PERFEZIONE CRISTIANA (1)

PERFEZIONE CRISTIANA (1)

[G. B. Scaramelli S. J.: DIRETTORIO ASCETICO, vol. Primo, Tipogr. e libr. Speirani e Tortone – Torino, 1855

ARTICOLO II

Il primo mezzo per l’acquisto della perfezione cristiana deve essere il desiderarla, né mai rallentarsi in tali desideri, ma distenderli sempre a maggior perfezione. Si propongono i motivi con cui risvegliare ed accrescere tali desideri.

CAPO PRIMO.

Si mostra che il desiderio della perfezione cristiana è mezzo necessarissimo per acquistarla.

43. Dice s. Agostino, che la vita d’un buon Cristiano è un continuo desiderio della sua perfezione (Tract. 14 in 1 epis. Ioan.): perché s’egli non nutrisse sempre nel cuore queste sante brame, sarebbe bensì Cristiano, ma non già buon Cristiano. Conciossiachè i desiderii, come insegna l’Angelico, sono quelli che dispongono i nostri animi e gli rendono abili e apparecchiati a ricevere quel bene che è loro proporzionato (p. 4, qu. 42, art. 6 in corp.). E però siccome non vi fu mai uomo nel mondo che conseguisse la perfezione di alcun’arte, o sia meccanica, o liberale, se prima non bramò efficacemente di conseguirla, così non vi fu né vi sarà mai nella chiesa di Dio alcun fedele che arrivi a possedere la perfezione cristiana, se non brami con grande ardore di acquistarla.

44. Ma per penetrare al vivo una verità sì importante, ci fa d’uopo indagarne la ragione che ce la persuada. I desideri verso i beni spirituali, dice il dianzi citato dottore, in due luoghi hanno la loro sede e quasi vi fanno la loro residenza: nella parte razionale e superiore dell’ uomo in cui nascono, e nella parte brutale ed inferiore dell’istesso in cui talvolta per una certa ridondanza traboccano e l’accendono verso quei santi oggetti, acciocché anche il corpo si colleghi con lo spirito in promuovere i suoi spirituali avanzamenti (1, 2, qu. 30, art. 1 ad 1). I desideri santi quando si svegliano nella parte superiore e ragionevole, altro non sono che un moto affettuoso della volontà verso quei beni spirituali che ancora non si posseggono, ma si conoscono possibili a possedersi. Osservi bene il lettore queste parole, se vuole fare una esatta anatomia di tali desideri. Dissi che il desiderio riguarda sempre quei beni che non si possiedono; perché i beni già acquistati non cagionano brama nella nostra volontà, ma bensì allegrezza, contento e gaudio. Così un ambizioso quando giunga ad impossessarsi della dignità e degli onori non li desidera più, ma in essi giubila e gode. Dissi che il desiderio ha sempre per oggetto i beni possibili a possedersi; perché il bene impossibile ad aversi non muove al desiderio, ma alla disperazione. Così un viandante che è premuroso di arrivare prestamente alla sua patria, desidera di avere agilità ai piedi, ma non già ali alle spalle; perché quella è possibile, ma queste sono impossibili ad acquistarsi.

45. Fermiamoci ora un momento su questa dottrina, giacché è efficacissima a dimostrare la verità del nostro assunto. Abbiamo detto che il desiderio è un moto della volontà verso un bene possibile e convenevole per raggiungerlo ed impossessarsene. Se dunque il Cristiano non desidera la perfezione, è certo che la di lui volontà non si muove con alcun atto affettuoso verso di essa per abbracciarla e farla sua; ma sta ferma, sta pigra, sta lenta, sta immobile: come dunque è possibile che possa conseguirla? Può giungere alla meta un corridore che non si muove dalle mosse? Come dunque potrà giungere alla perfezione una volontà che verso lei non si muove con i suoi atti per arrivarvi? Tanto più che la perfezione cristiana è un bene arduo, e non si ottiene senonché per mezzi difficili, tutti liberi ed elettivi e dipendenti dall’arbitrio della volontà. Sicché non movendosi punto una volontà spogliata di desideri, né punto piegandosi verso l’acquisto della perfezione, come potrà superare quell’arduo? come potrà eleggere con fortezza e perseveranza quei mezzi tanto malagevoli?

