di Celestino III presso Gonzales (cap. Cum secundumDe temporibus Ordinationum)e nella Decretale di Innocenzo III (cap. QuantoDe consuetudine, cap. QuoniamDe Officio Iudic. Ordinar.),e nella Decretale di Onorio III (cap. Litteras: De celebrat. Missar.), ma a nessun diritto si può affermare che la miscela di Riti, vietata da qualche Costituzione Apostolica, sia concessa per il fatto che l’Armeno, il Maronita, o il Greco secondo il proprio Rito celebrino nella Chiesa Latina il Sacrificio della Messa o altre cerimonie col popolo del proprio Rito, o viceversa il Latino faccia la stessa cosa nella Chiesa degli Orientali: mentre c’è una certa causa legittima, di cui nella presente fattispecie non si può in alcun modo dubitare, quando gli Orientali non hanno una loro Chiesa nella città di Balsera, che se ad essi non si aprisse la Chiesa dei Latini, mancherebbero assolutamente di un posto dove potessero celebrare il Sacrificio della Messa ed esercitare col popolo del proprio Rito quello che c’è da fare: essi devono essere tenuti in Santa Unione e riscaldati.

34. Sarebbe proibita la miscela di Riti, se il Latino celebrasse con pane fermentato e desse ai Latini l’Eucaristia consacrata a quel modo. La stessa cosa si dovrebbe dire se gli Orientali, che non abbracciarono la consuetudine del pane azimo, celebrassero in azimo e distribuissero alla loro gente l’Eucaristia così consacrata. Quindi i Vescovi latini cui sono soggetti gli Italo-Greci devono curare che i Latini si comunichino sempre in azimo e i Greci, dove hanno una propria parrocchia, sempre in fermentato, come è stabilito nella nostra Costituzione Etsi Pastoralis 57 (n. 6 e n. 14, tomo 1 del nostro Bollario)Sarebbe pure vietata la miscela del Rito se un Sacerdote Latino celebrasse la Messa ora in Rito Latino, ora Greco, o se un Sacerdote Greco celebrasse ora in Greco ora in Latino. Ciò è proibito nella Costituzione di San Pio V che inizia Providentia (21, tomo 4, parte 2 del nuovo Bollario stampato a Roma dove sono revocate tutte le facoltà che in precedenza erano state concesse ad alcuni Sacerdoti in questa materia). A questa Costituzione di San Pio V è conforme anche la nostra citata (§ 7, n. 10). Ché se ai Sacerdoti della Compagnia di Gesù che sono a capo dei Collegi delle Nazioni Orientali eretti a Roma e che abbracciando la regola della predetta Compagnia erano passati dal Rito Greco al Latino fu concesso, come sopra accennato, di celebrare talvolta la Messa in Rito Greco e Orientale, questo fu fatto, come sopra spiegato, perché gli alunni che devono praticare il Rito Greco e Maronita imparino a celebrare la Messa nel predetto Rito e secondo il medesimo a celebrare i Divini Uffici per tutta la vita. Ma le particolari circostanze di questo caso singolare dicono che non si possono portare ad esempio per ottenere simili indulti: ciò è così vero che quantunque il Cardinale Leopoldo Kollonitz abbia esposto al nostro Predecessore Clemente XI che avrebbe giovato molto alla Chiesa Cattolica se si fosse permesso ai Missionari Latini di celebrare, in Ungheria, col Rito Greco tutte le volte che lo richiedesse la necessità, lasciando loro la libertà di tornare al Rito Latino, lo stesso Pontefice riflettendo che, secondo le leggi canoniche, ciascuno doveva restare nel suo Rito e non era lecito al Sacerdote celebrare ora in Rito Latino, ora in Rito Greco, rifiutò di concedere la facoltà richiesta dal predetto Cardinale, come risulta dalla lettera in forma di Breve che indirizzò allo stesso Cardinale il 9 maggio 1705 (pubblicata nel tomo 1, Epistolar. et Brev. selectior. Eiusdem Pontificis, typis editor, p. 205).

35. Questi ed altri esempi che si potrebbero citare facilmente riguardano la miscela dei Riti proibita dalle leggi della Chiesa. In verità, come già abbiamo detto, non si potrà mai chiamare miscela dei Riti proibita se, per una causa legittima, il Sacerdote di Rito Orientale, approvato dalla Sede Apostolica, viene ammesso nella Chiesa dei Latini per celebrarvi la Messa e le altre funzioni ed amministrare i Sacramenti al popolo della sua Nazione. Vediamo che ciò avviene pubblicamente a Roma dove ai Sacerdoti Armeni, Copti, Melchiti e Greci sono aperti i nostri templi per celebrarvi la Messa, per soddisfare la loro devozione, quantunque abbiano le loro Chiese particolari dove potrebbero celebrare: purché tuttavia portino con sé i paramenti sacri e le altre cose che sono necessarie a celebrare la Messa secondo il loro Rito e li accompagni un collaboratore della loro Nazione per servire i celebranti, e dai custodi e dai Rettori della Chiesa si provveda in modo che, per la novità della cosa, non si determinino turbolenze e tumulti fra gli astanti, come più dettagliatamente si dice nell’Editto che il 13 febbraio 1743 fu promulgato per Nostro ordine per gli Ecclesiastici e i Laici Orientali abitanti a Roma a mezzo del nostro Venerabile Fratello Giovanni Antonio, allora del titolo dei Santi Silvestro e Martino ai Monti, Presbitero, ora Vescovo di Tuscolo, Cardinale di Santa Romana Chiesa, chiamato Guadagni, nostro Vicario generale in Roma e relativo distretto. Tuttavia per questo argomento Ci sembra di fare moltissimo, e tosto lo indicheremo. A metà circa del secolo XV, com’è noto, Maometto II espugnò Costantinopoli con la forza e alcuni Greci, che avversavano gli errori degli Scismatici e avevano conservato la comunione con la Chiesa Latina, si erano trasferiti a Venezia e qui erano restati. Il Cardinale Isidoro, greco di stirpe, essendo giunto in quella città, riferì al Senato il desiderio del Romano Pontefice che venisse assegnato agli uomini di questo Rito Greco un tempio nel quale potessero esercitare le loro funzioni. La commossa compassione del Senato concesse alla gente profuga la Chiesa di San Biagio dove per la durata di molti anni in una determinata cappella della stessa Chiesa i Greci fecero i Divini Offici in Rito Greco, e nelle altre cappelle i Latini in Rito Latino, come attesta Flaminio Cornelio, scrittore di gran famaPer alcuni anni gli Uffici di ambedue i Riti furono fatti in una sola Chiesa, se pure in diverse Cappelle” (Decad. 14. Venetarum Ecclesiarum, p. 359). Ciò avvenne fino a quando, aumentato il numero dei Greci, alla predetta Chiesa di San Biagio comune a Latini e Greci, fu dato un altro tempio che fosse proprio e riservato ai Greci.

36. Questo riguarda i Greci che, per celebrare, sono accolti nelle Chiese Latine. Ma perché sia mostrato più chiaramente che da ciò non segue nessuna miscela rituale condannata dalle leggi della Chiesa, non sarà senza significato parlare anche dei Latini che per dire Messa e assolvere i Divini Offici sono ammessi per giusti motivi nelle Chiese dei Greci. Ciò non solo confermerà il pensiero suesposto, ma anche contribuirà moltissimo a dimostrare quanto siano necessarie tra i Cattolici, sia pure di Rito diverso, l’unione e la benevolenza degli animi. Nella Russia Bianca i Ruteni Cattolici che chiamano Uniati hanno molte Chiese, e poche i Latini e, ciò che conta di più, molto distanti dai villaggi dei Latini che abitano tra i Ruteni. I Latini talora per lungo tempo mancavano della Messa di Rito Latino, per la ragione che trattenuti dai loro affari non potevano fare un così lungo cammino per recarsi alle Chiese Latine; né i Preti Latini potevano facilmente andare nelle poche Chiese Latine che si trovano nella Russia Bianca a celebrare la Messa, per la ragione che le Chiese erano separate da troppo lungo cammino dal loro domicilio. Perciò affinché i Latini non mancassero per troppo tempo della Messa in Rito Latino, restava solo che i Sacerdoti Latini, a comodità dei Latini, celebrassero Messe Latine nelle Chiese Rutene. Ma anche con questa soluzione esisteva una difficoltà: gli altari dei Greci non hanno la Pietra sacra, dal momento che essi celebrano sugli Antimensi che sono lini consacrati dal Vescovo nei cui angoli sono messe le reliquie dei Santi. Pertanto i Sacerdoti Latini erano costretti a portare con sé la Pietra sacra, con non lieve incomodo e attenzione, perché nel viaggio non si spezzasse. A tutti questi ostacoli, con l’aiuto di Dio, fu trovato e applicato un rimedio opportuno: poiché, consenzienti anche gli stessi Ruteni, fu concesso ai Preti Latini di celebrare la Messa in Rito Latino nelle Chiese Rutene e sopra i loro Antimensi e, questo sembrò ancor più sbrigativo, che i Sacerdoti Ruteni, andando talora in Chiese Latine per celebrarvi la Messa, dicessero la Messa sulle nostre Pietre sacre. Tutto questo si può ricavare dalla nostra Costituzione Imposito Nobis (n. 43, tomo 3 del nostro Bollario).

37. È inoltre molto importante per il nostro argomento ciò che subito aggiungeremo. Discutono fra di loro gli studiosi se, secondo la vecchia disciplina, nelle Basiliche della Chiesa Occidentale ci fossero uno o più altari. Sostiene la prima tesi Schelestrato (part. 1 Actor. Ecclesiae Orientalis, cap. 2, De Missa privata in Ecclesia Latina)ma per contro il Cardinale Bona (Rerum Lyturgicarum, lib. 1, cap. 14, n. 3), basandosi sull’autorità di Walfrido (cap. 4), dimostra che nella Basilica romana di San Pietro vi erano più altari. Se però si parla di Templi e Basiliche Orientali e Greche, è chiaro che in esse non esisteva che un solo altare, anche se orane esistono in gran numero, come si deduce dalla descrizione lineare di questi Templi che ne fecero il Du Cange in Costantinopoli Cristiana, il Beveregio nelle note alle Pandette dei Canoni e il Goario nell’Eucologio dei Greci. E poiché nel Tempio di Sant’Atanasio, che a Roma è tenuto dai Greci, ci sono molti altari, Leone Allazio nella lettera a Giovanni Morini Sui Templi più recenti dei Greci, n. 2, non esitò ad asserire che in quella Chiesa non c’era nulla di greco all’infuori del Bema, cioè del recinto che, da tutte le parti della Chiesa, evidenzia l’Altar maggiore. A quell’Altare, al quale il Sacerdote ha celebrato la Messa, non può un altro Sacerdote nello stesso giorno offrire una seconda volta la Messa. Di questa disciplina dei Greci parlano Dionisio Barbalibeo, Giacobita, Vescovo di Amida, in Spiegazione della Messa, e Ciriaco, Patriarca dei Giacobiti presso Gregorio Barebreo, pure Giacobita, nel suo Direttorio che cita Assemano nella Biblioteca Orientale (tomo 2, p. 184 e tomo 3, parte 1, p. 248). Circa la stessa disciplina il Cardinale Bona (citato, cap. 14, n. 3), così lasciò scritto: “Nelle loro Chiese hanno un unico altare e non giudicano lecito che nello stesso giorno si ripeta la Messa entro le mura del Tempio“. Eutimio, Arcivescovo di Tiro e Sidone, e Cirillo, Patriarca Antiocheno dei Greci, durante il Pontificato di Clemente XI, Benedetto XIII e Clemente XII più volte chiesero se dovevano abbandonare la vigente disciplina che vietava si offrisse un secondo sacrificio della Messa nello stesso giorno e allo stesso altare. Ma fu sempre risposto loro che nulla si doveva cambiare, e si doveva conservare appieno il vecchio Rito. Poiché si era diffuso nel popolo l’errore che non si offriva un secondo Sacrificio della Messa nello stesso giorno, allo stesso altare dove un altro Sacerdote aveva celebrato, perché il Sacerdote che celebrava dopo, usandogli stessi paramenti che aveva usato il primo, rompeva il digiuno, perciò nella nostra Enciclica al Patriarca antiocheno dei Greci Melchiti e ai Vescovi cattolici a lui soggetti, prescrivemmo che con ogni impegno curassero di eliminare questo errore tra il popolo, in modo tuttavia da conservare integro lo spirito secondo il quale all’altare dove celebrò un Sacerdote, è escluso vi celebri un altro Sacerdote lo stesso giorno, come si può vedere nella nostra Costituzione che comincia Demandatam (87, tomo 1 del nostro Bollario).

38. Infine, un tempo fu comune il Rito nella Chiesa Occidentale e Orientale che i Preti offrissero il Sacrificio della Messa assieme al Vescovo. I documenti di questa disciplina furono raccolti da Cristiano Lupo nell’Appendice al Sinodo di Calcedonia (tomo 1, Ad Concilia generalia et provincialia, p. 994 della prima edizione), dove interpreta queste parole di Bassiano “Con me celebrava la Messa, con me comunicava“, e da Giorgio, nella Liturgia Pontificia (tomo 2, p. 1 e ss., e tomo 3, p. 1 e ss.). Ora il Rito della concelebrazione nella Chiesa Occidentale è caduto in disuso, meno che nell’ordinazione dei Sacerdoti, che il Vescovo conduce, e nella consacrazione dei Vescovi, che viene compiuta dal Vescovo con altri due Vescovi assistenti. Ma nella Chiesa Orientale sopravvisse e vige tuttora un uso più frequente della concelebrazione dei Preti col Vescovo o con un altro Sacerdote, che sostiene la persona del primo Celebrante; questo uso si riferisce alle Costituzioni che si chiamano Apostoliche, libro 8, e al Canone ottavo tra quelli che si dicono Apostolici. Dovunque questa consuetudine è in vigore tra i Greci e gli Orientali, non solo è approvata ma anche si ordina di custodirla, come consta dalla nostra stessa Costituzione sopra citata Demandatam (§ 9).

39. Da questo Rito Greco e Orientale che fin qui abbiamo ricordato, alcuni colsero l’occasione di mettere in dubbio se per le Messe private, che si dicono da un solo Sacerdote, ci possa essere posto nella Chiesa Orientale e Greca del momento che, come abbiamo detto, nelle Chiese Greche esiste un solo altare, uno solo è offerto al sacrificio della Messa e i Sacerdoti concelebrano col Vescovo o con un Sacerdote che fa da primo Presbitero. I Luterani non trascurarono di mandare a Geremia, Patriarca di Costantinopoli, la Confessione di Augusta, nella quale si sopprimono le Messe private, sollecitandolo ad accettarla; ma siccome l’uso e la disciplina della Messa privata nella Chiesa Orientale si desumono e sono rivendicati dal Canone 31 del Concilio Trullano e dalle Note che su di esso compose Teodoro Balsamon, pertanto il Rito della frequente concelebrazione dei Sacerdoti col Vescovo rimase, e parimenti la consuetudine delle Messe private restò intatta nella Chiesa Orientale. Perciò i tentativi dei Luterani si conclusero nel nulla: ad essi fu risposto che era condannato dagli Orientali, come dagli Occidentali, l’uso malvagio di coloro che per l’immondo desiderio di ricevere l’offerta sono spinti all’altare, a differenza di coloro che, secondo pietà e religione celebrano le Messe private per offrire a Dio un sacrificio accettabile. Ciò appare dagli Atti della Chiesa Orientale contro i Luterani (Schelestrato, cap. 1, De Missis privatis in Ecclesia Graeca, verso la fine). A comodo dei Sacerdoti che desiderano offrire il Sacrificio della Messa, salva sempre la consuetudine che ad un solo altare si offra un solo sacrificio nei singoli giorni, i Greci cominciarono a costituire le Paracclesie di cui parla Leone Allazio nella citata lettera a Giovanni Morini. Le Paracclesie non sono altro che Oratori i contigui alla Chiesa nei quali è stato eretto un altare dove i Sacerdoti celebrano la Messa che non possono celebrare in Chiesa perché all’altare in essa costruito ha celebrato un altro Sacerdote.

40. Altri poi, da questa disciplina degli Orientali e dei Greci, giustamente pensarono che c’era da temere che i Sacerdoti latini venissero esclusi in perpetuo dal celebrare Messe nelle Chiese Greche, perché, come sopra si è detto, in esse esiste un unico altare dove nello stesso giorno un Sacerdote solo può celebrare; né i Sacerdoti Latini potevano celebrare nelle Paracclesie, in quanto costruite solo per i Greci. Ma ad eliminare il timore, in questo periodo si vede che per lo più nelle Chiese Greche viene costruito un secondo altare, nel quale da parte dei Preti Latini si possa offrire il Divino Sacrificio. Goario espose tre forme dei Templi Greci nell’Eucologio Greco; la terza di esse presenta un secondo altare posto per i Preti Latini, come dice lo stesso Goario nel luogo citato, e come prosegue lo Schelestrato (opera sopra indicata, p. 887). Nelle Chiese della Comunità dei Maroniti e dei Greci esistenti in Roma, oltre l’altare maggiore, ci sono altri altari nei quali si celebra la Messa da parte dei Preti Latini; nella nostra Costituzione Etsi Pastoralis (57, § 6, nn. 8 e 9, tomo 1 del nostro Bollario)nella quale si offre agli Italo-Greci una sicurissima regola di agire, si vieta ai Sacerdoti latini di celebrare nei Templi Greci all’altare maggiore, se non lo richieda in tutti i modi una necessità e si abbia il consenso del Parroco greco. Inoltre, nella stessa Costituzione si concede ai Greci la possibilità di erigere nei loro Templi, oltre l’altare maggiore, altri altari nei quali i Sacerdoti latini se vogliono, possano celebrare il sacrificio della Messa.

41. Da quanto abbiamo detto finora sembra sia già chiaramente dimostrato che, come prima, così in futuro si deve permettere ai Cattolici Armeni e ai Siriaci che abitano a Balsera misti ai Latini, e che mancano di una Chiesa propria, che si radunino in quella latina e in essa svolgano le sacre funzioni col proprio Rito: tanto più che non solo non ne deriva alcuna miscela di Riti condannata dalla Chiesa, ma si esercitano i doveri dell’ospitalità o, meglio, si adempiono precetti equitativi del diritto, che esige che a chi non ha un luogo opportuno a fare quelle cose che di diritto deve compiere, il luogo stesso venga concesso volentieri. Perciò non resta altro che ordinare che tutto venga fatto secondo le leggi della dovuta carità, e cioè che agli Orientali venga assegnata una cappella o una parte della Chiesa nella quale possano celebrare le loro funzioni, e per quanto si può fare ci si adoperi affinché in alcune ore i Latini e in altre gli Orientali facciano le loro funzioni. Se capiterà di fare altrimenti, subentrerà un motivo immediato di quei dissensi che tanto tormentarono i due nostri predecessori Leone X e Clemente VII; contro i patti stipulati nel Concilio di Firenze da Eugenio IV affinché non si recasse alcuna molestia ai Greci nel compimento dei propri Riti e delle proprie cerimonie, ai predetti Pontefici fu riferito che alcuni Latini andavano nelle Chiese dei Greci e celebravano la Messa in Rito Latino presso il loro altare con l’intenzione di creare ai Preti greci ostacolo ad offrire il Sacrificio secondo il loro Rito e a poter fare le loro funzioni. Di conseguenza i Greci, talvolta anche nei giorni di festa, mancavano del Sacrificio della Messa: “Non si sa con quale spirito (si parla dei Preti latini) talora occupano gli altari di dette Chiese parrocchiali e ivi, contro la volontà degli stessi Greci, celebrano la Messa e forse altri Divini Uffici, così che i detti Greci spesso restano senza aver udito la Messa, con grande agitazione d’animo, nei giorni festivi e negli altri giorni in cui erano soliti ascoltarla“. Questi lamenti papali riporta il documento che comincia Provisionis nostrae e che si trova nell’Enchiridion dei Greci (stampato a Benevento nel 1717, p. 86). Non è certo necessario che aggiungiamo le nostre lamentele, che non sarebbero più lievi né sarebbero prive di rimedi opportuni, se mai si riferisse a Noi che a Balsera, dai nostri Latini, viene impedito agli Orientali di compiere le loro funzioni nelle Chiese Latine.

42. Una seconda questione succede a questa prima: riguarda gli Armeni e i Siri. Si disquisisce se essi, nello stabilire il tempo della Pasqua e delle Feste che da essa dipendono, possano usare il vecchio Calendario, o piuttosto debbano seguire il nuovo, corretto, quando celebrano le funzioni sacre nelle Chiese Latine, e si dica fino a qual punto sia lecito da parte loro l’uso dell’antico Calendario, o tale indicazione riguardi anche quegli Orientali che hanno la loro Chiesa, ma così angusta e così piccola che non potendo tutti radunarsi in essa, per la maggior parte sono costretti a entrare nelle Chiese Latine.

