12 MARZO: FESTA DI S. GREGORIO MAGNO

SAN GREGORIO MAGNO

[Prefazione di G. Barra a: “Quaranta Omelie”, UTET, Torino, 1947]

Una mattina d’ottobre dell’anno 589 una voce si diffuse colla rapidità di un baleno, per Roma: Il Tevere straripa, il Tevere straripa! Era di/atti successo che, dopo parecchi giorni di piogge torrenziali, il Tevere era salito così alto da superare le mura di Roma. Con impeto travolgente le acque sradicavano piante, svellevano ponti, distruggevano case e ville, annegavano uomini e animali. I magazzini stessi ove si conservava il grano necessario al nutrimento dei poveri erano stati allagati. Il terrore regnava dovunque. Quando, dopo molti giorni di inondazione, le acque finalmente diedero giù, lasciarono sul loro passaggio carogne di bestie morte e poveri resti umani insepolti. Immaginare la rudimentalità e la disfunzione che avevano gli uffici di igiene pubblica a quei tempi. Così fu che ad un primo disastro ne successe un secondo. Dopo l’inondazione, la peste. La miseria, la fame, la paura, l’agglomeramento straordinario di popolazione, determinatosi a Roma dalla circostanza che, per  sfuggire alle incursioni dei Longobardi, gran numero dei fuggitivi dalle diverse province d’Italia si era rifugiato in città, avevano preparata la strada al terribile morbo. Il quale ora dominava nella capitale, mietendo ogni giorno centinaia e migliaia di vittime. Secondo Paolo Diacono, contrade intere della città rimasero prive di abitanti, e la strage fu sensibile anche nei dintorni di essa, specialmente a Porto. Una delle prime vittime fu il Papa Pelagio II, che morì il 5 febbraio del 590. All’abbattimento e all’angoscia che attanagliavano il cuore di tutti, ai pericoli gravissimi che incalzavano da ogni parte, si aggiungeva ora la perdita del Padre comune. Si pensò subito all’elezione del successore. Su chi sarebbe caduta la scelta? Senato, clero, popolo, tutti unanimemente fecero un nome: Gregorio. Gregorio aveva allora cinquant’anni. Segaligno, scarno, il volto limato dalle penitenze, dalle veglie e dai cilici, e scalpellinato dalle malattie. Le infermità non gli davano tregua. Forse non è senza disposizione della Divina Provvidenza che il povero Giobbe così malconcio, abbia preso ad esporlo io che sono pure molto malandato » scrive nel prologo dei Morali; e all’amico Leandro di Siviglia: « Son tormentato da frequenti attacchi intestinali: una febbre non forte, ma noiosa mi brucia di continuo ». – Il suo aspetto è pallido, cadaverico, ombrato da un velo di tristezza: la tristezza di non essere santo, di cui parla Bloy. Di vivo, di fresco in quel volto c’è l’occhio e il sorriso. Due occhi di fiamma che sembrano due finestre aperte su di un mondo interiore bellissimo. Ed un sorriso continuamente errante sulle labbra, sorriso che, appunto perché sboccia da un corpo piagato e da un cuore esacerbato, ha qualcosa di celestiale, di divino che ti incanta. – Uomini siffatti fioriscono solo all’ombra del chiostro. Che cosa non sa dare il chiostro a chi lo ama? O beata solitudo, o sola beatitudo! Per questo Gregorio non vuole lasciarsi strappare al suo convento di S. Andrea al Celio. Il pensiero di dover lasciare la sua diletta solitudine lo riempie di sgomento. Sgomento che è accresciuto dalla persuasione che egli ha profondamente radicata, di non aver forze bastanti per reggere la navicella di Pietro, in mezzo a sì spaventoso incalzar di marosi. Decide quindi di tentar ogni mezzo per sottrarsi al peso della nuova dignità. – Era invalsa la consuetudine che l’imperatore d’Oriente dovesse dare il suo consenso prima che un nuovo Pontefice salisse al soglio papale: Gregorio allora