PERFEZIONE CRISTIANA (2)

PERFEZIONE CRISTIANA (2)

[G. B. Scaramelli S. J.: DIRETTORIO ASCETICO, vol. Primo, Tipogr. e libr. Speirani e Tortone – Torino, 1855

CAPO IV.

Acciocché i desiderii di perfezione conducano effettivamente il Cristiano alla bramata perfezione, è necessario ch’egli non si rallenti mai in essi, ma gli vada sempre distendendo all’acquisto di maggior perfezione.

60. Abbiamo già veduto che la pietra fondamentale, da cui ha da sorgere lo spirituale edificio della cristiana perfezione, sono i desideri di acquistarla, e abbiamo anche dato ai direttori il modo di muovere questa prima pietra e di gettarla nell’anima dei loro discepoli; voglio dire che gli abbiamo somministrato alcuni motivi atti a destare questi santi desideri! negli altrui cuori. Ora ci resta a vedere che questa pietra non forma buon fondamento abile a reggere la fabbrica della perfezione, se non sia sempre stabile, sempre ferma e sempre fissa nel cuor dell’uomo. E per parlare con tutta chiarezza dirò che ci rimane a dimostrare, che i detti desideri, acciocché ottengano il fine della perfezione a cui tendono coi loro ardori, bisogna che mai non cessino, mai non si rattiepidiscano, né si rallentino: ma acquistato un grado di perfezione, si distendano ad un altro grado di ulteriore perfezione; non facendosi questo, mina presto tutto il lavoro già fatto per l’acquisto della perfezione, e presto si ritorna a cadere nelle antiche freddezze.

61. Prima però di mostrare ciò con l’autorità voglio provarlo con la ragione, acciocché i detti dei santi padri e delle sacre scritture non sembrino al lettore esagerati. La perfezione del Cristiano non ha un certo termine che non si possa passare, né proceder più oltre; sicché solo quello possa dirsi perfetto che arrivi al detto termine, né possa dirsi tale chi non vi giunga. Hanno bensì questi limiti e questi confini le arti meccaniche e liberali: poiché il fabbro, l’architetto, il pittore, se arrivano a formare esattamente le loro manifatture secondo le regole che sono prescritte dalla loro facoltà, possono dirsi perfetti nella loro arte, e appena rimane loro altra perfezione ulteriore da conseguire. Ma non ha già questi confini la perfezione cristiana; mentre consistendo essa, come abbiamo di sopra mostrato, nella carità, può crescer tanto, quanto è il merito di quel gran Dio ch’ella ha per oggetto. E perché il merito, così dice l’Angelico, che ha Iddio di essere da noi amato, è infinito, così può sempre più in infinito dilatarsi la carità con le sue fiamme e coi suoi santi ardori (2, 2, quæst. 24, art. 7, in corp.). Ond’egli ne deduce ciò che noi andiamo dicendo, che in questa vita non può ella avere alcun termine. E conseguentemente né pure può aver termine la perfezione di nostra vita. Lo stesso dico della nostra perfezione istrumentale; perché o questa si consideri in quanto rimuove gl’impedimenti della carità, con le mortificazioni delle passioni e dei sensi; già né pur essa può aver termine, perché siccome non possono mai le nostre passioni pienamente estinguersi, così non deve cessarsi mai dal mortificarle e dal reprimerle; o si consideri in quanto una tal perfezione è positiva disposizione all’aumento della carità col perfetto esercizio delle virtù; e già non può aver fine, potendosi le virtù sempre più raffinare. Dunque se la nostra perfezione non può aver alcun limite, né può consumarsi in alcun termine, è necessario ch’ella stia in un continuo progresso di virtù morali e in un incessante accrescimento di carità. Onde non dovrà quello riputarsi perfetto, che giunto ad un certo grado di carità, ivi si fermi; ma quello bensì, che dopo aver superati bastevolmente gli ostacoli che fan guerra alla carità, sempre più si raffini in virtù e sempre più s’infiammi nel divino amore. Dunque, inferisco io, acciocché desideri di perfezione effettivamente ci portino alla perfezione, non devono mai illanguidirsi, ma dilatarsi sempre ed innalzarsi a maggior perfezione; poiché siccome non ha termine alcuno la perfezione a cui aneliamo, così non devono avere alcun limite le brame di conseguirla.