46. Questi desideri poi quando dalla parte superiore traboccano nella parte inferiore, sono certi effetti sensibili, sono certe passioni sante, che tendono al possedimento di quegl’istessi beni spirituali, a cui già la volontà con i suoi atti aspira. Ed è incredibile quanto conferiscano ai progressi nella perfezione questi desideri sensibili: perché dilatano l’appetito sensitivo, animano la volontà, la confortano, la corroborano e quasi distendono i sensi dell’anima e la rendono capace di grandi beni. Spiega questo s. Agostino con una ben acconcia similitudine: che siccome dovendo alcuno ricevere gran quantità di roba, dilata i seni del sacco, o dell’otre, per renderli più capaci al ricevimento di tali cose; così i desideri dilatano ed amplificano i seni dello spirito e lo rendono abile ad accogliere in se stesso grandi beni spirituali. Ed arreca l’esempio di s. Paolo, il quale dice, che dimenticandosi del passato, distendeva se stesso con le sue brame, per rendersi capace a ricevere quella perfezione ulteriore che gli restava da acquistare (Tract. 4 in 4 epist. Ioan.). Quindi deduce il s. dottore che tutta la vita del Cristiano ha da essere un continuo esercizio di virtù per mezzo dei santi desideri Ma se tutto questo è vero, che progressi potranno sperarsi nella perfezione da chi non la desidera: mentre con la parte superiore dell’anima punto non si muove in verso essa e con la parte inferiore punto non si accende: nella volontà è lento e rimesso: nell’appetito sensitivo sta stretto e chiuso : in somma non la cura, non l’apprezza e ne vive affatto dimentico? Certamente è tanto impossibile ch’egli dia un passo nella via della perfezione, quanto è impossibile che cammini verso il termine chi non si muove. Veda dunque il direttore che questi desideri hanno da essere la prima pietra ch’egli ha da gettare nell’anima dei penitenti, in cui vuol ergere il bell’edifizio della cristiana perfezione. Questa ha da essere la semenza di quell’albero che ha da produrre frutti d’ogni virtù, e soprattutto il pomo d’oro della divina carità. Senza questa pietra fondamentale, senza questo seme fecondo, è stoltezza il pensare ch’egli possa conseguire il suo intento.

47. Mi sia testimonio di ciò quel giovane seguace del mondo e delle sue vanità, che ferito altamente da Dio nel cuore col dardo d’una veemente ispirazione, si accese tanto in desiderio della sua eterna salute e della sua perfezione, che tosto risolse di consacrarsi tutto a Dio in uno di quei monasteri, che allora tra luoghi ermi e solitari fiorivano in santità. L’impedimento maggiore che si attraversasse all’esecuzione dei suoi santi desideri, non furono le ricchezze, gli onori, i piaceri e le vanità mondane; giacché reso robusto dalla forza delle sue fervide brame, subito calpestò tutte queste cose con gran coraggio. L’ostacolo maggiore fu la madre con le sue lusinghe e con le sue preghiere. I primi assalti che questa gli diede furon le lagrime, e dopo le lagrime furono alcune parole interrotte dal pianto. Dunque, dicevagli, tu mi vuoi abbandonare in questa età cadente? vuoi che io muoia scontenta? No, ripigliava il giovane, io non voglio le vostre scontentezze, né la vostra morte; solamente volo salvare animam meam: voglio salvare quest’anima. E che? soggiungeva la madre: non puoi forse salvarla nel secolo? non puoi forse salvarla vivendo cristianamente nella tua casa? Si, rispondeva il figliuolo, ma io voglio salvarla con sicurezza, e però me ne voglio ire tra i deserti e tra le solitudini a menare vita perfetta e santa. Dunque, ripigliava l’afflitta genitrice, saranno per me perduti tanti stenti con cui ti ho condotto a questa età e a questo stato: perdute le sollecitudini, i patimenti, le cure, e me ne rimarrò qui sola a piangere la mia sventura? Non occorre altro, rispondeva il figliuolo: volo salvare animam meam. Datevi pace, mia madre, mi è entrato nel cuore un desiderio sì vivo della mia salute e della mia perfezione a cui non posso resistere: devo eseguirlo. Con questa massima sostenuta costantemente espugnò il cuore della madre, e pieno di grandi brame di perfezione se ne volò al monastero. Quivi giunto, si diede con gran fervore di spirito alle penitenze, alla mortificazione, all’orazione ed all’esercizio di tutte le virtù religiose. Ma che? non so come questi suoi gran desideri cominciarono a poco a poco a rallentarsi, poi a rattiepidirsi, e poi a cangiarsi in un vero raffreddamento. Sicché quello che prima spiccava su le ali dei suoi desideri voli sublimi fin su le porte del paradiso, oppresso poi ed abbattuto dalla sua gran freddezza, era già caduto fin su la porta dell’inferno, dentro cui sarebbe sicuramente precipitato, se la madre non veniva dal cielo a riaccendergli nel cuore le antiche brame. Posciachè trovandosi l’infelice monaco oppresso da grave infermità, fu portato in ispirito al tribunale di Dio, dove insieme con altri che vi dovevano essere giudicati, trovò anche la sua genitrice, hi vederlo, questa gli disse: e cosa è questa che io rimiro, o figliuolo? anche tu sei venuto in questo luogo reo di eterna condannazione? e dove sono quei santi desideri di salvar l’anima e di salvarla con sicurezza tra i rigori dei chiostri (in lib. doct. PP. lib. de comp., n. 5)? Questa riprensione della madre gli fece una sì grande impressione, che ritornato in sé e riavutosi della sua infermità, si chiuse in una piccolacella, e senza mai più partirne, altro non fece in tutto il residuo della sua vita che piangere li suoi passati errori; Si avverta in questo avvenimento la gran forza che hanno i desideri santi di distaccarci da tutto ciò che digradevole può darci il mondo, e di portarci alla cima della più alta perfezione; ed all’opposto quanto poco possiamo trovandoci privi di tali brame. La madre istessa di quel monaco traviato altro modo non trovò per ridurlo su la strada della perfezione, anzi della salute, che ravvivargli nel cuore i suoi antichi desideri, con rimetterglieli nuovamente alla mente. Dunque di qui incominci il direttore il suo lavoro spirituale nelle anime che vuol perfezionare, ricordandosi sempre delle parole di s. Agostino: che la vita d’un perfetto Cristiano altro non è, che con la spinta dei desiderii andare avanti nell’esercizio delle virtù.