43. Non è ignoto ad alcuno ciò che dai santi Papi Romani Pio e Vittore, e anche dal Concilio di Nicea fu stabilito circa la retta celebrazione della Pasqua. Tutti ugualmente sanno che dal Concilio Tridentino fu riservato al Romano Pontefice la correzione del calendario e che essendo papa Gregorio XIII la cosa fu risolta con tutti i relativi calcoli. Pertanto Bucherio nel Commentario alla dottrina dei tempi, nella prefazione al lettore scrisse: “A computare la certezza del tempo pasquale, all’ordine del Papa Gregorio XIII provvide largamente il nostro Clavio“. Egli fu un Sacerdote della Compagnia di Gesù, matematico preparatissimo, il quale diede al Pontefice un egregio contributo nella correzione del Calendario. Furono portati al Pontefice anche i calcoli di certo Luigi Lilio, il quale aveva trascorso molti anni nel comporli. Valutato e soppesato tutto in molte Congregazioni, alla presenza in consiglio di uomini eruditissimi, uscì nel 1582 la Costituzione che fissava le regole del Calendario; essa comincia: Inter gravissimas (n. 74, nel vecchio Bollario, tomo 2).

44. Abrogato il vecchio Calendario con questa Costituzione Pontificia, fu comandato ai Patriarchi, ai Primati, agli Arcivescovi, ai Vescovi, agli Abati e agli altri Prelati di servirsi del nuovo Calendario, corretto, come si può leggere nella stessa Costituzione, come si deduce dagli Annali dello stesso Pontefice (stampati a Roma nel 1742, tomo 2, p. 271). Per la verità, non essendosi fatta parola degli Orientali nella Costituzione, nasce il quesito se la stessa riguardi gli Orientali; tale questione investe non solo i dottori, come si può vedere in Azorio, Istituzioni morali (tomo 1, libro 5, cap. 11, quaest. 7), presso Baldello nella sua Teologia morale (tomo 1, libro 5, disput. 41); ma fu anche proposta e discussa in un convegno di Scienziati del 4 luglio 1631 nel palazzo del Cardinale Panfili che, salito al Papato, prese il nome di Innocenzo X. Allora uscì questa risoluzione: “I sudditi dei quattro Patriarchi d’Oriente non sono legati dai nuovi decreti pontifici se non in tre casi: primo, in materia dei dogmi di Fede; secondo, se il Papa esplicitamente nelle sue Costituzioni ne faccia menzione e disponga di essi; terzo, se implicitamente disponga di essi nelle stesse Costituzioni come nei casi di indirizzi al futuro Concilio“: viene riportata questa risoluzione sia dal Verricello (De Apostolicis Missionibus, libro 3, quest. 83, n. 4), sia nella nostra opera La canonizzazione dei Santi (libro 2, cap. 38, n. 15).

45. Noi consideriamo questa questione conclusa, non essendovi alcuna urgenza ora per discuterne. A Noi basterà indicare che cosa ha fatto la Sede Apostolica a questo proposito, quando dai fatti precedenti si evince che è quanto mai ragionevole la risposta che “non si deve cambiare nulla” data al quesito. Agli Italo-Greci che vivono tra di noi e vengono sottoposti al governo dei Vescovi Latini nelle cui Diocesi sono domiciliati, fu comandato dalla Sede Apostolica di conformarsi al nuovo Calendario, come si può vedere nella nostra citata Costituzione Etsi Pastoralis (57, § 9, nn. 3 e ss. del tomo 1 del nostro Bollario)Il clero della Collegiata di Santa Maria del Grafeo, della città di Messina, che pratica il Rito Greco, osserva il nuovo Calendario scrupolosamente, come si può vedere nell’altra nostra Costituzione Romana Ecclesia (81, par. 1 dello stesso tomo 1 del nostro Bollario)tuttavia ciò fu comandato non così severamente che talvolta, richiedendolo gravi ragioni, non si sia lasciato posto ad un indirizzo concessivo. Gli Armeni cattolici residenti a Liburni non volevano sottoporsi al Calendario gregoriano ed inoltrarono suppliche a Innocenzo XII di poter usare il vecchio Calendario. Nella Congregazione del Sant’Officio il 20 giugno 1674 era stato approvato questo decreto: “Richiamata di nuovo la lettera 10 aprile del Nunzio Apostolico di Firenze circa le richieste fattegli dagli Armeni di pregare nella Messa per il Patriarca degli Armeni e circa la celebrazione della Pasqua e delle altre feste secondo il loro Rito, cioè secondo il calcolo vecchio che esisteva prima della correzione del calendario, e circa la celebrazione della Pasqua, ecc. ; riferita la Scrittura mandata dalla Sacra Congregazione di Propaganda Fide circa il modo di pregare nella Messa per il Patriarca Armeno, si risponda al Nunzio che, circa il permesso di pregare nella Liturgia per il Patriarca degli Armeni, la Sacra Congregazione sta ai decreti emanati il 7 giugno 1673, e cioè che non si può, e quindi è vietato. Quanto alla celebrazione della Pasqua e delle altre feste, restarono del pari ancorati ai decreti: cioè nella celebrazione della Pasqua e delle altre feste gli Armeni residenti a Liburni devono osservare il Calendario Gregoriano“. Poiché gli Armeni si rifiutarono di ottemperare a questo decreto, l’esame del caso fu affidato alla particolare Congregazione di Cardinali eminenti per dottrina, tra i quali erano il cardinale Gianfrancesco Albano, che poi divenne Papa, e il cardinale Enrico Norisio, uomo famoso tra i letterati. La stessa Congregazione tenutasi il 23 settembre 1699 emise questo decreto confermato dal Pontefice nello stesso giorno: “Discussa profondamente la cosa e considerate tutte le circostanze del fatto, stabilirono, secondo quanto è proposto, che si può chiudere un occhio con i Cattolici Armeni abitanti a Liburni; circa l’uso del vecchio Calendario, coloro che ritengono peculiare la Chiesa, si dispongano ad ogni modo all’osservanza del Calendario Gregoriano e frattanto al beneplacito della Sede Apostolica, con l’aggiunta, inoltre, di questa condizione: che nei giorni di precetto, secondo il Calendario Gregoriano, si astengano dalle opere servili e ascoltino la Santa Messa“.

46. Se si vuol parlare dei Greci Orientali, consta che talora avevano il desiderio di usare il nuovo Calendario corretto, ma questo non ebbe alcun risultato. Tra gli articoli e le condizioni poste ai Ruteni nell’Unione sotto Clemente VIII fu inserita, trattata e risolta anche quella dell’accettazione del Calendario; ad essa fu data la seguente risposta: “Assumeremo il Calendario nuovo se si può fare secondo l’antico“, come si può leggere nell’opera di Tomaso da Gesù (p. 329). Quantunque quella risposta presentasse una certa ambiguità, sappiamo che di quell’argomento non si trattò più, né su questo articolo pronunciò alcun giudizio il Teologo deputato ad esaminare la questione, come appare dalla stessa opera a p. 335 e ss. Talvolta gli Orientali stessi spontaneamente accettarono il nuovo Calendario, come si può apprendere dal più volte citato Concilio provinciale dei Maroniti del 1736: “Tanto nei digiuni quanto nelle feste dell’anno, sia mobili, sia immobili, comandiamo espressamente che il Calendario Romano, emendato con tanto merito per la nostra Nazione dal Sommo Pontefice Gregorio XIII, sia osservato in tutte le nostre Chiese e il suo metodo ed uso, come anche il Canto Ecclesiastico, comandiamo che in ogni Chiesa siano insegnati ai fanciulli dai Maestri“. Ma tutte le volte che gli Orientali non accondiscesero, ci fu il giustificato timore che nascessero tumulti e dissensi se si fosse ingiunto loro l’uso del Calendario nuovo. La Sede Apostolica permise che gli Orientali e i Greci abitanti in remote regioni conservassero la loro antica disciplina, cioè conservassero il vecchio Calendario, attendendo un’occasione più propizia per introdurre l’uso del Calendario nuovo e corretto. Sull’argomento sono concordi anche i decreti della Congregazione di Propaganda Fide e della Sacra Inquisizione, come si apprende, quanto alla prima, dai decreti del 22 agosto 1625 e 30 aprile 1631; quanto alla seconda, dai decreti del 18 luglio 1613 e del 14 dicembre 1616. Anzi, la cosa si spinse a tal punto che anche ai Missionari fu permesso l’uso del vecchio Calendario quando si trattenevano in quelle regioni in cui resisteva solo l’uso del vecchio Calendario, come si può sapere da alcuni decreti emanati dalla Congregazione di Propaganda Fide il 16 aprile 1703 e il 16 dicembre 1704.

47. Resta da parlare dell’ultimo quesito, cioè del digiuno. I Siri e gli Armeni cattolici, secondo il loro Rito, in tempo di digiuno si astengono dal mangiar pesci: ma vedendo che i Latini li mangiano ed è impossibile o almeno difficilissimo che si possano astenere dai pesci, che vedono i Latini mangiare, perciò si propone come conforme a ragione che si dia ai Missionari la facoltà di dispensare: ma prudentemente, ed escluso ogni scandalo, e surrogando con qualche buona azione l’astinenza dai pesci. Questa sarebbe un’occasione adattissima per discutere della vetustà del digiuno presso gli Orientali e della sua legge, sia pure più severa, tuttavia sempre osservata: ma per non diffonderci più del necessario diciamo solo che la Sede Apostolica si oppose ai Patriarchi tutte le volte in cui vollero attenuare l’antico rigore del digiuno prescritto ai propri sudditi. Pietro, Patriarca dei Maroniti, concesse agli Arcivescovi e Vescovi a lui soggetti di nutrirsi di carne come i Laici, quantunque secondo l’antica disciplina si astenessero dalle carni; e permise a tutto il popolo, in tempo di Quaresima, di mangiar pesci e bere vino, quantunque ciò fosse ad essi proibito. Ma il Papa Paolo V, spedendo una lettera in forma di Breve al Patriarca successore di Pietro il 9 marzo 1610, comandò che, abrogato ciò che Pietro aveva concesso, le cose venissero rimesse nella primitiva condizione. Durante il nostro Pontificato furono chiamate all’esame l’eccessiva facilità e indulgenza di Eutimio, Arcivescovo di Tiro e Sidone, e di Cirillo, Patriarca Antiocheno presso i Greci Melchiti; e furono disapprovate, come appare dalla nostra Costituzione Demandatam (87, § 6, tomo 1 del nostro Bollario): “Noi, con la nostra autorità, espressamente revochiamo l’innovazione e l’attenuazione delle astinenze, giudicando che si dimostrano di eccessivo detrimento all’antica disciplina delle Chiese Greche, quantunque altrove, venendo meno l’autorità della Sede Apostolica, vengano ritenute di nessuna importanza, e comandiamo che non abbiano alcun effetto in futuro e che ad esse non si dia esecuzione, ma in tutto il territorio del Patriarcato Antiocheno sia conservata la lodevole consuetudine derivata dagli antenati di astenersi ogni Mercoledì e venerdì dell’anno dal consumare pesce, come viene scrupolosamente osservato anche dagli altri popoli confinanti, dello stesso Rito Greco“. È assurdo asserire che si deve dare la dispensa o piuttosto una facoltà generale di dispensare perché gli Orientali, vedendo che i Latini si nutrono di pesci in tempo di digiuno, siano spinti facilmente non per un certo disprezzo, ma vinti dall’umana fragilità, a mangiare pesce in giorno di digiuno. Con questo argomento, se valesse qualcosa, prima di tutto nascerebbe una gran confusione di Riti; poi a seguire questa linea, ne conseguirebbe che i Latini vedendo i Greci vivere con particolari istituzioni, che non sono permesse ai Latini (sono anzi proibite) potrebbero chiedere la dispensa, perché fosse lecito a loro fare quello che vedono fare i Greci, dichiarando che essi riconoscono il Rito Latino, ma per la fragilità della natura non lo possono più a lungo praticare.

48. Sono queste le cose che giudicammo doversi esporre in questa nostra Enciclica, non solo per chiarire le ragioni su cui si fondano le risposte date al Missionario, che propose le questioni esposte all’inizio, ma anche perché a tutti sia chiara la benevolenza con la quale la Sede Apostolica abbraccia gli Orientali, mentre ordina che si conservino i loro antichi Riti che non si oppongono né alla Religione Cattolica né all’onestà; né chiede agli Scismatici, che tornano all’Unità Cattolica, di abbandonare i loro Riti, ma solo che abiurino le eresie, desiderando fortemente che i loro differenti popoli siano conservati, non distrutti, e che tutti (per dire molte cose con poche parole) siano Cattolici, non Latini.

Concludiamo infine questa nostra Lettera, impartendo la Benedizione Apostolica a chiunque la legga.

Roma, presso Santa Maria Maggiore, 26 luglio 1755, anno quindicesimo del Nostro Pontificato

XXIV ED ULTIMA DOMENICA DOPO PENTECOSTE (2022)

Last Judgement fresco by Vasari and Zuccari, Florence duomo, Tuscany, Italy

XXIV ED ULTIMA DOMENICA DOPO PENTECOSTE. (2022)

(Messale Romano di S. Bertola e G. Destefani, comm. di D. G. LEFEBVRE O. S. B; L. I. C. E. – R. Berruti & C. Torino 1950)

Semidoppio. – Paramenti verdi.

Quest’ultima settimana chiude l’anno ecclesiastico, e con essa si chiude la storia del mondo, iniziatasi coll’Avvento. Perciò in questa domenica la Chiesa fa leggere nel Breviario il libro del Profeta Michea (contemporaneo di Osea e di Isaia) con il commento di S. Basilio, che tratta del giudizio universale, e nel Messale il Vangelo dell’Avvento del Giudice divino. « Ecco, dice Michea, che il Signore uscirà dalla sua dimora; e camminerà su le alture della terra; le montagne si scioglieranno sotto i suoi passi e le valli fonderanno come la cera dinanzi al fuoco, e spariranno come l’acqua su un pendìo. E tutto questo per causa dei peccati d’Israele ». Dopo questa minaccia il Profeta continua con promesse di salvezza « Ti radunerò totalmente, Giacobbe, riunirò quello che resta d’Israele; lo radunerò come un gregge nell’ovile ». Gli Assiri hanno distrutto Samaria, i Caldei hanno devastato Gerusalemme, il Messia riparerà tutte queste rovine. Michea annunzia che Gesù Cristo nascerà a Gerusalemme e che il suo regno, che è quello della Gerusalemme celeste, non avrà fine. I profeti Nahum, Habacuc, Sofonia, Aggeo, Zaccaria e Malachia, i libri dei quali si leggono nell’ufficiatura della settimana, confermano quanto ha detto Michea. Gesù nel Vangelo comincia con l’evocare la profezia di Daniele, che annunzia la rovina totale e definitiva del tempio di Gerusalemme e della nazione giudea per opera dell’esercito romano. Questa abominazione della desolazione è il castigo in cui il popolo di Israele ha incorso per la sua infedeltà, che è giunta al colmo, quando ha rigettato Cristo. Questa profezia si realizzò infatti qualche anno dopo la morte del Salvatore, allorché la tribolazione arrivò a tal punto, che se avesse durato ancora più a lungo nessun Giudeo sarebbe sfuggito alla morte. Ma per salvare coloro che si convertirono in seguito ad una si’ rude lezione, Dio abbreviò l’assedio di Gerusalemme. Così farà alla fine del mondo, di cui è figura la distruzione di questa città. Al momento del secondo Avvento di Cristo vi saranno senza dubbio tribolazioni ancor più terribili. « Molti impostori, fra i quali l’Anticristo, faranno prodigi ancora più satanici per farsi credere il Cristo; allora, l’abominazione della desolazione regnerà in altro modo nel tempio, poiché, spiega S. Girolamo « sorgerà, secondo quanto dice S. Paolo, l’uomo dell’iniquità e dell’opposizione contro tutto quello che è chiamato Dio ed è adorato e spingerà l’audacia fino a sedersi nel tempio stesso di Dio ed a farsi passare egli stesso per Dio » « Verrà accompagnato dalla potenza di satana per far perire e gettare nell’abbandono di Dio quelli che l’avranno accolto » (3° Notturno). Ma qui ancora, continua S. Girolamo, Dio abbrevierà questo tempo, affinché gli eletti non siano indotti in errore (id.). Del resto, non vi lasciate ingannare, dice il Salvatore, poiché il Figlio dell’uomo non apparirà, come la prima volta, nel velo del mistero e in un angolo remoto del mondo, ma in tutto il suo splendore e dappertutto contemporaneamente e con la rapidità della folgore. Allora tutti gli eletti andranno incontro a Lui, come gli avvoltoi verso la preda. Compariranno, allora, nel cielo, il segno sfolgorante della croce e il Figlio dell’Uomo che verrà con grande potenza, e con grande maestà (Vangelo). – « Quando vi prende la tentazione di commettere qualche peccato, dice S. Basilio, vorrei che pensaste a questo terribile tribunale di Cristo, dove Egli siederà come giudice sopra un altissimo trono; davanti a questo comparirà ogni creatura tremante alla sua gloriosa presenza; là renderemo uno per uno conto delle azioni di tutta la nostra vita. Subito dopo, coloro che avranno commesso molto male durante la loro vita, si vedranno circondati da terribili e orribili demoni, che li precipiteranno in un profondo abisso. Temete queste cose, e, penetrati da questo timore, usatene come un freno per impedire all’anima vostra di esser trascinata dalla concupiscenza a commettere il peccato» (3″ Notturno). La Chiesa ci esorta perciò nell’Epistola, per bocca dell’Apostolo, a condurci in modo degno del Signore e a portar frutto in ogni sorta di buone opere, affinché, fortificati dalla sua gloriosa potenza, sopportiamo tutto con pazienza e con gioia, ringraziando Dio Padre che ci ha fatti capaci di aver parte all’eredità dei Santi, ora in ispirito, e all’ultimo giorno in corpo e in anima, per il Sangue redentore del suo Figlio diletto. Dio, che ci ha detto per bocca di Geremia di nutrire pensieri di pace e non di collera (Introito), e che ha premesso di esaudire le preghiere fatte con fede (Com.), ci esaudirà e ci affrancherà dalle concupiscenze terrene (Secr.) facendo cessare la nostra cattività (Intr. e Vers.) e aprendoci per sempre il cielo ove il trionfo del Messia troverà la sua gloriosa consumazione. – Vincitore assoluto sui suoi nemici, che risusciteranno per il loro castigo, e Re senza contestazione di tutti gli eletti, che hanno creduto nel suo avvento e che risusciteranno per essere gloriosi nel corpo e nell’anima per tutta l’eternità. Gesù Cristo rimetterà al Padre questo regno, che ha conquistato a prezzo del sul Sangue, come omaggio perfetto del capo e dei suoi membri. E sarà allora la vera Pasqua, il pieno passaggio nella vera terra promessa e la presa di possesso, per sempre, da parte di Gesù ed il suo popolo del regno della Gerusalemme celeste, dove, nel Tempio, che non è stato fatto da mano di uomo, regna sovrano Dio in cui metteremo tutta la nostra gloria ed il cui Nome celebreremo eternamente (Grad.). E per mezzo del nostro Sommo Sacerdote Gesù noi renderemo un eterno omaggio alla SS. Trinità dicendo: « Gloria al Padre, al Figlio e allo Spirito Santo, come era in principio ed ora e sempre e nei secoli, così sia. » Rendiamo infinite grazie a Dio Padre per averci riscattato per mezzo di Gesù Cristo dalla schiavitù del demonio e delle sue opere tenebrose ed averci resi degni di partecipare con Lui alla gloria del suo regno celeste, che è l’eredità dei Santi nella luce. – Gesù è venuto nell’umiliazione, e tornerà nella gloria. Il suo Primo Avvento ebbe per scopo di prepararci al secondo. Coloro che l’avranno accolto nel tempo, saranno da Lui accolti quando entreranno nell’eternità; quei che l’avranno misconosciuto saranno rigettati. Perciò i Profeti non hanno separato i due avventi del Messia, poiché sono i due atti di un medesimo dramma divino. Così pure Nostro Signore non separa la rovina di Gerusalemme dalla fine del mondo, poiché il castigo che colpi i Giudei deicidi è la figura del castigo eterno, che toccherà a tutti quelli che avranno rigettato il Salvatore. Questo primo avvento ha già avuto luogo, il secondo si effettuerà: prepariamoci; la lettura del Vangelo di oggi, tende appunto a questo.

Incipit

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Adjutórium nostrum ✠ in nómine Dómini.
R. Qui fecit cælum et terram.
Confíteor Deo omnipoténti, beátæ Maríæ semper Vírgini, beáto Michaéli Archángelo, beáto Joánni Baptístæ, sanctis Apóstolis Petro et Paulo, ómnibus Sanctis, et vobis, fratres: quia peccávi nimis cogitatióne, verbo et ópere: mea culpa, mea culpa, mea máxima culpa. Ideo precor beátam Maríam semper Vírginem, beátum Michaélem Archángelum, beátum Joánnem Baptístam, sanctos Apóstolos Petrum et Paulum, omnes Sanctos, et vos, fratres, oráre pro me ad Dóminum, Deum nostrum.
S. Misereátur nostri omnípotens Deus, et, dimíssis peccátis nostris, perdúcat nos ad vitam ætérnam.
R. Amen.
S. Indulgéntiam, ✠ absolutiónem et remissiónem peccatórum nostrórum tríbuat nobis omnípotens et miséricors Dóminus.
R. Amen.