62. E a questo appunto volle alludere Salomone con quelle parole: la strada della perfezione, che è appunto la via per cui camminano i giusti, cresce sempre in splendore ed in lustro di maggiori virtù, finché giunga a quel giorno di perfetta chiarezza che solo in paradiso si gode (Prov. cap. IV, 18). Lo stesso dice il profeta reale: quello è beato che già ha risoluto nel suo cuore di andare sempre salendo in perfezione, finché dimora in questa valle di lagrime; giacché con la benedizione ed aiuto del divino legislatore andrà sollevandosi da una virtù in un’altra maggiore, finché giunga a vedere svelatamente la faccia di Dio nella beata Sionne del paradiso. (Ps. LXXXIII, 9). S’osservi in questo testo che il chiamarsi beato quello che con le brame del cuore aspira sempre a maggior perfezione, è lo stesso che dirlo perfetto; perché nella perfezione consiste la felicità terrena, e ne dipende l’eterna beatitudine. Chi è giusto, dice Iddio nell’Apocalisse, si faccia più giusto; e chi è santo, divenga santo ogni giorno più (Apoc. cap. XXII, 11). Tanto è vero che non ha termini la perfezione cristiana, e che quello è più perfettoche aspira a maggior perfezione.

63. Vediamo quanto ciò sia vero nel grande apostolo delle genti san Paolo. Non si può certamente rivocare in dubbio, ch’egli sia stato uno dei più gran santi e quasi una stella di prima grandezza nel cielo di s. Chiesa. Quante persecuzioni, quante pene, quanti travagli sofferti per Gesù Cristo! che carità accesa, che vampe d’amore, che zelo ardente del di lui onore! quante rivelazioni, quante visioni, quante estasi e rapimenti fino al terzo cielo! Eppure il santo apostolo, ricco di si grandi virtù e di eccelsi doni, non si reputa ancor perfetto, e se ne protesta (ad Philip, cap. III, 12). Confessa il santo d’essere stato lapidato, più volte flagellato, d’essere stato più volte naufrago in mezzo al mare, balzato notte e giorno dalle onde in questa parte e in quella (ad Corint. epist. 2, cap. 41). Confessa le sue molte vigilie, i suoi molti digiuni, la fame, la sete, la nudità ed i rigori del freddo tollerati per amor di Gesù. Palesa d’essere stato rapito in paradiso vivendo ancora in carne mortale. Arriva fino a dire, ch’egli non vive più in se stesso, ma vive solo in Gesù, trasformato in lui per amore. Ciò non ostante poi si dichiara che non gli pare d’essere ancora perfetto. Ma se tutte queste cose, o dottor delle genti, non vi bastano per essere perfetto, in qual cosa riponete voi l’acquisto della vostra perfezione? in qual cosa stabilite voi il colmo della vostra santità? Eccolo: Sequor autem, si comprehendam. L’andare avanti, quanto mi è più possibile nella via dell’istessa perfezione: distendermi sempre coi desideri e con le opere ad ulterior perfezione. Ed in fatti la glossa su queste parole così riflette al nostro proposito: nessun fedele ad esempio di questo gran santo, ancorché gli paia di aver fatto gran profitto nello spirito, dica mai: basta fin qui: perché parlando in questo modo esce dalla strada della perfezione, prima di giungere al fine della sua eterna beatitudine.

64. Né diversamente parla su questo punto s. Agostino: non è quello ottimo, cioè perfetto, che giunto a qualche grado di perfezione ivi si ferma, ma quello bensì è perfetto che sempre tende a Dio, nostra vita inalterabile, con le più fervide brame del suo cuore, e sempre più strettamente si unisce a lui (in lib. de doct. Christ.)  E più chiaramente s. Bernardo: una applicazione indefessa al proprio profitto e un conato continuo per conseguire la perfezione, si reputa essere l’istessa perfezione. Or se con lutte le forze del suo spirito l’attendere alla perfezione è lo stesso che essere perfetto, certamente il non volervisi seriamente applicare, sarà un mancare dalla perfezione. Dove sono ora quelli che dicono: ci basti il profitto ch’abbiamo finora fatto: non vogliamo già essere migliori dei nostri predecessori (epist. 253 ad Abat. Garivum)