CAPO II.

Primo motivo per risvegliare i detti desideri di perfezionesia l’obbligo che tutti hanno di procurarla.

48. Il motivo più potente di cui deve valersi il direttore per scuotere la tiepidezza di alcuni fedeli, che contenti di non commettere colpe gravi, nulla si curano di migliorare la propria vita, è certamente il rappresentare loro l’obbligo che Iddio impone a ciascuno di attendere alla perfezione del proprio stato. Gesù Cristo parla chiaro in questo particolare, e parla a tutti. C’impone il Redentore d’esser perfetti, e ci propone per idea della perfezione, a cui dobbiamo agognare, I’istessa perfezione del  suo eterno genitore (Estote ergo perfecti, sicut et Pater vester cœlestis perfectus est (Matth. cap. V, 48). S. Giacomo apostolo vuole che siamo interamente perfetti e in niuna cosa difettosi (Patientia opus perfectum habet, ut sitis perfecti, et inlegri, in nullo deficientes (Epist. c. I, 4). S. Paolo ci ordina a star sempre armati contro gli assalti dei nostri nemici e di essere in tutte le cose perfetti “Accipite armaturam Dei, ut possitis resistere in die malo, et in omnibus perfecti stare” (ad Ephes. cap. VI, 5 ). Lo stesso Apostolo non contento che siamo perfetti nella nostra volontà, vuole che tali siamo anche nell’intelletto, conformandolo agli altrui sentimenti con isfuggire la diversità dei pareri “Obsecro autem vos, per nomen Domini nostri Iesu Christi, ut idipsum dicatis omnes, et non sint in vobis schismata: sitis autem perfecti in eodem sensu, et in eadem sententia (I ad Cor. cap. I, 10). Sicché non si può dubitare che siamo tutti tenuti a procurare quella perfezione che è più confacevole alla nostra condizione.

49. Ma perché secondo il diverso stato delle persone, diversa è la perfezione che deve  da loro praticarsi, il direttore per procedere discretamente e con la debita rettitudine, bisogna che distingua tra i penitenti che sono religiosi, consacrati a Dio coi santi voti, e tra i penitenti che sono secolari, liberi e padroni di se stessi; onde non aggravi alcuno più del dovere, né esima alcuno dalle obbligazioni che sono loro proprie. Se sia religioso il suo penitente, deve spesso rammentargli quella dottrina dell’Angelico, ricevuta dal comune de’ teologi, che sebbene non è egli obbligato ad essere perfetto, è però tenuto con obbligo di peccato grave, di tendere e di aspirare alla perfezione. Deve significargli, che essendosi egli dedicato alla religione con la solenne professione, e a guisa di un garzoncello entrato nella bottega d’un legnaiolo o di un fabbro per apprendervi l’arte, perché siccome questo benché non sia tenuto ad operare perfettamente le manifatture o del legno o del ferro, è però obbligato a perfezionarsi nella sua arte, e quantunque non sia degno di riprensione per qualche sbaglio che commetta nei suoi lavori, sarebbe però di riprensione e di castigo se non andasse emendando e non gli andasse ogni giorno più migliorando; così esso non sarà avanti a Dio degno di riprensione. se non sarà perfetto; poiché la religione, in cui è entrato, non è un’adunanza di persone perfette, ma è scuola di perfezione; ma sarà gravemente reo e meritevole di castigo se non attenderà alla perfezione a cui con la professione religiosa si è obbligato, e non andrà correggendo e perfezionando la sua vita per quei mezzi che gli sono dalla sua religione prescritti (2, 2, quæst. 168, art. 2, in corp.). Qui vanno a ferire quelle pesantissime parole scrive ad Eliodoro, il quale, abbandonata la milizia, erasi fatto monaco e dedicato a Dio coi santi voti: Eliodoro, ricordati che hai promesso a Dio di esser perfetto. Quando tu, abbandonata la milizia terrena, giurasti nelmonastero perpetua castità, mosso dal desiderio della celeste patria, che altro facesti, che professare avanti Dio una vita perfetta? Ma avverti che un servo perfetto di Gesù Cristo altro non ha nel cuore che Cristo; o se altro vi ha, non è servo perfetto di Gesù Cristo. E se non è perfetto, avendo promesso d’esserlo, è egli appresso Iddio un mentitore, ed è già morto presso gli occhi suoi(in Epist. ad Eliod.). Si avverta però che Girolamo (come nota il Suarez su questa parola) non pretende di dire che Eliodoro dovesse esser già in pieno possesso di quella fina perfezione che egli gli esprime nella sua lettera, ma solo che fosse tenuto ad aspirarvi coi desideri ed a sforzarsi di conseguirla con le opere. Contuttociò sono parole molto significanti da mettere in grande apprensione qualunque religioso lento, tiepido e trascurato nel divino servizio.