V. Deus, tu convérsus vivificábis nos.
R. Et plebs tua lætábitur in te.
V. Osténde nobis, Dómine, misericórdiam tuam.
R. Et salutáre tuum da nobis.
V. Dómine, exáudi oratiónem meam.
R. Et clamor meus ad te véniat.
V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.

Introitus

Ier XXIX: 11; 12; 14
Dicit Dóminus: Ego cógito cogitatiónes pacis, et non afflictiónis: invocábitis me, et ego exáudiam vos: et redúcam captivitátem vestram de cunctis locis.

[Dice il Signore: Io ho pensieri di pace e non di afflizione: mi invocherete e io vi esaudirò: vi ricondurrò da tutti i luoghi in cui siete stati condotti.]


Ps LXXXIV: 2
Benedixísti, Dómine, terram tuam: avertísti captivitátem Iacob.

[Hai benedetta la tua terra, o Signore: hai distrutta la schiavitú di Giacobbe.]

Dicit Dóminus: Ego cógito cogitatiónes pacis, et non afflictiónis: invocábitis me, et ego exáudiam vos: et redúcam captivitátem vestram de cunctis locis.

[Dice il Signore: Io ho pensieri di pace e non di afflizione: mi invocherete e io vi esaudirò: vi ricondurrò da tutti i luoghi in cui siete stati condotti.]

Kyrie

S. Kýrie, eléison.
M. Kýrie, eléison.
S. Kýrie, eléison.
M. Christe, eléison.
S. Christe, eléison.
M. Christe, eléison.
S. Kýrie, eléison.
M. Kýrie, eléison.
S. Kýrie, eléison.

Gloria

Glória in excélsis Deo. Et in terra pax homínibus bonæ voluntátis. Laudámus te. Benedícimus te. Adorámus te. Glorificámus te. Grátias ágimus tibi propter magnam glóriam tuam. Dómine Deus, Rex cæléstis, Deus Pater omnípotens. Dómine Fili unigénite, Jesu Christe. Dómine Deus, Agnus Dei, Fílius Patris. Qui tollis peccáta mundi, miserére nobis. Qui tollis peccáta mundi, súscipe deprecatiónem nostram. Qui sedes ad déxteram Patris, miserére nobis. Quóniam tu solus Sanctus. Tu solus Dóminus. Tu solus Altíssimus, Jesu Christe. Cum Sancto Spíritu ✠ in glória Dei Patris. Amen.

Oratio

Orémus.
Excita, quǽsumus, Dómine, tuórum fidélium voluntátes: ut, divíni óperis fructum propénsius exsequéntes; pietátis tuæ remédia maióra percípiant.

[Eccita, o Signore, Te ne preghiamo, la volontà dei tuoi fedeli: affinché dedicandosi con maggiore ardore a far fruttare l’opera divina, partécipino maggiormente dei rimedi della tua misericordia.]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Colossénses.
Col 1: 9-14
“Fratres: Non cessámus pro vobis orántes et postulántes, ut impleámini agnitióne voluntátis Dei, in omni sapiéntia et intelléctu spiritáli: ut ambulétis digne Deo per ómnia placéntes: in omni ópere bono fructificántes, et crescéntes in scientia Dei: in omni virtúte confortáti secúndum poténtiam claritátis eius in omni patiéntia, et longanimitáte cum gáudio, grátias agentes Deo Patri, qui dignos nos fecit in partem sortis sanctórum in lúmine: qui erípuit nos de potestáte tenebrárum, et tránstulit in regnum Fílii dilectiónis suæ, in quo habémus redemptiónem per sánguinem eius, remissiónem peccatórum”.

(“Fratelli: Non cessiamo di pregare per voi, e di chiedere che abbiate la piena cognizione della volontà di Dio, con ogni sapienza e intelligenza spirituale, affinché camminiate in maniera degna di Dio; sì da piacergli in tutto; producendo frutti in ogni sorta di opere buone, e progredendo nella cognizione di Dio; corroborati dalla gloriosa potenza di lui in ogni specie di fortezza ad essere in tutto pazienti e longanimi con letizia, ringraziando Dio Padre che i ha fatti degni di partecipare alla sorte dei santi nella luce, sottraendoci al potere delle tenebre; e trasportandoci nel regno del suo diletto Figliuolo, nel quale, mediante il suo sangue, abbiamo la redenzione, la remissione dei peccati”).

SAPERE.

San Paolo tocca mirabilmente tre verbi, che riassumono il fior fiore dell’attività veramente cristiana, con insistenza sul primo: sapere. Non è il caso di esagerare o piuttosto alterare l’azione che il Divin Maestro ha esercitato ed esercita sull’intelletto umano, e quella che l’intelletto umano deve esplicare docilmente, secondando gl’impulsi del Maestro. Ma non per nulla N. S. Gesù Cristo ha preso e conserva questo bel nome: Maestro. Rabbi. Non per nulla il Maestro è il Verbo di Dio, è la Sapienza incarnata di Lui. Verbo che illumina ogni uomo, quando specialmente, in carne mortale, viene a risiedere in mezzo a noi. – Il suo Vangelo è, inizialmente, radicalmente luce nuova. Ci ha strappato, dice San Paolo, parlando, si capisce, di preferenza ai convertiti, dal Gentilesimo, ci ha strappati dall’impero delle tenebre, trasportandoci nel regno della luce. Ed anche per questo il Cristianesimo è umano, cioè proporzionato, profondamente, perfettamente agli umani bisogni. L’uomo comincia di lì, dal sapere, dalla luce, dalla testa, la sua vita veramente umana. È un uomo perché pensa, uomo perché opera a ragione veduta. Il Cristianesimo ci prende di lì, comincia a prenderci di lì, dalla testa, colla sua rivelazione. Alla quale risponde la nostra fede, che è un sapere sovrannaturale, ma sapere. Sapere con una certezza nuova cose che erano oggetto di discussioni antiche; sapere cose nuove intravedute per « speculum in enigmate, » attendendo che venga di là, di lassù, la luce piena. E questo saper nuovo, scende sì, in noi, da Dio, ma dobbiamo noi pure accrescerlo col divino aiuto e la nostra operosità. Non tutti i Cristiani sono egualmente sapienti o veggenti. Paolo esorta i suoi lettori e discepoli a diventarlo sempre più. Augura loro e raccomanda che « siano riempiti della profonda conoscenza della volontà di Dio, in ogni sorta di spirituale sapienza e intelligenza spirituale ». Il che si consegue quando si studia e si medita il Vangelo, la rivelazione divina, il mondo della realtà cristiana. Si studia come fanno anche i più semplici Cristiani, leggendo il Catechismo, ascoltando la spiegazione evangelica dei Sacerdoti, e poi si medita come hanno fatto e fanno i grandi Cristiani, non solo sacerdoti e teologi, dirò così, di professione, S. Tommaso, S. Bonaventura, S. Bellarmino, ma anche i grandi laici, come Manzoni, Nicolò Tommaseo, Contardo Ferrini. Bisogna istruirsi per sapere; e bisogna sapere se si vuol essere degni del nome di uomini e di Cristiani. Ma, soprattutto, bisogna sapere cristianamente, per cristianamente lavorare e soffrire. Il sapere cristiano non è fine a se stesso; non è appagamento vano di vana curiosità. In ciò la sua profonda differenza dal sapere profano. S. Paolo segna subito quella finalità essenziale e doverosa del sapere cristiano, che è pratica. Augura a tutti i suoi lettori, a noi, che lo siamo dopo tanti secoli, di crescere in ogni maniera di sapienza spirituale perché — gli cedo la parola — « camminiate in modo degno di Dio in guisa da essergli in ogni cosa graditi, producendo frutti d’ogni opera buona ». – Del resto, è naturale, è logico. Alla luce si cammina meglio; più veloci, più alacri, nell’ordine fisico. Nell’ordine morale e religioso, è lo stesso. Quello che pareva problema di luce, si risolve in un problema di azione. Conoscendo meglio Dio, dobbiamo, — è quasi direi, una necessità, necessità logica, — amarlo di più. Conoscendo meglio noi stessi, dobbiamo lavorare di più alla nostra purificazione ed elevazione. Conoscendo meglio il prossimo, dobbiamo compatirlo di più e perdonargli più facilmente. C’è così, una vera termo-dinamica del mondo Spirituale. Siamo davvero immersi nella luce di Dio: questa ci circonda da ogni parte. Tutto è lucido attorno a noi. La via è nettamente tracciata. Si vedono molti ostacoli: avanti! « Ambulemus: » camminiamo. Lavoriamo: sapere per fare… Del qual fare è parte anche il soffrire, il sopportare. Il sacrificio è un Cristianesimo in forma di azione. Il soldato lavora e soffre, versa sudore e sangue. Noi dobbiamo essere i soldati di Gesù Cristo. – Sono cose buone, sempre a ricordarsi a noi, più utili ed opportune mentre si chiude un ciclo di vita ecclesiastica e se ne apre un altro. Un anno più dell’altro, il nostro programma deve essere: luce, lavoro, sacrificio.

P. G. Semeria: Le epistole delle Domeniche, Op. naz. Per il mezzogiorno d’Italia, Milano, 1939.

(Nihil obstat sac. P. De Ambroggi – Imprim. P. Castiglioni vic. Gen. Curia Arch, Mediolani, 1-3-1938)

 Graduale

Ps XLIII:8-9
Liberásti nos, Dómine, ex affligéntibus nos: et eos, qui nos odérunt, confudísti.

[Ci liberasti da coloro che ci affliggevano, o Signore, e confondesti quelli che ci odiavano.]


V. In Deo laudábimur tota die, et in nómine tuo confitébimur in sæcula.

[In Dio ci glorieremo tutto il giorno e celebreremo il suo nome in eterno.]

Alleluja

Allelúia, allelúia.
Ps CXXIX:1-2
De profúndis clamávi ad te, Dómine: Dómine, exáudi oratiónem meam. Allelúia.

[Dal profondo Ti invoco, o Signore: o Signore, esaudisci la mia preghiera. Allelúia.]

Evangelium

Sequéntia  sancti Evangélii secúndum S.  Matthǽum.

Matt XXIV: 15-35

“In illo témpore: Dixit Iesus discípulis suis: Cum vidéritis abominatiónem desolatiónis, quæ dicta est a Daniéle Prophéta, stantem in loco sancto: qui legit, intélligat: tunc qui in Iudǽa sunt, fúgiant ad montes: et qui in tecto, non descéndat tóllere áliquid de domo sua: et qui in agro, non revertátur tóllere túnicam suam. Væ autem prægnántibus et nutriéntibus in illis diébus. Oráte autem, ut non fiat fuga vestra in híeme vel sábbato. Erit enim tunc tribulátio magna, qualis non fuit ab inítio mundi usque modo, neque fiet. Et nisi breviáti fuíssent dies illi, non fíeret salva omnis caro: sed propter eléctos breviabúntur dies illi. Tunc si quis vobis díxerit: Ecce, hic est Christus, aut illic: nolíte crédere. Surgent enim pseudochrísti et pseudoprophétæ, et dabunt signa magna et prodígia, ita ut in errórem inducántur – si fíeri potest – étiam elécti. Ecce, prædíxi vobis. Si ergo díxerint vobis: Ecce, in desérto est, nolíte exíre: ecce, in penetrálibus, nolíte crédere. Sicut enim fulgur exit ab Oriénte et paret usque in Occidéntem: ita erit et advéntus Fílii hóminis. Ubicúmque fúerit corpus, illic congregabúntur et áquilæ. Statim autem post tribulatiónem diérum illórum sol obscurábitur, et luna non dabit lumen suum, et stellæ cadent de cælo, et virtútes cœlórum commovebúntur: et tunc parébit signum Fílii hóminis in cœlo: et tunc plangent omnes tribus terræ: et vidébunt Fílium hóminis veniéntem in núbibus cæli cum virtúte multa et maiestáte. Et mittet Angelos suos cum tuba et voce magna: et congregábunt eléctos eius a quátuor ventis, a summis cœlórum usque ad términos eórum. Ab árbore autem fici díscite parábolam: Cum iam ramus eius tener fúerit et fólia nata, scitis, quia prope est æstas: ita et vos cum vidéritis hæc ómnia, scitóte, quia prope est in iánuis. Amen, dico vobis, quia non præteríbit generátio hæc, donec ómnia hæc fiant. Cœlum et terra transíbunt, verba autem mea non præteríbunt.”

(“In quel tempo disse Gesù a’ suoi discepoli: Quando adunque vedrete l’abbominazione della desolazione, predetta dal profeta Daniele, posta nel luogo santo (chi legge comprenda): allora coloro che si troveranno nella Giudea fuggano ai monti; e chi si troverà sopra il solaio, non scenda per prendere qualche cosa di casa sua; e chi sarà al campo, non ritorni a pigliar la sua veste. Ma guai alle donne gravide, o che avranno bambini al petto in que’ giorni. Pregate perciò, che non abbiate a fuggire di verno, o in giorno di sabato. Imperocché grande sarà allora la tribolazione, quale non fu dal principio del mondo sino a quest’oggi, né mai sarà. E se non fossero accorciati quei giorni non sarebbe uomo restato salvo; ma saranno accorciati quei giorni in grazia degli eletti. Allora se alcuno vi dirà: Ecco qui, o ecco là il Cristo; non date retta. Imperocché usciranno fuori dei falsi cristi e dei falsi profeti, e faranno miracoli grandi, e prodigi, da fare che siano ingannati (se è possibile) gli stessi eletti. Ecco che io ve l’ho predetto. Se adunque vi diranno: Ecco che egli è nel deserto; non vogliate muovervi: eccolo in fondo della casa; non date retta. Imperocché siccome il lampo si parte dall’oriente, e si fa vedere fino all’occidente; così la venuta del Figliuolo dell’uomo. Dovunque sarà il corpo, quivi si raduneranno le aquile. Immediatamente poi dopo la tribolazione di quei giorni si oscurerà il sole, e la luna non darà più la sua luce, e cadranno dal cielo le stelle, e le potestà dei cieli saranno sommosse. Allora il segno del Figliuolo dell’uomo comparirà nel cielo; e allora si batteranno il petto tutte le tribù della terra, e vedranno il Figliuol dell’uomo scendere sulle nubi del cielo con potestà e maestà grande. E manderà i suoi Angeli, i quali con tromba e voce sonora raduneranno i suoi eletti dai quattro venti, da un’estremità de’ cieli all’altra. Dalla pianta del fico imparate questa similitudine. Quando il ramo di essa intenerisce, e spuntano le foglie, voi sapete che l’estate è vicina: così ancora quando voi vedrete tutte queste cose, sappiate che egli è vicino alla porta. In verità vi dico, non passerà questa generazione, che adempite non siano tutte queste cose. Il cielo e la terra passeranno; ma le mie parole non passeranno”).

OMELIA 

(G. Colombo: Pensieri sui Vangeli e sulle feste del Signore e dei Santi; VI  ediz. Soc. Ed. Vita e pensiero – Milano).

