CONOSCERE SAN PAOLO (39)

LIBRO QUARTO

CAPO II.

La morte redentrice.

III. SINTESI DOTTRINALE.

1. IL PRINCIPIO DELLA SOLIDARIETÀ. – 2. VALORE SOTERIOLOGICO DELLA RISURREZIONE DEL CRISTO, – 3. UNITÀ E ARMONIA DELLA DOTTRINA DI PAOLO.

 [F. Pratt: La teologia di San Paolo – Parte SECONDA,  S.E.I. Ed. – Torino, 1927 – impr.]

1. Quanto siano varie multipli gli aspetti della redenzione, si è potuto vedere dalle pagine che precedono. Tutti questi aspetti sono giusti in una certa misura, tutti devono essere messi in vista e non possono essere messi in vista se non uno dopo l’altro; ma tutti sono incompleti, e appunto perché furono isolati, esagerandosi l’uno a detrimento degli altri, si immaginarono sistemi contradittori, insufficienti nella loro strettezza e falsi soprattutto per il loro esclusivismo. Ciascuno di essi rappresenta una parte della verità, ma non tutta intera la verità. La teoria del riscatto è giusta, perché il peccato ci costituiva realmente debitori verso Dio, e noi non eravamo in grado di pagare il nostro debito; ma questo debito non viene pagato per noi da un estraneo: è lo stesso genere umano che lo paga per mezzo di Gesù Cristo suo rappresentante. La teoria della sostituzione è giusta, perché il Cristo subì per noi una pena che Egli non meritava; ma la sostituzione è incompleta, perché Colui che espia le nostre colpe è il capo della nostra famiglia, e così anche noi le espiamo in Lui e per mezzo di Lui. La teoria della soddisfazione è giusta, ma a condizione che non si appoggi esclusivamente sopra una sostituzione di persone, poiché un affronto non si può dire veramente scancellato, se non quando l’offensore prende parte alla riparazione come ebbe parte nell’offesa. Per conseguenza, qualunque via si prenda, se non ci vogliamo fermare a mezza strada, si deve sempre arrivare al principio della solidarietà. Questo principio rivelatore non solamente fu veduto, ma fu chiaramente formulato dai Padri della Chiesa. Tutti dicono con espressioni equivalenti, che Gesù Cristo dovette diventare quello che siamo noi, affinché noi diventassimo ciò che è Lui; che Egli si incarnò, affinché la liberazione avvenisse per mezzo di un uomo, come per mezzo di un uomo era avvenuta la caduta; che il Cristo, in quanto è redentore, riassume e compendia tutta l’umanità; che Dio volle rialzare la nostra natura per mezzo di essa medesima e con le sue facoltà, in grazia del Verbo fatto carne. Parecchi di essi, ben lungi dal non riconoscere il principio della solidarietà, sembra che ne esagerino anzi l’applicazione. I teologi moderni entreranno anch’essi sempre di più in quest’ordine d’idee: i Cattolici per cercarvi un complemento necessario alla dottrina della soddisfazione; i protestanti per cercarvi un correttivo non meno necessario alla teoria della sostituzione della quale essi conservano religiosamente la terminologia. È un buon sintomo: si va gradatamente verso una concezione della morte redentrice, la quale risolve numerose difficoltà e finirà con mettere d’accordo tutti quelli che attribuiscono alla redenzione un valore oggettivo. Noi vedremo che essa interpreta bene il pensiero dell’Apostolo. – “L’amore del Cristo ci spinge, quando noi consideriamo: che se Uno è morto per tutti, dunque tutti morirono; e che Uno è morto per tutti affinché coloro che vivono non vivano più per se stessi, ma per Colui che è morto e risuscitato per loro”. (II Cor. V, 14-15) La teoria della sostituzione penale obbligherebbe a conchiudere: Se uno è morto per tutti, dunque gli altri non hanno più da morire. San Paolo invece conchiude l’opposto: « Se uno è morto per tutti, dunque tutti sono morti » idealmente e misticamente in Lui e con Lui. La ragione è che egli parte dal principio della solidarietà che della morte del Cristo fa la nostra morte, e della vita del Cristo la nostra vita. Invece di scrivere: « Uno è morto al posto di tutti »; egli scrive, forse con intenzione: « Uno è morto in favore ed a vantaggio di tutti. I commentatori che, indotti dall’autorità di sant’Agostino, intendono questa morte del peccato originale, vanno incontro a difficoltà inestricabili. La loro spiegazione è rigettata dalla stessa grammatica, poiché san Paolo non dice: « Se uno è morto per tutti, dunque tutti erano morti » prima di Lui, ma dice: « Se uno è morto per tutti, dunque tutti morirono » simultaneamente e per il fatto medesimo. Del resto che cosa verrebbe a fare qui il peccato originale, supposto anche che il peccato originale, senz’altra qualifica, si possa chiamare morte? E come mai il ricordo del peccato originale stimolerebbe l’abnegazione degli Apostoli? Al contrario, è facile capire che la morte mistica con Gesù Cristo c’impone il dovere di vivere in Lui e di modellare i nostri sentimenti sopra i suoi. Finalmente l’interpretazione di sant’Agostino ha come punto di partenza un errore di fatto suggerito dalla versione latina. Nella frase Et prò omnibus mortuus est Christus, per l’interpolazione della parola Christus, la congiunzione sembrerebbe quasi riprendere l’argomento lasciato incompiuto; ora non è così: il ragionamento è completo nella prima frase, e la copulativa introduce soltanto una seconda considerazione atta a sostenere l’Apostolo nella via della rinunzia. Per conseguenza il testo intero non desta l’idea di sostituzione, ma quella di solidarietà. Infatti perché Gesù Cristo ci associ alla sua morte, bisogna che noi formiamo con Lui una sola cosa nel momento in cui Egli muore per noi. Senza dubbio noi siamo associati al Cristo morente soltanto in una maniera ideale, in quanto Egli è nostro rappresentante, ma la sua morte si realizza misticamente in noi per mezzo della fede e del Battesimo, e san Paolo ci ha abituati a questo linguaggio: « Come tutti muoiono in Adamo », idealmente nell’Eden, nell’atto stesso della disobbedienza, e poi realmente, per il fatto della generazione naturale, « così tutti saranno vivificati nel Cristo », idealmente e in potenza, al Calvario, realmente e in atto, per il fatto della rigenerazione soprannaturale. È sempre il principio della solidarietà quello che viene fatto risaltare in un altro passo di un’arditezza che stupisce: « Colui che non conosceva il peccato, Dio lo ha fatto peccato per noi. Affinché noi diventassimo giustizia di Dio in Lui (2II Cor. V, 21) ». L’Apostolo ha detto prima: « Noi vi supplichiamo in nome del Cristo, riconciliatevi con Dio ». Ora si affretta a soggiungere che questa riconciliazione è possibile e facile, perché Dio ha fatto il primo passo ed ha preparate le vie. Il pensiero prende dunque questa forma paradossale: Per una sublime condiscendenza da parte di Dio, il giusto diventa peccato, affinché i peccatori diventino giustizia. Anche qui non vi è propriamente sostituzione di persone, ma vi è solidarietà di azione. Il peccato non è trasferito dagli uomini al Cristo, ma si estende dagli uomini sul Cristo rappresentante della natura umana; così pure la giustizia di Dio non è trasferita dal Cristo agli uomini, ma dal Cristo si estende agli uomini, quando questi, per mezzo della filiazione adottiva, rivestono la natura divina. Questa idea è espressa più chiaramente nel secondo inciso, perché noi non diventiamo giustizia di Dio se non nel Cristo, cioè in quanto siamo uniti con Lui; ma i due membri del periodo sono paralleli e si devono spiegare l’uno con l’altro. L’Apostolo, nel servirsi dei termini generici « peccato » e « giustizia », non adopera qui precisamente l’astratto per il concreto, che qui non potrebbe stare; egli vuole esprimere una nozione collettiva. Gesù Cristo, come capo del genere umano, del quale rappresenta la causa e abbraccia gli interessi, personifica il peccato; Egli è fatto « peccato per noi », non già al nostro posto, ma a nostro vantaggio, perché col rendersi solidale della nostra sorte, ci ha associati al suo destino: così diventando peccato per noi, ci fa diventare giustizia di Dio in Lui. Gesù Cristo non è né peccato né peccatore-personalmente, ma come membro di una famiglia peccatrice con la quale forma una cosa sola. Nello stesso senso egli diventerà « maledizione », come ramo di un albero maledetto. Similmente, per causa della nostra unione con Colui che è la stessa giustizia, noi partecipiamo alla sua « giustizia ». Gesù essendo di sua natura impeccabile, non può essere reso peccatore dal suo contatto con i peccatori, mentre la nostra unione morale col Giusto per eccellenza, rende veramente giusti noi medesimi. E questa giustizia, perché deriva dalla grazia e non da noi, con ragione è chiamata « giustizia di Dio ». – Lo stesso ordine di idee si trova, presso a poco, in questo passo dell’Epistola ai Galati: “Il Cristo ci ha riscattati dalla maledizione della Legge diventando per noi maledizione — poiché sta scritto: Maledetto è chi pende dal legno (del patibolo) — per far giungere ai Gentili la benedizione di Abramo in Gesù Cristo, per farci ricevere per mezzo della fede la promessa dello Spirito (Gal. III, 13). San Paolo ha detto prima, che tutti coloro i quali dipendono dalle opere della Legge, che mettono esclusivamente in essa la loro fiducia, sono sotto la maledizione. Infatti la Legge maledice tutti i suoi trasgressori e non offre il mezzo di sfuggire alla maledizione da essa pronunziata. Bisogna dunque che il Cristo intervenga per togliere questa maledizione, poiché essa è incompatibile con la benedizione di cui il loro padre Abramo li ha costituiti eredi presuntivi e di cui i Gentili non avranno il benefizio se non dopo che gli Ebrei saranno atti a riceverla. In che modo si diporterà il Salvatore? Per salvare gli uomini, Egli si era caricato del loro peccato, o piuttosto era entrato in comunione con la loro natura peccatrice; similmente per salvare gli Ebrei — ed i Gentili dopo gli Ebrei — Egli si carica della loro maledizione, o meglio si rende partecipe della loro maledizione. La maledizione che pesa sopra di Lui è ben diversa da quella che pesa sopra gli Ebrei: tutte e due sono pronunziate dalla Legge, ma questa è reale, e quella apparente; l’una è valida agli occhi di Dio, l’altra ha valore soltanto nella stima erronea degli uomini; l’una deriva da una trasgressione della Legge, l’altra risulta da un fatto esteriore senza rapporti con la Legge; l’una ha per effetto la giusta morte del colpevole, l’altra ha per causa la morte ingiusta di un innocente. Non bisogna completare arbitrariamente il pensiero di Paolo, col rischio di falsarlo o di svisarlo. Paolo non insinua punto che la Legge, nel maledire a torto l’innocente, perda poi il diritto di maledire i colpevoli; né che la Legge, ottenendo la morte del Cristo, riceva quanto le è dovuto e non abbia più nulla da esigere: queste sono pure fantasie degli esegeti ridotti a mal termine. Più semplice e meno enigmatico è il pensiero dell’Apostolo. La maledizione, materialmente pronunziata dalla Legge ed accettata dal Salvatore, non è il mezzo, ma la condizione della nostra salvezza. In altri termini, Gesù Cristo non libera gli Ebrei dal giogo della Legge col fatto stesso che prende sopra di sé la maledizione della Legge, ma prende sopra di sé la maledizione della Legge per rendersi idoneo a liberare gli Ebrei dal giogo della Legge. E perché? Perché, secondo san Paolo, come pure secondo il redattore dell’Epistola agli Ebrei, nel nostro ordine di Provvidenza nel quale la redenzione si opera secondo il principio della solidarietà, Gesù Cristo dev’essere uomo per riscattare gli uomini, soggetto alla Legge per liberare i soggetti alla Legge, membro di una famiglia peccatrice per salvare i peccatori, rivestito della carne per vincere la carne nel suo stesso dominio, strettamente associato ai colpevoli per far riversare su loro la sua giustizia, in una parola, soggetto a tutte le nostre infermità e a tutte le nostre miserie, per poter essere il pontefice ideale, capace di aprirci le porte del cielo.