50. Quindi si deduce in primo luogo, che ogni religioso è obbligato con grave obbligazione alla osservanza dei tre voti: povertà, castità ed obbedienza, che sono appunto quei consigli, che ci ha dati Gesù Cristo nel santo Vangelo, e che egli ha già abbracciati con solenne voto per giungere alla perfezione “Si vis perfectus esse, vade, et vende omnia quae habes et da pauperibus et sequere me“. In secondo luogo, che egli è gravemente tenuto all’osservanza delle sue regole, che sono i mezzi con cui nella professione, che ha fatto nella sua Religione, si è obbligato di tendere alla perfezione. Così insegna s. Tommaso: il religioso non è tenuto a tutte quelle pratiche ed esercizi spirituali, per cui si può andare alla perfezione, ma solo a quelli che gli sono tassati dalla regola in cui ha professato (2, 2, quæst. 186, art. 2 in corp.)..

51. E qui sentirà il direttore darsi subito quella risposta, da cui tanti religiosi pigliano ansa di vivere rilassatamene, cioè che la sua regola non obbliga ad alcun peccato. A questo replichi egli con s. Tommaso, che sebbene nella trasgressione di questa o quella regola, che non è di precetto, ma di mero consiglio, non si contenga colpa mortale, se ciò si faccia per condescendere a qualche sua passioncella, o per dar qualche pascolo all’amor proprio avido di libertà ed alieno da ogni strettezza e mortificazione (sebbene in tali casi il religioso inosservante non va esente da peccato veniale a cagione pone dei motivi non retti e irragionevoli da cui si muove a contravvenire alle sue regole); contuttociò se tali trasgressioni si facciano con disprezzo delle regole, si commette peccato grave: perché, come dice s. Gaetano, nel dispregio delle regole v’è un dispregio interpretativo di Dio, che in modo speciale le ispirò ai santi legislatori, da cui furono promulgate alle loro religiose famiglie. Questo disprezzo poi, dice il sopraccitato santo dottore, consiste in questo, che il religioso non voglia soggettarsi a qualche regola, e quindi passi avanti a trasgredirla con isfrenatezza e con baldanza (in resp. ad 3). Lo stesso dice s. Bonaventura (In Pharet. lib. 2, cap. 44). Lo stesso afferma S. Bernardo  (In lib. de praecept. et disp. et in costitut.), specialmente nelle sue costituzioni. E qui si osservi che l’Angelico, dopo aver detto che le particolari trasgressioni di certe regole non obbliganti, fatte senza formale dispregio, non racchiudono in se stesse peccato grave, soggiunse subito, che tali inosservanze se siano fatte frequentemente, portano a poco a poco il religioso ad un vero disprezzo delle sue regole ed alla colpa mortale, e per conseguenza anche alla eterna ruina. Si osservi ancora, che sebbene violando la persona religiosa or questa, or quella regola, per condiscendere alle sue imperfette inclinazioni, sia scusato da peccato mortale, qualunque volta l’inosservanza non passi in positivo dispregio; contuttociò è egli tenuto gravemente di avere, in generale almeno, animo e volontà risoluta di osservar le sue regole, perché essendosi nella sua professione obbligalo a procurare quella perfezione, che è propria del suo istituto, si è obbligato ancora a praticare quei mezzi che sono necessari per ottenerla; quali per lui altri certamente non sono che le sue regole. Quest’obbligo dunque di tendere alla perfezione, con l’osservanza dei voti e delle regole, intuoni spesso il direttore alle orecchie del suo penitente o della sua penitente religiosa; perché questo solo (se pure in essi è rimasto alcun vestigio di santo timore) basterà per destare loro nel cuore desideri di perfezione e premure di conseguirla; il che allora faccia più volentieri, quando gli veda tiepidi, rimessi e languidi nel divino servizio.