LA GIUSTIZIA FINALE DEL CRISTO

Tre momenti possiamo considerare nella giustizia finale del Cristo, come la predice il Vangelo. Dapprima, la crisi suprema del mondo. Le forze che reggono la compagine dell’universo si sbanderanno: i cieli si arrotoleranno come tende, il sole e la luna si oscureranno, le stelle cadranno come foglie di autunno. Poi l’improvvisa apparizione del Giudice. Nel cielo vuoto Gesù e la sua croce sfolgorante. Ai riverberi di quella luce oltremondana, ogni anima diverrà trasparente più che cristallo percosso dal sole, sicché tutte le macchie della coscienza, anche le più piccole, saranno visibilissime. Il terzo momento è la confusione dell’anima colpevole. Muta perché senza scuse, sola perché senza nessun protettore, ella piangerà; ed al suo pianto farà bordone il vasto singhiozzare delle tribù dei peccatori. La delusione d’un mondo che scompare. Il giudizio esattissimo del Giudice divino. La confusione dell’anima senza scuse e senza protezione. Son tre pensieri che gioverà meditare molto seriamente. – 1. LA DELUSIONE D’UN MONDO CHE SCOMPARE. « Il cielo e la terra passeranno… »; disgraziati tutti quelli che vi han collocato il loro cuore e il loro tesoro. Mi servirò di alcune similitudini di S. Agostino, adattandole un poco. a) Un architetto bravissimo passò un giorno davanti a una sontuosa villa costruita sul margine d’un ruscello e disse al proprietario: « Guarda che sta per crollare, rose dall’acqua, le fondamenta ormai cedono ». L’inquilino gli scrollò le spalle » alla sera radunò ancora gli amici al consueto festino, e dopo si pose a letto per dormire tranquillamente. Era nel primo e profondo sonno e la casa crollò, schiacciandolo sotto. Peggio per lui, direte, perché era stato avvisato. Orbene, anche noi siamo stati avvisati. Il costruttore del mondo ci dice che questo mondo ha da rovinare e che il fiume del tempo, trascorrendo con lena insonne, gli rode le fondamenta. Non siamo immensamente stolti se invece di sgombrare, di cominciare a porre altrove le nostre speranze, i nostri desideri, i nostri beni, li collochiamo e fissiamo in questo mondo come se avesse a durare sempre, come ci dovessimo fare una dimora perpetua? Poi viene la morte e tutto crolla. Poi viene la fine del mondo e tutto frana. Che delusione amarissima! b) Un contadino poneva il frumento sulla nuda terra, in un luogo umido e senz’aria. Viene un amico, il quale conosce bene la natura del frumento e della terra e gli fa vedere la sua ignoranza, dicendogli: « Che hai fatto? porre il frumento sulla nuda terra, in un posto umido? D’inverno, quando le lunghe piogge ammollano tutto, questo grano marcirà e la tua fatica andrà in fumo ». il contadino chiese: « Che debbo fare? » L’amico gli rispose: « Prima che le piogge incomincino, trasportalo di sopra ». L’altro ci pensò un poco, e poi parendogli troppo grossa fatica, non lo fece. Vennero le piogge: andò per vedere il frumento, e vide invece un mucchio di materia in fermentazione. Ah, noi — direte — non avremmo agito così. Dite bene, perché siete persone di senno; ma siatelo in tutto, anche nelle cose più importanti. Siete pronti ad ascoltare il consiglio d’un amico nell’affare del frumento, perché trascurerete il consiglio di Gesù, l’amico divino, intorno all’affare dell’anima vostra? Egli conosce la natura del vostro cuore, che è fatto per il cielo; conosce la natura della terra che è fatta per essere corrotta e distrutta, e vi avvisa: « Trasporta in alto il cuore, perché tutto ciò che è sulla terra marcirà e scomparirà ». Avete timore di porre sulla nuda terra un poco di frumento, e poi sulla nuda terra lascerete marcire e distruggere il vostro cuore? Collocate in alto, nei beni invisibili ed eterni, il cuore per non essere delusi da questo mondo che scompare. c) In una barca che faceva acqua da tutte le parti, un uomo gridava aiuto. Passò un vascello e dall’alto gli lasciarono calare un corda di salvataggio. Il naufrago si stringeva cupidamente la cassetta dei suoi tesori, faceva per afferrare la corda ma non vi riusciva perché aveva le mani impedite. Dal vascello qualcuno gli gridava: « Lascia andare ciò che tieni, prendi ciò che ti dò. Se non abbandoni, non puoi ricevere ». Stringere insieme cassetta e corda non poteva; abbandonare la cassetta non voleva; ad un tratto, la barca fu colma d’acqua, e l’uomo con la cassetta sprofondò. Noi che viviamo in questo mondo, siamo sopra una barca che fa acqua da tutte le parti, e cola fatalmente a picco. Nostro Signore è accorso a salvarci e lascia cadere fino a noi la corda della sua redenzione: ma per afferrarla, bisogna distaccare le nostre mani ed il nostro cuore dalle cose e dai piaceri sensuali e mondani. La mano, se stringe un oggetto, non ne può stringere un altro. Chi ama il mondo, non può amare Dio: ha la mano impegnata. E quanti stringendosi cupidamente sul cuore la loro avarizia, o il loro orgoglio, o la loro passione impura, sprofonderanno con questo mondo a picco. – 2. IL GIUDIZIO ESATTISSIMO DEL GIUDICE. Scomparso il mondo e le sue iridate illusioni, non resterà più che il bene e il male sparso in tutti i giorni della nostra vita, dal primo albeggiare della ragione e della responsabilità fino al momento estremo della morte. Di questo saremo giudicati. a) Saremo giudicati del male; — il male che abbiamo fatto noi, con le opere, con le parole, con le azioni; — il male che abbiamo fatto fare agli altri, e qui, ci pensino quelli che senza necessità fanno lavorare in festa, fanno mangiare di grasso nei giorni proibiti, impediscono in qualunque modo ai loro dipendenti di adempiere i doveri religiosi; ci pensino anche quelli che fanno bestemmiare, che fanno per la loro condotta sparlare della Religione, che con la loro moda di vestire e di comportarsi inducono a chi li vede pensieri e desideri immondi; ci pensino tutti quelli che hanno dato scandalo; — il male che abbiamo lasciato fare agli altri, mentre lo potevamo impedire: il male quindi che molti genitori con maggior vigilanza avrebbero potuto impedire nei loro figli; che i fratelli con maggior carità avrebbero potuto impedire nei loro fratelli; che tanti Cristiani con un po’ d’azione cattolica avrebbero potuto impedire nel loro prossimo; che io povero prete e pastore d’anime avrei potuto impedire nella mia parrocchia se avessi avuto più zelo. Signor nostro e Giudice nostro Gesù abbi misericordia! b) Saremo giudicati anche del bene: — il bene che non abbiamo fatto, e che potevamo fare: ad esempio, del rosari che tutti possono dire ogni sera nella loro famiglia e non si dice; delle Messe che si potevano ascoltare, delle elemosine che si potevano fare, degli aiuti alle opere buone al prossimo bisognoso che si potevano dare! — il bene che abbiamo fatto male: tutte le volte che fummo in Chiesa durante i sacri riti con gli sguardi svagati sulle persone, con la mente annuvolata di pensieri inutili e forse peccaminosi; tutte le volte che facemmo l’elemosina o lavorammo per essere veduti, stimati, ricompensati dagli uomini; — il bene finalmente che abbiamo fatto bene: questo è l’oro puro col qual soltanto si può comprare la vita eterna. – 3. LA CONFUSIONE DELL’ANIMA COLPEVOLE. a) « Quid sum miser tunc dicturus? ». Che potrà dire, quali scuse potrà avanzare l’anima colpevole? Forse dirà: « La tua legge, o Signore, era troppo difficile, non la si poteva osservare », No, non lo potrà dire, altrimenti intorno a Cristo sorgerebbe a protestare un turba infinita di uomini, di donne, di giovani e di fanciulle. Essi hanno saputo praticarla, e praticandola sentirono che il giogo del Signore è dolce e soave. Forse dirà: « La tua legge, o Signore, richiedeva troppo tempo, ed io avevo affari, commerci, negozi dall’alba a notte tarda ». No, non lo potrà dire, altrimenti intorno a Cristo sorgerebbe un’altra turba di anime che lavorarono ancor di più di lei, senza trascurare la salute eterna; e poi ragione voleva che si abbandonasse anche qualche affare materiale, per non perdere l’unico affare necessario, che è quello dell’anima. Forse dirà: « Avevo poca salute, preoccupazioni finanziarie molte, la casa piccola, non avevo posto per un altro lettino…» No, non lo dirà. Sentirà dentro dì sé che tutte erano scuse per nascondere la paura dei sacrifici, l’amore dei propri comodi, il desiderio d’avere libertà per godere la vita; sentirà dentro di sé, che se avesse amato il Signore avrebbe trovato il coraggio e la forza necessaria per superare ogni difficoltà. b) « Quem patronum rogaturus? ». Chi chiamerà in soccorso? Forse l’Angelo custode? No; l’anima non ha voluto mai ascoltare nei giorni della vita terrena il suo pianto silenzioso; ed egli ora non può, né vuole esaudire la sua angoscia disperata. Forse qualche Santo protettore? I Santi, chi non li invoca da vivo, ne ignora il nome da morto. Chi non li imita nella mortificazione, non sarà mai loro compagno nella gioia. Forse accorrerà la Madonna? No, essa è Madre dei peccatori, ma non la madre dei condannati. Dopo la condanna pronunciata dal suo divin Figlio, Ella si uniforma alla giusta sentenza. E se la Madonna non viene, Ella che è madre di misericordia e di speranza, segno è che ogni misericordia e ogni speranza è morta. – Nell’orto degli ulivi, quando Gesù andò incontro alla masnada che veniva per legarlo, disse semplicemente : « Ecco, sono Io! ». Quelli arretrarono e caddero come tramortiti dallo spavento. Eppure erano i giorni della sua mansuetudine, i giorni dell’agnello che tace mentre lo tosano, che non bela mentre lo conducono al macello. Che sarà allora nel giorno della sua giustizia, nel giorno del leone che ruggisce ed azzanna? « Ecco, sono Io! ». Quel Gesù che hai bestemmiato, che hai baciato da traditore, che hai oltraggiato con gli sputi e le percosse, che hai messo in croce con i chiodi dei tuoi peccati. — IL GIUDIZIO. A Felice, preside di Cesarea, doveva sembrare strano quell’uomo che un suo collega di Gerusalemme, Claudio Lisia, gli mandava da giudicare con un biglietto di raccomandazione. Era giudeo e i Giudei lo volevano massacrare; frequentava le sinagoghe ed insegnava una religione nuova: non aveva ancor visto Roma ed era cittadino romano fin dalla nascita; aveva gli occhi malati e lo sguardo fulmineo: Paolo di Tarso. Il prigioniero era così interessante che il preside Felice e sua moglie Drusilla lo chiamavano spesso nelle loro sale per udirlo parlare della fede in Gesù Cristo. E Paolo parlava, senza paure: parlava di giustizia a quell’uomo che ogni giorno la calpestava; parlava di castità a quell’uomo che viveva in adulterio; e infine parlò del giudizio futuro… di quel giudizio in cui ogni peccato piccolo e grande, pubblico e occulto, contro Dio o contro il prossimo, sarà manifestato a tutto il mondo radunato e tremante ai piedi di Cristo giudice. Drusilla e Felice l’ascoltavano immobili; con la mente fissa in quel giorno finale. E Paolo con foga irreprimibile lo descriveva come «il giorno di ira, giorno di tribolazione, giorno di oppressione, giorno di sciagura, giorno di miseria, giorno di tenebre, giorno di caligine, giorno di nebbia, giorno d’uragano, giorno di squilli e di urli » (Sof., I, 15). Felice cominciò a impallidire, poi a restringersi, poi a tremare, poi scattò in piedi gridando: « Basta! per ora vattene ». Tremefactus Felix respondit: quod nunc attinet, vade (Atti, XXIV, 25). Davvero che ci vorrebbe qui S. Paolo a parlarvi del giudizio e sentiremmo tutti ghiacciare il sangue di spavento! io invece non so che ripetervi le oscure parole del Vangelo. In quei giorni si oscurerà il sole come sotto una densissima caligine e la luna rossastra non darà più luce e tutte le stelle si precipiteranno dal cielo, e tutto il cielo sarà sconvolto come da un vento furiosissimo. Simile ad un uomo che muore e scoppia in gemiti e rompe in singhiozzi tormentosi, così questo vecchio mondo balzerà da’ suoi cardini e si commuoverà fin dal profondo delle sue viscere. Allora, tra le nubi, immensa, solenne, luminosa, brillerà la croce: e sotto piangeranno tutte le tribù della terra… et plangent omnes tribus terræ (Mt., XXIV, 30). Piangerà la tribù dei ricchi, perché tutto il loro danaro in quel momento non varrà a nulla; piangerà la tribù dei prepotenti perché in quel momento saranno schiacciati; piangerà la tribù dei disonesti perché tutti sapranno le loro vergognose azioni; piangerà la tribù dei bestemmiatori perché starà per giungere Colui che han bestemmiato. E verrà. Verrà, grande nella potestà e nella gloria, camminando come un gigante sulle nubi. Intanto gli Angeli squilleranno, sul vento, ai quattro angoli della terra l’ultima adunata. E comincerà il giudizio. In alto starà Lui, Cristo, e ai suoi piedi le genti, e sorgeranno gli accusatori. Sorgeranno gli Angeli, alla cui presenza peccammo. Sorgeranno, ghignando, i demoni a cui abbiam dato ascolto. Sorgeranno tutte le creature: il fuoco, l’aria, l’acqua, la terra. Il fuoco dirà: « Io lo rischiaravo con luce e lo riscaldava con calore: egli invece ti offendeva nella mia luce e nel mio calore. Signore! dammelo che lo bruci ». L’aria dirà: « Io, ad ogni attimo, nutrivo i suoi polmoni: egli, ad ogni attimo, peccava. Signore! dammelo ch’io lo sbatta con vento furioso ». L’acqua dirà: « Io dissetavo la sua bocca e purificavo le sue cose: egli, con i peccati, insozzava l’anima. Signore! dammelo ch’io, dentro di me, lo anneghi ». La terra dirà: « Io lo sostenevo e lo nutrivo ogni giorno con erbe e con animali: egli viveva per offenderti. Signore! dammelo ch’io, vivo, lo seppellisca ». E noi saremo là, colpevoli e tremanti, in faccia all’universo… Questo è orribile ma è il meno. Noi allora, soprattutto, avremo paura di due persone: di Cristo e di noi. Se vi sembra strano, ascoltate. – 1. I PECCATORI AVRANNO PAURA DI CRISTO. La vigilia della sua morte, Gesù passò il Cedron, risalì la riva opposta tra i filari delle viti, entrò con i suoi nel giardino di Gethsemani pieno d’ombre misteriose. Era triste e solo; e Giuda veniva, veniva la coorte con fiaccole con funi con armi; già si sentiva l’urlio dei soldati e il frascheggiare del loro passo per i boschetti. Gesù, che sapeva tutto, mosse incontro a loro. « Chi cercate? ». — Gesù Nazareno. « Son Io ». Tutti stramazzarono al suolo: Abierunt retrorsum et ceciderunt in terram (Giov., XVIII, 6). Pensate: bastava una semplice parola per farli morire di spavento. Che sarà allora nel giorno finale all’udire da quelle medesime labbra l’estrema condanna di maledizione? Nel Gethsemani c’era oscuro, e i soldati non avevano potuto vedere la maestà terribile che raggiava dal volto divino, ma nel giudizio finale gli occhi sfolgoranti di Cristo Giudice s’infiggeranno, come dardi, in noi. Nel Gethsemani Gesù era triste e solo: ma nel giudizio sarà in trono, in mezzo alle legioni degli Angeli, in faccia a tutta la generazione. Nel Gethsemani Gesù era ancora l’Agnello d’amore e di perdono, ma nel giudizio sarà solo l’Agnello di giustizia e di vendetta. Se tanto, adunque è stato terribile il Signore nel giorno dei suoi nemici, nell’ora delle tenebre, che cosa sarà nel suo giorno, « nel giorno di Cristo che è giorno di fuoco? » (TERTULLIANO). Sarà l’Agnello furibondo descritto da S. Giovanni nell’Apocalisse così: « Quando il sole sarà diventato nero come un sacco oscuro, quando la luna, spenta ogni stella, girerà nelle volte deserte come una macchia di sangue, quando il cielo si sarà ritirato come un manto che si straccia in due, allora passerà l’Agnello furibondo. I ricchi della terra, i principi, i tribuni, i potenti, tutti quanti, ricchi e poveri, si nasconderanno nelle spelonche, sotto le pietre, e diranno ai monti: nascondeteci dalla faccia e dall’ira dell’Agnello perché è venuto il giorno grande della sua vendetta, e chi vi potrà resistere? Quis poterit stare? (Apoc., VI, 17). Forse io, forse voi, Cristiani, potrete resistere? Vi dico che tutti noi che siam peccatori dovremmo morir dallo spavento, se Dio lo permettesse. « Quem quæritis? ». « Iesum Nazarenum ». « Ego sum ». Son Io, risponderà Gesù, son Io, guardami! sono Io che tu hai bestemmiato, che tu hai dimenticato, che tu hai deriso. Son Io, guardami! vedi la corona di spine che punge le mie tempia: e tu, te ne ridevi di essa quando nella tua mente assecondavi ai turpi pensieri. Vedi le mie mani e le piante dei miei piedi piagate: e tu, te ne ridevi di queste stigmate dolorose quando le tue mani s’attaccavano alla roba d’altri, quando i tuoi piedi ti portavano là, dove non avresti dovuto andare mai. Vedi il mio cuore, squarciato per te: e tu, te ne ridevi del mio amore quando correvi dietro le creature, e ti pascevi d’affetti impuri, e ti divertivi nei piaceri… Ora basta: son Io, guarda, che me ne rido di te! Ego quoque in interitu vestro ridebo et subsannabo (Prov., I, 26). – 2. I PECCATORI AVRANNO PAURA DI LORO MEDESIMI. Ho ancora davanti agli occhi la visione dolorosa d’una persona cara morente; e forse mi starà, così viva, fin ch’io campi. Era tanto giovane e mite e moriva d’un male misterioso e straziante di cui, neppure i medici, sapevano dir qualcosa. Soffriva senza intermittenze da un anno e mezzo ed era alla fine. La febbre quotidiana e alta gli aveva consumato ogni fibra e seccato ogni umore, rendendolo così scarno da sembrare uno scheletro ricoperto di pelle: solo che sotto la pelle traspariva la trama violenta delle vene. Respirava penosamente: sporgendo le labbra come se volesse raggiungere un fiato che gli sfuggiva. Le orecchie bianche, la bocca rossa e sanguinante, gli occhi dilatati paurosamente quasi a raccogliere l’ultima impressione delle cose che, per lui, svanivano. Negli ultimi mesi l’avevano assalito delle convulsioni nervose che gli schiantavano il petto, che gli rompevano le ossa: una volta furono così violente che il braccio gli rimase immobile e la mano stravolta. Pure, alla fine era rassegnato. La mattina del giorno in cui doveva morire, chiese uno specchio. Si voleva negarglielo: ma come non esaudire fin l’ultimo capriccio di una persona che sta per andar via, per sempre? Gli si porge lo specchio, trovò la forza per sollevarlo e vi pose sopra i suoi occhi ingordi… ma subito mandò un grido lacerante, e lasciò cadere lo specchio, singultendo. Aveva avuto paura di sé. La bruttezza che un male fisico può produrre nel corpo, è nulla in confronto di quella che il peccato, in un istante, produce nell’anima. Quanto dev’essere orribile un’anima dopo due, tre, dieci, cento… peccati, noi non lo sappiamo neppure immaginare, ma nel giudizio lo vedremo. Vedremo sotto la luce di Cristo, venire a galla ogni colpa più occulta e coprire di schifosissime croste l’anima nostra. E quante miserie di cui quasi non sospettavamo, verranno scoperte. Tu dicevi, sì d’avere un po’ d’amore per la tua persona: ma non dicevi che questo amore della tua persona ha suscitato in te la voglia di piacere agli altri; non dicevi che per piacere agli altri hai seguito il lusso e la moda scandalosa, suscitando in altri le passioni. Tu dicevi; sì, d’attaccare discorsi cattivi; ma non dicevi che questi discorsi hanno poi raffreddato il tuo amore per la famiglia, hanno sconvolto la tua vita coniugale. Tu dicevi, sì, di mormorare del prossimo; ma non dicevi che le tue parole toglievano l’onore, lo rovinavano negli affari. Tutto questo, allora, lo vedrai in te stesso, orribilmente; Dio porrà te contro te: Arguam te et statuam contra faciem tuam (Salmi, XLIX, 21). Ti vedrai come in uno specchio e tu stesso avrai paura di te. Ecco perché i reprobi grideranno ai monti: « Cadeteci addosso e sotterrateci » Cadite super nos, operite nos (Lc., XXIII, 30). Non diranno: monti, nascondeteci la faccia del Giudice adirato, non fateci vedere, o colli, i demoni che ci tormenteranno; ma diranno: colpite noi, perché di noi abbiam paura. Il padre Bourdaloue diceva: « Signore! nel giorno del giudizio non vi pregherò di difendermi dalla vostra ira, ma tutta la grazia che vi domanderò è che mi difendiate da me medesimo ». – Nel secolo V, due fratelli ateniesi, rimasti orfani e padroni della sostanza paterna, ebbero la crudeltà di mettere alla porta e gittare sulla strada un’unica loro  sorella. Si chiamava Atenaide. Non valsero pianti e suppliche della derelitta, che dovette ramingare per la terra. Passati alcuni anni i due spietati fratelli si sentono chiamare dall’imperatore di Costantinopoli. Ci vanno e sono introdotti nella sala del trono e vedono colà seduta nello sfoggio della sua bellezza e della sua potenza… Atenaide, la reietta, la raminga, che per una sequela di casi provvidenziali era divenuta imperatrice e consorte dell’imperatore Teodosio. Ella si levò in piedi e rivolse a loro queste tremende parole: « Mi conoscete? Son  io la sorella vostra: Atenaide! » A tale vista, a tale parola, quegli sciagurati caddero come morti sul pavimento. Anche noi, coi peccati, non facciamo altro che cacciar via da casa nostra il fratello maggiore: Gesù Cristo. Ma tra pochi anni, quando ci sentiremo chiamare dalla morte, noi lo vedremo, sfolgorante in solio, e lo sentiremo dire: « Mi conoscete? sono Io il fratello vostro, che avete maltrattato: Gesù Cristo! ». –IL SANTO TIMOR DI DIO. Secondo la liturgia della Chiesa oggi termina l’anno: con Domenica ventura entreremo nell’Avvento che è preparazione al santo Natale e s’incomincerà quindi un nuovo giro di feste. Per questo il Vangelo di oggi è tutto un cader di stelle, uno squillar lungo di trombe, e un piangere di paura sotto la maestà del Figlio di Dio veniente. Cristiani, volgiamoci indietro e consideriamo se in quest’anno liturgico non abbiamo fatto nulla di cui potremmo pentirci al giudizio finale. « Quando tornerà il Figlio dell’uomo sulla nuvola del cielo a giudicare i vivi e i morti? » avevano chiesto trepidando gli Apostoli. « Nessuno, — rispose Gesù, — ve lo potrà mai dire. State però all’erta: Egli verrà come il lampo che guizza a un tratto da levante a ponente; come un padrone partito lontano per affari che torna improvviso a sorprendere i servi, come un ladro che vien di soppiatto nella notte. Guai a quelli che saranno colti nella crapula o col cuore aggravato dalle ansiose sollecitudini di questa vita bugiarda! saranno presi al laccio. Intanto il sole si oscurerà. La luna perderà la sua bianca luce. Le stelle precipiteranno. Tutte le forze del cielo saranno sconvolte. Dai quattro angoli del mondo, gruppi di Angeli lanceranno gli squilli dell’eternità, e la tromba paurosa sospingerà gli uomini a radunarsi. Ed ecco, in alto, il gran segno del Figlio dell’uomo, ed ecco sulle nubi esso Figliuol dell’uomo. Tutti esterrefatti attenderanno la sua parola. E parlerà finalmente. Lui che ha taciuto nel suo Tabernacolo per secoli e secoli, Lui che ha taciuto quando lo bestemmiavano, Lui che ha taciuto quando le anime s’ingolfavano nel peccato, Lui parlerà allora, per dire la sentenza. E dopo che Egli ha parlato, passerà e cielo e terra, ma la sua sentenza non passerà in eterno. Cœlum et terra transibunt, verba autem mea non præteribunt. Ma, purtroppo, gli uomini non rammentano Gesù e la sua promessa. Vivono come se il mondo dovesse sempre durare come è stato fin qui e non si crucciano che per i loro interessi terreni e carnali. E se ancora languidamente credono a Dio, lo relegano nel suo paradiso, e senza più curarsene di Lui, cercano di fabbricarsi nei piaceri un altro paradiso, fuori dalla sua legge. E come nei giorni prima del diluvio si mangiava, si beveva, si prendeva moglie e s’andava a marito e la gente non si avvide di nulla fino al giorno in cui Noè entrò nell’Arca e cominciarono le acque ad invadere il mondo, così sarà anche per la venuta finale di Gesù Cristo. E come avvenne ai giorni di Lot, che tutti impazzirono nei peccati, fin quando cadde dal cielo una pioggia di fuoco e di zolfo che li fece tutti perire, così accadrà alla fine del mondo. Guardate nel mondo che follia di corruzione; nessuno teme il Ladro divino che giungerà improvviso nella notte, nessuno aspetta il vero Padrone. Timete Dominum. (Apoc., XIV, 7). – 1. ECCELLENZA DEL TIMORE DI DIO. Ci preserva dal peccato. Il timore di Dio fu paragonato da S. Giovanni Crisostomo a quel forte armato che sta davanti all’atrio e non lascia passare nessuno senza ucciderlo: così, nell’atrio di un’anima il timore santo di Dio uccide ogni tentazione che vuol penetrare e mette in fuga tutti i peccati: « Figlio mio! — diceva il vecchio Tobia accarezzando il suo unigenito — Se temeremo il Signore, schiveremo ogni peccato e faremo molto bene » (Tob., IV, 23). Ci ottiene molte grazie. Come una ricamatrice si serve dell’ago pungente per introdurre nella stoffa i bei fili d’oro o d’argento o di seta variopinta, così Iddio si serve del pungolo del timore per ricamare con belle grazie l’anima nostra. E nel « Magnificat » la Madonna ha detto che per quelli che temono il Signore c’è gran misericordia di secolo, di generazione in generazione. Ci dona la tranquillità in morte. Di tutta la vita umana i momenti più terribili sono quelli dell’agonia: essere alle porte dell’eternità, sentirsi già sulla fronte alitare il soffio dell’altro mondo, udire già il passo di Dio giudice che viene. Ebbene quelli che vissero nel santo timore si troveranno bene in quegli estremi istanti, e nel giorno della morte saranno benedetti. È la vera bellezza dell’anima. Non per la forma del suo volto e del suo corpo, ché questo è vanità, ma per il timore di Dio la donna sarà lodata (Prov., XXXI, 30). È la vera ricchezza dell’anima. Tanta povera gente consuma la vita per mettere insieme un po’ di roba, un po’ di danaro, per acquistarsi un onore o un diploma. Tutte questo la morte farà svanire come il sole la nebbia. Il timor di Dio, questo è il vero tesoro! (78., XXXIII, 6). È la vera forza dell’anima. Era l’Epifania del 372. Nella cattedrale di Cesarea il vescovo S. Giovanni Crisostomo celebrava solennemente, ritto sull’altare come una colonna di bronzo nel tempio del Signore. Ed ecco entrare l’imperatore Valente che in quei giorni con odio ariano aveva perseguitato i Cattolici. Al momento opportuno, con gli altri fedeli, anche l’imperatore si presentò per ricevere la Comunione. Il Vescovo si trovava tra la potestà del Cielo e quella della terra: porgere all’indegno imperatore il Corpo di Cristo era disprezzare Iddio col sacrilegio, negarglielo era offrirsi alla persecuzione. S. Giovanni Crisostomo temette il Signore e recisamente gli rifiutò il pane degli Angeli. Al giorno dopo un bando imperiale proscriveva il Vescovo dalla città: lo videro allora lasciare l’episcopio e prendere la via dell’esilio. Era senza paura. – 2. NECESSITÀ DEL TIMORE DI DIO. Di troppe cose hanno timore gli uomini: della malattia, della miseria, della perdita di un’amicizia, della puntura di un vile insetto. E non hanno timore di Dio, l’unico di cui dovrebbero veramente temere. Osservate poi come anche il più piccolo disprezzo che gli altri fanno di noi e delle nostre cose ci offende e ci adira. Provi qualcuno a disprezzare i figliuoli davanti al loro padre e alla loro madre! provi a disprezzare i consigli di un avvocato o la ricetta di un medico, in loro presenza! provi a disprezzare la merce davanti al mercante, e l’opera davanti all’artefice! subito vedreste ire terribili, e liti, vendette, Solo Iddio, dunque si lascerà irridere? e da chi poi? Temiamo Iddio che è presente in ogni luogo e in ogni momento. Alcuni popoli barbari avevano scelto come loro Iddio il sole, perché di notte almeno — quando il sole è assente — inosservati e impunemente potessero fare tutto quello che volessero. Ingenui, ma logici! Pensiamo invece alla nostra sfrontatezza quando, peccando, offendiamo Dio in sua presenza. Ogni bestemmia, ogni furto, ogni disonestà, anche ogni pensiero e desiderio illecito Dio vede, e tace. Ma non tacerà sempre: verrà il suo giorno per parlare, e sarà al giudizio finale. Temiamo Iddio che verrà a giudicarci. Tre cose faranno cruccio ai reprobi in quel momento, in cui apparirà la maestà del Figlio di Dio: la prima perché avranno offeso un Fratello buono, e un Padre che anche allora conosceranno amorosissimo; la seconda perché s’accorgeranno d’aver perso quello splendore immenso e quella letizia senza fine in cui gli eletti saranno avvolti; la terza perché il baratro infernale è aperto sotto loro ad inghiottirli inesorabilmente. Chi invocheranno? Chi li potrà aiutare? Forse la Madonna ch’è tanto buona? Forse la Madonna che è mamma, ch’è rifugio dei peccatori? – No: la Madonna sarà la impugnatrice più valida, allora. Aman, il ministro superbo, il traditore degli israeliti, l’uomo della frode, fu chiamato nella sala del banchetto, ed egli presagendo come la sua condanna fosse imminente, s’inginocchiò tremando ai piedi della regina Ester implorando con singhiozzi pietà. Ma la regina lo riguardò con occhio duro e disse: « Ecco, o re, Aman, il nostro nemico peggiore ». In quel momento entrava un servo ad annunciare che il supplizio era pronto. « Fatelo morire! » comandò Assuero. E lo trascinarono via. Ricordate le parole di Ester: « Inimicus noster pessimus iste est Aman » (Ester, VII, 6); migliori di queste, dalle labbra della Vergine Madre, non se le aspetti al giorno del giudizio l’uomo che è senza timore di Dio. Poiché la Madonna non farà allora che ratificare la condanna pronunciata dal suo divin Figlio.