65. il lettore forse mi taccerà d’incoerenza; perché avendo detto nel precedente articolo, che la perfezione cristiana consiste nella carità, par che ora mi ritratti riponendo con s. Paolo e coi precitati santi dottori tutti la sua sostanza in un progresso ed avanzamento continuo nelle virtù e in un desiderio indefesso del proprio profitto. Ma s’inganna egli certamente se ciò pensa; perché quello che ho detto prima, punto non discorda da ciò che vado presentemente dicendo. È vero che l’essenza della nostra perfezione è la carità, e gli instrumenti per conseguirla sono le virtù morali ed i consigli. Ma richiede ella, come condizione necessaria, senza cui non può lungamente sussistere, che la carità e tutte le altre virtù vadano sempre crescendo e si vadano ogni giorno più aumentando; perché non prendendo questo stato di consistenza, già tutta la perfezione va a terra, si distrugge e muore. E qui voglio alla ragione di sopra addotta aggiungerne un’altra che metta in chiaro la presente dottrina. Mostrai di sopra che per essere perfetto bisogna sempre distendere i desideri a maggior perfezione, perché la perfezione cristiana non ha termine; ora voglio persuadere con un’altra ragione lo stesso, ed è, che non solo la perfezione non ha limite che la ristringa, ma non può né pure avere stato di permanenza che la ritardi; acciocché perisca affatto, basta che si fermi e non vada più avanti.

66. Chi non sa, chi non prova la guerra atroce che abbiamo tutti entro noi stessi? Tanti sono i nemici interni che ci si ribellano contro, quante sono le passioni che si sollevano ne’ nostri animi, e coi loro moti sregolati ci spingono al peccato e ci portano all’eterna ruina. Né sapete decidere quali siano più veementi, quali siano più pericolose, se la limosina o l’avarizia; se l’amore o l’odio; se la presunzione o la disperazione; se l’ambizione o l’invidia. Questo solo è certo, che una sola tra tante passioni che ci predomini basta per trarci fuori dalla strada della perfezione e portarci per la via della perdizione al precipizio. Né men forti sono i nemici che abbiamo al di fuori in tanti demoni che per ogni parie ci circondano, in ogni luogo c’investono con le loro tentazioni e ad ogni passo ci tendono lacci al piede per farci cadere. Sicché siamo in una somma necessità di star sempre combattendo con le armi delle mortificazioni, delle virtù, e specialmente d’una fervente carità per reprimere gli assalti dei nemici che abbiamo dentro, e per rigettare gli attacchi dei nemici che abbiamo attorno. Or se mai accada che alcuno, parendogli d’aver fatto già gran profitto, voglia fermarsi in quel grado di perfezione in cui si trova, e però si rallenti nell’esercizio delle sante virtù e nel fervore della carità: chi non vede che rimarrà da tanti avversari in molte parti ferito e spinto fuori del sentiero della perfezione? Un esercito che vada generoso all’assedio d’una piazza risoluto d’impadronirsene, se incontri li nemici per istrada, può egli forse fermarsi senza andare avanti o senza tornare indietro? No certamente; perché ha a fronte chi lo respinge, chi l’urta; o bisogna che faccia forza al nemico, e con grande animo vada avanti all’impresa: o bisogna che si rivolga indietro e sidia bruttamente alla fuga. Così chi ha incominciato a salire il monte della perfezione non può fermarsi in mezzo alla strada, perché ha troppi nemici attorno che l’assaltano ed urlano in mille guise. E necessario che si vada sempre avanti, reso animoso dalla forza dei suoi desideri, o che illanguidito nelle sue brame, ceda ai nemici e torni indietro.