52. Ma se poi il penitente sarà secolare, qual obbligazione gli si avrà da imporre? Si assicuri il direttore che con questi avrà molto più da penare che con le persone religiose per rimuoverli dalla loro freddezza; poiché i secolari hanno una stolta persuasione, che la perfezione sia cosa propria di religiosi e di monache, e che ad essi punto non si appartenga; che ad essi basti osservare i precetti di Dio e di santa Chiesa alla grossa, in quanto alla loro sostanza, e con questo solo credono di aver adempiti i loro doveri. Anzi si avanzano taluni fino a dileggiare quei secolari devoti che frequentano Sacramenti, orazioni e chiese, che si esercitano in opere di carità verso il prossimo, che procedono con la debita ritiratezza e modestia, chiamandoli col titolo di collitorti, di bacchettoni, di beate, di sante, di pinzochere, e con altre simili parole di scherno indegne a proferirsi da una lingua cristiana che professa e venera la dottrina di Cristo. Or questi hanno bisogno d’essere istruiti e tolti da un inganno si pernicioso. A questo fine domandi loro cosa intendono per questa parola perfezione cristiana. – Se essi rispondono, che intendono significarsi quella perfezione più alta e più ardua che si racchiude nei tre consigli evangelici, povertà, castità ed obbedienza, essi hanno ragione di esimersi da una tal perfezione; perché non essendo da Dio chiamati alla Religione, non sono obbligati a spogliarsi delle loro facoltà, a rinunziare al matrimonio, a menar vita celibe e continente, ed a soggettarsi spontaneamente all’obbedienza d’alcun superiore che li regoli in tutte le loro azioni. Ma se poi per questo vocabolo di perfezione cristiana intendono altri consigli, e specialmente alcuni precetti circa materie leggiere che sono stati da Dio imposti a tutta l’universalità dei fedeli, per es., vivere distaccati dalla roba e da denari ancorché si possedano, e farne buon uso: impiegandone parte in elemosine o in coseche riguardano il divin culto; fuggire non solo i diletti illeciti, ma ancor le occasioni e gl’incentivi non solo prossimi, ma ancor remoti che lusingano e allettano gl’incauti a tali piaceri, con la debita ritiratezza, modestia e circospezione in conversare; soggettarsi ad un padre spirituale circa l’interno regolamento della scienza: dispregiare le vanità, le pompe, il fasto e la superbia mondana, e se il proprio stato esiga un decoroso trattamento, mantenere tra lo splendore del portamento esteriore la depressione interna del cuore e l’umiltà sì propria d’un seguace di Cristo; soffrire pazientemente le ingiurie, le avversità ed i travagli; amar gl’inimici, astenendosi non solo da ogni atto interno di risentimento, ma anche da ogni segno esterno di ostilità; mortificare le proprie passioni e non dar loro sfoghi irragionevoli; astenersi da peccati veniali, massime se siano deliberati; frequentare i Santissimi Sacramenti: orare spesso; andar riflettendo su le massime di nostra fede, che hanno tanta forza di raffrenarli, e di far si che procedano con cautela tra i tanti pericoli in cui vivono; e fare mille altre cose  che sono da Dio comandate, benché la loro trasgressione, a cagione della materia leggiera, non partorisca nelle anime colpa grave, o sono da Dio consigliate: perché sono cose, senza cui è moralmente impossibile vivere morigeratamente: se essi, dico, per questa voce perfezione cristiana, intendano tali cose, e poi dicano di non essere tenuti ad eseguirle, perché sono secolari che vivono in mezzo al mondo, s’ingannano grandemente; perché ad una tal perfezione sono obbligati tutti quelli che si vantano del nome cristiano. Sentano come parla su questo punto s. Tommaso, dopo averlo esaminalo con tutto il rigore della scuola: tutti, tanto i religiosi quanto i secolari, sono obbligati a fare in qualche modo, secondo le leggi della discrezione, tutto il bene che possono, perché a tutti ciò è imposto dall’Ecclesiastico; v’è però il modo di adempiere questo precetto e di sfuggire il peccato, cioè facendo ciascuno discretamente quel bene che può secondo la condizione del suo stato, e guardandosi di non dispregiare il ben maggiore che potrebbe farsi, acciocché l’anima non ponga ostacolo agli avanzamenti dello spirito (2, 2, quæst. 186, art. 2, ad 2). Notino i secolari in questo testo quei termini che usa il santo dottore, parlando della loro perfezione, obbligo, precetto, peccato; e poi dicano, se loro dà l’animo, che la perfezione è pei soli religiosi.

53. Sebbene, a dire il vero, neppure qui è necessaria l’autorità di sì gran dottore, mentre parlano chiaramente su questo proposito le sacre scritture. Domando quando s. Giacomo e l’Apostolo delle genti inculcavano tanto nelle loro epistole la perfezione, a chi parlavano? ai soli religiosi? oppure a tutto il mondo cristiano? Quando Gesù Cristo esclamava con tanta energia: siate perfetti, come è perfetto il mio eterno Padre; quando comandava il rinnegare se stesso, il portar volentieri la propria croce, l’essere umile, l’essere mansueto di cuore com’era Esso; a chi ragionava allora il Redentore? coi soli monaci? coi soli religiosi? con le sole vergini chiuse ne’ chiostri? oppure a tutta l’adunanza de’ fedeli che volevano essere suoi veri seguaci? A tutti, risponde s. Agostino: a tutti parlava Cristo allora. Questi insegnamenti di Cristo, dice il santo, non li hanno già da ascoltare le sole vergini e non le maritate; le sole vedove e non le spose; i soli monaci e non i coniugati; i soli chierici e non i laici: ma tutta la Chiesa universale, tutto il corpo dei fedeli distinto nei suoi gradi ha da seguitare il Redentore con la croce in ispalla, e tutto ha da eseguire i suoi santissimi documenti. (Serm. 47, de div., cap. 7). – S. Giovanni Crisostomo dopo aver riferite molte di quelle ammirabili dottrine con cui il Redentore ci esorta a vivere perfettamente, riflette opportunamente, che Cristo non fece già distinzione tra religiosi e laici, dicendo: questo insegnamento sia per i monaci, e questo per i secolari; ma parlò indistintamente a tutti (Nec monachi, nec sæcularis nomen adiecit). – E questo appunto, seguita a dire il santo, è la ruina del mondo tutto, il credere che i religiosi siano tenuti a mettere ogni diligenza per vivere perfettamente, e che i secolari possano vivere trascuratamente. Ma non è cosi, soggiunge subito; lo stesso tenor di vita si richiede da tutti. Io dico con tutta asseveranza: sebbene non sono io che lo dico, ma è Cristo giudice che lo dice di propria bocca. Finalmente dopo aver lungamente mostrata questa importantissima verità, termina il suo discorso così: credo che non vi sarà uomo sì litigioso e sfrontato, il quale voglia negarmi che in molte cose tanto il secolare quanto il monaco sia obbligato di tendere alla più alta cima della perfezione (adver. vitup. vitam monast., lib. 3). Un gran parlare è questo, a cui non si può certamente contraddire senza incorrere la taccia di una gran temerità. Quindi prenda il direttore stimoli acuti per risvegliare desideri di perfezione nei cuori dei secolari addormentati, mostrando loro l’obbligo preciso che ne hanno, conforme la dottrina dei santi padri e delle sacre scritture. Cancelli loro dalla mente quell’errore tanto dannoso, che la perfezione sia prescritta ai soli claustrali, che ad essi soli si appartenga menar vita devota, vita esatta e vita esemplare; e che ai secolari sia lecito, purché si guardino dal peccato mortale, condurre una vita molle, una vita libera, una vita rilassata. Falso, falso, ripeta spesso alle loro orecchie. Alla perfezione tutti i Cristiani sono obbligati, perché a tutti è stata imposta ed inculcata nelle sacre carte. Certo è che a persone che non siano di perduta coscienza, ma abbiano qualche timor di Dio, qualche premura della loro eterna salute, sarà questo un gran motivo per invogliarsene e per intraprendere un tenore di vita più regolata ed esatta.