2. Questo ci porta a una constatazione della più alta importanza, voglio dire il valore soteriologico della risurrezione: « Il Cristo fu dato per causa delle nostre colpe e fu risuscitato in vista della nostra giustificazione (Rom. IV, 25) ». Il primo inciso è una citazione tacita di Isaia, e il contesto indica che si tratta del Messia dato alla morte come rimedio ai peccati del popolo. Questa è un’idea familiare a tutto il Nuovo Testamento. Gesù Cristo diede se stesso alla morte (Gal. II, 2°; Ephes. V, 2), e se Egli fu dato alla morte da Giuda e dagli Ebrei (Matth. XX, 19; Giov. XX, 11), vi fu dato pure da suo Padre (Rom. VIII, 22; Giov. III, 16). Questo ultimo significato è qui imposto dal parallelismo. Il Cristo fu dato da Dio per causa delle nostre colpe che la sola sua morte, nell’ordine attuale della provvidenza, poteva espiare. Qui non vi è difficoltà. Ma perché mai Egli fu risuscitato in vista della nostra giustificazione, oppure, il che poi viene a dire la stessa cosa, perché Dio lo risuscitò in vista della nostra giustificazione? Non è già che il Cristo ci abbia meritata la giustificazione col risuscitare, poiché dopo la sua morte non poteva più meritare. Neppure sarà perché la remissione dei peccati e la giustificazione siano separabili; se è lecito distinguerle come il lato positivo e il lato negativo della nostra salvezza, non si possono però disgiungere in modo che l’una possa mai stare senza l’altra. Certi autori eterodossi propongono questa esegesi: « Gesù Cristo è giustificato nella sua risurrezióne, e anche noi, per causa della nostra intima unione con lui, siamo giustificati nello stesso tempo (Candlish, Everett, Otto, Menègoz, etc.) ». Che confusione d’idee e che guazzabuglio! Come mai Gesù Cristo è giustificato alla sua risurrezione? Forse perché allora Dio lo proclama giusto? Ma non lo aveva già proclamato giusto durante la sua vita mortale e particolarmente al suo battesimo? Sarà forse perché allora Egli appariva giusto agli occhi degli uomini? Ma che relazione può avere questo con la nostra giustificazione? La spiegazione seguente, benché abbia sedotto qualche autore cattolico, non è però migliore: « Come i nostri peccati portarono moralmente alla morte del Cristo, così la nostra giustificazione ha portato moralmente alla sua risurrezione. La nostra condanna lo aveva ucciso, la nostra giustificazione lo ha risuscitato (Godet et al.) ». Che cosa significa questo enigma? Si vuole forse dire che, dopo di averci giustificati morendo per noi, il Cristo non aveva più ragione di restare nella morte, e che dunque noi, una volta giustificati, siamo in certo modo le cause involontarie della sua risurrezione? Ma come mai questo commento così stiracchiato si può trarre dalle parole di san Paolo? Parecchi interpreti cattolici, seguendo le orme di sant’Agostino, cercano la chiave del mistero in questo fatto, che essendo la risurrezione del Salvatore, il fondamento della nostra fede ed il motivo principale di credibilità, se Gesù Cristo non fosse risuscitato, noi non crederemmo in Lui e, non credendo in Lui, non saremmo giustificati; oppure in quest’altro fatto, che il Vangelo, nei disegni di Dio, doveva essere predicato soltanto dopo la risurrezione del Cristo, e che perciò la nostra fede — e per conseguenza la nostra giustificazione — dipendono da essa. Ma il vincolo stabilito tra la risurrezione del Cristo e la nostra giustificazione — il secondo soprattutto — è troppo fragile, troppo esteriore, troppo superficiale, e come si può supporre che l’Apostolo lasci tante cose da leggersi tra le righe? San Giovanni Crisostomo stringe più da vicino la questione. Per lui, la morte e la risurrezione del Cristo non sono altro che i due aspetti di un medesimo atto redentore, tanto che gli effetti della redenzione si possono indifferentemente attribuire all’una e all’altra. Se la nostra giustificazione è attribuita alla risurrezione piuttosto che alla morte, si è perché, dirà san Tommaso, nella sua morte Gesù Cristo è causa meritoria, e nella sua risurrezione è causa esemplare della nostra giustificazione; Egli è dunque risuscitato per servirci come modello nell’acquisto di una nuova vita. Tutto questo ci appare già assai conforme allo spirito di Paolo; però forse vi manca ancora un ultimo tocco. – Gesù Cristo non veniva su questa terra semplicemente per morire, ma veniva per unirci a Lui e per associarci al suo trionfo. Non gli bastava dunque il morire per noi, ma doveva anche risuscitare per noi (II Cor. V, 15). La morte è appena la metà dell’opera redentrice ed esige la risurrezione come suo complemento necessario. Infatti la giustificazione di ciascuno di noi è prodotta dalla fede e dal Battesimo; ora è facile il vedere come la risurrezione di Gesù influisca sopra queste due cause; poiché la nostra fede nel Cristo non è una fede nel Cristo morto, ma nel Cristo vivente, nel Cristo risuscitato; e il Battesimo non è solamente il simbolo efficace della morte del Cristo, ma anche quello della sua vita gloriosa. Dunque l’atto e il rito che ci incorporano al Cristo sono messi in relazione costante con la sua risurrezione. Nel nostro medesimo testo, l’Apostolo ha detto prima, che la fede ci sarà imputata a giustizia, come fu imputata ad Abramo, « se crediamo in Colui che ha risuscitato dai morti Gesù Cristo nostro Signore (Rom. IV, 24) ». E poco dopo dice: « Se tu confessi con la bocca il Signore Gesù e se credi nel tuo cuore che Dio lo ha risuscitato dai morti, tu sarai salvo (Rom. X, 9; cfr. II, 24; I Tess. IV, 14) ». Senza la risurrezione, la fede non ha il suo vero oggetto; senza la risurrezione, il Battesimo non ha il suo completo simbolismo. Nel Battesimo infatti noi moriamo e risuscitiamo con Gesù Cristo: moriamo misticamente con Lui in quanto siamo associati alla sua morte, e risuscitiamo in quanto siamo sacramentalmente associati alla sua risurrezione. Se si sopprime la risurrezione, il Battesimo e la fede medesima, che non giustifica senza qualche relazione col Battesimo, perdono il loro significato e perciò la loro efficacia. Questa è una delle ragioni per cui Gesù Cristo « risuscita » in vista della nostra giustificazione. – Ma ve n’è un’altra più profonda. Che la risurrezione del .Cristo sia per noi il più saldo motivo della nostra fede, la condizione provvidenziale della missione degli Apostoli, il pegno sicuro della nostra risurrezione; che essa sia per Lui la giusta ricompensa dei suoi meriti, il risultato naturale della sua pienezza di grazie, la degna incoronazione dell’opera redentrice; che essa sia per Dio il sigillo messo alla redenzione, una dichiarazione di pace fatta agli uomini, l’espressione del suo favore finalmente ricuperato, queste sono verità ammesse da tutti. Ma essa è ancora più e meglio di tutto questo: essa è intimamente legata al frutto della morte redentrice e al dono dello Spirito Santo. Al momento della risurrezione Gesù Cristo diventa « spirito vivificante (I Cor. XV, 45) ». Prima egli aveva bensì lo Spirito nella sua pienezza; ma lo Spirito che abitava in Lui, impedito dalle limitazioni inerenti all’economia della redenzione, non poteva esercitarvi tutto il suo potere vitale. Soprattutto il Cristo stesso non era ancora in grado di comunicare agli altri la pienezza della vita; questo privilegio aveva per condizione, che prima avvenissero la morte e la risurrezione. « Per voi conviene che io me ne vada, aveva detto Gesù; perché se Io non me ne vado, il Paraclito non verrà a voi; ma se Io me ne vado, ve lo manderò (Giov. XVI, 18) ». E siccome col Paraclito Egli stesso doveva venire, soggiungeva: « Io non vi lascerò orfani ma verrò a voi (Giov. XIV, 18) ». San Paolo esprime la stessa cosa in questa forma concisa ed enigmatica: il Cristo glorificato diventa « spirito vivificante »; Egli diventa per i suoi una fonte perenne di grazie e di vita. « L’opera del Cristo comprende due cose: quello che ha fatto per tutti gli uomini e quello che fa per ciascuno di essi; quello che ha fatto una volta per sempre e quello che continua a fare senza interruzione; quello che ha fatto per noi e quello che fa in noi; quello che ha fatto sopra la terra e quello che fa in cielo; quello che ha fatto in Persona e quello che fa per mezzo del suo Spirito: Egli riconcilia offrendo se stesso sopra la croce, giustifica col mandarci il suo Spirito (Newman:   … Justif. Londra 1892, IX, 1) » ed operando Egli stesso in noi come spirito.