scrive in fretta in fretta a Maurizio, pregandolo di non voler concedere la richiesta approvazione alla sua nomina. E mentre attende la risposta, non potendo resistere alla pena che gli lacera il cuore, alla vista di tanti fratelli invocanti soccorso, esce dal suo convento e si mette all’opera per organizzare i soccorsi. I flagelli di Dio riversatisi su di noi — dice al popolo in un discorso — vi insegnino la via della penitenza e la pena sciolga la durezza dei nostri cuori. Ecco che tutta la plebe è percossa dalla spada dell’ira celeste, e cade improvvisamente colpita; né la malattia precorre la morte, ma la morte stessa previene ogni indugio…. Ciascuno dunque faccia penitenza, finché ne ha la possibilità. Richiamiamo innanzi agli occhi della mente tutti i nostri errori… e nessuno disperi per l’immanità delle proprie colpe: Dio infatti disse per bocca del profeta che egli non vuole la morte del peccatore, ma che si converta e viva [Ezech., XXXIII, n ]. Mutiamo i nostri cuori, e pensiamo poi di aver già ricevuto quel che chiediamo ». – Frattanto indice una processione di penitenza. Il popolo risponde compatto all’appello. All’ora fissata, da sette chiese diverse partono i diversi gruppi — clero, monaci, ragazzi, spose, vedove, laici — tutti diretti verso la grande basilica liberiana dell’Esquilino. Che triste quadro quella fitta schiera di penitenti! Macilenti, scalzi, nudi, cosparsi di cenere. Per l’aria echeggia, rotto dai singhiozzi, il grido: Miserere nostri Domine, miserere nostri. Il tutto nello sfondo della città devastata, silenziosa, lugubre. Quando quel nastro di gente litaniante, si fu snodato per le vie della capitale e giunse davanti alla Mole Adriana, avvenne un fenomeno sorprendente. D’improvviso sfrecciò per l’aria un Angelo, il quale si posò sulla sommità di quel monumento in atto di ringuainare la spada. L’ira di Dio era dunque cessata. – Miracolo o leggenda? Sembra piuttosto leggenda. Certo è che la pestilenza di lì a poco cessò. Gregorio avrebbe avuto motivo di rallegrarsi se non gli fosse giunta una brutta notizia da Costantinopoli. L’imperatore Maurizio aveva confermata la sua elezione. Com’era dunque andata la cosa? Il prefetto di Roma Germano aveva sequestrata l’epistola di Gregorio, e aveva inviato a Costantinopoli solo la supplica degli elettori. Pure Gregorio è fisso nell’idea di sfuggire alla nuova dignità. Si fa chiudere in un paniere di vimini, e con l’aiuto di alcuni mercanti, di notte riesce ad eludere la vigilanza delle guardie, che erano di picchetto alle porte della città, e così fugge. Ma purtroppo dopo tre giorni è rintracciato, ricondotto in città e consacrato Papa il 3 settembre del 590. La Chiesa pareva « una nave sconquassata e scricchiolante ». « Ubique mors, ubique luctus, ubique desolatio ». Tale la situazione che si presentava al neo-pontefice. Pareva fosse giunta la fine del mondo. Non per nulla, la sua prima omelia che tiene al popolo la seconda domenica di Avvento, nella Basilica di S. Pietro, stipata di popolo in tutte le cinque navate, e risplendente di luci, lungi dall’avere un accento di giubilo o di compiacenza per l’onore ricevuto, è tutta venata da una cupa tristezza di morte. Commenta il passo di Luca [XX, 1, 25, 32] in cui è riferito il discorso di Gesù ai discepoli sulla fine del mondo, e insiste sul concetto della decrepitezza del mondo, di cui egli vedeva i segni evidenti nelle calamità riversatesi di recente su di esso. – Gregorio subito si mette all’opera. Per richiamare il popolo all’osservanza delle pratiche religiose e riaccendere in esso il sentimento della fede, il Papa ripristina un uso proprio di Roma nei tempi