54. Ma io già mi avveggo, che il direttore, presupposto l’obbligo di perfezione che hanno tutti i Cristiani, bramerebbe sapere in quale specie di peccato incorra un secolare, che contento di non cadere in colpa grave, non faccio pio conto dei peccati leggieri, non abbia alcuna volontà di far opere di carità e di supererogazione, insomma ponga in non cale ogni pensiero della sua perfezione. Rispondo, che se ciò egli faccia con disprezzo della perfezione, già cade nel peccato in cui non vorrebbe cadere: se poi succeda senza un tale dispregio, dico, essere il Gaetano di parere che un Cristiano sì trascurato commetta un peccato veniale (in textu soprac. d. Th.).  Dico inoltre, essere sentimento del padre della Reguera nella sua mistica teologia, non andare esente da grave peccato un Cristiano che non voglia attendere alla perfezione sua propria; sebbene limita egli poi in vari modi il suo detto e in varie guise lo ristringe. Con tutto ciò perché altri gravi autori non parlano con tanto rigore, io dirò (e lo mostrerò nel seguente capitolo) che quando ancora un secolare, che non vuole procurare la perfezione del suo stato, non pecchi per questa prava volontà e pessima disposizione in cui vive, incorrerà però in altri molti peccati mortali di altre specie, vivrà rilassatamente e starà in gran pericolo della sua eterna salute.

CAPO III.

Secondo motivo per risvegliare i desideri di perfezione sia la necessità che v’è di procurarla, non solo per esser perfetto, ma anche per esser salvo.

55. La ragione perché alcuni fedeli (o questi siano religiosi o secolari) non hanno alcuna premura di acquistare quella perfezione che si conviene alla loro condizione, è senza fallo il persuadersi, che guardandosi dal peccato mortale, vivranno in grazia di Dio; e così senza tante molestie e mortificazioni conseguiranno la loro eterna salute. Ma sono pur eglino mal avveduti in questa lor persuasione; perché quando ancora l’obbligo che, secondo la dottrina delle sacre scritture e dei santi padri, abbiamo tutti di attendere all’acquisto della perfezione confacevole al nostro stato, non fosse grave e non rendesse i trasgressori rei di colpa mortale; pur non volendovisi essi seriamente applicare, è certo che cadranno in molte altre colpe gravi, che vivranno con la coscienza macchiata e che saranno in gran pericolo di perdersi eternamente. Ognun sa che l’arciere bisogna che prenda la mira più alta se vuol cogliere nel segno con il suo strale. Così deve ognuno persuadersi che non si può cogliere nell’osservanza dei divini precetti, in quanto alla sostanza di non trasgredirli gravemente, se non si prende la mira più alta alla perfetta osservanza degl’istessi precetti, guardandosi dalle trasgressioni leggiere e colpe veniali per quanto comporta la debolezza delle nostre forze; anzi se non si alza la mira anche più in alto alle opere buone di supererogazione, che sebbene non son da Dio comandate, pur son da Lui volute per consiglio, e sono a noi sì vantaggiose a Lui sì grate. Vediamo quanto ciò sia vero incominciando da consigli, ma però brevemente.

