CONOSCERE SAN PAOLO (37)

LIBRO QUARTO

CAPO II.

La morte redentrice.

I. SACRIFICIO DELLA CROCE.

1. SACRIFICIO VERO. — 2. SACRIFICIO CHE REALIZZA LE FIGURE ANTICHE. — 3. SACRIFICIO VOLONTARIO.

[F. Pratt: La teologia di San Paolo – Parte SECONDA,  S.E.I. Ed. – Torino, 1927 – impr.]

1. Il sacrificio, rito religioso nel quale si distrugge un oggetto sensibile in onore della divinità, differisce dalle offerte immateriali — preghiere, voti, astinenze volontarie — e dalle semplici offerte di ordine materiale — doni in denaro e in natura, monumenti votivi, erezione di templi e di oratori, consacrazione di persone — insomma differisce da tutte le offerte destinate a perpetuare le cerimonie liturgiche ed a mantenere il servizio permanente della divinità. Non occorre specificare di più, con far entrare nella definizione del sacrificio la maniera di offrirlo e lo scopo immediato che si propongono gli adoratori, o il modo di operazione, reale o supposto, del rito sacro; poiché una definizione troppo esplicita ha il doppio inconveniente di non convenire a qualunque sacrificio e di poggiare sopra teorie contestabili. Il sacrificio è una preghiera in azione. Con esso l’uomo si propone sempre di piacere alla divinità e di rendersela propizia; ma i mezzi che s’impiegano, variano all’infinito secondo le concezioni grossolane, ingenue, elevate o sublimi che il fedele si fa delle sue divinità e secondo i sentimenti di gratitudine, di omaggio, di rispetto, d’impetrazione, di pentimento o di obbedienza che vuole esprimere. Quando la materia del sacrificio è un essere vivente, la morte di questo è una condizione ordinaria: di qui le due specie di sacrifici, i sacrifici cruenti e i sacrifici incruenti. Cosi nell’un caso come nell’altro, la distruzione parziale della vittima basta al simbolismo, e la distruzione totale non è richiesta che per certi sacrifici speciali. Dopo che una porzione dell’oggetto sacrificato è stata consumata col fuoco, sparsa in libazione o distrutta in altra maniera qualunque, il resto serve generalmente al banchetto sacro, complemento naturale del sacrificio, oppure è riservato all’uso esclusivo dei sacerdoti che sono i rappresentanti titolati della divinità. – Che la morte del Cristo sia per San Paolo un sacrificio è cosa tanto evidente, che non si capisce come si sia potuta negare senza una teoria preconcetta e senza un partito preso dommatico. Prima di venire alle testimonianze formali, è bene che si passino in rivista i testi, meno espliciti, se considerati isolatamente, ma la cui impressione complessiva tende irresistibilmente a evocare l’idea di sacrificio e di sacrificio cruento.

Tutti gli effetti della redenzione sono riferiti al sangue del Cristo.

Noi abbiamo la redenzione per mezzo del suo sangue (Ephes. I, 7) … Dio ha pacificato per mezzo del sangue della sua croce quello che è in terra e quello che è in cielo (Col. I, 20)… Voi (Gentili) che una volta eravate lontani, siete stati avvicinati nel sangue del Cristo (Ephes. II, 13)… Giustificati ora nel suo sangue, quanto più per mezzo di lui saremo salvi dall’ira (Rom. V, 9). Bere il calice consacrato è comunicare col sangue del Cristo (I Cor. X, 16), e chi si comunica indegnamente profana il sangue del Cristo, perché il calice consacrato contiene il sangue che suggella la nuova alleanza (I Cor. XI, 27).