3. Questo doppio compito complementare spiega naturalmente la curiosa dualità rilevata con compiacenza da molti teologi eterodossi (Holtzmann). Secondo questi, san Paolo avrebbe due teorie della redenzione, differenti se non disparate, le quali ora corrono parallele tra loro senza nessuna tendenza ad unirsi, ora invece si avvicinano fino a toccarsi ed a confondersi; l’una che si può chiamare giuridica perché è fondata sul principio della compensazione, della sostituzione penale e della soddisfazione vicaria, attribuisce alla morte del Cristo un valore oggettivo, indipendente dall’applicazione individuale; l’altra che si chiamerà morale perché è fondata sul fatto del rinnovamento interiore, riconosce alla redenzione solamente un valore soggettivo, in quanto l’uomo se lo appropria con la fede e con l’unione al Cristo. Nella prima, la riconciliazione avviene fuori dell’anima e si compie in virtù di una specie di contratto tra Dio e l’umanità, col Cristo come mediatore; nella seconda, è invece un prodotto della stessa coscienza. La teoria giuridica opera con le idee di espiazione, di propiziazione, di sacrificio, di sostituzione, insomma, con le categorie del giudaismo popolare, ed è un residuo dell’educazione farisaica di Saulo; la teoria morale dipende piuttosto dal pensiero ellenico e riflette l’esperienza religiosa di Paolo, dopo la trasformazione che si compì in lui sulla via di Damasco. Questa medesima dualità si ritroverebbe ancora nella spiegazione dell’origine del peccato, ora collegata al fatto storico della prima caduta, ora riferita al determinismo psicologico della carne; essa si ritroverebbe pure nel concetto della giustificazione, della salute, del giudizio; insomma, essa dominerebbe tutto quanto l’insegnamento dell’Apostolo. – Parecchi dichiarano che è impossibile la conciliazione, e sostengono che la sintesi così fatta non si trovava nella mente di Paolo; altri si sforzano di risolvere l’antinomia, ma lo fanno con sopprimere uno dei due aspetti; alcuni sono di parere che bisogna lasciare ai due sistemi la loro indipendenza, senza cercare di fonderli insieme o di subordinarli l’uno all’altro, per timore di snaturarli col tentativo di unirli. Questi scrupoli a noi sembrano vani. San Paolo infatti ebbe cura di confrontare i due aspetti dell’opera redentrice e di farne vedere gli stretti rapporti: « Noi siamo giustificati gratuitamente dalla grazia di Dio, mediante la redenzione che è nel Cristo Gesù. Dio lo ha esposto come propiziazione, per mezzo della fede, nel suo sangue, per mostrare ora la sua giustizia, a fine di essere (riconosciuto) giusto e fonte di giustizia per chiunque crede i n Gesù (Rom. III, 24-26) ». Secondo questo passo, concorrono all’opera redentrice tre iniziative di Dio, tre operazioni del Cristo, tre sentimenti dell’uomo. Dio, vedendoci incapaci di uscire da noi medesimi dal peccato, decreta di giustificarci gratuitamente: questa è l’iniziativa della grazia. Egli decide di stabilire il Cristo come strumento della propiziazione e di esporlo come tale agli sguardi del mondo: questo è il trionfo della sapienza. Egli vuole anche dimostrare che è giusto e che fu sempre giusto, nonostante l’apparente sua indifferenza di altri tempi verso il peccato: questa è la rivendicazione della giustizia. Il Cristo per parte sua opera la redenzione, ossia la liberazione dei peccatori; e questa redenzione, ben lungi dall’essere contraria alla grazia, agisce d’accordo con essa. Egli opera la propiziazione quando, espiando il peccato che innalzava una barriera tra Dio e noi, ci rende Dio propizio. Egli opera la redenzione e la propiziazione in qualità di vittima: l’efficacia della salute è nel suo sangue. L’uomo pertanto non rimane passivo; l’affare della sua salvezza non si conchiude senza di Lui: il suo contributo è la fede, la fede nel Cristo salvatore; egli medita la lezione del Calvario e comprende che deve corrispondere a tanto amore con la riconoscenza; finalmente, davanti a tale dimostrazione della giustizia divina, egli impara a temere l’ira di Dio ed a confidare nella sua misericordia. – In questo modo la dottrina della redenzione forma un tutto coerente i cui aspetti più diversi si armonizzano tra loro. Il fatto del rialzamento è in un rapporto esatto con la storia della caduta: il Calvario è la ripetizione dell’Eden; l’umanità cade e si rialza nel suo rappresentante; un atto di disobbedienza la perde, e un atto di obbedienza la salva. Quanta luce di qui si diffonde sopra l’unità del disegno della redenzione, sopra la fraternità umana e sopra la comunione dei santi! Dio non è più il creditore avido di riavere quello che gli è dovuto, né il sovrano geloso di vendicare a qualunque costo i suoi diritti; ma è il Padre infinitamente buono, santissimo, giustissimo e sapientissimo il quale, nel suo ostinato amore per l’uomo colpevole, prende l’iniziativa di salvarlo e mette in opera la sua onnipotenza per eseguire un disegno che concilia nel miglior modo tutti i suoi attributi: bontà, santità, giustizia e sapienza. Gesù Cristo è sempre la vittima il cui sangue espia il peccato, opera la propiziazione, suggella l’alleanza e apre il cielo; ma non è più una vittima inerte, dotata di una specie di virtù magica; il suo sangue, per quanto prezioso, ha valore soltanto per la libera e amorosa offerta che Egli ne fa a suo Padre, in nome dell’umanità contenuta in Lui come nel suo capo. Non si tratta più di una sostituzione mediante la quale l’innocente subirebbe il castigo del colpevole, ma di una condiscendenza sublime che porta il Figlio di Dio a identificare la sua causa con quella dei peccatori; non si tratta neppure di una soddisfazione esterna data a Dio per strappargli il perdono dei colpevoli, ma di un omaggio filiale che, per mezzo di Gesù Cristo, il genere umano presenta a Dio, e che Dio gradisce perché Egli stesso ne ebbe l’iniziativa e vi ha la parte principale. – La risurrezione di Gesù non è più un lusso soprannaturale offerto all’ammirazione degli eletti, né una semplice ricompensa data ai meriti di Lui, e neppure soltanto il sostegno della nostra fede e il pegno della nostra speranza; essa è un complemento essenziale e una parte integrante della stessa redenzione. Finalmente l’uomo non è più il testimonio passivo di un dramma che si svolgerebbe senza di lui e dove egli non avrebbe nessuna parte: egli muore idealmente sul Calvario col Cristo che muore, e rivive misticamente in Lui nell’atto di fede e nel sacro rito che gli applicano i frutti della morte redentrice. La redenzione degli nomini si compie in tre tempi: al Calvario, al Battesimo e alla parusia. Al Calvario essa si compie in diritto, in principio e in potenza; nel Battesimo si compie di fatto e in atto, benché ancora imperfetta; nel giorno della parasta essa si termina e si consuma. Intrinsecamente legata alla morte del Cristo, la redenzione potenziale è indipendente dalle sue applicazioni più o meno estese e, per così dire, dal suo risultato storico. Gli effetti immediati ne sono la riconciliazione del genere umano con Dio e la vittoria del Cristo sopra i nemici dell’umanità. [Continua …]