56. Gersone francamente afferma, che è caso molto raro che un fedele osservi i precetti del decalogo e non faccia opere sante di supererogazione e non eseguisca i divini consigli, ora facendo orazioni, ora frequentando Sacramenti, ora mortificando il proprio corpo con digiuni o altre simili asprezze, ora compartendo elemosine, ora praticando atti di carità spirituali o  corporale verso il suo prossimo, ora esercitando atti di devozione e di ossequio verso i Santi e la loro Regina, oppure facendo altre simili cose che non ci sono imposte con rigoroso precetto, ma ci sono però raccomandate con soave consiglio. (Alphab. 68, part. 2, litt. 2). E il padre Suarez esaminando scolasticamente questa verità, decide che è impossibile, moralmente parlando, che un Cristiano, benché sia secolare, abbia volontà ferma, stabile e permanente di non peccar mortalmente, e che insieme non faccia molte opere virtuose di supererogazione e non abbia stabile proposito di perseverare in esse  (de Relig. tom. 4, lib. 1, c. 4, num. 12). – E lo dimostra con parità delle sostanze naturali, che senza l’accompagnamento e quasi il corteggio degli accidenti loro propri, non possono conservarsi nel loro essere, ma devono necessariamente perire. Così il fuoco senza calore si estingue; la neve senza la sua freddezza si strugge; l’aria senza il moto si guasta; l’acqua senza l’agitazione s’imputridisce; l’erbe, i pomi e tutte le altre cose senza le qualità loro connaturali si corrompono ed alla fine marciscono. Così, dic’egli, la grazia di Dio e la carità, senza le opere buone, che sono quelle qualità soprannaturali che la confortano, che la nutriscono, che la corroborano, che la difendono e che l’aumentano, alla fine perisce e muore. Sicché l’anima infelice, perduta la divina grazia per la sua infingardaggine in non volere operare il bene, si trova in grande pericolo della sua eterna perdizione.

57. Questa verità insegnò Iddio istesso di propria bocca al beato Errigo Susone in quella celebre visione delle nove rupi, che rappresentogli alla mente acciocché la pubblicasse al mondo tutto. Rapito in estasi il servo di Dio vide un monte sublime che arrivava con la sua cima a ferire le stelle. Pendevano per il dorso del monte nove rupi, una appoggiata alla sommità dell’altra, ed in ciascuna di dette rupi v’erano abitatori, dove in maggiore e dove in minor quantità. Significavano queste nove rupi i nove gradi di perfezione, a cui può ascendere un uomo in tutto il corso della sua vita mortale. Or mentre stava il santo mirando attonito la sublimità del monte e la disposizione di quelle rupi aspre e rovinose, all’improvviso si vede posto sulla cima della prima rupe, d’onde vide con una semplice occhiata la terra tutta, e tutta la vide ricoperta da una larghissima rete. Stupefatto il santo a quella vista, vollossi al Signore pregandolo a volergli palesare che significasse quella gran rete che involgeva tutta la terra, ma però non arrivava a ricoprire le rupi del monte. Gli rispose Gesù Cristo, che quella era la rete del diavolo, che significava i tanti lacci dei vizi e de’ peccati con cui il maligno teneva avvinto quasi tutto il mondo, e che la rete non arrivava a ricoprire le rupi del mistico monte, perché in quelle salivano solamente i Cristiani ch’erano liberi e sciolti dai legami della colpa mortale. Tornò l’uomo estatico a domandargli chi erano quelle persone che vedeva attorno a sé nella prima rupe. Gli rispose Gesù Cristo queste parole: questi sono uomini tiepidi, lenti, freddi, infingardi, che non sono inclinati, né dediti ad esercizi grandi; ma basta loro di vivere con proposito di non consentir mai a peccato enorme e mortale, e così stanno contenti fino alla morte (B. Enrico Susone, libro delle nove rupi, cap. 12.). Si osservi che questi appunto sono quei Cristiani, di cui presentemente io parlo. Di nuovo interrogò il Signore il servo di Dio, se quelle persone si sarebbero salvate o dannate, mentre vedeale poco lungi dalla rete e dai lacci. A questo rispose Cristo le seguenti parole: se moriranno senza coscienza di peccato mortale, si salveranno; ma stanno in maggior pericolo che non credono, perché si danno di poter egualmente servire a Dio ed alla natura, il che è difficile, e appena possibile, e il perseverare così in grazia di Dio è molto malagevole. Intanto vide il beato che molti precipitavano da quella prima rupe e andavano a nascondersi sotto la rete. Chiese subito al Signore che gi dichiarasse il significato di questo avvenimento. Gesù Cristo gli rispose così: questa rupe non può contenere quelli che consentono al peccato mortale; ma perché sono uomini tiepidi, facilmente cadono e ritornano ai lacci ed ai vizi. Tutta questa visione non ha bisogno di esposizione, perché in essa troppo chiaramente si protestò il Redentore: che i Cristiani tiepidi e freddi, che contenti di non commettere peccato mortale, non vogliono esercitarsi in opere sante di supererogazione, cadono di fatto in quelle gravi colpe gravi in cui non vorrebbero cadere, e vivono in gran pericolo della loro dannazione. Resta che il direttore sappia ciò rappresentare al vivo ai penitenti lenti e trascurati che a sorte gli capitassero ai piedi, perché questo solo basterà per riscuoterli dal loro gelo ed accenderli in desiderio di qualche perfezione.