Quando gli effetti della redenzione non sono attribuiti direttamente al suo sangue, sono attribuiti alla morte violenta del Cristo: « Il Cristo è morto per i nostri peccati, secondo le Scritture (I Cor. XV, 3)… Egli è morto per tutti, affinché coloro che vivono non vivano più per se stessi ma per colui che è morto ed è risuscitato per loro (II Cor. V, 15)… Quando eravamo ancora peccatori, il Cristo morì per noi. Se, essendo nemici, noi fummo riconciliati con Dio con la morte di suo Figlio, quanto più, essendo riconciliati, saremo salvi nella sua vita (Rom. V, 8-10)! Ora Egli ci ha riconciliati nel suo corpo di carne, con la morte, per costituirci santi, senza macchia e senza rimprovero (Col. I, 22)… Gesù Cristo è morto per noi affinché, sia che vegliamo sia che dormiamo, viviamo con lui (I Tess. V, 10) ». Gesù Cristo « diede se stesso come redenzione per tutti » (I Tim. II, 6); noi siamo « stati riscattati col prezzo » del suo sangue (I Cor. VI, 20; VII, 23); « Egli ci ha riscattati dalla maledizione della Legge diventando per noi maledizione (Gal. III, 13); sul legno della croce; se la giustizia, frutto della redenzione, ci venisse da altra parte, « il Cristo sarebbe morto invano (Gal. II, 21) ». Tutto questo converge verso una medesima idea di sacrificio cruento.

2. La dottrina apostolica del Cristo vittima era, per i contemporanei di san Paolo, una strana novità. Gli Ebrei conoscevano bensì il valore delle prove accettate con rassegnazione, l’efficacia delle preghiere del giusto, la reversibilità dei meriti e dei demeriti, ma non ammisero mai, se non con estrema ripugnanza, l’idea di un Messia sofferente, e per lo meno non attribuirono mai a tali patimenti nessun valore espiatorio. I dolori del Messia (Marc. XIII, ; Matth. XXIV) non sono i patimenti personali del Messia, ma le calamità della terra e le commozioni cosmiche che devono precedere la sua venuta; sono in certo modo i dolori di parto del mondo che sta per produrre il Messia. Alla questione: gli Ebrei di allora credevano che il Messia fosse destinato a soffrire, e che i suoi patimenti avessero l’effetto di espiare i peccati degli uomini? — bisogna rispondere risolutamente che no. – Né il Targum né il Talmud di Gerusalemme non fanno la più piccola allusione ad un Messia sofferente. Assai curioso è il Targum di Jonathan sul capo LIII d’Isaia riconosciuto come messianico: « Tutto ciò che si dice dei patimenti del servo è violentemente stornato dal senso naturale e applicato al popolo (Condamin, Le Livre d’Isaie, 1905) ». Se il Talmud di Babilonia, compilazione del quinto secolo, fa tre volte menzione dei patimenti del Messia, si tratta dei patimenti che il Messia sostiene prima di cominciare il suo compito di Salvatore. Baymond Martin credeva di aver trovato un testo in cui si tratta di un Messia sofferente (Pugio fidei, fol. 675); ma è assai probabile che il dotto domenicano si servisse di un esemplare interpolato da mano cristiana, perché il suo famoso passo non si trova più in nessun manoscritto. Non si ha neppure nessun fondamento per sostenere che gli Ebrei avessero sdoppiato il loro Messia primitivamente unico, per attribuire al Messia figlio di Giuseppe i patimenti espiatori, mentre avrebbero riservato al Messia figlio di Giuda la gloria ed i trionfi. « Il Messia figlio di Giuseppe non è un Messia sofferente, ma è un Messia ucciso (Lagrange: Le Messianisme chez les Juifs, 1909) ». – In san Paolo invece l’immolazione di Gesù Cristo è espressamente assimilata al sacrificio dell’agnello pasquale, al sacrificio che suggella la nuova alleanza, al sacrificio del gran giorno dell’espiazione e ad un altro sacrificio che forse è l’olocausto, ma che non è possibile determinare con certezza.

Agnello pasquale. — San Paolo scrive ai Corinzi: « Non sapete che un poco di lievito fa levare tutta la pasta? Allontanate il lievito antico per essere una pasta nuova, come siete azimi; poiché il Cristo, nostra pasqua, è stato immolato (I Cor. V, 7). » Due circostanze davano a tali raccomandazioni maggiore attualità e opportunità. Si era verso la Pasqua, e, in quella circostanza, i Cristiani della gentilità celebravano la solennità commemorativa della loro salvezza, non già alla maniera degli Ebrei, con l’astenersi dal pane lievitato, ma in una maniera spirituale, facendo se stessi azimi, cioè puri da ogni corruzione morale. Ora la presenza di un incestuoso in mezzo ai Cristiani di Corinto era una macchia per tutta la Chiesa. L’Apostolo ordina l’espulsione dello scandaloso: « Scacciate da voi il perverso »; poiché egli finirebbe col corrompervi, come un pugno di lievito basta a far fermentare una massa di pasta fresca. Se per se stessa questa esortazione conviene a tutti i tempi, essa fa un’impressione ben maggiore nel giorno anniversario del sacrificio della croce: « Il nostro agnello pasquale, il Cristo, è stato immolato; perciò facciamo festa non col vecchio lievito, lievito della malizia, ma con gli azimi della purezza ». Quello che è la Pasqua per gli Ebrei, è per noi il Cristo immolato; è il sacrificio della nostra liberazione, è il banchetto sacro che mette termine alla nostra schiavitù; così i tipi hanno avuto il loro compimento, le ombre sono svanite, e noi siamo oramai nella regione delle realtà spirituali.