67. E però dice bene s. Bernardo: che il non procedere avanti nella perfezione è senza fallo un rivolgersi indietro; perciò niuno vi sia che dica: mi bastano i progressi che ho fatto, voglio rimanermene qui: sono contento di esser oggi qual fui ieri e nei giorni scorsi. (Ep. 342) E apporta in conferma di tal verità la scala di Giacobbe, vero simbolo della cristiana perfezione, mentre niuno v’era in quella che stesse fermo e fisso sullo stesso gradino; ma chiunque non saliva in alto, discendeva al basso. Quindi inferisce che volendo alcuno fermarsi in qualche grado di perfezione, tenta ciò che non è possibile ad ottenersi in questa mistica scala, onde gli converrà necessariamente cadere al basso. Ma più forzoso ed efficace è il discorso con cui il predetto mellifluo in un’altra sua lettera investe un monaco rattiepidito nei desideri di maggior perfezione; poiché venendo con esso lui a tu per tu, come suol dirsi, così gli parla: dunque, o monaco, tu non vuoi andare avanti, né brami maggior perfezione? dunque tu vuoi tornare indietro e perder ciò che hai acquistato. Oh questo no, non sia mai! Dunque che pretendi tu? Pretendo vivere così e restarmene in quello stato di perfezione a cui sono già arrivato; non voglio essere peggiore, né bramo divenir migliore. Dunque vuoi ciò che non può essere e non è stato giammai. E qual cosa v’è in questo mondo che stia sempre in uno stesso essere? E dell’uomo istesso non dice lo Spirito Santo che è fugace ed instabile come l’ombra, e che non rimane mai in un medesimo stalo? (Epist. 253 ad Abat. Garivum). E altrove assale il santo dottore queste persone tiepide e rimesse nei desideri della loro perfezione con la parità degli uomini mondani che mai non si saziano dei beni caduchi, a fine di farle in questo modo confondere e risvegliarle col loro esempio: quale ambizioso, dice loro, rinveniste mai che ottenuta una dignità non aspirasse ad un’altra maggiore (Ep. 341)? Che dirò degli avari che sempre sono avidi di maggiori ricchezze? che dei voluttuosi che non sono mai sazi dei loro piaceri? che dei vanagloriosi che vanno sempre in cerca di maggiori onori? Or se i desideri di questi verso i beni frali della terra sono insaziabili, che vergogna è la nostra, che siamo meno bramosi dei beni spirituali e meno avidi della nostra perfezione? Di queste forti ragioni e di questi giusti rimproveri si serva il direttore per risvegliare in sé e negli altri desideri di maggior perfezione, e per mantenerli sempre vivi; giacché raffreddandosi questi, la persona cessa dall’operare virtuosamente, non va avanti, si ferma nel cammino della perfezione, e fermandosi dà indietro, fino a cadere talvolta in precipizi, come abbiamo già chiaramente mostrato.

68. Confesso il vero, che mi hanno fatto sempre nell’animo grande impressione le industrie ammirabili che praticò Iddio per mantenere sempre accese nel cuore del celebre Pafnuzio le brame di maggiore e maggior perfezione, per cui aveva già stabilito di condurlo alle più alle cime della santità (Vitae PP., vita 16 s. Paphnutii). Viveva egli nei deserti della Tebaide, a niuno di quei santi solitari inferiore, e forse a tutti superiore nell’austerità della vita, nell’assiduità dell’ orare, nella illibatezza della coscienza e nello esercizio di tutte le virtù. Però vedendo Iddio che non v’era tra quei deserti chi potesse dargli con il suo esempio stimoli efficaci a maggior perfezione, si servì d’altri modi inusitati e strani per infiammarlo nei desideri di maggior profitto. Gli pose nel cuore una certa brama di sapere chi vi fosse nel mondo che lo pareggiasse in perfezione; quando poi stava già in atto di chiedere al Signore questa notizia, gli spedì un Angelo dal cielo con questa ambasciata: che andasse nella città vicina, ove avrebbe trovato un suonatore a lui eguale in meriti ed in santità. Rimase il santo attonito e stupefatto a queste parole, prese il suo bastone, corse veloce verso la città in cerca del suonatore, e ritrovatolo in una pubblica piazza in mezzo ad un circolo di gente sfaccendata, lo trasse in disparte e l’interrogò del tenore della sua vita. Io, gli rispose quello, sono un gran peccatore; già fui ladro di