anteriori al suo, quello cioè delle Stazioni. In occasione delle maggiori solennità dell’anno, il popolo soleva riunirsi in una determinata chiesa, e di là muoveva in processione, con il vescovo in testa, verso un’altra basilica, dove si celebrava la Messa, e il Papa pronunciava l’omelia. Durante il tragitto si cantavano quelle che furono dette più tardi le Litanie dei santi. La consuetudine interrotta e sospesa per il susseguirsi di tante guerre e invasioni, forse perché era talora pericoloso, in mezzo alle scorrerie dei barbari, uscire di città per raggiungere le chiese cimiteriali nei giorni natalizi dei santi, fu dunque ripresa da Gregorio con rinnovato fervore. L’esercito del Signore si stendeva in lungo ordine avanti e dietro il Pontefice, e innumerevoli coorti di ogni sesso, età e professione, volontariamente affluivano, per ricevere da lui, maestro della celeste milizia, le armi dello spirito. [Jo. Diac. Vita Greg., XI, 19]. – Entriamo anche noi coi fedeli di Roma e assistiamo alla celebrazione dei sacri Misteri. Che solennità di riti, che maestosità di paramenti, che profondità di comprensione nei ministri e nei fedeli. Come si sente che si sta celebrando qualcosa di divino! E quel canto gregoriano che dovrà per tanti secoli incantare e rapire milioni di anime, è modulato per le prime volte in quelle basiliche ove ridono nella loro semplicità e rozzezza i primi abbozzi della pittura cristiana. Ora la messa è giunta al Vangelo e la parola divina ha echeggiato per le navate del tempio. Il momento è solenne. Gli occhi di tutti sono puntati verso l’ambone. Ecco: la ieratica figura del Papa Gregorio spunta. Un silenzio religioso si diffonde su quella marea umana. I cuori battono di affetto, di aspettazione. Gli spiriti già pregustano la gioia di quell’ora che hanno atteso e sognato. Ora il Papa parla e la sua parola avvince, incatena, commuove tutti. Nulla di roboante, di oratorio, di demagogico. Dimesso, facile, piano, senza larghi gesti, senza periodare altisonante, senza sfoggio di astruserie dommatiche. La sua voce è tutta intrisa di soavità, intessuta di dolcezza, impastata di bontà. Una voce sottile, affievolita, quale solo poteva dare quel corpo bulinato dalla malattia, emaciato dalle penitenze. Una voce che pare un pianto, e che, appunto perché tale, si inquadra meravigliosamente in quell’ambiente di fame, di dolore, di decadimento generale. È un padre che parla, un maestro che insegna. Un padre col cuore in mano. Un maestro, scaltrito nell’arte sua. T’accorgi sùbito che sa sfruttare a meraviglia tutti i mezzi per essere capito e seguito dal popolo. – Comincia ad esporre il senso letterale, base e fondamento di tutti gli altri. Poi passa a sviluppare le considerazioni e le conclusioni morali, e con quel senso di praticità, proprio della sua indole di autentico romano, dice la parola appropriata ai bisogni spirituali delle varie classi dei suoi uditori. Un argomento su cui ritorna spesso è quello della carità. Non può comprendere che in un mondo cristiano ci possano essere dei ricchi che sguazzano nell’abbondanza e dei poveri che muoiono di fame. Mai la sua parola è così bruciata di amore, come quando rivolge il suo appello accorato ai ricchi. Se si potesse sapere quante lacrime ha asciugato, quante speranze ha acceso, quante borse ha vuotato, quante pietre ha cambiato in pane, la parola di Gregorio. La parola e l’esempio. Gregorio difatti teneva una matricola dei malati, dei poveri, dei profughi, per somministrare loro quotidianamente soccorsi. Ogni giorno convitava alla sua tavola dodici poveri: la riconoscenza popolare raccontò che un giorno prese posto tra i commensali