Sacrificio della nuova alleanza. — Il Cristo, vero agnello pasquale, è la vittima che suggella la nuova alleanza. Nel momento di conchiudere l’antica alleanza, Mosè offrì olocausti e vittime di pace, sparse ai piedi dell’altare una parte del sangue e col rimanente asperse il popolo dicendo: « Ecco il sangue dell’alleanza che Jehovah ha concluso con voi ». Imbevuti del racconto dall’Esodo, i testimoni dell’ultima Cena non si poterono ingannare quando intesero Gesù che diceva loro, nel presentare il calice eucaristico: « Questo calice è il sangue della nuova alleanza », oppure: Questo calice è la nuova alleanza (conchiusa) nel mio sangue (I Cor. XI, 25) ». Sia che alludesse direttamente al sacrificio dell’altare, sia che alludesse a quello del Calvario, per la questione presente poco importa; poiché in fondo il sacrificio è il medesimo, e le parole del Salvatore non avrebbero senso, se il sangue dell’eucaristia non fosse il medesimo sangue della croce. Ora questo sangue divino ha la virtù di sigillare l’alleanza predetta da Geremia, come il sangue delle vittime offerte da Mosè sigillò l’alleanza del Sinai: con questa doppia differenza, che esso purifica le anime toccando i corpi e che produce le disposizioni sante invece di confermarle solamente.

Sacrifizio di espiazione o di propiziazione. — Il sacrificio per il peccato era il più caratteristico e il più comune del rituale mosaico. L’Epistola agli Ebrei ne sviluppa la tipologia. A questa categoria di sacrifici si riferiscono sovente due passi di san Paolo, i quali appartengono ad un ordine d’idee affatto diverso (II Cor. V, 21); in cambio però l’Epistola ai Romani paragona la morte di Gesù al sacrificio dell’Espiazione, che era per eccellenza il sacrificio per il peccato: « Dio ha esposto il Cristo Gesù come propiziazione, per mezzo della fede, nel suo sangue (Rom. III, 25) ». Qualunque sia il senso preciso di ἱλαστήριον (= ilasterion), vittima di propiziazione, strumento di propiziazione, oppure propiziatorio — da questo testo risulta invincibilmente che il sacrificio della croce è per i Cristiani, e in modo più eccellente, quello che era per gli Ebrei il giorno solenne del Kippourim, il sacrificio annuale dell’espiazione o della propiziazione: « È impossibile, dice Sanday, nel suo Commentario, eliminare da questo passo la doppia idea di un sacrificio e di un sacrificio di propiziazione ». Anche Godet scrive: « L’idea del sacrificio, se non si trova nella stessa parola, risulta dall’espressione per mezzo del mio sangue: infatti un mezzo di propiziazione nel quale c’entra il sangue, che altro è, se non un sacrificio! ». – La voce discorde di teologi eterodossi, desiderosi di eludere un testo che li incomoda, non è più molto ascoltata.

Sacrifizio in generale. — « Il Cristo vi ha amati e si è dato per noi come oblazione e come vittima (immolata) a Dio, in odore di soavità (Ephes. V, 2) ». Qui si vede un’allusione chiara alla parola del Salmista: « Tu non hai gradito la vittima e l’offerta… né hai domandato l’olocausto e il sacrificio ». Ma se è certo che Paolo parla del Cristo che si offre in sacrificio, la natura del sacrificio non è qui indicata.