professione, ed ora col suono e col canto vado trattenendo il popolo, e in questo modo mi procaccio il vitto necessario per sostenere onestamente la vita. Con tutto ciò, esaminatolo il santo esattamente, trovò che nel progresso della sua vita aveva fatti vari atti di eroica virtù; posciachè, presa una volta dai ladroni suoi compagni una vergine consacrata a Dio, già stavano i scellerati per toglierle con la roba che seco aveva anche il prezioso tesoro della verginità; egli però, postosi di mezzo, la tolse a viva forza dalle loro mani e la ricondusse illibata ed intatta alla sua abitazione. Un’altra volta imbattutosi tra luoghi deserti in una donna di vago aspetto che riempiva di gemiti e di pianti tutta quella solitudine, interrogolla della cagione del suo dolore; quella rispose che si trovava disperata, perché eranle stati posti in prigione per debiti i figliuoli ed il marito, né aveva modo di ricuperare a quelli la libertà e di mantenere a se stessa la vita; egli in sentir questo non solo non fece alcun oltraggio alla di lei onestà, ma condottala nella sua grotta, ristorolla col cibo e poi donolle trecento scudi acciocché con essi liberasse i suoi congiunti dal carcere e se stessa da tante sciagure. Non è facile a dirsi quali desideri di perfezione accendesse nel cuore di Pafnuzio questo fatto; si vergognò di se stesso vedendo che in tanti anni di vita solitaria non era giunto ad eguagliare in santità un pubblico suonatore; si prefisse un esercizio più alto e più arduo di virtù; moltiplicò i digiuni, prolungò le vigilie, si diede ad uno studio più indefesso di orazioni, ad una mortificazione più esatta, ad una illibatezza di coscienza più fina, ed a procurare con maggior ardore di prima i suoi spirituali avanzamenti. Dopo alcuni anni d’una tal vita, tornò Iddio a risvegliargli nel cuore l’antica brama di sapere chi gli fosse simile in virtù, ed egli tornò a porgerne a Dio replicate preghiere. E questa volta parlandogli il Signore da se solo nell’intimo del cuore, gli disse che nella città vicina avrebbe trovato un ammogliato ne’ meriti simile a sé. Andò egli per chiarirsi del vero, e trovò un uomo secolare che da trent’anni indietro manteneva castità coniugale con la sua consorte, che era tutto dedito ad opere di carità verso i poveri e verso i pellegrini, e che praticava altre molte belle virtù. Questo esempio di rara bontà, come dice l’istoria, l’infiammò di maggiori desideri, e fece che tutto si consacrasse ad esercizi di perfezione maggiori di quelli che fin allora aveva praticati, nulla stimando le sue passate opere; mentre potevano stare al paragone delle virtù di chi viveva imbarazzato negli affari del secolo. Finalmente tornò dopo alcuni anni a fare a Dio la stessa domanda, e n’ebbe simile risposta, cioè che l’eguagliava nei meriti un certo mercatante, che già veniva verso la sua cella per visitarlo; e quindi seguirono desideri più accesi ed opere più eccellenti di perfezione. Finché consumato in tutte le virtù, tornò di nuovo a comparirgli l’Angelo del Signore in compagnia dei profeti ed altri spiriti beati, da cui accolto il di lui spirito fu portato alla celeste patria e collocato in alto posto, proporzionato alla sua gran santità. Insomma volendo Iddio innalzare Pafnuzio ad un sublimissimo grado di perfezione, altro non fece che risvegliare in lui con modi tanto più efficaci, quanto più insoliti, nuove brame e maggiori desideri di quella perfezione di cui volevalo arricchire. Dia dunque sempre il direttore ai suoi penitenti che vede disposti quel ricordo che s. Antonio andava sempre ripetendo alle orecchie dei suoi discepoli, come riferisce s. Atanasio: riputarsi sempre principiante e senza mai rattiepidirsi, andar sempre aspirando a maggiori progressi nello spirito (In vita s. Antonii) . Ma perché i mezzi praticati da Dio con s. Pafnuzio per accrescere in lui la brama di perfezione sono straordinari, né devono da noi praticarsi (non essendo lecito senza specialissima ispirazione fare a Dio quelle domande ch’egli replicate volte gli fece); perciò darò io ora mezzi ordinari, propri e connaturali per mantener sempre vivi e dilatare sempre più questi santi desiderii.