 Credo …

IL CREDO

Offertorium

Orémus
Ps CXXIX: 1-2
De profúndis clamávi ad te, Dómine: Dómine, exáudi oratiónem meam: de profúndis clamávi ad te, Dómine.

[Dal profondo Ti invoco, o Signore: o Signore, esaudisci la mia preghiera: dal profondo Ti invoco, o Signore.]

Secreta

Propítius esto, Dómine, supplicatiónibus nostris: et, pópuli tui oblatiónibus precibúsque suscéptis, ómnium nostrum ad te corda convérte; ut, a terrenis cupiditátibus liberáti, ad cœléstia desidéria transeámus.

[Sii propizio, o Signore, alle nostre suppliche e, ricevute le offerte e le preghiere del tuo popolo, converti a Te i cuori di noi tutti, affinché, liberati dalle brame terrene, ci rivolgiamo ai desideri celesti.]

Præfatio

V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.
V. Sursum corda.
R. Habémus ad Dóminum.
V. Grátias agámus Dómino, Deo nostro.
R. Dignum et justum est.

de sanctissima Trinitate


Vere dignum et justum est, æquum et salutáre, nos tibi semper et ubíque grátias ágere: Dómine sancte, Pater omnípotens, ætérne Deus: Qui cum unigénito Fílio tuo et Spíritu Sancto unus es Deus, unus es Dóminus: non in uníus singularitáte persónæ, sed in uníus Trinitáte substántiæ. Quod enim de tua glória, revelánte te, crédimus, hoc de Fílio tuo, hoc de Spíritu Sancto sine differéntia discretiónis sentímus. Ut in confessióne veræ sempiternǽque Deitátis, et in persónis propríetas, et in esséntia únitas, et in majestáte adorétur æquálitas. Quam laudant Angeli atque Archángeli, Chérubim quoque ac Séraphim: qui non cessant clamáre quotídie, una voce dicéntes:

[È veramente degno e giusto, conveniente e salutare, che noi, sempre e in ogni luogo, Ti rendiamo grazie, o Signore Santo, Padre Onnipotente, Eterno Iddio: che col Figlio tuo unigénito e con lo Spirito Santo, sei un Dio solo ed un solo Signore, non nella singolarità di una sola persona, ma nella Trinità di una sola sostanza. Cosí che quanto per tua rivelazione crediamo della tua gloria, il medesimo sentiamo, senza distinzione, e di tuo Figlio e dello Spirito Santo. Affinché nella professione della vera e sempiterna Divinità, si adori: e la proprietà nelle persone e l’unità nell’essenza e l’uguaglianza nella maestà. La quale lodano gli Angeli e gli Arcangeli, i Cherubini e i Serafini, che non cessano ogni giorno di acclamare, dicendo ad una voce:]

Sanctus, Sanctus, Sanctus Dóminus, Deus Sábaoth. Pleni sunt cæli et terra glória tua. Hosánna in excélsis. Benedíctus, qui venit in nómine Dómini. Hosánna in excélsis.

Preparatio Communionis

Orémus: Præcéptis salutáribus móniti, et divína institutióne formáti audémus dícere:

Pater noster,

qui es in cælis. Sanctificétur nomen tuum. Advéniat regnum tuum. Fiat volúntas tua, sicut in cælo et in terra. Panem nostrum quotidiánum da nobis hódie. Et dimítte nobis débita nostra, sicut et nos dimíttimus debitóribus nostris. Et ne nos indúcas in tentatiónem:
R. Sed líbera nos a malo.
S. Amen.

Agnus Dei

Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: dona nobis pacem.

Panem cæléstem accípiam, et nomen Dómini invocábo.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

Marc XI: 24
Amen, dico vobis, quidquid orántes pétitis, crédite, quia accipiétis, et fiet vobis.

[In verità vi dico: tutto quello che domandate, credete di ottenerlo e vi sarà dato].

Postcommunio

Orémus.
Concéde nobis, quǽsumus, Dómine: ut per hæc sacraménta quæ súmpsimus, quidquid in nostra mente vitiósum est, ipsorum medicatiónis dono curétur.

[Concedici, Te ne preghiamo, o Signore: che quanto di vizioso è nell’ànima nostra sia curato dalla virtú medicinale di questi sacramenti che abbiamo assunto.]

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (1)

ORDINARIO DELLA MESSA

LO SCUDO DELLA FEDE (228)

LO SCUDO DELLA FEDE (228)

LA SANTA MADRE CHIESA NELLA SANTA MESSA (2)

SPIEGAZIONE STORICA, CRITICA, MORALE DELLA SANTA MESSA

Mons., BELASIO ANTONIO MARIA

Ed. QUINTA

TORINO, LIBRERIA SALESIANA EDITRICE, 1908

SPIEGAZIONE DELLA S. MESSA

Anello che ricongiunge il cielo colla terra, perno su cui s’appoggia tutta la religione, centro, a cui mirano tutti i sacramenti, e a cui tutti i riti sono ordinati, è il Sacrificio della santa Messa. E in vero il Sacrificio, è sempre come il compendio, e l’espressione più genuina delle religioni, in cui sì pratica; sicché dove materiale e grossolano è il sacrificio, è rozza la religione: dove crudele ed empio il sacrificio, barbara e diabolica è la superstizione; dove santo al contrario e, come nella Chiesa Cattolica, il Sacrificio è divino, la Religione è santissima e al tutto divina. Anche nell’entrare nel tempio santo è dato di scorgere che le membra del sacro edificio con tutti gli adornamenti convergono al Tabernacolo di propiziazione, e tutte le immagini, che ridono d’una celeste bellezza, pare che a quello i loro sguardi rivolgano, e stiano d’intorno all’altare quasi a guardia d’onore. Poiché sull’altare cattolico stanno come scolpiti in basso rilievo gli augusti Misteri della Fede Cristiana, ed in fronte ad esso come sopra un acroterio in sublime iscrizione sta espressa tutta l’economia celeste della redenzione nostra operata da Dio: ed il Sacrificio; che sull’altare si consuma, è un vero spettacolo della misericordia di Dio. Quindi la Chiesa doveva questo augusto mistero a Lei affidato compiere con dignità; ed in esso tradurre in atto le sue credenze. Essendo poi Ella madre, e la vera educatrice dei Popoli, coi suoi riti doveva inspirare le sue idee e dare i suoi ammaestramenti ai figliuoli. Lo compresero i santi padri, e non credettero meglio aiutare questa madre, che collo spiegare le auguste cerimonie da Lei praticate nell’esercizio del culto divino, e fare ad esse partecipare i fedeli. Fin dal secondo secolo s. Giustino filosofo e martire per difendere la Chiesa in faccia ai tiranni, e farla rispettare, anzi amare da tutto il mondo, non credeva poter far meglio che esporre i riti con cui si celebravano nelle Catacombe i santi Misteri. Quindi s. Cipriano, s. Basilio, s. Giovan-Grisostomo nelle loro Omelie, s. Cirillo nelle sue Catechesi, e tutti i santi Padri alla maestà dei riti sacri si ispiravano sovente, e, facendo partecipi delle loro sublimi ispirazioni i fedeli, lì mantenevano in comunicazione continua collo spirito della Chiesa, che li praticava. E se ciò allora era bene, quando il popolo assisteva così fervorosamente alle sacre funzioni, e queste in gran parte erano anche eseguite nel linguaggio che in quei tempi ancora si parlava comunemente; per cui i fedeli assistenti alla Messa erano in continuo colloquio colla Chiesa c col Sacerdote, pare necessario di dover «piegare le belle e devote significazioni di queste auguste pratiche ora che il popolo prende ogni dì sempre più poca parte a ciò che si fa nella Chiesa e le sacri funzioni tiene quasi in conto di cosa, vorremmo dire, di professione dei sacerdoti, in cui egli non s’abbia per poco che fare. Per rimediarvi alcuni hanno voluto che si dovesse, nell’esercizio del pubblico culto abolire il linguaggio latino. Eh! bisogna pur dire che costoro non fossero informati a quello spirito di universal carità, che è l’anima della Chiesa Cattolica, che abbraccia in una sola famiglia tutti gli uomini di tutti i tempi dispersi sopra la terra, di nazione, di lingua, di colore diversi. Madre di tutti, Ella ha bisogno di una lingua, che, studiata in ogni terra, non sia il privilegio di alcun popolo del mondo. Veramente quando per esempio un fedele d’Italia si trova ad ascoltare la s. Messa celebrata dal prete nero d’Etiopia, o di color di rame dell’Oceania, sentendo sull’altare il linguaggio che parla il Pontefice in Roma; allora, si trovasse pure agli antipodi in mezzo ai più estranei popoli, sente di essere in mezzo ai fratelli, tutti figli della medesima madre, che tutti conduce per mano a ricoverarli in Paradiso (Conc. Trid. sess. XXII, cap. 8.). Inoltre, la latina lingua antica e misteriosa, non più soggetta a variare coi tempi, mentre conviene assai bene al culto dell’Essere eterno, incomprensibile, immutabile, tiene al sicuro le verità eterne da quel vortice di variazioni, che strascina gli uomini e le cose, che da loro dipendono, in mutazioni continue; e meglio la serba nella loro interezza entro le esatte forme di un linguaggio fuori d’uso e custodito da tutti (Car. Bon. lib. De rerum liturg. dove tratta del variare continuo delle lingue viventi). Pare ancora che le orazioni in lingua latina raddoppino presso la moltitudine il sentimento religioso. Ché nel tumulto dei suoi pensieri e delle miserie, onde è assediata la vita, il buon fedele, pronunciando nella sua semplicità parole a lui poco famigliari od anche sconosciute del tutto, si persuade domandar cose che a lui mancano e che non saprebbe quali. L’indeterminazione della sua preghiera la rende più graziosa, e l’inquieta anima sua, che mal conosce ciò che ella desidera, e inclinata a fare voti misteriosi, come sono misteriosi i suoi bisogni (Chateaubr.). Del resto sapendo di ripetere le parole che gli mette in bocca come a bimbo la madre, a lei si affida, e da lei unito dell’intelletto per la fede, e del cuore per la carità, vivendo per Lei in un’atmosfera più sublime d’intelligenza e d’amore, come pensa coi suoi pensieri, così gli vien bene esprimerti nelle sue orazioni in grembo alla madre colla misteriosa parola ch’ella gl’insegna (Bened. XIV. De Sacrif. Miss. lib. II, cap. 2). Sia benedetta questa Madre santissima! È nella speranza di meritare anche noi la sua benedizione, noi (se ce lo concede Iddio), vorremmo farla da interprete tra lei ed i suoi figli; ed in certo qual modo, mentre si trovano in seno a lei allora che tratta con Dio di tutti i loro più cari interessi, noi vorremmo farci a ridestar l’attenzione dei figli, quasi dire con semplicità: « vedete, ascoltate, sentite ciò che vi dice e fa la Chiesa con quelle tali cerimonie, e con quelle sante parole, che le ispira Iddio. » Troppo ben fortunati, se avremo porta occasione ai RR. Parrochi e Sacerdoti di far sovente parola dei santi riti della Chiesa, e massime della santa Messa. Perché, a dir vero, di alcuni fedeli, (e noi l’abbiamo provato nel trattare con loro nei momenti delle più sincere loro espansioni, dedicati essendo alle Missioni sante), ci sembrarono troppo meschine e ristrette le idee che hanno infatti dei più sacri misteri. Onde è che di un tempo il più prezioso e veramente accettevole appresso a Dio si fa sovente per loro un tempo di noia mortale; pel che se ne vanno volentieri lontano. Par bene adunque che bisogni aiutarli a farsi famigliari coi pensieri della Chiesa nelle sacre funzioni, e che bisogni iniziarli alla grandezza, alla profondità delle cose di Dio. E ci pare carità il dar loro la mano per sollevarli dal tempio al cielo; e, quando entrano nel luogo santo, trasportarli quasi in un’atmosfera spirituale tra le braccia della madre Chiesa a conversare con Dio. Perché essendo la Messa piena d’utilissimi e grandi misteri (Cone. Trid. sess. XXII, cap. 8.), in essa troviamo come lo spirito di tutta la nostra religione, e, col compendio di tutti i misteri, anche un’idea di tutte le obbligazioni che il Vangelo c’impone, ed una caparra di tutte le promesse, che ci fa intravedere la fede, ed anche un saggio anticipato della felicità, che ci appresta la misericordia di Dio. Ah! quando conosceremo la forza e il valore di tutte le cerimonie alla grande oblazione consacrate, nel vedere Gesù, che mai non si spoglia della qualità di vittima, che si sacrifica, e resta in mezzo a noi, intenderemo, che la nostra con lui non deve essere una unione passeggiera, ma in ogni tempo, in ogni circostanza ci dovremo considerare come vittime da immolare con Lui nel sacrificio della vita cristiana, e vivere del cuore sempre uniti con Lui. Perciò, affinché non manchi questo sostanziale pascolo alle agnelle di Gesù Cristo, ed affinché i pargoli non chiedano pane, se non vi sia chi loro lo spezzi in mano, comanda la Chiesa, che spesso nella celebrazione della Messa ai fedeli raccolti si spieghi ciò che si legge e si pratica nel Sacrificio, e specialmente nei giorni di festa (Conc. Trid. sess. XXII, De Sac. Mis., cap. 8). – Come fecero, e fanno già molti, anche noi vorremmo aggiungere l’opera nostra. Desiderosi di farlo nel povero modo, che per noi si possa, abbiamo abbracciato anche tutte le occasioni, che ci si presentarono, per parlare di altri riti e di altre istituzioni, come chi gode di parlare coi fratelli di tutte le cose, che appartengono alla comune madre carissima; anche nella speranza di dare in mano ai fedeli, fossero pure neofiti, un Libro che basti a farli istruiti degli usi, per dir così, più comuni della nostra Chiesa, e metterli in comunicazione coi fratelli, che ci precedettero in paradiso; coi quali, benché siano in cielo, noi qui in terra facciamo una sola famiglia, quando siamo nella Chiesa Cattolica. – Abbiamo diviso tutta l’opera nostra in tre parti; cioè: La Preparazione, — Il Sacrificio. — Il ringraziamento della Messa. Ma prima è a dire che cosa sia il Sacrificio della santa Messa, ed il perché il Sacrificio si chiami Messa. Cominceremo pertanto da questo nome.

LA GRAZIA E LA GLORIA (47)

LA GRAZIA E LA GLORIA (47)

Del R. P. J-B TERRIEN S.J.

II.

Nihil obstat, M-G. LABROSSE, S. J. Biturici, 17 feb. 1901

Imprimatur: Parisiis, die 20 feb. 1901 Ed. Thomas, v. g.

LIBRO IX

LA PERFEZIONE FINALE DEI FIGLI DI DIO. QUESTA PERFEZIONE CONSIDERATA DAL LATO DELL’ANIMA

CAPITOLO V

Sulla natura della visione beatifica. L’atto in sé e le sue proprietà.