 

CONOSCERE SAN PAOLO (38)

LIBRO QUARTO

CAPO II.

La morte redentrice.

II. IL VALORE DELLA MORTE REDENTRICE.

1. VALORE SOGGETTIVO O MORALE. — 2. TRE SPIEGAZIONI DEL VALORE OGGETTIVO: RISCATTO, SOSTITUZIONE, SODDISFAZIONE. — 3. DOTTRINA DEI PADRI.

[F. Pratt: La teologia di San Paolo – Parte SECONDA,  S.E.I. Ed. – Torino, 1927 – impr.]

1. La passione del Cristo è una manifestazione che, nei disegni di Dio, dev’essere riconosciuta e apprezzata dagli uomini. Quando la coscienza del peccatore è obliterata, gli fa bisogno una nuova rivelazione della santità divina, e Dio gli dà questa nuova rivelazione nello spettacolo del Giusto che porta la pena del peccato altrui. Ma se il giusto che soffre per il colpevole fosse puramente passivo e non accettasse, con sommissione filiale, il compito di mediatore, il suo patire non sarebbe un reale omaggio alla santità infinita. « La soddisfazione offerta alla giustizia divina dal sacrificio del Cristo, non consiste dunque solamente nella morte, ma nella morte unita con i due fatti morali che l’accompagnano, uno dei quali si compie nella coscienza del mediatore, e l’altro nella coscienza del credente (Godet) ». Tale è la spiegazione, meno nuova forse di quanto si pensano, che ci propongono certi teologi moderni. Il pericolo e l’errore starebbero nel credere che essa illumini tutto il mistero o che esaurisca l’argomento: essa anzi lo esaurisce così poco, che la passione del Cristo — sempre nell’ordine dell’efficacia soggettiva — si può con altrettanto buon diritto considerare come un esempio di abnegazione e come uno stimolo dell’amore. Il dramma del Calvario, a tutti i cuori nobili, parla un linguaggio assai eloquente: se il Cristo è morto per noi che non eravamo nulla per Lui, quanto più noi dobbiamo vivere per Lui che per noi è tutto! e se il Cristo diede la sua vita per estranei, quanto più noi dobbiamo spendere il nostro per i nostri fratelli! Gesù nel darsi per noi, voleva che questo esempio di abnegazione non andasse perduto; Egli voleva vincere così il nostro egoismo, ed è questa una delle considerazioni che l’Apostolo fa valere quando dice che l’amore del Cristo lo spinge e non gli lascia riposo (II Cor. V, 14-15). Gesù Cristo non ci riscatta altrimenti che con identificarsi alla nostra razza, e noi non abbiamo parte alla sua redenzione se non con l’identificarci con Lui per mezzo della fede: di qui risulta l’imperioso dovere di conformarci alla sua condotta e di modellarci sopra la sua vita. Quando san Pietro stabilisce il gran principio dell’imitazione di Gesù Cristo, fondato sopra l’esempio della sua passione (I Piet. II, 21), si trova in armonia perfetta con san Paolo che si compiace di proporre come modello, ai neofiti, il Crocifisso (Fil. II. 8) del quale egli medesimo si sforza di riprodurre lo stato di morte (II Cor. IV, 10) e del quale è fiero di portare nel suo corpo l’immagine sanguinosa (Gal. VI, 17). È dunque cosa evidente, che la morte redentrice ha per noi il valore di un esempio, di una lezione e di un incoraggiamento. Il grave errore dì Abelardo fu di credere che essa fosse soltanto questo: una manifestazione di amore destinata a produrre in noi una reazione di amore. Se il sistema di Abelardo è talora nebuloso, la professione di fede che gli fu imposta, la ritrattazione del suo antico discepolo Goffredo di Chiaravalle, le confutazioni di san Bernardo e di Guglielmo di Saint-Thierry, lo rischiarano e lo precisano. Poco seguito dai contemporanei e quasi caduto nell’oblio, fu risuscitato da Socino e dai suoi seguaci; ma tale patrocinio compromettente non era tale da poterlo raccomandare agli occhi dei protestanti, e meno ancora a quelli dei Cattolici. Chi gli diede una certa pubblicità tra gli eterodossi, fu Eitschl. L’opera redentrice del Cristo consisterebbe unicamente nel rivelarci, con la sua vita e specialmente con la sua morte, l’amore del Padre celeste, così essenzialmente Padre, che è sempre disposto a perdonare il peccatore. Questa rivelazione, col restituirci la confidenza, distrugge in noi il peccato il quale altro non è che una mancanza di confidenza verso Dio; in questa maniera essa ci giustifica e ci riconcilia; essa ci libera anche dal castigo del peccato, perché il castigo non è altro, secondo Eitschl, che il sentimento della nostra colpa e la convinzione che i mali della vita ne sono la giusta pena. La maggior parte dei teologi protestanti, bisogna dirlo, respinge tale teoria troppo apertamente contraria all’insegnamento di san Paolo. Essi confessano che la morte del Cristo ha per l’Apostolo un valore oggettivo che risulta dallo stesso atto redentore e che esiste indipendentemente dalle nostre considerazioni e dalla nostra conoscenza.

2. La redenzione è essenzialmente la distruzione del peccato. Quanti sono gli aspetti del peccato, altrettanti sono quelli della redenzione: se il peccato è una caduta, la redenzione è un rialzamento; se il peccato è un’infermità, la redenzione è un rimedio; se il peccato è un debito, la redenzione sarà un pagamento; se il peccato è una colpa, la redenzione sarà una espiazione; se il peccato è una schiavitù, la redenzione sarà una liberazione; se il peccato è un’offesa, la redenzione sarà una soddisfazione da parte dell’uomo, una propiziazione da parte di Dio, una mutua riconciliazione tra Dio e l’uomo. Il rialzamento dell’umanità da parte del Verbo fatto carne, è quella che di preferenza considerava la speculazione alessandrina guidata da considerazioni apologetiche. L’incarnazione era perciò messa più in vista, e la redenzione propriamente detta, per mezzo della morte del Cristo, era messa al secondo posto. Si soleva ripetere che il Verbo si è incarnato per deificare — si diceva anche verbificare

— la natura umana, per onorarla con la sua presenza e per guarirla col suo contatto, per restituirle l’immortalità e l’incorruttibilità perdute nella caduta originale, e così pure per rischiarare le sue tenebre e per dissipare i suoi errori. Tutto questo rendeva sensibile il benefizio dell’incarnazione, ma non diceva né il perché né il come della morte redentrice. – Le teorie immaginate per spiegare il valore oggettivo di questa morte, si possono ridurre a tre: teoria del riscatto o della redenzione, teoria dell’espiazione e della sostituzione penale, teoria della soddisfazione. È necessario esporre brevemente le prove che le corroborano, e di mostrarne, dove occorre, i punti deboli e l’insufficienza.