Gesù Cristo. Nelle solennità e nel primo giorno di ciascun mese distribuiva grano, vino, legumi, carne, pesci e vestiti. Gregorio si credeva in dovere di provvedere a tutti, sicché, essendosi trovato in una via un poverello morto d’inedia, ne ebbe scrupolo di negligenza e si astenne per parecchi giorni dal celebrare. Un giorno ha davanti a sé tutta un’accolta di Vescovi radunati in concistoro nella basilica Lateranense. L’occasione è quanto mai propizia per muovere alcune rampogne, per riprovare parecchi abusi e per sbozzare la figura del Pastore ideale: E c’è ancora qualche altra cosa che mi affligge circa la vita dei pastori Cristiani. Ma, perché non accuso anche me con gli altri … Noi tutti ci occupiamo troppo degli affari del mondo;… lasciamo di predicare e ci chiamiamo Vescovi a nostro danno, perché manteniamo il nome della carica, ma non le virtù ad essa inerenti… Di quali colpi di spada è ferito il mondo ogni giorno, di quali percosse muore ogni giorno il nostro popolo! E per colpa di chi, se non dei nostri peccati? Ecco le città sono saccheggiate, i castelli rovinati, le chiese e i monasteri distrutti, e le campagne si sono mutate in deserti! E noi che dovevamo essere al popolo autori di vita, siamo invece, per lui che perisce, autori di morte [Om., XVII]. – Altro argomento particolarmente preferito e il Giudizio finale: Mettetevi dinnanzi agli occhi un giudice così temibile; e temetelo, finché ha da venire, per poterlo guardare, non timidi, ma a fronte alta, quando sarà venuto… Certo se alcuno di voi dovesse il giorno appresso discutere col suo avversario una causa dinnanzi al mio tribunale, forse passerebbe insonne la notte, pensando a quel che dovrà dire, a quel che dovrà rispondere alle obiezioni, e temerebbe di trovarmi troppo aspro o di apparirmi colpevole. E chi sono o che cosa sono io? Tra breve, dopo essere stato uomo, verme, e dopo essere stato verme, polvere. Se dunque con tanta ansietà si teme il giudizio della polvere, con quanta maggior attenzione noi dobbiamo pensare, con quanta paura noi dobbiamo prepararci al giudizio di una sì grande maestà [Om., XXVI]. – Altri temi che ritornano spessissimo sulle sue labbra sono l’avvicinarsi della fine del mondo, il dovere della penitenza, il disprezzo dei beni terreni, l’umiltà, la preghiera, la necessità delle opere buone, la retta intenzione, la fuga delle superstizioni, la missione salvatrice ed elevatrice del dolore, la fortezza ed il coraggio cristiano, la fedeltà e costanza al proprio dovere. Come si vede il nucleo delle idee non è neanche tanto vario. Ma ciò che conta è il modo. Non è dire che importa: saper dire. L’amore ha una parola sola: pur dicendola sempre non la ripete mai. Anche il pane lo mangi tutti i giorni: pure non ti viene mai a noia. Come è sempre una festa vedere ogni giorno spuntare l’aurora e tornare ogni anno la primavera. – Mentre il Pontefice parla, negli angoli gli stenografi scrivono. Perché ci sono molti che non possono venire in Chiesa a sentire la omelia. E questi in capo a pochi giorni potranno avere fra mano e godersi a piacimento la augusta parola del Papa. Talvolta succedeva che il Papa, pur partecipando alla Stazione, non avesse forze bastanti per fare l’omelia: talmente era stremato per la sua malattia. Allora un notaio la leggeva ai fedeli in sua presenza. Purtroppo però l’attenzione che prestavano a quella lettera era scarsa. « La voce di quello che parla direttamente scuote i cuori torpidi più che il discorso letto». Così nacquero le Quaranta Omelie sui Vangeli. Le prime venti lette, le altre dette. Più tardi il Papa stesso le raccolse in due libri che dedicò a Secondino Vescovo