1. – Questo studio sulla visione beatifica rimarrebbe incompleto se non parlassimo dell’atto stesso, dopo averne considerato il principio e l’oggetto immediato.  La prima domanda che sorge è la seguente: questa operazione sarà unica e sempre la stessa, oppure dobbiamo credere che sarà uguale ai nostri pensieri attuali, cioè che ci sarà una molteplicità ed una successione di atti? – Innanzitutto, diciamo che è con un solo colpo d’occhio, con lo stesso atto, che gli eletti contemplano sia Dio che tutto ciò che vedono in Dio. – Questa risposta deriva chiaramente dalle nozioni che abbiamo stabilito: Infatti, la forma ideale che determina la loro intelligenza, cioè l’oggetto soprannaturalmente intelligibile che la penetra con la sua luce e la feconda, è infinitamente una. Pertanto, poiché l’operazione risponde alla forma ideale, non potrebbe essere multipla, senza che vi sia, per questo stesso fatto, un totale rovesciamento delle leggi intellettuali. Se ci è difficile concepire questa immensità con un solo sguardo, è perché, allo stato imperfetto della nostra conoscenza naturale, con un’intelligenza in cui ogni oggetto è dipinto nella sua particolare e limitata somiglianza, noi non possiamo comprendere la potenza e l’efficacia di questa forma unica, in cui si riassumono ogni luce ed ogni verità. – Uno per ogni momento della durata, l’atto dell’intuizione divina sarà sempre lo stesso, identico in se stesso, senza fine, senza intermittenza o successione, eterno di conseguenza? Sì, tutte queste proprietà sono le sue. – Nessun termine: perché noi saremo sempre con Dio (I Tess. IV, 16). E sarebbe con Dio colui che smettesse di contemplarlo faccia a faccia? Perché la visione beatifica dovrebbe avere una benché minima interruzione? È forse perché l’essere su cui si appoggia sarebbe destinato a perire, o a svanire per un istante? Ma Dio, che è l’oggetto di questa visione, è l’eternità stessa; ma l’anima, che è il suo solo soggetto e principio intimo, è immortale. È forse perché la forma ideale che illumina l’intelligenza si ritirerebbe da essa o subirebbe una qualche eclissi? Ma i doni di Dio sono senza pentimento; e se Egli si allontana, se si allontana da un’anima, è perché essa stessa ha posto la causa di questo abbandono. È perché i figli di Dio si staccherebbero dal loro Padre? Ma, come spiegheremo presto, l’anima che Lo contempla diventa impeccabile, immobilizzata com’è nella perfezione dell’amore. – È perché, infine, le influenze esterne, agendo su questi spiriti beati, potrebbero turbarli nella loro estasi e distrarli dalla vista del loro Dio? Certamente comprendo questi ostacoli e distrazioni nella nostra condizione attuale. Non si può rimanere a lungo fissi nella stessa contemplazione, anche se la volontà non risparmia sforzi per eliminare tutto ciò che potrebbe distogliere la mente da essa. Questo perché l’esercizio delle nostre facoltà più elevate, pur non avendo come principio un organo materiale, è in una dipendenza necessaria e continua dai sensi, dall’immaginazione e da mille altre cause diverse che lo disturbano o, almeno, ne cambiano la direzione. Ma niente del genere può raggiungere l’anima del vedente, perché la contemplazione che egli ha del suo Dio non è vincolata da alcun attaccamento alle funzioni delle facoltà inferiori. – Scendiamo ancora di più, se è possibile, nella profondità delle cose. Perché nella mente creata si passa così spesso da un pensiero all’altro? È perché in ogni nostra potenza di conoscere essa non è entrata in azione solo che in modo molto incompleto; in altre parole, è perché la forma ideale che agisce su di essa non ha conquistato così pienamente la forza vitale dell’intelligenza che una seconda forma non può afferrarla nello stesso momento a scapito della prima. Ma quando l’essenza infinita di Dio si è, per così dire, infusa nelle profondità dell’intelletto per applicarlo interamente alla contemplazione delle sue bellezze, quale altra immagine potrebbe essere mai tanto potente da sostituirla? Che cos’è? Ci potrebbero essere per lo studioso, l’artista o il Santo di quelle visioni così impressionanti che nessun rumore esterno, nessuna eccitazione sensibile sia talvolta sufficiente a distrarli dalla loro estasi. E Dio, l’eterna Verità, che si rivela con tutto il suo splendore, permetterebbe a non so quali cause create di interrompere l’estasi in cui la sua vista pone le anime?  Del resto su questo grave soggetto abbiamo le affermazioni ben espresse da Benedetto XIII nella Costituzione già menzionata; in essa vi si legge, infatti, che la visione intuitiva e il godimento beatifico che ne deriva devono persistere « eternamente, senza interruzione né rilassamento » (cfr. L. IX, c. 2). –  San Tommaso ha detto tutto in due parole: « Questa operazione è unica ed eterna » (Hæc operatio in eis est unica et sempiterna) 1. 2, q. 3, a 2 ad 4. « Creaturæ spirituales quantum ad affectiones et intelligentias in quibus est successio, mensurat tempore… Quantum vero ad eorum esse naturale, mensuratur ævo; sed quantum ad visionem gloriæ participant æternitatem ». Id. 1 p., q. 10. a. 5, ad 1). Unico: quindi senza molteplicità; eterno: quindi senza successione o fine. Che cosa ammirevole è questa contemplazione del nostro grande Dio! Lo abbiamo ben compreso: tutta la verità, tutta la bellezza, tutto lo splendore, visti e posseduti in un solo sguardo in quel presente unico e immobile che si chiama Eternità!  Un sant’Ignazio, dopo un’estasi di otto giorni interi, torna, per così dire, in mezzo ai mortali e si meraviglia di sapere che la sua estasi sia durata più di un momento. Chiedete agli eletti ai quali la morte del Redentore ha aperto le porte del cielo e chiedete loro da quanto tempo godono del volto del Signore; e se il buon Dio lo permette, risponderanno: “Per noi c’è solo un momento, ma un momento che non passa e non tramonta, perché non appartiene al tempo ma all’eternità” (S. Thom., c. Gent. L. III, c. 62). – Sì, ora capisco il significato profondo contenuto nelle parole del mio divino Maestro: « La vita eterna, o Padre, è che conoscano te, l’unico vero Dio, e Gesù Cristo che Tu hai mandato » (Gv. XVII, 3) e di queste altre che l’Evangelista ha posto dopo la sentenza finale: « E i giusti andranno alla vita eterna » (Mt. XXV, 46). La vista di Dio è la vita nel suo atto più perfetto, perché è un’operazione dell’intelligenza, la più sublime che si possa immaginare per quanto riguardi l’oggetto e il modo di raggiungerlo, poiché l’Uno è l’Essere per eccellenza, e l’altro, un’intuizione. È la vita eterna, perché da qualsiasi lato si guardi questo atto di vita, sia che lo si consideri in sé, sia che se ne esamini il principio e l’oggetto, non troviamo nulla che dia l’idea di successione, nulla che richiami la possibilità di un cambiamento. Allora, come dice in modo eccellente il grande Agostino: « I nostri pensieri non fluttueranno più da un oggetto all’altro, per poi tornare a quello che hanno lasciato: un colpo d’occhio  abbraccerà tutta la nostra scienza. » (S. August., De Trinit. L. XV, c. 16. Nulla è così bello come i passi delle Confessioni in cui il grande Dottore parla della felicità immutabile degli Angeli, di quella felicità che speriamo sarà la nostra. « Volete negare che esista qualche creatura così elevata e così unita da un amore casto al vero Dio, al Dio veramente eterno, che pur non essendo co-eterna con Lui, non si separa mai e non si ritira da Lui per cadere nei cambiamenti del tempo, ma riposa sempre nella contemplazione beata e perfetta di Dio? Perché, amandovi, Signore, quanto lo comandate vi mostrate ad essa, e gli bastate così tanto che non si allontana mai da Voi, nemmeno per rivolgersi a se stessa. Questa è la casa del Signore, non una casa terrena o celeste, avente la natura dei corpi, ma una casa tutta spirituale e partecipe della tua eternità, perché è senza macchia e lo sarà sempre… Essa procede da Voi, o mio Dio, eppure è completamente diversa da Voi e non è Voi stesso. È vero che non troviamo il tempo prima di essa o in essa, perché essa contempla sempre il vostro volto e non distoglie mai lo sguardo da esso, il che la rende immune da ogni cambiamento; tuttavia, in virtù della sua nativa mutevolezza, potrebbe diventare oscura e fredda, se la grandezza dell’amore che la unisce a Voi non ne facesse un pieno giorno tutto risplendente ed ardente con i vostri fuochi. » Confessioni, L. XII, c. 5. E altrove: « Che queste gerarchie di Angeli, innalzate sopra i cieli, cantino incessantemente le vostre  grandezze; spiriti benedetti che non sono obbligati a considerare questo firmamento delle vostre sante Scritture per leggere e conoscere la vostra parola. Essi vedono sempre il vostro volto e, senza l’aiuto delle sillabe del tempo, vi leggono i consigli della vostra volontà eterna. Essi li leggono, li abbracciano, li amano, li leggono sempre, e ciò che leggono non passa… Il loro libro non si chiude affatto e non si chiuderà mai, perché Voi stesso siete quel libro, e lo sarete in eterno. »- Id, ibidem, L. XIII c. 5).

2. – Eppure, questa visione, per quanto sì unica e perfetta, non esclude le confidenze particolari in cui Dio rivela ai suoi eletti sia i liberi consigli della sua volontà, sia dei fatti contingenti che non ha mostrato nella sua essenza. Essa non esclude gli atti di conoscenza più o meno moltiplicati che rispondono ad immagini create, acquisite naturalmente o infuse divinamente. – Ecco come gli spiriti angelici, sebbene fossero investiti dalla luce divina come da un sole, non abbiano appreso che solo più tardi dei tempi fissati per l’Incarnazione del Verbo e di molte circostanze del mistero; come i Dottori, e in particolare il grande Areopagita, ci parlino di illuminazioni che discenderebbero dal cuore di Dio fino agli ultimi ordini degli Angeli, passando per gli Ordini più elevati. Ecco soprattutto, perché i teologi siano concordi nel riconoscere nel Dio fatto uomo, oltre alla scienza dei comprendenti, cioè la visione beatifica, una scienza infusa ed anche una scienza acquisita. Dio, che è magnifico nei suoi doni, vuole che l’intelligenza dei suoi eletti riceva tutti i tipi di perfezione di cui è capace. Ma le Sue elargizioni non vanno contro l’ordine essenziale delle cose; e per quanto brillanti possano essere questi astri secondari illuminati nel cielo degli spiriti beati, tutti impallidiscono di fronte all’unica e sempre presente intuizione, come le stelle davanti al sole. Essa sola in effetti, riproduce in pieno il modo di conoscenza naturalmente proprio di Dio; quello, di conseguenza, che è la sostanza stessa della beatitudine eterna.

3. – Vorrei soffermarmi per qualche istante ad esaminare alcune idee sulla visione beatifica che io trovo espresse in opere recenti. Se si dovesse credere agli autori, Dio non si fermerà nella manifestazione che Egli stesso fa ai suoi eletti. Contemplando il Suo volto adorabile, non smetteranno di scoprirvi nuove perfezioni; e, man mano che il loro amore aumenta in proporzione alla loro conoscenza ci sarà un progresso continuo, un progresso indefinito nella beatitudine, senza altri limiti che quelli dell’eternità. – Due considerazioni, una tratta dalla natura di Dio, l’altra da quella della creatura intelligente, sembrano decisive a favore di questa opinione. Dio non sarebbe il Bene sovrano se non tendesse a diffondersi: questa è il suo bisogno e la sua legge; e ce lo mostra chiaramente, poiché, secondo la bella formula di Sant’Agostino, ogni suo beneficio è il pegno di una generosità più abbondante: « beneficia Dei, beneficia et pignora ». Possiamo essere convinti che queste effusioni della generosità divina si esauriranno in cielo e che Dio pronuncerà lì quella parola che non ha mai pronunciato quaggiù: satis, basta così? D’altra parte, la natura creata non può accontentarsi di una felicità che sarebbe sempre la stessa. Una vita senza progresso e come immobilizzata, non può essere la vita perfetta, perché la vita è movimento. E poi, non c’è il rischio che uno spettacolo, per quanto delizioso, generi una sorta di noia, se nuove sorprese e più meravigliose estasi non ne dissipano la monotonia? – Se tutto questo non avesse altro scopo che quello di ammettere, al di fuori della visione beatifica, certe manifestazioni divine e certe conoscenze che si susseguono nelle intelligenze glorificate, ci sarebbe motivo di sottolineare l’esagerazione dei termini e ancor più l’inanità delle prove; tuttavia, la conclusione non presenterebbe nulla di inammissibile in sé. Ma sono in gioco l’atto essenziale e la visione beatifica. Ora, da questo punto di vista, che è il suo, la nuova dottrina, lungi dal poter contare, come pretende, sulla natura della beatitudine o sulla perfezione divina, vi trova la sua confutazione. – Voi pretendete che la bontà infinita di Dio non possa essere spiegata senza una generosità sempre più abbondante. Dimenticate che se non ha detto « basta » durante la durata della prova, è perché i suoi figli erano allora in fase di crescita, e che l’uso santo dei benefici ricevuti li stava preparando ad altri benefici. Ma in cielo, c’è lo stato dell’uomo perfetto. Il vaso è pieno, e piena è la misura. Fin dal primo momento, il veggente ha messo nel suo sguardo tutta l’energia, tutta l’ampiezza di cui il giudizio di Dio lo renda capace. Estendere il campo visivo richiederebbe un aumento della grazia santificante, un perfezionamento nella luce della gloria: infatti l’atto è adeguato al suo principio. La freccia è entrata nell’oceano di luce fin dove la spinta dell’amore poteva portarla, e l’amore stesso non aumenta, poiché gli eletti sono arrivati alla fine. – Inoltre, le prodigalità di Dio, lungi dall’arrestarsi, continuano a scorrere a fiotti più che mai, perché questo splendore di gloria Egli lo conserva, questa suprema perfezione di conoscenza, è costantemente sua. Ammirate la bontà divina quando solleva il sole sopra l’orizzonte delle anime, e la giudicate meno benefica quando le annega costantemente nella luminosità di un eterno mezzogiorno? – Ancora si obietta invano che una vita senza movimento non sia una vita. Lo ammetto, non c’è vita senza movimento; ma ammettete, a vostra volta, che il movimento che rende la vita perfetta non portI con sé né cambiamento, né successione, né progresso, poiché tutto ciò non è altro che il passaggio dalla potenza all’atto, e presuppone l’imperfezione della vita stessa. Se esiste una vita sovranamente piena e sovranamente perfetta, questa è la vita divina, essendo Dio stesso la sua vita. È un movimento infinitamente perfetto, perché è un atto infinitamente puro; è un movimento infinitamente immobile, perché è eterno ed immutabile per eccellenza. L’immobilità del cadavere è la totale privazione della vita; l’immobilità nella contemplazione della bellezza suprema ne è il suo possesso più completo. Quindi, per concludere, la vita degli eletti sarà tanto più perfetta quanto meno mobile, meno mutevole e meno progressiva. –  Non temete che questa visione di Dio, sempre uniforme, sempre uguale, alla fine diventi monotona e stancante. « Niente – dice il Dottore Angelico a questo proposito – niente è noioso in ciò che contempliamo con costante ammirazione, perché dove rimane l’ammirazione, rimane anche il desiderio. È impossibile che la sostanza divina non susciti eternamente l’ammirazione dello spirito creato che la contempla: perché se può vederlo, non potrà mai comprenderlo » (S. Thom, c. Gent, L. III, c. 62. Cfr. L. IX, c. 4). Un’osservazione profonda che, ben meditata avrebbe messo a tacere ogni scrupolo. – « Capisco la noia di fronte al traguardo di qualsiasi bellezza diversa da quella infinita, essa può nascere dall’oggetto stesso; ad esempio, quando scopro delle imperfezioni che all’inizio non mi avevano sconvolto. Essa può avere la sua origine dal lavorio o dalle preoccupazioni che accompagnano il godimento: è un bel concerto, ma io soffro, … ma gli affari urgenti mi chiamano; se si prolunga, la mia attenzione è divisa e presto il disgusto segue il piacere. E poi, non è possibile che una facoltà sia soddisfatta, senza che le altre abbiano il piacere che richiede? Infine, per il fatto stesso che ciò che vedo o ascolto è di una bellezza finita, né la mia intelligenza né il mio cuore si saziano pienamente; da qui l’inquietudine, l’ansia, quando, dopo l’eccitazione iniziale, si avverte il vuoto. – Ma, o bellezza sempre antica e sempre nuova, non c’è nulla di simile da temere per i figli che ammettete a vedere il vostro volto: né i difetti sconvolgono, poiché siete tutta la perfezione; né la stanchezza che irrita, poiché il corpo e gli organi, fossero ancor passabili, non hanno parte nell’operazione più spirituale che si possa concepire; né l’inquietudine nelle facoltà inferiori dell’anima, poiché la visione di Dio non prescinde dalla loro completa perfezione; né il sentimento di vuoto, poiché riempite pienamente tutta la capacità dello spirito che vi contempla. » (S. Thom, IV, D, 49, q. 3, a. 2, ad 3.).  Se, nonostante queste risposte, continuate a sostenere che la semplice continuità della stessa intuizione non può soddisfare perennemente la nostra sete di conoscenza, vi chiederò come fa Dio a non stancarsi della comprensione che ha di se stesso, Egli il cui sguardo è l’immutabile eternità?

LA VITA INTERIORE DEL CATTOLICO (9)

LA VITA INTERIORE DEL CATTOLICO (9)

Mons. ALBAN GOODIER S.J. (Arcivescovo di Hierapolis)

Morcelliana Ed. Brescia 1935

Traduzione di Bice Masperi

CAPITOLO III

La vita nella Chiesa

2. – La Vita Sacramentale.