Teoria del riscatto o della redenzione. — Il valore della morte del Cristo è abbastanza frequentemente espressa nella Scrittura con una metafora commerciale. Paolo dice che Gesù Cristo ci ha acquistati, comprati, riscattati; il prezzo è indicato chiaramente; è il sangue del Piglio di Dio. Anzi una volta, in un passo, che ha il suo esatto parallelo nei due primi Sinottici, è adoperata la parola riscatto; altrove l’idea di riscatto è contenuta nel senso etimologico dei termini riscattare e redenzione . Per apprezzare giustamente il valore di questo concetto, bisogna risalire alla sua origine. Israele era la proprietà, il peculio di Jehovah; questa era una delle conseguenze della teocrazia mosaica: « Tu sei un popolo consacrato a Jehovah tuo Dio; egli ti ha scelto per essere suo dominio particolare tra tutti i popoli (Deut. VII, 6) ». Però Dio metteva una condizione: « Se voi ascoltate la mia voce e conservate la mia alleanza, sarete mio dominio tra tutti i popoli; poiché la terra mi appartiene (Esod. XIX, 6) ». Dio fondava questo dominio sopra il suo diritto supremo e sopra la sua libera scelta: Jehovah si elesse Giacobbe, Israele è suo dominio (Ps. CXXXIV, 4). Ma Egli si era pure adoperato per assicurarselo, e poteva dire per bocca d’Isaia: « Mi sono formato questo popolo; esso annunzierà la mia gloria (Is. XLIII) », e per bocca di Mosè e del Salmista poteva dire che lo possedeva per diritto di conquista (Es. XV, 16; Ps. LXXIII, 2). Egli ne poteva dunque disporre a suo talento e per questo appunto minaccia frequentemente di disfarsene, di cederlo ai suoi nemici (Giud. II, 14, etc,): Altrimenti la Roccia li venderà; e Jehovah li abbandonerà (Deuter. XXXII, 30). Dio applicava al suo popolo infedele la legge del taglione: lo abbandonava nella misura in cui Egli stesso ne era abbandonato. Non era un abbandono totale, assoluto, consumato, senza speranza di ritorno, ma un abbandono parziale, temporaneo, revocabile nel giorno della resipiscenza. Dio non rinunziava mai al diritto di riscattare il suo popolo pentito e reso saggio dalla sventura; Egli anzi vi si impegnò per due titoli: in forza dell’alleanza conchiusa con la posterità di Abramo e con i figli d’Israele, alleanza che lo obbliga a ricondurre il suo popolo dall’Egitto — e più tardi da Babilonia — a liberarlo dai suoi oppressori ed a preservarlo dalla rovina; poi nella sua qualità di redentore, che gl’impone di liberare il suo popolo caduto nella schiavitù, e di vendicarlo contro i suoi nemici. In tutte queste metafore, non occorre preoccuparsi del prezzo da pagarsi, perché Dio è il padrone; e come l’atto di alienazione non conferiva agli avversari d’Israele un vero diritto, così il nuovo atto di liberazione che annulla il primo contratto, non conferisce loro il eredito di un compenso: Dio stesso lo dichiara formalmente: Voi foste venduti per nulla; Voi sarete riscattati gratuitamente (Isai. LII, 3).- Una volta soltanto compare l’idea di compenso: « Io sono il Signore tuo Dio, il Santo d’Israele, tuo Salvatore; io ho dato per te, come riscatto, l’Egitto, l’Etiopia e Saba (Isai. XLIII, 3) ». Ma questa allusione isolata, abbastanza spiegata dal fatto storico delle conquiste del liberatore degli Ebrei, non fa altro che mettere in maggiore rilievo il numero dei casi in cui il riscatto e la redenzione si compiono senza la più piccola menzione del pagamento di un compenso, e con la manifesta impossibilità di stabilire il soggetto al quale si dovrebbero pagare il debito o il riscatto. Vediamo ora quale parte abbiano le idee di acquisto, di compra, di riscatto, di prezzo e di redenzione, negli scritti di san Paolo. Si possono dividere i testi in due serie: quelli in cui si parla di prezzo e di compera; quelli in cui si parla di redenzione e di riscatto. Nel discorso che rivolge agli anziani di Efeso, l’Apostolo dice loro: Pascete « la Chiesa di Dio che Egli si acquistò col proprio sangue (Act. XX, 28) ». Questa è un’allusione chiara ai passi dell’Antico Testamento, che fecero dare a Israele il nome di « popolo di acquisizione (Tit. II, 14) », cioè di popolo acquistato dal Signore come suo dominio particolare; ma siccome qui si tratta della Chiesa, il prezzo dell’acquisto non può essere altro che il sangue del Cristo. Le Epistole non ci offrono esempi interamente simili a questo; tuttavia l’asserzione ripetuta due volte: « Voi foste comprati con un (gran) prezzo (I Cor. VI, 20; VII, 23) » si deve considerare come parallela, poiché non vi è dubbio che il prezzo di cui si parla, è il sangue stesso del Salvatore. In forza di questa compera, noi diventiamo il bene inalienabile di Dio, e non è più in nostro potere l’asservirci ad altri. Parlando specialmente degli Ebrei, san Paolo dice ancora: « Il Cristo ci ha riscattati dalla maledizione della Legge diventando per noi maledizione (Ga. III, 13) »; e altrove: « Dio mandò suo Figlio, fatto da una donna, messo sotto la Legge, per riscattare quelli che erano sotto la Legge, (Gal. IV, 5) ». Dunque Gesù Cristo, come il Jehovah dell’antica alleanza, acquista, compra e riscatta il suo popolo; Egli, per fare questo, paga un prezzo inestimabile, il suo sangue, oppure assume una condizione onerosa ed infamante, l’osservanza e la maledizione della Legge. Ma la metafora non è spinta più oltre, e non vi è nessuno che intervenga ad esigere o a ricevere il prezzo. – Due volte san Paolo dà alla parola « redenzione » un senso escatologico: noi aspettiamo « la redenzione del nostro corpo (Rom. VIII, 23) », ossia la liberazione dalle miserie della mortalità; e lo Spirito Santo ci ha segnati col suo sigillo « per il giorno della redenzione (Ephes. IV, 30) » che è quello della liberazione definitiva e del trionfo completo della vita sopra la morte. In tutti gli altri passi, la redenzione si riferisce all’opera attuale della salvezza; è « la redenzione nel Cristo Gesù » oppure, il che è poi la stessa cosa, « la redenzione per mezzo del suo sangue (Rom. III, 24; etc.)». L’Apostolo, certamente facendo allusione a una parola del Maestro, dice pure che « Gesù Cristo si diede (come) riscatto per noi (I Tim. II, 6) » abbandonandosi alla morte. Qual è il valore esatto di queste affermazioni? Nell’Antico Testamento la redenzione operata da Dio contiene solamente l’idea di un prezzo da pagarsi o da riceversi. Lo stesso dev’essere, ed a più forte ragione, nel Nuovo Testamento nel quale la redenzione acquista un senso tecnico, completo per se stesso, che riassume l’opera intera della nostra salute, la remissione dei peccati, la santificazione, la glorificazione (Col. I, 14), senza che vi sia specialmente notata la liberazione. In ogni caso, il prezzo del quale si fa talora menzione, non può essere che una condizione onerosa la quale dev’essere adempita dal redentore. Infatti se si trattasse di soddisfare o di risarcire dei danni qualcuno, questi sarebbe evidentemente colui che ci teneva in schiavitù, al quale il Cristo Gesù ci strappa. Ora, secondo san Paolo, noi eravamo schiavi del peccato, dei vizi, delle passioni (Rom. VI, 6); noi siamo liberati da ogni iniquità (Tit. II, 14); gli Ebrei sono riscattati dalla maledizione della Legge (Gal. III, 13); i pagani erano asserviti agli elementi del mondo e Dio li aveva abbandonati ai loro desideri impuri (Rom. I, 24). Si potrà dire che il prezzo del riscatto sia pagato al peccato, all’iniquità, alle passioni carnali! In questo affare il diavolo non compare mai; a più forte ragione la concezione grottesca di un mercato col demonio che si riuscirebbe ad accontentare mediante un equo compenso, è affatto assente dagli scritti di san Paolo. Se si volesse spingere fino alla fine la metafora, il prezzo del nostro riscatto sarebbe pagato a Dio; poiché è Dio che viene placato e reso propizio dall’opera della redenzione, e soltanto riguardo a Dio il Cristo è « propiziatore ». Il Salvatore è il nostro riscatto (λύτρον= lutron), e si sa che questa parola, nel codice mosaico, indica la tassa o il sacrificio che Dio esige per il riscatto dei primogeniti (31). Ma, ripetiamo ancora una volta, nulla ci permette di affermare che la metafora sia spinta tanto innanzi. Lavorando con queste idee di compera, di prezzo e di riscatto, veniva forte la tentazione di trasformare la metafora in allegoria e di completare la similitudine supplendo al silenzio degli autori sacri. Parecchi Padri non seppero resistere a tale tentazione e si lasciarono sfuggire espressioni poco felici le quali attirarono sopra di loro gli anatemi dei nostri moderni storici del dogma. I fatti però non giustificano troppo queste virulente diatribe: la buffa teoria dei diritti del demonio non fu mai comune nella Chiesa; anzi non si dovrebbe neppure parlare mai. di teorie, ma di allusioni fatte alla sfuggita o di amplificazioni oratorie, corrette poi poco dopo con spiegazioni di una precisione impeccabile. Se lasciamo in disparte san Giustino e sant’Ireneo, incriminati a torto, poiché essi si limitano a parafrasare le espressioni degli Apostoli, se sopprimiamo in Origene, in san Basilio e in san Gerolamo alcune righe meno felici, non restano che i passi ben noti e troppo commentati di sant’Ambrogio e di san Gregorio Nisseno. Soltanto in due lettere, nelle quali meno rigorosamente si deve esigere l’esattezza teologica, sant’Ambrogio spinge l’allegoria fino agli estremi, affermando che il prezzo del riscatto fu da Gesù Cristo pagato al demonio. L’uomo che si era venduto a satana, era un debitore insolvibile; essendo egli prigioniero per debiti, bisognò che il Cristo pagasse per lui e lacerasse così l’atto autentico nel quale era scritta la sua obbligazione. A chi dunque il Cristo ha sborsato il prezzo del suo sangue? Al creditore infernale: il vescovo di Milano non indietreggia davanti a questa orribile conseguenza. San Gregorio Nisseno arriva allo stesso punto, ma per altra via: la redenzione del genere umano deve salvaguardare tutti gli attributi di Dio, perciò tanto la giustizia, quanto la sapienza o la bontà. Ora noi, abbandonati al demonio con un atto in buona forma legale, eravamo sua proprietà, ed egli non consentiva ad abbandonare il suo credito senza un equo compenso. Credette di trovare questo compenso nella morte del Saldatore; ma si accorse troppo tardi di aver fatto un contratto da sciocco: l’uomo rimaneva fuori del suo dominio e delle sue rivendicazioni. Per non giudicare troppo severamente questi negoziati giuridici, questo bizzarro mercanteggiare, bisogna ricordare che il santo dottore qui si rivolge a lettori infedeli, che egli non intende di fare dell’esegesi e neppure, propriamente parlando, della teologia, ma fa dell’apologetica razionale; e se si vuole diciamo pure che fa della cattiva apologetica. Il suo esempio pertanto ci deve insegnare quanto è pericoloso, in queste delicate materie, avventurarsi « oltre quello che è scritto ».