di Taormina. Ma già prima che il Papa componesse la sua silloge autentica, ne era stata fatta un’altra da alcuni troppo zelanti amici del santo, nella quale naturalmente vi erano incorsi parecchi errori e imperfezioni. Perché ne fosse possibile la correzione, Gregorio depositò un esemplare delle Omelie, da lui rivedute e rielaborate, nella biblioteca della Chiesa romana: è probabile che da questo Codice fossero tratte, mentre ancora viveva il Pontefice, numerose copie, e che anche la redazione derivi da esso. – Straordinario fu il favore incontrato lungo tutti i secoli da queste omelie. Anzi si può dire che nessuna altra raccolta di omelie dei Padri è stata letta e meditata come questa. Non per nulla la Chiesa le ha inserite più o meno nell’ufficiatura liturgica del Breviario tutte, ad eccezione di due. Il segreto di questa fortuna va ricercato non tanto nei pregi di forma. Quantunque Gregorio non sia sciatto o trascurato. Possiede profondità di frase, sempre densa di pensiero e di significati, semplicità di eloquio, colorito ammaliante di dolce malinconia, tanto rispondente al temperamento personale dello scrittore e all’andamento triste dei suoi tempi. – Però è giusto riconoscerlo: Gregorio non è uno stilista, né un classico. Non cura « le fronde delle parole », né « la leggiadria di una sterile eloquenza ». Non fuggo le trasposizioni, non evito i barbarismi, trascuro di conservare il posto delle proposizioni e dei casi, poiché ritengo esser cosa indegna il sottoporre la dottrina del cielo alle regole di Donato [Lettera dedicatoria dei Morali a Leandro di Siviglia]. – Anch’egli pensa come Agostino: Ci riprendano pure i grammatici, purché ci capiscano gli ignoranti ». I pregi di Gregorio oratore sono altri: la sua immediatezza, la sua praticità, la sua profonda intuizione dei bisogni che assillano il cuore umano. In poche parole ti dice molte cose: cose pratiche, cose che ti fanno del bene, che sembrano dette proprio per te. E non ti stanca col suo dire. S. Giovanni Crisostomo è più eloquente, S. Leone Magno è più solenne, S. Ambrogio è più profondo. Nessuno è così materno. Anche quando deve rimproverare: pugno di ferro in guanto dì velluto; forte come un diamante, tenero come una madre. Talvolta per curare il suo dire e riposare l’uditore inframmezza qualche esempio. Sono fatti edificanti da lui veduti o sentiti narrare, sono ricordi della sua famiglia, della zia Tersilla o del suo antenato, papa Felice, narrati colla ingenuità dei Fioretti. Sotto questo riguardo Gregorio forma come il ponte di passaggio dall’età antica a quella di mezzo. Gli oratori antichi più popolari, come Agostino e Cesario, parlavano amabilmente al popolo della loro città, ne correggevano i costumi, lo rampognavano, ma non infioravano le loro parole con quei racconti leggendari, che formeranno la letizia dei predicatori della prima rinascenza: baste ricordare Fra’ Domenico Cavalca. Gregorio, senza arrivare alle aberrazioni dei fantastici frati dei secoli posteriori, costituisce il primo anello di una catena che si svolgerà poi per lungo seguito di anni, ed annuncia il rivolgimento dell’arte oratoria. – Anche in questo si rivela la modernità, la attualità, la genialità di Gregorio. Il genio è di tutti i tempi. L’ala edace del tempo non ha mordente per la sua opera. Ha sempre qualcosa da dire. Così Gregorio dopo avere per tredici secoli nutrito, beato, plasmato generazioni di Cristiani, ha ancora una parola da dire agli uomini del novecento: un rimprovero per l’errore, un invito alla speranza, un appello all’amore.

Autore: Associazione Cristo-Re Rex regum

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