Non è la S. Messa l’unico mezzo di grazia e di progresso per la vita spirituale, ossia, non ci stanchiamo di ripeterlo, per la formazione dell’uomo perfetto. Nostro Signore Gesù Cristo ci ha detto ch’Egli è venuto non per distruggere ma per compire, e la storia ha dimostrato la verità delle sue parole. Il Cattolico, ogni vero Cristiano, crede che seguendo Lui e usando i mezzi ch’Egli ha messo a nostra disposizione, l’individuo raggiunge il livello massimo in questa vita e per la futura, e nell’aderenza a Lui e alla sua legge s’innalza e si nobilita anche tutto il tenore della vita sociale collettiva. Egli crede che in ciò appunto consista la civiltà cristiana, e che obbedendo ai suoi comandi e in nessun altro modo si sia prodotta nell’umanità quella grande rivoluzione al cui confronto nessun’altra regge. Ora, fra i mezzi che Cristo ha messo a nostra disposizione, alcuni ve ne sono così semplici in se stessi da poter sembrare addirittura banali, ma, nella loro efficacia e a motivo del loro significato, assolutamente fondamentali di tutto il pensiero cattolico. Sono i sette sacramenti. Il cattolico sa che vi sono alcune cerimonie esteriori, alcuni atti o segni, istituiti e indicati, almeno in ciò ch’è loro essenziale, nella materia e nella forma, da Nostro Signore stesso. –  Queste cerimonie o atti compiuti secondo quanto Egli ci ha ordinato, con l’intenzione ch’Egli ebbe nell’istituirli e in prova della nostra fede nella sua parola e della nostra adesione a Lui, conferiscono all’anima per virtù propria qualche grazia speciale, qualche segno particolare della sua bontà che in nessun altro modo si potrebbe ricevere. Sapeva Cristo come la natura umana tenda ad essere attratta e impressionata dal cerimoniale esterno, dalle manifestazioni visibili e dal simbolismo sensibile. Una stretta di mano, il saluto di un superiore, una semplice parola, anche se convenzionale, uno sguardo, un gesto, un accento, tutte queste cose e molte altre ancora, trascurabili in se stesse ed insignificanti, possono invece diventare nei rapporti fra uomo e uomo così espressive e significative che la vita ne risulta tutta intessuta e anzi è da esse diretta. Sono segni materiali esteriori che contengono un intimo significato ed esprimono più delle parole, più preziosi dell’oro e dell’argento; sono riti sacri, in un certo senso sacramenti naturali che cementano la fratellanza umana in proporzione diretta della esiguità del loro valore intrinseco. – Non può quindi meravigliarci che, nella sua infinita bontà e quasi adeguandosi alla nostra piccolezza, Dio abbia voluto, per mezzo di Cristo suo Unigenito, stabilire certi segni esteriori o convenzioni fra Sé e l’uomo, certi atti o pegni in cambio dei quali l’uomo riceverà da Lui particolari prove della sua benevolenza e del suo amore. Ecco i sette sacramenti, che non sono soltanto segni di grazia ricevuta, ma essi stessi conferiscono la grazia, in questo senso che il fedele, il quale compie l’atto esteriore secondo lo spirito di Gesù Cristo che l’istituì e con le disposizioni ch’Egli richiede, immediatamente riceve la grazia che l’atto è inteso a significare. Come fra due persone una stretta di mano dopo un diverbio esprime non soltanto il pentimento dell’una e il perdono dell’altra, ma indica pure che sia il pentimento che il perdono sono stati effettivamente offerti ed accolti, così i sacramenti conferiscono le loro grazie speciali non soltanto in virtù delle disposizioni e dei meriti di chi li riceve, ma di per sé e per virtù loro propria. Le conferiscono oggettivamente e indipendentemente dal soggetto che li riceve, quali strumenti vivi nelle mani di Dio e per i soli meriti di Nostro Signore Gesù Cristo. “Fa questo — dice il Padre al figlio — dammi questa prova di sottomissione e di fiducia, e Io ti darò ciò che Io solo posso dare. Ecco perché il Cattolico tiene in sì gran conto i sacramenti. Essi costituiscono un elemento necessario, senza del quale la sua vita non può debitamente funzionare. Sono le vene del corpo che, dal centro, ossia dal cuore di Cristo, portano ad ogni membro il sangue della vita; sono i canali per cui le acque vive fluiscono all’orto concluso. Il Cattolico fa della fede nei sacramenti un tratto distintivo della sua religione in azione; si può quasi dire che la sua devozione e la sua frequenza ai sacramenti diano la misura della sua stessa fede. Ed è vero: quando si dice di un Cattolico che si accosta o meno ai sacramenti ogni altro Cattolico comprende subito che cosa significhi e non occorre dir altro. – Non sarà quindi fuor di luogo indugiare un istante sulla portata di ciascuno dei sette sacramenti nella Chiesa Cattolica. Sono, come abbiamo spiegato, dono gratuito di un Dio che ci ama, dono più grande e più bello di qualsiasi beneficio possiamo altrimenti ricevere. Da noi dipendono solo in quanto compiamo ciò che si richiede per riceverli, e, ciò fatto, sono essi che riversano sull’anima nostra in sovrabbondanza la grazia acquistataci dai soli meriti di Gesù Cristo. Ogni sacramento conferisce una grazia propria; ciascuno fu istituito per una circostanza particolare, per rispondere a uno speciale scopo o bisogno della nostra vita rituale, tanto grande è l’amorosa provvidenza del nostro Dio. – Così, nel Battesimo l’anima viene iniziata alla sua carriera spirituale, nasce di nuovo, e abbiamo già visto come effettivamente si compia questa rinascita. Il battezzando era prima un essere umano e nulla più, senz’altri diritti che quelli umani; battezzato, diventa un essere nuovo, con diritti proprî alla vita eterna. Riceve la grazia della rigenerazione spirituale, si purifica del peccato d’origine, il funesto effetto della caduta del primo uomo di cui abbiamo parlato altrove. Si crea nell’anima per il Battesimo “l’uomo nuovo”, rigenerato, “nato dall’acqua e dallo Spirito Santo” che vive della vita di Gesù Cristo. Come San Paolo arditamente si esprime, muore nel Battesimo l’uomo vecchio, l’uomo semplicemente naturale; l’anima è sepolta con Cristo, e con Lui risorge per vivere ormai una vita nuova che è la stessa vita risorta di Lui, una vita eterna, con tutti i diritti e le esigenze che le sono inerenti. « Non sapete che quanti siamo stati battezzati in Cristo Gesù siamo i battezzati nella morte di Lui? Siamo stati dunque sepolti con Lui per mezzo del battesimo nella morte, affinché, come fu resuscitato Cristo da morte per la gloria del Padre, così camminiamo ancor noi in novità di vita ». (Rom. VI, 3, 4). « Difatti quanti siete stati battezzati in Cristo vi siete rivestiti di Cristo ». (Gal. III, 27). “Sepolti con Lui nel Battesimo, nel quale anche siete stati con Lui resuscitati per la fede nell’onnipotenza di Dio che Lui resuscitò da morte”. (Col. II, 12). Da questi testi e da altri simili possiamo facilmente dedurre che, nel pensiero di San Paolo e di tutti i primi Cristiani, il sacramento del Battesimo aveva un duplice significato ed effetto. Dava in primo luogo la morte al peccato, la grazia della crocifissione spirituale della natura inferiore, dell’ “uomo vecchio”, per la quale grazia l’anima è fatta capace di combattere e dominare le proprie inclinazioni cattive. E conferiva in secondo luogo la grazia della rigenerazione spirituale, ossia incorporava l’anima battezzata a Cristo suo Signore, ammettendola alla sua stessa vita e ponendola in grado di parteciparvi. La sollevava ad un’altezza in cui avrebbe potuto vivere in conformità al desiderio e all’esempio di Lui, diventando così un Cristiano perfetto, un altro Cristo. Ma di conseguenza, come San Paolo non si stanca mai di ripetere, si veniva a formare da parte del battezzato un impegno corrispondente. Essere battezzato significa accettare una responsabilità gloriosa, è vero, ed onorifica, ma sempre responsabilità, non costrizione, rimanendo intatto il libero arbitrio umano che Cristo non vorrà mai ostacolare e del quale l’anima dovrà usare da sé e per sé. Combattere dunque il peccato e le sue cause, sia nell’intimo dell’anima che nel mondo circostante, aderire a Cristo e riprodurlo in sé, tale è il compito di chi è battezzato “nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo”. La Cresima o Confermazione è il secondo dei sacramenti che, come il termine stesso suggerisce, infonde al Cristiano nuova forza per le sue battaglie, confermandolo e consacrandolo soldato di Cristo. Quando il fanciullo si avvia alla virilità, quando giunge l’epoca in cui può venir richiesto di professare apertamente e generosamente, e forse anche a proprio rischio e pericolo, la fede e l’adesione a Cristo e alla sua divinità contro qualunque avversario, il sacramento della Confermazione gli è somministrato come arma di difesa, come baluardo è sostegno, soprattutto come antidoto al più abile dei suoi nemici, il rispetto umano, che è pura viltà per quanto generica e che trattiene tanti dalla pratica della fede che pure posseggono. La Cresima aumenta la luce della fede, dà una tranquilla sicurezza della verità anche quando la ragione non scorge che tenebre e quando l’ignoranza diviene aggressiva, genera vera letizia nel servizio di Dio quand’anche tutto il resto porti alla tristezza, alla sofferenza, al martirio. Col sacramento della Cresima lo Spirito Santo invade l’anima in una maniera nuova e così i suoi doni, già elargiti nel sacramento del Battesimo, si rinnovano e si diffondono e si accrescono. La fede è illuminata a vedere le cose migliori e messa in condizione di svilupparsi con più grande gioia e certezza, penetra più nell’intimo, diviene essenziale all’anima e ad essa connaturata. E al tempo stesso, mentre questo sacramento apre l’intelligenza a vedere e a comprendere, rinvigorisce la volontà per l’azione. Col suo aiuto si acquista maggior facilità sia a resistere al male che a compiere il bene. È questo, in breve, il sacramento della virilità cristiana che giunge provvidenziale all’epoca in cui si combattono in pieno le battaglie della vita. Il sacramento dell’Eucarestia non richiederebbe qui altre considerazioni, essendo già stato lungamente trattato altrove, sebbene in verità, per trattarlo in maniera conveniente e proporzionata alla importanza secondo il pensiero cattolico, “il mondo intero, credo, non potrebbe contenere i libri che se ne dovrebbero scrivere”. Il Cattolico l’ama come la luce degli occhi, lo considera un vero tesoro pel quale sarebbe disposto a sacrificare qualunque cosa; anzi, nell’avvicinarci al termine di questo studio, vien fatto anche a noi di chiederci se non avremmo meglio raggiunto lo scopo concentrando tutto su quest’unico argomento, dimostrando che precisamente nell’Eucarestia sta tutto il pensiero cattolico, tutta la vita della Chiesa Cattolica. In essa, tutto conduce all’Eucarestia o ne deriva. I Vangeli stessi culminano nel discorso alla sinagoga di Cafarnao e in quello dell’ultima Cena a Gerusalemme. Il primo segnava, come disse Cristo stesso, il divergere delle vie; il secondo doveva essere seguito dalla sua morte e dalla sua vittoria. Tutta l’umanità quindi sarebbe divisa secondo questo criterio: l’accettazione o meno del suo Corpo e del suo Sangue come cibo e come bevanda. L’unità cattolica non è mai meglio dimostrata e rivendicata che attorno al banchetto eucaristico; in nessun altro luogo e momento appare più evidente e più desolante la divisione degli acattolici. La dottrina stessa dell’Infallibilità si può dimostrare come conseguenza logica e necessaria del Verbo infallibile che ci diede il suo Corpo e il suo Sangue. Colui che disse: “Questo è il mio Corpo”, e poi: “Fate questo in memoria di me”, disse anche: “Io sono con voi tutti i giorni fino alla consumazione dei secoli”; “Chi ascolta voi ascolta me, e chi disprezza voi disprezza me”. Così la Santa Eucarestia nutre insieme l’anima che la riceve e tutta la Chiesa di Dio, facendone una cosa sola con sé, la stessa infallibile Verità. Affinché sia il corpo che le membra possano sussistere e crescere, hanno bisogno di cibo adatto alla loro vita, e siccome si tratta di vita divina, solo un nutrimento divino può alimentarla. Questo ci è dato nella SS. Eucarestia, il sacramento del Corpo e del Sangue, dell’Anima e della Divinità di Gesù Cristo. Esso ci trasforma in altrettanti Cristi e ci riempie realmente, non solo metaforicamente, del suo spirito, del suo pensiero, delle sue virtù, soprattutto del suo amore vivo e fecondo. – Se l’anima ha la sventura di perdere, per il peccato, questa vita della grazia, o se si macchia di colpe veniali (chi mai potrà rimanerne esente?), allora interviene il sacramento riparatore della Penitenza a lavare la colpa, ad effettuare una nuova riconciliazione, ad infondere nuova speranza e nuovo coraggio, a mettere il peccatore in grado di riabilitarsi. In multis offendimus omnes: tutti abbiamo peccato in moltemaniere; ciascuno di noi deve dirlo di se stessoe Dio misericordioso sa che così è per noi tutti.“Se diremo di essere senza peccato, inganniamonoi stessi, e la verità non è in noi. Se confessiamo i nostri peccati, Dio è fedeleper rimetterci i nostri peccati e purificarci daogni iniquità. Se diremo di non aver peccato,facciamo bugiardo Lui, e la sua parola non è innoi ». (I Giov. I, 8, 10).Gesù Cristo venne nel mondo innanzi tuttoe più che tutto “per salvare il suo popolo dalpeccato”.Di Sé parlò, più che altro, come di uno mandatomeno per i giusti che per un solo peccatoredisposto a far penitenza. Una volta sola nella suavita quaggiù provò il suo diritto divino direttamentecol miracolo, e fu quando per la primavolta osò dire: “Ti sono rimessi i tuoi peccati”.Quando fu resuscitato da morte ed ebbe riunitoi suoi Apostoli, suggellò il patto strettocon loro con questa nuova missione: “Ricevetelo Spirito Santo. Colui al quale rimetterete ipeccati gli saranno rimessi”. Si è dato premura,in questa circostanza come in altre, di assicurareal sacramento della Penitenza la conferma piùmanifesta, essendo appunto questo che applica all’anima la virtù salvifica del suo Sangue prezioso.All’anima non si chiede che di confessar le suecolpe, di pentirsene sinceramente, di risolvere confermezza di non più peccare, e in virtù dell’assoluzioneessa è perdonata. Imporre condizioni ancorpiù facili sarebbe stato indegno di Dio e dell’uomo;una volta che la contrizione sia sincera, ègarantito un perdono completo e risanatore, dellanatura stessa di Dio.Vi è un’altra ora di debolezza alla quale haprovveduto l’amorosa condiscendenza del Signore.Quando la morte viene a battere alla nostra portaabbiamo ancora bisogno di esser rinvigoriti e aiutati,per quanto lo possano ausili umani e divini, a procedere verso il trono del Dio vivo, il Giusto Giudice al quale nulla rimane nascosto, al cui cospetto nemmeno gli Angeli son puri. Può darsi che le nostre colpe passate ci inducano all’avvilimento o al timore o, quel che è peggio, può darsi che nella durezza di un cuore ostinato non sentiamo alcun dolore dei nostri peccati. Anche le debolezze presenti, più o meno gravi, potrebbero farci tremare alla prospettiva del giudizio imminente, o, cosa più tragica, l’anima potrebbe varcare la soglia dell’aldilà in un atteggiamento di sfida ostentata. Allora si somministra al malato il sacramento dell’Estrema Unzione per fortificarlo o per dargli coscienza dell’istante fatale. Si ungono con l’olio consacrato gli organi di tutti i suoi sensi, le porte dalle quali può essere entrato il peccato, e nello stesso tempo si versa sull’anima una grazia di consolazione e di rinnovamento spirituale. La durezza del cuore cede alla verità, i resti della colpa vengono cancellati, la fiducia si ravviva, l’anima riceve forza per vincere le ultime prove e tentazioni, ed è tutta invasa da quella speranza espressa da San Paolo quando asseriva di aver combattuto la buona battaglia e si rallegrava al pensiero della corona che l’attendeva. E lasciateci concludere con un’osservazione a proposito di questo sacramento. Molto si parla di miracoli ottenuti dalle preghiere e dalle devozioni dei fedeli; noi crediamo che quelli operati dall’Estrema Unzione li superino tutti. Ogni sacerdote che abbia esperienza di moribondi ha probabilmente avuto occasione di meravigliarsi delle vie di Dio a loro riguardo, in grazia alle quali i fedeli ricevono questo sacramento anche con mezzi straordinari e, quando l’abbiano ricevuto, sono inondati in maniera evidente delle sue consolazioni naturali e soprannaturali. – Notiamo che questi cinque sacramenti sono dati per santificare l’anima singola e provvedere a tutti i suoi bisogni individuali quaggiù. Vi è il sacramento dell’inizio e quello della fine, e v’è il sacramento della maturità che è la Confermazione. Vi sono i sacramenti che conferiscono la vita: la Penitenza, risanando l’anima caduta, e l’Eucarestia, nutrendola del pane vivo che è Cristo. Ma ve ne sono altri due. Non essendo l’uomo solamente individuo, ma anche membro di una società, anzi di una duplice società, quella spirituale e quella temporale, per stabilirlo e confermarlo in ciascuna di esse sono stati istituiti altri due sacramenti che lo consacrano e lo santificano per i doveri che ciascuna li impone in relazione agli altri uomini. – Primo, il sacramento dell’Ordine. Esso dà ai ministri della Chiesa i poteri conferiti agli Apostoli da Nostro Signore Gesù Cristo, poteri che essi dovevano trasmettere ai loro successori, essendo la Chiesa destinata a vivere e ad operare in ogni tempo. Sono il potere di consacrare la Santa Eucarestia alla Messa, di assolvere dai peccati in nome di Cristo, di amministrare gli altri sacramenti, e anche il compito di andare a predicare il suo Vangelo. E oltre ai poteri, il sacramento conferisce anche la grazia corrispondente. La grazia cioè per chi è ordinato Sacerdote di diventar degno di questi poteri, di vivere in modo sì alto da esser davvero in tutto “servo fedele”; e in particolare un aumento di carità, di amore per la persona di Cristo ch’egli rappresenta, per il SS. Sacramento di cui è nominato custode, per le anime alle quali consacra la vita. Gli è data forza per accettare la sua responsabilità con cuor lieto e generoso, per dimenticarsi e, se occorra, per sacrificarsi in unione al Maestro che lo ha scelto e lo ha posto “affinché porti frutto e il suo frutto rimanga”. Chi non è sacerdote non può conoscere appieno il significato di queste grazie; per lui invece esse sono tangibilmente reali, tanto da modificare tutta la sua concezione della vita e anche il suo atteggiamento verso di essa. – Finalmente c’è la famiglia, l’unità da cui sorge la società, la distruzione della quale è sempre stata sinonimo di distruzione della società. La famiglia è sacra per natura, e Gesù Cristo che venne “non a distruggere, ma a compire”, volle renderla ancor più sacra con la sua benedizione e la sua santificazione. Egli ha reso assai più saldo di qualsiasi contratto umano il patto che assicura l’unità della famiglia: l’ha innalzato a dignità di sacramento così che nulla e nessuno possa separare ciò che Dio ha congiunto. Il sacramento del Matrimonio dà agli sposi una fiducia reciproca che nessun legame umano può dare, infonde anche la grazia e la forza di incontrare quegli obblighi dall’adempimento dei quali dipende non soltanto la vita loro, ma quella di tutta la società umana. Dà loro innanzi tutto, purché vogliano accettarla, la grazia di una costante e assoluta fedeltà reciproca e fedeltà al voto che l’amore li spinge a contrarre, la grazia di rispettare la santità del vincolo matrimoniale, malgrado gli istinti della natura corrotta. Li porta a rispettare i diritti di Dio, Signore del cielo e della terra e padrone assoluto della vita, della sua sorgente come della sua fine, affinché gli sposi siano fedeli non soltanto fra loro, ma anche verso quelle creature con le quali Dio potrà benedire la loro unione. – Così, per ogni circostanza importante della vita spirituale, per ogni dovere, individuale o sociale, Nostro Signore ha disposto nei sacramenti un apporto meraviglioso di grazia santificante, e affinché questa sia azionata, in aggiunta alla propria grazia particolare, ogni sacramento dà il diritto ad ulteriori grazie attuali che ci vengon concesse perché siamo animati alla pratica delle speciali virtù richieste da quelle date condizioni o doveri. La vita dei sacramenti è davvero sopra tutto la vita della grazia; comprendere e accettare l’una è comprendere e accettar l’altra, e quella comprensione e quella accettazione fanno la caratteristica dell’anima cattolica. Sono il substrato della sua fede che rendono facile e naturale; le pongono dinanzi il soprannaturale come realtà oggettiva alla quale le cose del tempo e dello spazio non sono che secondarie, le danno aspirazioni che superano ogni aspirazione terrena, e lo stimolo e la capacità di raggiungerne la meta. Sta all’anima che riceve la grazia dei sacramenti e ne è ispirata corrispondere a tanto dono. Si disporrà come meglio potrà ad accogliere le grazie che il suo Signore ed amico le offre, terrà in gran conto la dignità e l’onore che le derivano da ogni sacramento ricevuto, conserverà queste cose nel cuore in tutta la sua vita ordinaria, portando sopra di sé il segno di Cristo. La reverenza per i sacramenti e la premura di ricevere questi mezzi sovrani di salvezza e di unione con Dio e coi fratelli sono così caratteristiche dell’anima cattolica che i nemici stessi se ne rendon conto e, a quelle, la riconoscono.

LA VITA INTIMA DEL CATTOLICO (10)

LA GRAZIA E LA GLORIA (46)

LA GRAZIA E LA GLORIA (46)

Del R. P. J-B TERRIEN S.J.

II.

Nihil obstat, M-G. LABROSSE, S. J. Biturici, 17 feb. 1901

Imprimatur: Parisiis, die 20 feb. 1901 Ed. Thomas, v. g.

LIBRO IX

LA PERFEZIONE FINALE DEI FIGLI DI DIO. QUESTA PERFEZIONE CONSIDERATA DAL LATO DELL’ANIMA

CAPITOLO IV

La natura della visione beatifica. L’oggetto principale e gli oggetti secondari.

1. – Cominciamo con l’oggetto principale di questa visione beata. Cosa vedremo? Ciò che Dio stesso vede in sé. Ciò che Egli è nella sua essenza, cioè l’infinita pienezza dell’Essere, la bontà, la gloria, la santità, la potenza, in una parola, la pienezza della perfezione: perché Egli è tutto questo nell’incomparabile fecondità del suo Essere, e tutto questo è in Lui verità sostanziale, vivente, universale, eterna. Ciò che Egli è nell’intimo della sua vita divina, cioè l’infinita conoscenza che da tutta l’eternità il Padre ha della propria bellezza, e questo Verbo uguale a se stesso in cui si racconta eternamente nei suoi infiniti splendori, immagine infinitamente perfetta di un Padre infinitamente perfetto; ed ancora l’amore infinito di questa bontà, fonte di ogni bontà, da cui sia il Padre che il Figlio producono l’Amore personale, lo Spirito Santo, terza e ultima Persona dell’adorabile Trinità. – Sì, questo è ciò che vedremo senza intermediari, senza distanze, senza sforzi, senza dimostrazioni, faccia a faccia, con un’intuizione modellata sull’intuizione del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo.  Questi grandi misteri, che nessuna intelligenza creata può concepire, e di cui non avrebbe nemmeno il minimo sospetto, se il Figlio, che è nel seno del Padre, non ce li avesse rivelati per mezzo del suo Spirito; questi misteri, dico, il mistero della natura divina, il mistero della generazione eterna del Verbo, il mistero non meno insondabile della processione dello Spirito divino, e infine il mistero di un unico Dio in tre Persone, saranno messi a nudo davanti agli occhi della nostra anima: noi vi tufferemo i nostri occhi e vedremo più di quanto non crediamo. – Non dobbiamo infatti immaginare che Dio possa mostrarsi a chi lo contempli a metà, come in frammenti. Egli è pura unità; pertanto, vederlo è vederlo tutto intero. Io posso ammirare lo splendore esterno di un palazzo, senza sapere nulla delle bellezze che contiene, perché in esso queste diverse parti sono distinte. Allo stato attuale delle mie conoscenze, io posso ancora concepire una perfezione di Dio, senza rappresentarmi le altre, ed anzi ignorandole; ma questo perché Dio, offrendosi a me solo nelle sue immagini, i concetti che io me ne formo sono necessariamente imperfetti e molteplici come esse. Ma, ancora una volta, come potrebbero i beati abitanti del cielo vedere una perfezione divina e non vedere le altre, concepire l’essenza e non contemplare allo stesso tempo ciascuna delle Persone, se queste perfezioni sono con l’essenza un’unica realtà molto semplice e molto indivisibile; e se le Persone, pur essendo distinte tra loro, sono esse stesse assolutamente identiche quanto all’essenza (Concil. Lat. IV, c. “Damnamus“)? Perciò noi vedremo Dio nella sua interezza. – Eppure, non lo vedremo totalmente, cioè non lo comprenderemo nella misura in cui è intelligibile in se stesso. La ragione che i teologi ne danno è sì manifesta che basta formularla per fugare ogni incertezza. Dio è l’Essere infinito e, poiché l’Essere e la verità vanno di pari passo, è la Verità senza limiti e senza fondo. Pertanto, Egli è infinitamente intelligibile e, di conseguenza, nessuna intelligenza infinita è in grado di conoscerlo così completamente come Egli può essere conosciuto. La luce della gloria, per quanto possa portare in alto la virtù della mente creata, non le farà mai superare i limiti essenziali imposti dalla sua natura. Solo Dio può scandagliare l’oceano di luce che è Lui stesso, fino ai suoi più profondi ed intimi recessi. Versatelo, questo oceano, in un qualsiasi altro recipiente che non sia l’immensità dell’Intelligenza divina, ed esso traboccherà da tutte le parti. Ed è per questo che gli spiriti beati saranno eternamente deliziati da una doppia ammirazione: una per l’infinita bellezza che contemplano, e l’altra per gli infiniti abissi in cui il loro sguardo si perde, e che adorano, senza mai poterli penetrare, felici di vedere le meraviglie che abbracciano, non meno felici di sapere che la bellezza che essi amano sia così infinita che solo essa può essere pienamente conosciuta e compresa.