Delle quattro parole del passo citato — la vittima (pacifica), l’oblazione, l’olocausto, il sacrificio per il peccato — che corrispondono alle quattro specie principali del sacrificio mosaico, l’Apostolo ritiene soltanto le due prime che, in realtà, comprendono le altre due. È dunque probabile che, avendo in vista l’idea generale del sacrificio di cui Gesù Cristo è il perfetto antitipo, voglia intendere per « vittima » (θυσία = tusia) l’immolazione cruenta del Calvario, e per « oblazione » (προσφορά = prosfora) l’offerta spontanea ed amorevole che il Cristo fa di se stesso a suo Padre. Qui dunque si troverebbero riunite le due nozioni di sacerdote e di vittima e, come nell’Epistola agli Ebrei, riunite nella persona di Gesù (Hebr. IX, 22-26).

3. Certi teologi credono di aver fatto abbastanza quando hanno dimostrato che la morte del Cristo è un vero sacrificio che realizza il senso tipico dei sacrifici dell’antica Legge, e si affrettano a conchiudere che l’immolazione della croce opera alla maniera delle vittime del rituale ebraico, benché in modo più eccellente, in quanto che l’antitipo ecclissa la figura, e la realtà scancella i simboli. Qui vi è un difetto di logica e di metodo. Sul Calvario Gesù Cristo non è solamente vittima ma è anche sacrificatore, ed è tale per volere di suo Padre. Queste tre cose — l’immolazione passiva del Cristo, l’oblazione che fa di se stesso e l’ordine di Dio — formano un atto unico del quale si possono bensì distinguere gli elementi, ma senza avere il diritto di separarli. Vediamo in che modo san Paolo presenta questi due nuovi aspetti del dramma della redenzione. Gesù Cristo si abbandonò volontariamente alla morte; vi si abbandonò per salvarci; vi si abbandonò per amore: così si riassume la sua parte attiva nella tragedia del Calvario. San Paolo non si stanca di ripeterlo: « Il Cristo vi ha amati e si è dato per noi, oblazione e ostia (gradita) a Dio, in odore di soavità (Ephes. V, 2) ». — Il Cristo ha amato la Chiesa e si è dato per lei, per santificarla (Ephes. V, 25). — Io vivo nella fede del Figlio di Dio, il quale mi ha amato ed ha dato se stesso per me (Gal. II, 20). — Gesù Cristo ha dato se stesso per i nostri peccati, per strapparci al secolo presente dominato dal male, secondo la volontà di Dio nostro Padre (Gal. I, 4). — Il mediatore tra Dio e gli uomini, il Cristo Gesù uomo, ha dato se stesso (come) redenzione per tutti (I Tim. II, 6) ». Questi testi non hanno bisogno di commento. Paolo incorona l’opera ricordandoci la manifestazione gloriosa « del nostro gran Dio e Salvatore, il Cristo Gesù, il quale ha dato se stesso per noi, per liberarci da ogni iniquità (Tit. II, 13) ». In questo insegnamento tratto a bella posta da tutti i gruppi di lettere, bisogna rilevare due cose: anzitutto se Gesù Cristo si offre per noi in sacrificio per salvarci, è perché Egli solo ha la capacità di farlo, poiché Egli è il mediatore unico tra Dio e gli uomini; in secondo luogo Egli lo fa per disposizione e con la sanzione di suo Padre che gliene ha dato il mandato formale. Quest’ultima considerazione ci porta alla seconda serie di testi nei quali appare l’iniziativa divina. Col fatto stesso che Dio mandava suo Piglio a salvare il mondo, lo istituiva suo plenipotenziario. Gesù Cristo non aveva più che da consultare la volontà di suo Padre e conformarvisi. Per questo l’offerta che Egli fa di se stesso, per ordine di Dio, ha il valore di un atto di obbedienza, atto meritorio che da una parte annulla e ripara la disobbedienza di Adamo (Rom. V, 19), dall’altra vale al suo autore una ricompensa: il Cristo Gesù « si abbassò col farsi obbediente fino alla morte e fino alla morte di croce; perciò Dio lo ha esaltato (Filip. II, 8-9) ». In virtù dell’ordine divino ricevuto ed eseguito dal Figlio, l’Apostolo può dire indifferentemente o che il Cristo si offre come vittima per la nostra salvezza, o che il Padre suo lo dà per noi alla morte: « Egli non risparmiò suo proprio Figlio ma lo diede per tutti noi. — Dio fa risplendere il suo amore per noi in questo, che quando ancora eravamo peccatori, il Cristo morì per noi (Rom. VIII, 32; V, 8) ». L’idea dominante di questi passi è che l’ordine intimato dal