Teoria della sostituzione penale. — Sono molti i teologi che in fondo ad ogni sacrificio trovano l’idea di sostituzione. Il sacrificio avrebbe essenzialmente lo scopo di riconoscere il supremo dominio di Dio e anche, nell’attuale stato di decadenza, l’indegnità dell’uomo. In tali condizioni, l’istinto religioso suggerirebbe al colpevole, conscio delle sue colpe e della pena che queste meritano, il pensiero di sostituire a se stesso una vittima innocente, scelta tra gli animali più necessari alla sua sussistenza. Se è difficile constatare tale sentimento nei popoli primitivi, presso i quali il sacrificio riveste molte volte un carattere di gioia, si crede almeno poterne stabilire l’esistenza negli Ebrei i quali lo avrebbero avuto dalla rivelazione. Il rituale comune ai sacrifici per il peccato, sembra che indichi chiaramente questa sostituzione: la vittima dev’essere immacolata; colui che la offre le impone le mani per indicare la trasmissione della colpa; essa viene uccisa invece del colpevole; il suo sangue sparso dinanzi a Dio ed il suo corpo consumato dalle fiamme completano il simbolismo dell’espiazione. In appoggio della teoria, si cita il testo del Levitico: « Nel sangue è la vita degli esseri viventi, e per l’altare io ve lo do, per fare propiziazione per voi; poiché è il sangue che fa propiziazione, perché è la vita (Rom. V, 6, 7, 8.) ». Bisogna astenersi dal sangue, perché la vita sta nel sangue: la vita si ferma col fermarsi del sangue, sfugge quando sgorga il sangue; questo fatto di esperienza basta perché il sangue sia considerato come il veicolo della vita, come il simbolo della vita, come la stessa vita. Ora la vita degli animali appartiene unicamente a Dio; Egli la riserva a sé e ne concede l’uso all’uomo soltanto in vista del sacrificio. Offrire il sangue è offrire la vita, e Dio l’accetta sopra l’altare, ma solamente come mezzo di espiazione o di propiziazione: l’ebraico kipper significa l’una e l’altra. Questa ingegnosa teoria fa nascere molte obbiezioni: come si può, per esempio, applicare ai sacrifici pacifici, ai sacrifici votivi, ai sacrifici di ringraziamento? Anche se ristretta al sacrificio per il peccato, essa va incontro a gravi difficoltà. La Legge mosaica non ammetteva sacrifici per le trasgressioni che meritassero la pena di morte. Il sacrificio non consisteva tanto nell’immolazione che talora poteva essere fatta da un laico, quanto nella manipolazione del sangue, che era riservata al solo sacerdote. Si è forse dimostrato mai che l’imposizione delle mani, suscettibile di un simbolismo così vario, significasse precisamente la trasmissione della colpa? E se significava proprio questo, perché mai la vittima, invece di venirne macchiata, diventava tanto santa, che soltanto i sacerdoti potevano parteciparne? La morte cruenta è proprio quella che manca nella cerimonia del capro emissario, nella quale l’idea della sostituzione è più sensibile e nella quale, come era da aspettarsi, l’animale caricato simbolicamente delle colpe del popolo, diventava impuro e maledetto. La teoria della sostituzione penale, isolata o esagerata, presenta inoltre gravi pericoli: essa tende a stabilire un conflitto ripugnante tra la giustizia e l’amore di Dio, tra la sua ira e la sua misericordia. Dio perseguita un Dio; procede contro di Lui con tutto l’apparato della giustizia; lo considera come un nemico, come un oggetto meritevole di tutte le sue vendette; gli dichiara una guerra aperta; lo abbandona ai furori della sua giustizia sdegnata e gl’infligge in certo modo la pena del danno. A queste figure oratorie, a queste immagini grandiose, delle quali bisogna ridurre le dimensioni, quanto è preferibile la semplice dottrina di san Tommaso, che cioè Dio ha dato suo Figlio col decretare la sua morte per la salute del mondo, con l’ispirargli la volontà di morire per noi, col non proteggerlo contro i suoi nemici. Si dice che l’innocente è punito invece del colpevole; ma questo non è esatto e neppure intellegibile. Il castigo non si può trasferire da una persona all’altra senza cambiare natura. Si può bensì pagare un debito per mezzo di intermediari, ma non già subire una pena per procura. Il castigo è cosa essenzialmente personale, inseparabile dalla colpa; se cade sopra un estraneo non è più un castigo. Se il diritto delle genti ha qualche volta permesso d’imputare a una famiglia, a una città, a una nazione, la colpa di uno dei loro membri, questo avvenne perché la famiglia, la città o la nazione erano considerate come uno stesso ente morale; questo non avvenne in forza del principio della sostituzione penale, ma in forza del principio ben diverso della solidarietà. Supposto che san Paolo avesse in mente la teoria della sostituzione, perché non l’ha mai formulata? Perché mai egli dice sempre che il Cristo fu crocifìsso per noi, per tutti gli uomini, per peccatori (Rom. V, 6, 7, 8), che andò alla morte per noi (Rom. VIII, 32, etc.) che diventò maledizione per noi (Gal. III, 13), che è stato fatto peccato per noi (II Cor. V, 21), che si diede per i nostri peccati (Gal. I, 4)? E perché non dice mai che il Cristo è morto in nostra vece, il che, secondo la buona logica, ci dispenserebbe dal morire? Senza dubbio, quello che si fa per qualcuno, molte volte si fa in sua vece, si fa quello che avrebbe dovuto fare lui, si supplisce alla sua impotenza, uno insomma si sostituisce a lui in qualche maniera; ma non ne segue punto che le due espressioni abbiano lo stesso valore. Non si cita, nel Nuovo Testamento, neppure un esempio di tale equivalenza; e se morire per gli uomini, rigorosamente parlando, si può intendere di una sostituzione dell’innocente ai colpevoli, morire per i loro peccati, si potrà ancora intendere così? E questo non è forse un segno evidente che l’idea di sostituzione non rende tutto il pensiero dell’Apostolo, e che bisogna correggerla o completarla con una nozione di altro ordine? Dal momento che si applicava il principio della sostituzione, era molto facile esagerarlo; e così fecero appunto molti teologi protestanti, specialmente luterani. Costoro sostennero che il Cristo aveva sofferto identicamente la pena dovuta al peccato: la morte, la maledizione divina, la dannazione stessa. Gesù soffriva i dolori dell’inferno al Getsemani, quando la sua anima era triste di una tristezza mortale; soffriva il supplizio del danno al Calvario, quando innalzava quel grido di angoscia: « Mio Dio, perché mi hai abbandonato? ». Tutto questo soffriva non già extensive e in quanto alla durata, ma intensive e in quanto all’essenza. Generalmente questo sistema non è più seguito, ma le sue assurde conseguenze hanno gettato su la teoria della sostituzione un discredito che non sarà facilmente superato.