58. Per un’altra ragione ancora non è loro possibile, moralmente parlando, osservare i precetti di Dio in quanto alla sostanza, e non curarsi della loro perfezione: perché operando essi in questo modo commetterebbero infiniti peccati veniali, i quali apriranno sicuramente la porta ai mortali ed alla trasgressione sostanziale degli stessi precetti, che pur essi non vorrebbero ammettere. Conciossiachè afferma l’Ecclesiastico: chi non fa conto delle cose piccole, cadrà nelle grandi (XIX, 1). D’onde s. Tommaso deduce: che chiunque pecca venialmente non fa conto delle cose minime (1, 2, quæst. 88, art. 5). Dunque si dispone a voltare affatto le spalle a Dio con la colpa grave, perché non soggettandosi l’anima incauta in cose piccole ai comandamenti di Dio, la volontà si va assuefacendo alle trasgressioni, va pigliandosi una dannosa libertà, finché giunge alla fine a scuotere affatto il giogo della divina legge. Ciò si può esemplificare in mille casi che tutto giorno accadono; ma di mille scegliamone alcuno. Comincia una fanciulla ad adornarsi soverchiamente, o per non parer deforme, o per comparir troppo vaga; dalla vanità nel vestire passa alla libertà di guardare qualunque oggetto; la licenza degli sguardi le desta nel cuore qualche affetto, nel principio forse non vizioso, ma troppo tenero e pericoloso; degenera a poco a poco l’affetto; s’attacca una tresca d’inferno; e finalmente si arriva a calpestare il fiore della verginità. Ecco come dai peccati leggieri quasi per tanti gradini si discende ai peccati più gravi, fino a cadere nel precipizio. A questo par che voglia alludere s. Ambrogio, parlando delle donne. Comincia alcuno a parlar liberamente degli altrui difetti; passa ad interpretare sinistramente le altrui azioni, a biasimarle apertamente. Alla fine trasportato da quel prurito di confutare, palesa qualche gran peccato del prossimo, che prima era occulto, e con grande mormorazione macchia l’altrui riputazione. Ecco come per la via de’ peccati veniali si va a poco a poco a cadere in colpe gravi.

59. Una tal verità ci viene espressa nell’Esodo con un memorabile avvenimento. Sale Mosè sulla cima del Sinai; entra dentro quelle sacre caligini che involgono la sommità del monte, e quivi si trattiene in lunghi e soavi colloqui con il suo Dio e riceve gli oracoli dalla sua bocca divina. E intanto il popolo che fa alle radici del monte? Dice il sacro testo: eccoli a sedere tutti oziosi; eccoli distesi sopra il terreno starsene neghittosi aspettando il ritorno del gran profeta (Es. XXXII, 6). Fin qui altro male non v’è che un poco d’oziosità, un poco di perdimento di tempo. Intanto trovandosi disoccupati, cominciano ad invitarsi a pranzo l’un l’altro. Parenti con parenti, amici con amici celebrano lieti e giocondi banchetti in mezzo al prato; non si mantiene la conveniente moderazione nel mangiare, né la conveniente misura nel bere; alquanto si eccede. E qui che male c’è? un po’ di crapula, un poco d’intemperanza. Trasportati intanto da una soverchia allegrezza, si danno al giuoco. Domini e donne, giovani e fanciulle, tutti ballano ad un circolo, tutti cantano ad un coro. Chi giuoca, chi ride, chi scherza; ma però senza verun pravo affetto. Ed in questo  che male c’è? un poco di scompostezza, un poco d’immodestia, un peccato veniale un poco più grosso. Avanti dunque, avanti, giacché non v’è male grave. Accecati dunque gli ebrei dalla crapula, resi ardimentosi dalla licenza di quei giuochi, cominciarono a parlamentare tra loro: Dio sa quando Mose farà ritorno a noi dalla sommità del monte! Dio sa quanto tempo ci converrà dimorare nel fondo di questa valle! Che serve più appettare? che serve indugiar più? Facciamoci anche noi un Dio visibile come si costuma in Egitto; Aronne, eccoli tutti i nostri orecchini, eccoti tutte le nostra anella d’oro: formane tu qualche nobile simulacro degno di collocarsi sopra gli altari. Condiscende Aronne. Si fonde un vitello d’oro; si espone alla pubblica venerazione del popolo; gli si porgono incensi sacrileghi e sacrifici nefandi. Avete veduto che mal v’è in un poco di oziosità, in un poco di crapula, in un poco di libertà in conversare? Questi furono i passi per cui a poco a poco arrivarono i miseri ad idolatrare un vitello. La riflessione non è mia, ma tutta di san Gregorio: il mangiare, il bere spinse il popolo a giuochi vani; i giuochi all’idolatria; perché se la persona non si raffrena nelle colpe subito va a cadere in grandi iniquità, attestandolo Salomone in quelle parole, che chi disprezza il poco cadrà nel molto. E però trascurandoci nelle cose piccole, sedotti insensibilmente dall’abito e dalla passione, commetteremo infallibilmente cose maggiori. Si lusinghi dunque chi vuole salvarsi senza la perfetta osservanza dei divini precetti, che ala fine conoscerà a prova nelle sue gravi cadute, quanto sia falsa questa sua idea: e Dio voglia che non l’abbia alla fine a conoscere nella sua dannazione.