Padre e l’obbedienza del Figlio sono, da parte del Figlio e del Padre, una uguale e somma manifestazione di amore. Occorre appena ricordare che san Giovanni segue molto da vicino la dottrina di san Paolo (Giov. III, 16). – Il redattore dell’Epistola agli Ebrei le si avvicina più ancora per il pensiero, se non per l’espressione. La pittura del sacerdote vittima, consacrato dal Padre, corrisponde esattamente e in ciascuna linea al quadro che abbiamo tracciato più sopra, seguendo il Dottore dei Gentili. Il nome di sacerdote qui manca, è vero, ma l’atto sacerdotale non vi è meno chiaramente descritto. Da tutte e due le parti vi è una vittima la quale non è altri che Gesù Cristo; è la vittima stessa che si offre, si abbandona, si dà; e il Padre interviene non soltanto per accettare l’offerta ma per comandarla. Da tutte e due le parti l’oblazione costituisce un atto di obbedienza, e di obbedienza amorevole; da tutte e due le parti il sacrificio ha lo scopo e l’effetto di espiare, di scancellare, di distruggere il peccato, di rendere Dio propizio, di aprire agli uomini l’entrata del cielo. Ciò posto, la menzione del sacerdote, nell’Epistola agli Ebrei, non ha più che un’importanza secondaria, un’importanza più sotto l’aspetto della terminologia speciale, che non per la sostanza stessa della dottrina. – La morte redentrice è da parte del Cristo un atto di obbedienza; e questo atto è meritorio in rapporto con l’umanità che ne viene salvata, in rapporto col Padre che rende propizio, in rapporto col Figlio che a quello deve la sua esaltazione. Perciò si conchiude direttamente e per via di analisi, che tale atto era libero, poiché senza la libertà non si concepisce il merito; così pure che esso rispondeva ad un precetto divino, poiché non vi può essere obbedienza dove non vi è un comando. San Giovanni afferma espressamente queste due conclusioni, ma neppure lui non c’insegna il mezzo di conciliarle con l’impeccabilità di Gesù Cristo. Questa è una questione puramente scolastica la cui soluzione non si deve cercare negli autori ispirati. Dico puramente scolastica, perché essa dipende da cinque o sei problemi discussi dalla Scuola e che la rivelazione da sola non può risolvere. – Da che cosa deriva l’impeccabilità di Gesù Cristo? Deriva dalla visione beatifica o dall’unione ipostatica? E in questo secondo caso, deriva essa dal fatto stesso dell’unione, oppure da una provvidenza speciale dovuta all’Uomo-Dio? Suppone forse la libertà, non già il potere di fare l’atto cattivo, il che è evidentemente una imperfezione, ma il potere di sospendere l’atto buono o indifferente, e questo in sensu composito, come si dice, di tutte le condizioni richieste per agire? La libertà che hanno i beati del cielo, di scegliere tra diversi beni — eccetto quello essenziale della beatitudine — basterebbe a rendere meritori i loro atti, se Dio, con una disposizione positiva, non avesse fissato con la morte il termine del merito? In quale misura Gesù era ad un tempo viator e comprehensor? E in quali limiti gli effetti naturali della visione beatifica erano in Lui neutralizzati per lasciargli compiere la parte sua di redentore? L’ordine divino al quale Egli si sottomise morendo, era un precetto propriamente detto, oppure la manifestazione di un semplice desiderio? E se era un precetto, era esso assoluto o condizionale, subordinato all’accettazione del Verbo incarnato, oppure anteriore a qualunque accettazione? E finalmente riguardava esso il fatto medesimo della morte, oppure le circostanze della passione? Per parte nostra noi crediamo che il Cristo non solamente fu senza peccato, ma assolutamente impeccabile, e questo in virtù dell’unione ipostatica; che l’ordine di morire fu un vero precetto, dal momento in cui il Verbo fatto carne ebbe accettata la morte per la nostra salvezza; che tale accettazione del Cristo fu veramente libera e perciò meritoria; che essa bastava a costituire il Cristo obbediente fino alla morte, ancorché non gli fosse più stato possibile il ritrattarla; ma noi ci guardiamo bene dall’attribuire a san Paolo tutte queste deduzioni teologiche.

Autore: Associazione Cristo-Re Rex regum

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