Teoria della soddisfazione. — Sant’Anselmo, nel suo celebre Cur Deus homo, ragiona così: Il peccato è un’offesa di Dio; ma la sapienza e la santità dell’Altissimo non possono lasciare impunita un’offesa fatta al suo onore. Il peccatore rimane dunque tributario della giustizia divina finché l’offesa sia riparata. Ora nessun essere creato, né uomo né Angelo, può restituire a Dio la gloria estrinseca che il peccato gli toglie; infatti l’atto di ogni essere finito è di sua natura finito, mentre il peccato, riferendosi a Dio, contrae per questo una malizia infinita. Dunque ne seguiva una di queste due cose: o l’uomo peccatore era perduto irremissibilmente, oppure bisognava che un Uomo-Dio gli venisse in aiuto. Ma alla bontà divina ripugna l’abbandonare i suoi disegni di amore e di misericordia: di qui la necessità morale dell’incarnazione del Verbo per offrire a Dio, a nome dell’umanità colpevole, una soddisfazione uguale all’offesa. In virtù dell’unione ipostatica, la persona divina conferisce agli atti della natura umana un valore infinito, e la morte redentrice, volontariamente accettata da Gesù, come testimonianza suprema di obbedienza filiale, ha l’effetto di riparare l’onore di Dio, e lo ripara con usura.A questa costruzione dialettica, della quale nessuno può negare la forza e l’armonia, si può forse fare l’appunto di svolgersi nelle sfere della speculazione pura. Se fosse spinta alle sue estreme conseguenze andrebbe a finire nell’ottimismo filosofico e nella necessità dell’Incarnazione. Ma l’autore del Cur Deus homo ha saputo evitare questi scogli, e la sua interpretazione della morte redentrice segna un vero progresso. Aggiungiamo anche che essa trova in san Paolo una solida base. È cosa incontestabile che, nell’attuale disegno della salvezza, Dio voleva far risplendere la sua sapienza e la sua giustizia. Si dirà che si tratta della giustizia giustificante; ma la giustizia giustificante è soltanto un aspetto particolare dell’attributo divino della giustizia; è la giustizia che avendo inflitto al peccato il trattamento che si merita, risparmia il peccatore unito a Gesù con la fede. Il sangue del Cristo è uno « strumento di propiziazione » (ἱλαστήριον = ilasterion). Sia che la propiziazione sia un effetto diretto della morte redentrice, sia che nasca immediatamente dall’espiazione prodotta dal sacrificio della croce, il risultato è sempre identico: in qualunque maniera il sangue del Cristo ripara l’offesa fatta a Dio e ce lo rende propizio. Esso inoltre fa la riconciliazione e mette fine all’odio vicendevole che prima esisteva tra l’uomo peccatore e Dio offeso; e questa riconciliazione suppone che l’offesa di Dio non esiste più, in altre parole, che Dio ha ricevuto soddisfazione delle offese fattegli.La teoria della soddisfazione completa e corregge in gran parte quella della sostituzione penale. Considerando il peccato non più come un debito da pagare o come un castigo da subire, ma come un’offesa da riparare, essa rende superflua la proporzionalità materiale tra la colpa e l’espiazione; è sufficiente una proporzione morale la quale risulta con sovrabbondanza dal valore conferito alla natura umana del Cristo dalla sua ipostasi divina. Essa inoltre spiega la necessità di unire all’obbedienza passiva del Redentore la sua obbedienza attiva; infatti la riparazione di un’offesa si può fare soltanto con un atto cosciente e libero. Tuttavia, nella forma in cui generalmente viene presentata, essa dà luogo a gravi critiche. Essa suppone, in primo luogo, che ogni peccato deve necessariamente essere o punito o riparato: Necesse est ut omne peccatum satisfactìo aut pœna sequatur; è questo l’assioma più volte ripetuto da sant’Anselmo. Ora il peccato può anche essere perdonato, oppure rimesso in seguito ad una riparazione inadeguata. Non è così nell’ordine attuale, perché  la soddisfazione del Cristo è sovrabbondante, ma così potrebbe essere, e allora la teoria che si appoggia sopra la speculazione filosofica e non sopra i dati positivi della rivelazione, sarebbe difettosa. In secondo luogo il merito, al pari del castigo, non si può trasferire da un soggetto all’altro. Se una famiglia è onorata o ricompensata per riguardo di uno dei suoi membri, questo avviene perché essa forma un’unità morale, ed i suoi membri non sono estranei tra loro. Nella stessa maniera, la riparazione di un’offesa non si può fare che dall’offensore in persona o da qualcuno che formi con lui una stessa persona morale. In qualunque ipotesi, noi usciamo dal principio della sostituzione per entrare in quello della solidarietà, il solo che ci dia la chiave della dottrina di san Paolo. Si possono dunque portare ancora nuovi perfezionamenti, e l’ultima parola non è ancora detta.

3. Quest’ultima parola però non dobbiamo cercarla negli scritti dei Padri. Essi molte volte furono accusati di dare troppo poco rilievo a questo dogma fondamentale, ma l’accusa è ingiusta; infatti nei loro scritti si trovano altrettante e più allusioni all’opera redentrice, che a qualunque altro articolo di fede; ma diverse circostanze spiegano il loro laconismo. Nei primi secoli, nessuna eresia attaccò direttamente il dogma della redenzione; i Padri non ebbero perciò occasione di difenderlo e in generale si limitarono a ripetere le formole tradizionali, senza preoccuparsi di armonizzarle né di scrutarne il senso profondo. Dato il pubblico al quale si rivolgevano e lo scopo che si proponevano, i Padri apostolici e gli apologisti non ebbero molto da dire riguardo la morte redentrice. Più tardi, in presenza di pagani increduli, il problema capitale fu questo: Perché un Dio si è fatto uomo? Parecchi, dietro l’esempio di Origene nella sua confutazione di Celso, credettero di rendere più accessibile il mistero di un Dio incarnato, col dimostrare le necessità della redenzione. Tale è pure l’idea dominante delle due prime opere in cui la redenzione è trattata ex professo. – Sant’Atanasio intitola il suo lavoro De Incarnatione Verbi; se a nostro modo di vedere egli insiste troppo sopra la redenzione fisica, cioè sul rialzamento della natura umana per mezzo dell’unione del Verbo con la nostra, carne, bisogna ricordare che il suo scopo ed i suoi lettori gli imponevano così. Le mire apologetiche di san Gregorio Nisseno, nella sua grande catechesi, sono pure ben marcate. Non avremo nessuna difficoltà a confessare che egli abusa dei paragoni dell’arte medica e si compiace troppo nel descrivere i procedimenti farmaceutici impiegati per guarire il genere umano; ma la dottrina cattolica della salvezza, per mezzo della croce di Gesù Cristo non è né dimenticata né dissimulata: essa passa in seconda linea, ora questo è quanto si può dire. « La nostra natura era ammalata, dice san Gregorio, ed aveva bisogno di un medico; l’uomo decaduto aspettava una mano soccorritrice che lo rialzasse; colpito a morte, aveva bisogno che gli fosse restituita la vita; traviato nei sentieri del male, aveva bisogno di chi lo guidasse al bene; chiuso nelle tenebre, sospirava la luce. Al prigioniero occorreva un redentore; al carcerato, un sostegno; allo schiavo, un liberatore ». Tutto questo tende a dimostrare la convenienza dell’incarnazione, ma non illumina abbastanza la natura dell’azione redentrice.