2. – Non solo la visione delle creature beatificate non può essere, come quella di Dio, una perfetta comprensione dell’Essere infinito, ma la misura della visione non è la stessa per tutti. La gloria risponde alla grazia e la beatitudine al merito. Ciò che San Paolo ci dice sulla differenza tra i corpi glorificati è ancora più vero per gli spiriti e le anime. Tra questi ospiti dell’eterno banchetto, ci sono alcuni a cui Dio, il vero cibo delle intelligenze, si comunica più liberalmente che ad altri. Le quote di eredità sono distribuite in modo diseguale ai figli di adozione, perché portano titoli diseguali al sovrano che li dona e che si dona. Questo è ciò che Nostro Signore aveva in mente quando disse ai suoi discepoli prima di lasciarli: « Ci sono molte dimore nella casa del Padre mio » (Joan. XIV, 2). Certo, non ce n’è una che non corrisponda alla magnificenza del Padre che le ha preparate per i suoi figli; ma chi non vede che il posto che riserva agli eroi della virtù debba essere diverso, altro quel posto che attende il Cristiano in cui vede una minore somiglianza con Gesù Cristo, suo figlio primogenito. – Ora so che l’elemento principale della beatitudine, quello che determina la misura di tutte le altre, è la visione della bellezza divina. Ci sono state controversie tra i teologi sull’essenza della beatitudine. Alcuni la mettono nella visione, altri nell’amore o nel godimento, altri ancora in tutti questi atti insieme. Ma ciò che non è e non può essere discusso è che nelle Sacre Scritture, nel linguaggio della Chiesa e nel comune sentire dei fedeli, il primato spetta alla visione. Ovunque il cielo ci viene rappresentato come la città della luce (Apoc., XXI, 23; XXII, 4, 5; Is. LX, 19), e la luce si riferisce all’intelligenza che vede, prima di andare al cuore che ama e gode. « O Signore – gridano i giusti da ogni parte – mostrateci il vostro volto allo scoperto e questa sarà la nostra salvezza » In lucis regione constituasDirige in conspectu tuo viam meam… Dedisti eis lumen ut viderent te ». Offic. defunctorum. « Redemptorem tuum facie ad faciem videas, et præsens semper assistens manifestissimam beatis oculis aspicias veritatem. » Ordo commendat, animæ.). – Ciò che la Chiesa chiede per i suoi fedeli, nell’ora dell’ultimo combattimento, ciò che prega il suo Sposo di concedere loro, quando affida le loro spoglie mortali alla terra, è che, accolti nella regione della luce, possano godere della presenza del loro Redentore e contemplarlo faccia a faccia. Qual è, infine, la suprema speranza di ogni Cristiano che muore nella pace del suo Signore e nel bacio di Cristo? Vedere Dio; vederlo come è in Se stesso, vederlo come è visto da Lui, non più attraverso le ombre, ma nella manifestazione radiosa del suo splendore (1 Joan, IL, 2: 1 Cor., XII, 12; Joan, XVII, 24)? È l’amore, ne convengo, più che la conoscenza, a muoverci alla ricerca e al possesso della bontà sovrana; ma il privilegio della conoscenza è quello di renderci presente questa bontà, di averne la comprensione e, di conseguenza, di renderla veramente nostra. – Se, dunque, la beatitudine è disuguale per i figli del Padre celeste, la visione che essi hanno delle sue infinite bellezze deve avere dei gradi. Da dove può derivare questa differenza, dal momento che la stessa essenza assimila le loro menti come forma intelligibile, dal momento che la stessa Verità sovranamente unica si offre come oggetto alla loro intuizione? Di certo, non si tratta dell’intelligenza stessa. La Regina del cielo, considerata nelle sue facoltà naturali, qualsiasi perfezione il nostro amore riconosca in lei, non è paragonabile agli spiriti angelici. Eppure, chi oserebbe dire o pensare che un Angelo, anche il più sublime dei serafini, possa guardare nel seno di Dio con uno sguardo così fermo, così penetrante, così ampio come questa gloriosa Madre del Salvatore? Il genio non è né il titolo alla ricompensa eterna, né la misura in cui questa ricompensa sia proporzionata. – Le visioni dei beati sono disuguali, perché non partecipano tutti allo stesso modo all’infinita perfezione dell’intelligenza divina; in altre parole, perché la luce della gloria, principio prossimo dell’intuizione di Dio, non è infusa in loro nello stesso grado. Ora – aggiunge San Tommaso d’Aquino – la misura di questa luce non sarà la maggiore o minore virtù della natura, ma la carità. « Perché dove c’è più carità, c’è più desiderio, ed è dalla veemenza del desiderio che nasce la capacità di ricevere il bene perseguito » (S. Thom, I p., q. 12, a. 6; Gent, L. III, c. 58). – Si giungerebbe alle stesse conclusioni se si considerasse la forma intelligibile, il principio necessario dell’intuizione che mette l’anima in possesso di Dio. Infatti, se Dio vede se stesso all’infinito, perché in Lui sta la forma intellegibile che è la sua essenza, e l’intelligenza stessa sono una stessa realtà infinita, quanto più perfettamente questa stessa forma è unita allo spirito creato, tanto più completamente anche la creatura deve partecipare alla comprensione divina. Ora, come abbiamo già dimostrato, ciò che rende l’Essenza di Dio intimamente presente ad ogni creatura ragionevole, e non lo è in maniera immediatamente intelligibile che alle sole intelligenze beate, è la luce della gloria. In essa e attraverso di essa, la verità, la pienezza e la fonte di ogni verità, arriva, per così dire, alla portata del nostro raggio visivo. Pertanto, nella misura in cui questa luce diventa più intensa e brilla più intensamente, gli splendori di Dio diventeranno più intelligibili, non in sé, ma per l’infermità della nostra vista creata. – Ma è comunque possibile che, vedendo Dio nella sua totalità, non lo vediamo totalmente né ugualmente? Ciò che abbiamo appena considerato lo dimostra, anche se possiamo difficilmente immaginarlo. I teologi ed i Santi, per aiutarci a capirlo meglio, hanno cercato esempi tra le cose che, toccandoci da vicino, sono anche alla nostra portata. – Ascoltiamo dapprima i paragoni geniali di San Francesco di Sales: « Questa luce visibile del sole che è limitato e finito, è così completamente visto da tutti coloro che lo guardano, che non è mai completamente visto da nessuno, e nemmeno da tutti insieme. È così quasi come per tutti i nostri sensi: tra molti che ascoltano una musica eccellente, sebbene tutti la sentano pienamente, alcuni non la sentono così bene, né con tanto piacere come altri, a seconda che le loro orecchie siano più o meno delicate. La manna è stata assaporata da tutti coloro che l’hanno mangiata, ma in modo diverso, a seconda della diversità degli appetiti di coloro che la prendevano, e non veniva mai assaporata completamente, perché aveva più sapori diversi di quante fossero le varietà dei gusti degli Israeliti. » (S. Françoise de Sales, Trattato dell’amor di Dio, L. III, c. 13). Non contento di queste analogie, il Santo ci mostra anche i pesci del mare, « che godono della grandezza incredibile dell’oceano » senza aver mai visto tutte le sue spiagge; e gli uccelli, « che si muovono a piacimento nella vastità dell’aria, senza che nessun uccello, nemmeno l’intera razza degli uccelli, abbia mai raggiunto la suprema loro regione » (idem, Ibid.). – Questi esempi e altri dello stesso tipo hanno la loro utilità; ed è questo che mi ha spinto a trascriverli. Ma i nostri Dottori ne propongono un altro meno materiale, e di conseguenza meno lontano dalla verità sublime che si tratta di mettere in luce. Vedete – essi dicono – una di queste verità feconde e magistrali che si trovano alla base delle scienze umane. Tra coloro a cui il principio è conosciuto, che disuguaglianza nella misura dell’intelligenza che possiedono! Laddove l’occhio acuto del genio scoprirà un intero mondo di conclusioni che questa verità conteneva in germe, le menti più ordinarie difficilmente andranno oltre le prime conseguenze, se non si fermano il più delle volte alla semplice comprensione del principio. E questa è un’immagine di ciò che si vedrà nella contemplazione della verità sovranamente piena e sovranamente perfetta, oggetto comune dell’intelligenza divina e degli spiriti beati.

3. – Finora abbiamo parlato solo dell’oggetto principale della visione beatifica; ma questo non è l’unico spettacolo meraviglioso offerto ai figli di adozione. Dio, vedendo se stesso, con lo stesso sguardo eterno, vede tutte le cose in se stesso. È una formula il cui senso ci è conosciuto, perché abbiamo avuto l’occasione di dire ciò che essa esprime. E anche noi, contemplando Dio nella sua gloria, vedremo in Lui spettacoli che nessuna intelligenza può concepire: la loro origine, le loro relazioni, la loro storia, il loro progresso, la loro consumazione. Queste vie della provvidenza, così sante e così rette, ma a volte così misteriose che la nostra debolezza sarebbe tentata di scandalizzarsi, non saranno più un segreto per noi. Ciò che la natura e la grazia hanno di più profondo, ciò che le scienze sacre e profane presentano di più oscuro, tutto questo il più piccolo degli eletti, il più piccolo nel regno dei cieli, lo conoscerà senza errori, incertezze, non per ragionamento, né per dimostrazione, ma per intuizione, nella stessa luce in cui Dio la contempla e la comprende. – Ricordiamo, infatti, che la stessa essenza, l’archetipo primo di tutto ciò che non è Dio, il modello sovranamente perfetto di tutto ciò che, in qualsiasi grado, partecipa o può partecipare all’essere, è per gli eletti, come per Dio, la forma infinitamente intelligibile da cui procede la visione benedetta. Se dunque è, ad esclusione di tutte le altre immagini intellettuali, una ragione sufficiente perché nulla sfugga allo sguardo di Dio, può e deve essere anche osservata ogni proporzione, il principio che più eminentemente supplisce ad ogni somiglianza finita nelle intelligenze glorificate della visione dei beati. – Così l’ordine della nostra conoscenza sarà più felicemente invertito. Qui noi vediamo le perfezioni invisibili di Dio, attraverso l’intelligenza che ci viene data dalle sue opere visibili, che salgono dalle creature al loro Autore. « Essendo usciti dalla terra dell’esilio e diventati cittadini del cielo, non abbiamo più bisogno di questa scala. La creatura celeste ha davanti a sé, a portata di mano, ciò con cui contempla le cose divine. Essa vede il Verbo e, nel Verbo, ciò che è stato fatto per il Verbo. Non è più obbligata a mendicare alle opere la conoscenza dell’operaio. Inoltre, anche per conoscere queste opere, non scende fino ad esse; perché le vede dove si manifestano in una luce incomparabilmente più luminosa che in se stesso » (San Bernardo, de Considerat, L. V, c, 1, n. 1). Sarebbe temerario cercare di definire fino a che punto si estenda questa visione per ciascuno degli eletti, questa visione delle creature in Dio. Diciamo, prima di tutto, che è come la visione stessa di Dio. Vale a dire che il campo è tanto più vasto quanto più la luce della gloria e l’Essenza divina con essa siano penetrate nell’anima per assimilarla all’intelligenza increata. Ciò che è assolutamente certo è che nessuna creatura arriverà mai a conoscere in Dio tutto ciò che l’onnipotenza potrebbe realizzare al di fuori di Lui: infatti, sarebbe tutto un conoscere tutti gli esseri possibili in Dio e comprendere l’onnipotenza o, il che è la stessa cosa, comprendere l’infinita perfezione di Dio. Come posso infatti vedere in Dio tutte le opere che possono uscire dalle sue mani, se non ho conosciuto adeguatamente la sua potenza; e come posso conoscere adeguatamente la potenza senza avere la comprensione di tutte le perfezioni divine con le quali questa stessa potenza è identificata? – Non meno indubbio è che ciascuno degli eletti contemplerà, nella luce divina, tutte le cose esistenti che lo interessano, tutto ciò che può legittimamente desiderare di conoscere. Secondo questa regola formulata dall’Angelo della Scuola, i Santi in cielo hanno in Dio un’intuizione immediata delle preghiere che noi rivolgiamo loro, così come degli onori che rendiamo ai loro gloriosi meriti (S. Thom., 2-2, q. 83, a. 4, ad 2; Suppl. q. 72. a. 1.). La stessa regola ci obbliga a concludere che tutti gli esseri della creazione, tutti i fatti che si stanno svolgendo e si svolgeranno nella lunga serie dei secoli, tutto, dico, fino ai pensieri più fugaci e nascosti, è presente con la luce della gloria allo sguardo umano del nostro Salvatore: perché tutto, senza eccezione, si riferisce a Lui come al Re dell’universo, al Pontefice universale, al Giudice sovrano dei vivi e dei morti (Id. 3 p.), «  Nihil prohibet dicere quod post diem judicit quando gloria hominum et Angelorum erit penitus consummata, omnes beati scient omnia quae Deus scientia visionis novit; ita tamen quod non omnes omnia videant in essentia divina. Sed anima Christi ibi plane videbit omnia, sicut et nunc videt; alii autem videbunt ibi plura vel pauciora secundum gradum quo Deum cognoscent, et sic anima Christi de his quæ præ aliis videt in Verbo, alios illuminabat. ». Id. IV, D. 49, a. 5, ad 25). – Infine, è in virtù dello stesso principio che possiamo credere di essere perennemente sotto gli occhi di Maria, la nostra Madre celeste. Non è forse un desiderio molto legittimo per una madre conoscere, almeno per quanto possibile, tutti i passi, tutti i movimenti, tutti i sentimenti, tutti i bisogni dei propri figli, soprattutto quando questi sono in età più debole e in condizioni di maggior pericolo? Non insisterò ulteriormente su quest’ultima applicazione, perché l’ho sviluppata più a lungo in un’altra opera (Devozione al Sacro Cuore, L. IV, c. 4, p. 311 ss.). – Notiamo, tuttavia, quale consolazione può darci questa dottrina nel dolore causato dalla perdita di coloro che ci sono cari. Morendo nella pace del Signore, ci lasciano per un po’ di tempo; ma grazie all’estasi eterna in cui li mette la vista sempre presente del loro Dio, noi non siamo assenti dal loro pensiero, perché, secondo la misura che il nostro interesse e la piena soddisfazione dei loro desideri richiedono, ci vedono nello specchio infinitamente chiaro della luce divina (ci vedono, dico, con una visione che supera incomparabilmente in chiarezza quella che è adatta agli occhi della nostra carne, e non meno immediata di essa). E quale spettacolo in cielo per ciascuno degli eletti quando, tutto penetrato da questa luce, vi contempla la moltitudine viva e radiosa dell’esercito dei Santi, con le sue bellezze, le sue felicità e la sua gloria! Lì, se vi degnerete di ricevermi, come spero che farete per la vostra infinita misericordia, vi vedrò, o mio Salvatore Gesù, negli splendori della vostra umanità glorificata; avrò perennemente davanti allo sguardo della mia anima sia le piaghe che avete accettato per me, sia quel Cuore che risplende mille volte di più nel vostro petto di quanto non fosse un tempo per l’amata di quel Cuore divino, Margherita Maria. Là, in uno specchio infinitamente puro, vedrò anche Voi, o santa e amabilissima Vergine Maria, Madre del mio Signore e Madre mia, e sarò inebriato dalle vostre perfezioni e dalla vostra bellezza, che è seconda solo a quella di Gesù vostro Figlio. Là, tutto ciò che amo, tutto ciò che ammiro, tutto ciò che potrei desiderare per la presenza e la vista, mi verrà mostrato in una luce incomparabilmente superiore alla luminosità del nostro sole. Dopo di che, chi si stupirebbe sentire i Santi, alla vista della magnificenza che l’arte e la natura mostrano ai loro occhi, esclamare con trasporto: Oh, quanto è brutta la terra per me, quando guardo il cielo! – I santi Dottori non si stancano mai di esaltare la luminosità e l’estensione della conoscenza che Dio comunica ai suoi eletti. « Che cosa possono ignorare, se essi vedono Colui che sa tutto », chiede San Gregorio Magno parlando degli Angeli (Mor. L. II, c. 3). « Come – egli dice – si potrebbe ignorare qualcosa, se tutti vedono insieme Dio, fonte della scienza? » (Id. Hom. 34 in Evang.). « Oh, la mirabile abbondanza, dove non c’è nulla che possa dispiacere, dove si ha tutto ciò che si desidera! Sarebbe una gloria consumata se ci fosse qualcosa di nascosto per noi? Perciò la nostra conoscenza non conoscerà tenebre, e questa è la saggezza che soddisferà pienamente la curiosità dell’uomo. O sapienza, che sarà la conoscenza perfetta di tutto ciò che è in cielo e sulla terra: poiché noi ci abbevereremo della scienza di tutte le cose alla sorgente stessa della Sapienza, in ipso fonte sapientiæ rerum omnium cognitionem bibentes » (S. Bernard., serm. 16, de tripl. genere bonor., n. 7). – È un bello spettacolo che il mondo dei corpi contempla nella luce di Dio; ma è più estasiante quello che in cielo ci offrirà il mondo delle anime. Ricordo una parola di Santa Caterina da Siena: « Se noi potessimo vedere un’anima in stato di grazia, non concependo nulla di più bello, la prenderemmo per Dio stesso, e cadremmo in ginocchio per adorarla. » Bossuet dal suo canto scrive: « Chi vedesse un’anima in cui Dio è per la grazia, crederebbe di vedere Dio stesso, come si vede un secondo sole in un bel cristallo, dove è entrato, per così dire, con i suoi raggi » (Bossuet, Lett. de piété. Lett, 25). – Ora, questo spettacolo noi lo avremo in eterno davanti ai nostri occhi. Tutto sarà pienamente sotto lo sguardo di tutti. Questo è ciò che Sant’Agostino predicava al suo popolo. Allora -egli diceva – i pensieri del cuore saranno messi a nudo. « Che cosa temete? Ora nascondete i vostri pensieri, e avete paura che nessuno li conosca: forse avete in mente cose cattive, vergognose o vane. Ma là, non ci sarà nel vostro cuore null’altro che di bene, di onesto, di puro, di vero. Come quaggiù voi mostrate il vostro viso, così vorrete che la vostra coscienza sia vista. E là, miei diletti, noi ci conosceremo tutti. Pensate che là mi riconoscerete perché mi avete conosciuto qui, e che non conoscerete mio padre, perché non lo avete conosciuto? No, conoscerete tutti gli eletti di Dio. E non si conosceranno dai lineamenti dei loro volti, ma in una luce incomparabilmente più alta… Pieni di Dio, essi vedranno divinamente. Divine videbunt, quando Deo pleni erunt » (S. August, serm. 243; in dieb. paschal, 14, n. 5. San Gregorio Magno ha una parola per caratterizzare questa trasparenza universale dei beati. La Gerusalemme celeste è per lui « Civitas, clara per aurum, per Vitrum perspicua » (Moralia, L. 34, c. 15). Essi vedranno divinamente i loro fratelli nella beatitudine; vedranno anche gli infelici che l’inferno ha inghiottito per sempre nei suoi abissi e i loro tormenti? Sì, risponde Sant’Agostino; ed è in questo senso che interpreta l’ultimo versetto di Isaia: « Ogni carne adorerà davanti alla mia faccia, dice il Signore; e usciranno e vedranno i cadaveri degli uomini che hanno prevaricato contro di me ». Egli dice: « Usciranno, non con un movimento corporeo, ma con la comprensione e con la visione manifesta dei tormenti di coloro che sono fuori dalla Gerusalemme celeste. Sembrerebbe che manchi qualcosa alla perfezione della loro beatitudine e della loro gratitudine, se questo spaventoso contrasto tra loro e i reprobi non facesse sentire quanto sia grande la loro ricompensa e la misericordia che li ha salvati. » (S. August., de Civit. Dei, L. XX, c. 22; S. Thom, Supplem., q. 94, a. 1. – Leggiamo nei dialoghi di Santa Caterina da Siena, c. 42, che Nostro Signore le disse un giorno: « La vista dei dannati aumenterà il godimento della mia bontà nei giusti, perché la luce è meglio conosciuta dalle tenebre e le tenebre dalla luce». – « Ibi dum justi sine fine damnatorum cruciatus conspiciunt, in Dei laudibus crescunt; et quia et in se cernunt bonum quo remunerati sunt, et in illis supplicium quod evaserunt, erit gratiarum actio et vox laudis. »  Riccardo di S. Vittore, Explic. in Cantic. c. 10. P. L., t. 196, pp. 435, sq.).