Capo V

Si propongono i mezzi per mantenere svegliati e per ampliarei desiderii della propria perfezione.

69. Primo mezzo sia l’uso frequente delle sante meditazioni. Nelle mie meditazioni, diceva il salmista, mi si accende nel cuore un santo ardore, che alla virtù mi stimola ed alla perfezione mi accende. E nella meditazione si ha da accendere anche ne’ nostri animi quel santo fuoco di desideri che ci svegli e ci sproni ad avvantaggiarci nel nostro spirituale profitto, perché nella meditazione si conosce il gran merito che ha Iddio di essere da noi amato; la grandezza dei suoi benefizi e del suo amore che ha tanta forza di provocare il nostro cuore alla corrispondenza d’un reciproco amore; l’obbligo d’imitar Gesù Cristo e renderci ogni giorno più perfetti con la di lui somiglianza. Nella meditazione si scorge il bello della virtù, e l’anima se ne invaghisce; si scopre l’orrido dei peccati, la deformità dei difetti, e l’anima ne concepisce orrore. Nella meditazione s’intende la grandezza dei beni che ci sono apparecchiati nella patria beata, e la grandezza dei mali che ci stanno preparati colaggiù negli abissi; onde l’anima per l’orrore di questi e per l’amore di quelli si accende in desiderio delle sante virtù. Insomma la meditazione è la fucina in cui il cuore umano depone ogni sua durezza s si ammollisce, si riscalda, s’infiamma di sante brame. Io non voglio trattenermi in questo punto, perché avrò in breve a parlare lungamente della meditazione in un intero articolo. Voglio solo raccontare un fatto in prova di tal verità, e sarà uno tra mille che a questo proposito potrei riferire (P. Greg. Rosig. not. memor. degli eserc. cap. 5, § 1). Si trovava ristretto nelle carceri di Castiglia un sacerdote, apostata da due religioni, profanatore dei sacramenti, oltraggiatore di cose sacre, reo di mille scelleratezze e degno di mille morti. Non isdegnò la divina misericordia di picchiare con le sue ispirazioni alle porte d’un cuore sì empio, e con battute sì forti, che quello venne a riscuotersi dal suo profondo letargo e vedere la sua perdizione. Chiamò subitamente un padre della mia compagnia, e palesandogli lo stato infelicissimo della sua anima, lo pregò di consiglio, di rimedio e di soccorso. Il padre vedendo le grandi e molte enormità in cui era colui precipitato, stimò che per ridurlo sulla strada della salute ed anche della perfezione, da cui aveva a poco a poco deviato, altro rimedio non vi fosse che porlo nella meditazione delle massime principali di nostra fede. E acciocché avessero queste forza maggiore di far breccia nel di lui cuore, volle proporgliene a meditare con quel bell’ordine con cui 1’espone s. Ignazio nei suoi esercizi. Né andò fallito il suo disegno, perché alle prime meditazioni che quello fece, diede subito in uno spirito di altissima penitenza; cominciò a digiunare frequentemente e tre volte la settimana in pane ed acqua; vestì sulle nude carni un orrido cilizio, e si cinse attorno al collo una ruvida fune; ogni notte per lo spazio d’una mezz’ora faceva con aspra disciplina un sanguinoso macello delle sue carni; nella confessione generale, che poi fece con gran profluvio di lagrime, si protestò che qualunque morte acerba e infame fossegli stata assegnata dalla giustizia umana, era inferiore alle sue scelleratezze, e che però non avrebbe adoperato alcun mezzo per ischivarla. Ma perché il fervore con lo studio del meditare si accendeva sempre più nel suo cuore, non contento del suo ravvedimento, si diede a predicare ai prigionieri; e sebbene ebbe sul principio a patire molti scherni ed irrisioni, contuttociò con la forza delle sue parole e con le elemosine che loro distribuiva di tutto ciò che gli era trasmesso per suo sostentamento e per suo uso, ottenne di convertirne molli, altri di migliorarli, e in altri d’introdurre con l’uso delle meditazioni, dei sacramenti e delle penitenze una qualche forma di perfezione. Sicché le carceri che prima sembravano un serraglio di fiere indomite, si videro cangiate in un oratorio di penitenti, in cui, invece di bestemmie, spergiuri e parole oscene, altro non si udiva risuonare che cantici spirituali, rosari, litanie e orazioni devote. Sparsa intanto la voce d’una conversione così ammirabile, e giunta alle orecchie dei giudici, pensarono questi di perdonargli la morte pur troppo da lui meritata. Ma egli porse tanti memoriali per esser trascinato al patibolo e condannato alla morte, quanti ne avrebbe dati ogni altro per isfuggirla. Quelli però contemperando la misericordia, non la giustizia, lo condannarono alla galera, acciocché forse risvegliasse in quelle navi la pietà che aveva sì felicemente introdotta nelle prigioni. La sentenza però non ebbe effetto, perché sorpreso da una cocentissima febbre, in breve si ridusse all’estremo; e tra’ sentimenti tenerissimi d’una gran contrizione e d’una viva confidenza in Dio spirò dolcemente l’anima, Or io su questo fatto la discorro così: se la meditazione delle verità cristiane ebbe forza di mutare un cuore il più perfido forse che allora fosse nel mondo, e da uno stato di vera dannazione ridurlo a perfezione di vita, non avranno poi simili meditazioni la virtù di tenere desto, svegliato, acceso un cuore ben disposto che già brama la sua perfezione, che già si esercita in quella, purché voglia però incessantemente praticarla? Non mi pare certamente che se ne possa dubitare. Questo dunque reputi il direttore il mezzo principale per mantener sempre vivi e per accrescere i desideri di perfezione nei suoi discepoli, l’esercizio stabile e frequente del meditare.

70. Secondo mezzo. Rinnovare sempre il proposito di tendere alla perfezione come se allora s’incominciasse. Queste risoluzioni e rinnovazioni di volontà tengono svegliata l’anima, acciocché non s’addormenti e non si stanchi di correre l’arringo della perfezione. Questo era il consiglio che dava l’Apostolo a quei novelli Cristiani della primitiva chiesa, che dal culto sacrilego de’ simulacri erano passati al vero culto di Gesù Cristo per mezzo del santo Battesimo: rinnovatevi con lo spirito della vostra mente (Renovamini spiritu mentis vestræ (ad Ephes. cap. IV, 45). E come si fa, direte voi, con la mente la rinnovazione dello spirito? Eccolo: replicare sempre con la sua mente e con la sua volontà la risoluzione di tendere alla perfezione, come se la persona non avesse mai incominciato, né mai posto mano ad un sì bel lavoro; e specialmente di scendere a quelle virtù e mortificazioni particolari di cui ciascuno si conosca bisognoso per il suo profitto, risolvendo frequentemente di volersi esercitare virilmente in quelle. Così faceva il santo David, come egli confessa di se stesso (Ps. LXXVI, 11). Quantunque il santo profeta camminasse già per le alle cime della perfezione, contuttociò, come se fosse un principiante imperfetto, diceva spesso seco stesso: oggi voglio incominciare a servire Iddio: oggi voglio dedicarmi interamente al divino servizio. Questo fu l’ultimo ricordo che s. Antonio diede ai suoi monaci, mentre gli facevano corona intorno al letto, stando egli vicino a morire, come racconta s. Atanasio: figliuoli miei, io già m’avvio per la strada che hanno battuta i miei predecessori: già Iddio mi chiama a sé, ed io stesso bramo già di trovarmi tra i celesti cori; ma ecco, viscere mie (così chiamava egli i suoi figliuoli spirituali), non vogliate perdere in un subito le fatiche che avete in tanti anni sofferte; e però figuratevi sempre, che ogni giorno della vostra vita religiosa sia il primo in cui intraprendiate la carriera della perfezione, acciocché con queste nuove risoluzioni cresca la fortezza delle vostre volontà in andare avanti e in profittare nelle sante virtù Questi ricordi applichi a sé e dia ai suoi discepoli il direttore, se vuol vederli avvantaggiati in perfezione, e soprattutto se non vuol vedere, come diceva quel gran santo ai suoi monaci, perdute prestamente le loro passate fatiche.

71. Terzo mezzo. Non pensar mai al bene che si è fatto, ma bensì al bene che resta da farsi ed alle virtù che rimangono da conseguirsi. Questo mezzo ce l’insegna s. Paolo e ci provoca a praticarlo col suo esempio: fratelli miei, io non istimo già di essere giunto al termine della mia perfezione e di essermene di già impossessato; dimenticandomi però di tutto il bene che ho fatto per il passato, mi distendo con tutte le forze del mio spirito al conseguimento di quel bene che mi resta da fare, e sieguo a correre con alacrità l’arringo della perfezione, per arrivare all’acquisto di quel pallio che Iddio chiamandomi a sé già mi ha destinato. E poi aggiunge queste parole: chiunque è perfetto, abbia questi stessi miei sentimenti (Phil. III, 13-14). S. Gio. Crisostomo spiega questo testo divinamente ed opportunamente al nostro proposito. Dic’egli che il ripensare al ben fatto partorisce due mali: primo, ingenera compiacenza vana e ci rende a poco a poco superbi ed arroganti; secondo, ci fa essere pigri al bene, perché rimirando con occhi di compiacenza il bene operato ne’ tempi scorsi, rimaniamo di noi stessi contenti e paghi, né aspiriamo più ad altro bene maggiore (hom. 11, in epist. ad Philippenses). Quindi deduce, che se l’Apostolo, dopo mille pericoli di perder la vita, a cui soggiacque; dopo tanti travagli e patimenti capaci di recargli mille volte la morte, si gettò il tutto dietro le spalle senza pensarci più; quanto più dobbiamo ciò fare anche noi che non siamo sì ricchi di meriti e di virtù.

72. Dopo esserci dimenticati del passato, seguita a dire il santo dottore, dobbiamo, ad esempio di s. Paolo, metter l’occhio nel futuro, come fanno quelli che corrono, che non guardano al viaggio che hanno fatto, ma a quello che loro resta da fare; e in questo modo prendono maggior lena. Tanto più che il pensare al ben fatto nulla giova, se questo non si rende compito e perfetto con l’aggiunta di ciò che resta a farsi

73. Né contento il Crisostomo di aver data una spiegazione tanto propria alle sopraccitate parole di s. Paolo, toma a farvi sopra nuove e più accurate riflessioni, acciocché ci s’imprima altamente nell’animo questo aforismo di spirito, che tanto giova ai progressi della nostra perfezione. Riflette dunque, che l’Apostolo non disse già: io non reputo degne di stima, io non faccio alcun conto, io non rammemoro le opere buone della mia vita passata; ma disse: io me ne sono affatto dimenticato, perché questa totale scordanza è appunto quella che ci rende diligenti e solleciti al bene, e aggiunge ai nostri animi una certa alacrità e prontezza all’esecuzione di quanto ci resta ad operare per l’acquisto della perfezione s . Inoltre riflette su quelle parole, extendens me ipsum, e dice che in quelle si esprime uno sforzo molto speciale che si faceva s. Paolo per giungere a gradi di più alta e più eminente perfezione. Perchè siccome un uomo che corre, per il desiderio che ha di arrivar presto al termine, si distende dalla parte anteriore con tutta la vita, e getta avanti i piedi, la fronte e le braccia per accelerare il suo corso; così il santo con uno sforzo continuo di desideri dilatava il suo spirito e lo distendeva ad opere di maggior perfezione; e in questo modo correva con grande alacrità e con gran fervore nella via del Signore. E cosi abbiamo a correre ancora noi, se davvero alla perfezione aspiriamo. Finalmente si rifletta, che questo dimenticarsi del bene operato, questo distendersi con tutto il vigore dello spirito al bene che ci resta da operare, non solo, secondo l’Apostolo, è mezzo per conseguire la perfezione, ma è la perfezione istessa (come notammo anche noi nel precedente capitolo), perché conclude dicendo: chiunque è perfetto procede in questo modo. E in questo senso appunto spiega tali parole s. Bernardo: chiunque brama dunque d’essere perfetto   cristiano, metta in totale dimenticanza quanto ha fatto di bene per lo passato; tenga sempre l’occhio della mente e tutto l’affetto del cuore fisso nel bene che gli rimane a fare nel tempo avvenire.

74. Quarto mezzo. Pensare spesso ai difetti presenti ed ai peccati passati. Ho detto nel numero precedente, che per mantener vivi i desideri di perfezione non bisogna andar considerando il bene fatto. Qui dico che è necessario pensare al male fatto e che giornalmente si va facendo, e insieme alle virtù di cui siam privi; perché tali pensieri ci riempiono di un santo interno rossore, ci destano nel cuore desideri della virtù di cui ci vediam privi, brame di mortificazione in tutto ciò in che ci conosciamo difettosi; e  però ci sono d’incitamento e di stimolo alla perfezione. Sentiamo ciò che dice s. Agostino su questo particolare: fratelli miei, se volete far gran profitto, esaminatevi spesso senza inganno, senza adulazione; giacché non v’è dentro di voi alcuno di cui abbiate a vergognarvi; in realtà vi è Dio, ma a lui piace l’umiltà e la bassa cognizione di te stesso; fa che sempre ti dispiaccia di essere quel che tu sei, se vuoi arrivare ad essere quel che non sei (de verbis Apost. Ser. 15); cioè, se tu vuoi conseguire la perfezione che non hai, è necessario che non sii mai di te contento, ma conosca i tuoi difetti, i tuoi peccati, i tuoi errori, la mancanza delle virtù, la ribellione delle tue passioni, e che te ne sti in una certa scontentezza di te stesso; ma però umile, quieta, pacifica e piena di confidenza in Dio: perché questa è quella che ti dà stimoli al cuore, che ti accende in desideri di migliorarti e di essere quel che ancora non sei E subito aggiunge: in alcuna cosa per mancanza di cognizione rimani soddisfatto di te stesso, è certo che ivi te ne rimarrai fermo, senza curarti di ascendere a maggior perfezione. Se poi mai t’inducessi a dire: mi basta la perfezione che ho acquistata, già sei perduto. E perché? perché non potrai rimanere (come ho di sopra provato) in quel grado di perfezione: ti converrà, voglia o non voglia, tornare indietro, e andare passo passo e senza avvedertene in perdizione. Dunque, conclude il santo, cammina sempre avanti, aggiungi sempre qualche cosa di più, fa sempre maggior profitto; non ti fermar mai nella via della perfezione, non voler deviare, né tornare indietro. E per ottener questo, altro modo non v’è che mantener sempre vivi, e distendere sempre i desiderii a maggior perfezione, per i mezzi che ho dati nel presente capo.

Autore: Associazione Cristo-Re Rex regum

Siamo un'Associazione culturale in difesa della "vera" Chiesa Cattolica.